Bancarotta per distrazione: serve la prova che i beni esistessero davvero e fossero nella disponibilità dell’imputato (Cass. pen. n. 40487/2025)
- Avvocato Del Giudice
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La sentenza in argomento ribadisce un principio consolidato, ma spesso dimenticato, del diritto penale fallimentare: la distrazione non può essere costruita come automatismo contabile.
Se i beni “ci sono” nei registri ma non ci sono all’inventario fallimentare, la scorciatoia accusatoria è nota: “mancano i beni, quindi qualcuno li ha distratti; e siccome amministrava Tizio, il responsabile non può che essere Tizio”.
La Corte, invece, rimette al centro il presupposto logico-giuridico del capo di imputazione: prima ancora di domandare “che fine hanno fatto i beni”, bisogna dimostrare che quei beni esistessero davvero e fossero nella disponibilità dell’imputato nel periodo rilevante.
1) Il nodo: “beni desunti da annotazioni contabili” e dubbio sull’anteriorità
Il ricorso evidenziava una criticità già posta in appello e trascurata, la possibile anteriorità delle condotte qualificate come distrattive e, soprattutto, la incertezza che quei beni — ricavati da “mere annotazioni contabili” — fossero ancora presenti nel patrimonio sociale quando l’imputato entra in carica.
La Corte considera questo profilo decisivo e parla di motivazione “del tutto carente” proprio perché l’impianto dei giudici di merito non scioglie il dubbio: i beni potevano essere stati distratti prima o perfino non essere mai esistiti, ipotesi evocata dalla stessa relazione del curatore ex art. 33 l.f.
2) Il principio: la contabilità non è una presunzione di colpevolezza
La Corte richiama un indirizzo risalente:
l’“accertamento della previa disponibilità” non può appoggiarsi alla presunzione di attendibilità ex art. 2710 c.c.;
le risultanze contabili vanno vagliate nella loro intrinseca attendibilità, alla luce di documenti e prove concretamente esperibili;
se la corrispondenza al vero è contestata (o seriamente dubbia), la mera iscrizione contabile non basta.
È un passaggio importante perché rimette al suo posto un equivoco ricorrente: l’onere dell’amministratore di spiegare la sorte dei beni non può sostituire la prova della loro previa esistenza e disponibilità.
Quell’onere “scatta” dopo che il giudice ha accertato, con un minimo di solidità probatoria, che i beni c’erano davvero e che erano nella sfera di gestione dell’imputato. (richiami a Sez. V, n. 55805/2018 e altri precedenti citati in motivazione).
3) Non solo “quanto valevano”: anche il valore va motivato, specie se i dati sono fragili
La Corte segnala un’ulteriore discrepanza: permane incertezza anche sulla valutazione del valore dei beni ritenuti distratti (circa 70.000 euro, ridimensionati per obsolescenza), e questa incertezza non è neutra quando la base contabile è già sospetta o comunque controversa.
4) Le vendite: non basta dire “prezzo incongruo”
Sul secondo fronte (beni oggetto di fatture di vendita), la Corte critica l’analisi dei giudici di merito perché concentrata quasi solo sulla non congruità del prezzo, senza indagare gli indici davvero rivelatori della fittizietà/distrazione (ad es. pagamento effettivo del prezzo, compensazioni “creative”, crediti inesistenti).
Qui la Corte è molto pratica, la distrazione tramite vendita fittizia si gioca su segnali di realtà economica dell’operazione, non su una mera disputa estimativa.
5) Esito: annullamento con rinvio
Per questi motivi, la sentenza viene annullata con rinvio alla Corte d’appello (Perugia) per un nuovo esame che affronti davvero:
esistenza e disponibilità dei beni nel periodo dell’imputato;
attendibilità del dato contabile;
natura delle operazioni di vendita, con verifica della effettività del prezzo.
La sentenza integrale
Cassazione penale sez. V, 09/12/2025, (ud. 09/12/2025, dep. 16/12/2025), n.40487
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 7.2.2025, la Corte di Appello di L'Aquila, all'esito di trattazione scritta, ha, per quanto qui di rilievo, confermato la pronuncia emessa in primo grado nei confronti di Ce.Se., che l'aveva dichiarato colpevole del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione (capo C).
2. Avverso la suindicata sentenza, ricorre per cassazione l'imputato, tramite il difensore di fiducia, deducendo due motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Col primo motivo deduce l'erronea applicazione della legge in relazione all'articolo 216, comma 1, n. 1, l.f.
I comportamenti che sono indicati nella sentenza impugnata non integrano gli estremi del reato contestato essendo privi di quella capacità reale di incidere negativamente sulla garanzia patrimoniale oggetto della tutela apprestata dalla legge, dal momento che questa era stata già compromessa in maniera devastante dai precedenti amministratori e azionisti che avevano il controllo dell'azienda prima dell'ingresso del Ce.
