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Dal rischio di impresa all’imputazione: la sottile grammatica della bancarotta

La frontiera è sottile, la topografia incerta.

Una decisione d’investimento può scivolare, col tempo, nella giurisdizione penale; e ciò che fu esercizio di iniziativa imprenditoriale si trasforma, retroattivamente, in condotta fraudolenta.

La sentenza n. 13299 del 2025, della Quinta Sezione, ne è riprova. Un imprenditore, alla guida di una società operante nel settore delle energie rinnovabili, amplia lo statuto per includervi il trasporto nautico. Acquista due imbarcazioni di lusso, sostenendo costi ingenti. L’attività nautica non decolla; la società fallisce.

I giudici leggono quei fatti come dissipazione: non distrazione, bensì “impiego eccentrico rispetto alle esigenze dell’impresa”.

La Corte sposta il baricentro dal piano formale (lo statuto) a quello sostanziale (l’attività effettiva), affermando che la liceità astratta dell’atto non basta a escludere la natura dissipativa se manca razionalità economica. È una rilettura in chiave funzionale dell’art. 216, l. fall., secondo logica ormai consolidata.

Ma qui sorge la domanda: fino a che punto il diritto penale può sindacare la razionalità economica delle scelte dell’imprenditore?

La dissipazione si configura quando il bene è impiegato in modo da frustrare la funzione di garanzia patrimoniale, in modo macroscopicamente incoerente con la logica d’impresa. Il giudizio non verte sulle intenzioni, bensì sull’effettiva congruità delle scelte rispetto al contesto.

E qui si insinua una tensione fondamentale.

Nel diritto penale d’impresa, soprattutto quello fallimentare, il rischio è dietro l’angolo: quello di trasformare la valutazione postuma in prova di dolo, di scambiare l’insuccesso per inganno.

La dissipazione, intesa come “scelta radicalmente incongrua”, è categoria fragile, soggetta al filtro dell’ex post.

Il diritto penale, tuttavia, non dovrebbe giudicare la bontà delle strategie economiche, né agire come garante del buon esito dell’impresa.

L’imprenditore agisce nel futuro. E il futuro non è un dato, ma un’incognita.

La stessa Cassazione esclude l’applicabilità della business judgment rule nel penale.

Ma se le scelte irrazionali possono avere rilievo penale, è necessario delimitare rigorosamente lo spazio del giudice: non ogni operazione avventata è dissipazione; non ogni investimento infelice è reato.

Il pericolo concreto per i creditori deve emergere ex ante, non sulla base dell’esito. La zona di rischio penale non può coincidere con quella dell’azzardo imprenditoriale.

Serve prudenza, misura, consapevolezza del limite. Il diritto penale è regola ultima. E nella materia economica, più che altrove, dovrebbe astenersi dal confondere l’errore di valutazione con il dolo, l’insuccesso con la frode, la diversificazione con la dissipazione.

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