Millantato credito e abolitio criminis: la revoca della condanna non può prescindere dall’analisi della condotta concreta (Cass. Pen. n. 16454/25)
- Avvocato Del Giudice
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Indice:
1. Premessa. Il caso e la questione giuridica
Con la pronuncia in esame, la Corte di cassazione, Sezione I penale, è tornata a occuparsi della delicata tematica della revoca della sentenza di condanna per abolitio criminis ex art. 673 c.p.p., nella peculiare ipotesi di abrogazione del delitto di millantato credito (art. 346 c.p., abrogato dalla legge 9 gennaio 2019, n. 3, c.d. "Spazzacorrotti") e sua possibile riconduzione a fattispecie oggi ancora previste, come il traffico di influenze illecite (art. 346-bis c.p.) o la truffa (art. 640 c.p.).
Il caso ha per oggetto l’istanza presentata da un ex appartenente all’Arma dei Carabinieri, condannato con sentenza di patteggiamento per fatti riconducibili all’allora vigente art. 346 c.p., consistenti nell’induzione a versamenti di denaro in favore di soggetti terzi, millantando influenze presso l’Agenzia delle Entrate.
Il Tribunale di Rovigo, in funzione di giudice dell’esecuzione, aveva rigettato la richiesta, ritenendo la sussistenza di una continuità normativa tra la fattispecie abrogata e quelle ancora vigenti.
La Cassazione, nel ribaltare tale decisione, richiama il nuovo indirizzo delle Sezioni Unite penali (sent. n. 19357/2024, Mazzarella) e afferma che la mancata verifica concreta degli elementi di fatto impedisce di escludere automaticamente la sussistenza della causa estintiva del reato.
2. Il principio di diritto affermato: nessuna continuità normativa automatica
La decisione impugnata viene censurata per una duplice ragione:
in primo luogo, per aver richiamato un precedente ormai superato dalla più recente pronuncia delle Sezioni Unite (Sez. VI, Lucchese, n. 32574/2022) ;
in secondo luogo, per aver omesso ogni esame concreto della condotta storica dell’imputato, necessaria per valutare l’eventuale riqualificazione giuridica.
Le Sezioni Unite Mazzarella avevano sancito la mancanza di continuità normativa tra millantato credito e traffico di influenze illecite, ribadendo che le condotte precedentemente sussumibili nel primo possano oggi essere eventualmente qualificate come truffa, ma solo a condizione che ne ricorrano tutti gli elementi costitutivi, formalmente contestati e dimostrati in fatto.
La Corte di legittimità ribadisce dunque che il giudice dell’esecuzione non può limitarsi a un’operazione astratta di "traslazione normativa", ma è tenuto a esaminare il fatto concreto nella sua interezza, valutando se, alla luce della disciplina vigente, la condotta sia ancora penalmente rilevante.
3. L’errore del giudice dell’esecuzione: il formalismo come ostacolo alla legalità sostanziale
La decisione rivela un approccio eccessivamente formalistico da parte del giudice dell’esecuzione, il quale, ignorando il sopravvenuto mutamento giurisprudenziale, si limita a ribadire un orientamento ormai superato, disattendendo il principio del contraddittorio (in un primo momento) e, successivamente, quello del giusto processo esecutivo, che impone una piena e trasparente valutazione della domanda difensiva.
Il difetto motivazionale si traduce qui in un vizio di legittimità sostanziale, poiché l'ordinanza impugnata non analizza né i fatti né le ragioni per cui la condotta dell’imputato, oggi, possa o meno integrare una diversa fattispecie incriminatrice.
4. Il significato sistemico della pronuncia: tra legalità e garanzie
L’intervento della Suprema Corte si muove nel solco della legalità sostanziale, riaffermando un principio che assume particolare rilievo in sede esecutiva: l’abrogazione di una norma penale impone una verifica concreta della permanenza della punibilità, e non può risolversi in una presunzione interpretativa basata sul solo dato normativo formale.
Ciò implica un doppio passaggio logico:
Accertare se la condotta storica integri una fattispecie attualmente vigente;
Solo in caso positivo, valutare la possibilità di una diversa qualificazione giuridica, che tuttavia non può mai prescindere da una contestazione formale e da un'analisi fattuale esaustiva.
Questo approccio si pone in linea con l’art. 2 c.p., che tutela l’individuo contro l’applicazione di norme penali più severe, e con l’art. 673 c.p.p., che consente la revoca della condanna solo se la fattispecie è stata integralmente abrogata e non vi è residua punibilità.
5. Considerazioni conclusive. Il nuovo volto del giudizio esecutivo
La lezione metodologica che emerge dalla sentenza è chiara: nessuna condanna può sopravvivere a un cambiamento legislativo se non è supportata da una rivalutazione completa e motivata della condotta concreta.
La legalità penale non è mera adesione formale alla norma, ma riscontro analitico dei presupposti fattuali e giuridici della colpevolezza.
In definitiva, la Corte riafferma che l’oblio della legge penale (abolitio criminis) è efficace solo se il fatto non è più punibile secondo la legge del tempo in cui si decide: ogni scorciatoia interpretativa rischia di far sopravvivere, indebitamente, il reato alla morte della norma.
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