Inoltre, non si ha contezza di quale sia il valore reale dei beni sottratti e la sentenza nulla dice al riguardo, riportandosi ad affermazioni di principio, generali ed astratte. Basta fare un raffronto tra il capo di imputazione ascritto all'imputato e i capi di imputazione che invece si attribuiscono all'altra imputata, Za., per verificare che mentre i comportamenti della predetta hanno quella valenza e quella portata richiesta dalla legge per assumere rilievo penale, le azioni del Ce. tale rilievo non hanno perché non raggiungono la soglia di punibilità richiesta dalla previsione normativa.
2.2. Col secondo motivo deduce vizi di motivazione nel senso della carenza e della contraddittorietà della sentenza impugnata. Ed invero nei motivi di gravame si era evidenziata la contraddittorietà della pronuncia di primo grado laddove al punto uno, richiama testualmente la relazione ex 33 legge fallimentare, nella quale si legge "... dalla contabilità emerge che l'azienda avrebbe dovuto essere in possesso dei beni mobili materiali per un importo di 148.137,60 Euro, mentre dall'inventario non risultano beni. Tuttavia, non risultano fatture di vendita che dimostrino l'uscita dall'azienda dei beni. Per questo i beni potrebbero essere stati distratti o non esistevano già da quando erano in carica i vecchi amministratori che quindi hanno esposto in bilancio delle attività fittizie rendendo false le comunicazioni sociali...". Ebbene tale doglianza è stata completamente trascurata dalla Corte territoriale, laddove era invece facile constatare che il Tribunale, pur richiamando le dichiarazioni contenute nella relazione ex art. 33 l.f. che non escludevano affatto la possibilità che le condotte di distrazioni fossero riconducibili ai precedenti azionisti e amministratori della società, perveniva all'affermazione della penale responsabilità del Ce. al di là di ogni ragionevole dubbio. Allo stesso modo si perviene alla affermazione di colpevolezza di Ce.Se. per la sottrazione di beni mobili per un valore ridimensionato per obsolescenza e invecchiamento di 70.000 Euro circa. Tuttavia, se a porre in essere la condotta di bancarotta è stata la Za. per esclusione non può essere condannato il Ce., che è intervenuto dopo l'uscita della Za. nel 2012, al quale le condotte non sono ascritte in concorso con la predetta.
3. Il ricorso, proposto successivamente al 30.6.2024, è stato trattato - ai sensi dell'art. 611 come modificato dal D.Lgs. del 10.10.2022 n. 150 e successive integrazioni - in assenza di richiesta di trattazione orale, senza l'intervento delle parti, che hanno così concluso per iscritto:
il Sostituto Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso chiedendo l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato.
Come dedotto dal ricorrente con il secondo motivo, la sentenza impugnata presenta una motivazione del tutto carente sul profilo - già evidenziato in appello - concernente la possibile anteriorità delle condotte qualificate come distrattive, riferite a beni per un valore di circa Euro 70.000 e ascritte esclusivamente al ricorrente al capo C, senza concorso con la precedente amministratrice. Si prospettava, infatti, che tali condotte potessero risalire al periodo in cui la società era amministrata da altri, segnatamente dalla Za., già amministratrice della società fallita Leader Mosa Srl
L'atto di appello aveva sottolineato l'impossibilità di affermare con certezza, oltre ogni ragionevole dubbio, che i beni in questione - desunti da mere annotazioni contabili, suscettibili di non riflettere né la reale esistenza né la concreta consistenza - fossero ancora presenti nel patrimonio sociale al momento dell'ingresso in carica dell'imputato.
Tale assunto trovava fondamento nelle risultanze della relazione ex art. 33 l.f. redatta dal curatore.
2. la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l'accertamento della previa disponibilità dei beni non può fondarsi sulla presunzione di attendibilità delle scritture ex art. 2710 cod. civ., ma richiede una valutazione intrinseca delle risultanze contabili alla luce della documentazione reperita e delle prove concretamente esperibili (Sez. 5, n. 55805 del 03/10/2018, Be.ma, Rv. 274621 - 01).
Nello stesso solco, è stato affermato che la responsabilità per bancarotta patrimoniale richiede l'accertamento della previa disponibilità dei beni non rinvenuti e che la mera iscrizione contabile non è sufficiente se il dato è contestato nella sua attendibilità (Sez. 5, 19/03/2019, n. 15789).
Il principio di diritto richiamato presuppone comunque l'accertamento, indipendentemente da qualsiasi presunzione, della previa disponibilità, in capo alla società fallita, dei beni non rinvenuti: invero, la responsabilità per il delitto di bancarotta per distrazione richiede l'accertamento della previa disponibilità, da parte dell'imputato, dei beni non rinvenuti in seno all'impresa; accertamento, questo, non condizionato dalla presunzione di attendibilità del corredo documentale dell'impresa che non obbedisce - per quel che concerne il delitto in questione - alla qualificazione in termini di prova, ex art. 2710 cod. civ., posto che, ai sensi dell'art. 192 cod. proc. pen., la risultanza deve essere valutata (anche nel silenzio del fallito) con ricerca della relativa intrinseca attendibilità, secondo i consueti parametri di scrutinio, di cui deve essere fornita congrua motivazione ove essa non sia apprezzabile per l'intrinseco dato oggettivo (explurimis, Sez. 5, n. 7588 del 26/01/2011, Buttitta, Rv. 249715; Sez. 5, n. 35882 del 17/06/2010, De Angelis, Rv. 248425; Sez. 5, n. 40726 del 06/11/2006, Abbate, Rv. 235767). In altri termini, l'accertamento della previa disponibilità da parte dell'imputato dei beni non rinvenuti in seno all'impresa non può fondarsi sulla presunzione di attendibilità dei libri e delle scritture contabili dell'impresa prevista dall'art. 2710 cod. civ., dovendo invece le risultanze desumibili da questi atti essere valutate - soprattutto quando la loro corrispondenza al vero sia negata dall'imprenditore - nella loro intrinseca attendibilità, anche alla luce della documentazione reperita e delle prove concretamente esperibili, al fine di accertare la loro corrispondenza al reale andamento degli affari e delle dinamiche aziendali (Sez. 5, n. 52219 del 30/10/2014, Ragosa, Rv. 262197; conf., ex plurimis, Sez. 5, n. 55805 del 03/10/2018, Barattelli, Rv. 274621).
3. Nel caso di specie, il Tribunale ha richiamato la relazione ex art. 33 l.f., evidenziando che, secondo la contabilità, la società avrebbe dovuto disporre di beni mobili materiali per Euro 148.137,60, mentre in sede di inventario nulla era stato rinvenuto.
Il curatore, tuttavia, ha rappresentato che tali beni avrebbero potuto essere stati distratti in epoca anteriore ovvero non essere mai esistiti, non potendosi escludere l'esposizione in bilancio di "attività fittizie" con false comunicazioni sociali.
A fronte di tale dubbio - che si traduce in una carenza di elementi circa la stessa esistenza dei beni nel patrimonio sociale all'epoca dell'assunzione dell'amministrazione da parte del ricorrente - non può supplirsi invocando il principio secondo cui grava sull'amministratore l'onere di indicare la sorte dei beni non rinvenuti.
Tale principio opera solo dopo l'accertamento della previa esistenza e disponibilità dei beni in seno all'impresa. Il medesimo indirizzo, fondato anche sulla regola della vicinanza della prova, impone all'imprenditore di allegare elementi concreti e oggettivi a sostegno della tesi difensiva; ma tale onere non può surrogare la prova dell'esistenza del bene quando questa sia seriamente controversa.
Nel caso concreto è rimasta incerta anche la valutazione del valore dei beni ritenuti distratti; tale incertezza non è trascurabile, specie ove la contabilità sia stata giudicata inattendibile. È stato affermato che la previa disponibilità può essere desunta anche dal bilancio, solo se intrinsecamente attendibile perché redatto in conformità di legge (Sez. 5, 23/04/2021, n. 20879).
4. Quanto all'ulteriore condotta distrattiva ravvisata in relazione ai beni di cui alle fatture di vendita, il ricorso è parimenti fondato: i giudici di merito non hanno approfondito la natura distrattiva delle operazioni, concentrandosi soprattutto sul valore dei beni alienati ritenuto superiore a quello indicato nelle fatture, mentre ai fini della fittizietà della vendita rilevano altri indici, tra cui l'effettivo pagamento del prezzo.
In giurisprudenza è stata qualificata come distrattiva la cessione (anche di azienda) fittizia ove il prezzo non risulti pagato o sia compensato con crediti inesistenti (Sez. 5, 03/04/2024, n. 13630). Per contro, sul versante tributario, si è affermato che la mera sovrafatturazione o non congruità del prezzo non integra l'operazione inesistente se l'operazione è reale e il prezzo è stato concretamente corrisposto (Sez. 3, 14/03/2024, n. 26520).
5. Dalle ragioni sin qui esposte deriva che la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo esame alla Corte di appello di Perugia.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, con rinvio per nuovo esame alla Corte di appello di Perugia.
Così deciso il 9 dicembre 2025.
Depositata in Cancelleria il 16 dicembre 2025.

