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Concussione: sulla condotta di abuso costrittivo commessa dall’incaricato di pubblico servizio


Corte di Cassazione

La massima

In tema di concussione, la condotta di abuso costrittivo commessa dall'incaricato di pubblico servizio prima dell'entrata in vigore della l. 6 novembre 2012, n. 190 non integra il reato neanche a seguito della modifica dell' art. 317 c.p. ad opera dell' art. 3 l. 27 maggio 2015, n. 69, che ha reinserito tale figura nel novero dei soggetti attivi, in quanto ciò comporterebbe una violazione dei principi che regolano la successione delle leggi penali nel tempo (Cassazione penale , sez. VI , 30/04/2019 , n. 4110).

Fonte: CED Cassazione Penale 2021



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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Firenze ha sostanzialmente confermato la sentenza con cui il Giudice dell'udienza preliminare dello stesso Tribunale, all'esito del processo celebrato nelle forme del giudizio abbreviato, aveva assolto M.P. e Ch.Ai. dai reato loro rispettivamente contestati perchè il fatto non sussiste e Ma.Fa. da quelli di cui ai capi C)-T) perchè il fatto non sussiste e da quello di cui al capo O) per non avere commesso il fatto.


A M. è contestato il reato di tentata truffa aggravata perchè, in qualità di dirigente medico in servizio presso la Struttura Organizzativa dipartimentale di chirurgia toracica dell'Azienda Ospedaliera Universitaria di (OMISSIS), approfittando della minorata capacità di difesa delle vittime compiva atti idonei diretti in modo non equivoco ad indurre:


1) R.V., affetto da carcinoma al rene, e la di lui moglie a versargli indebitamente la somma di 150.000 Euro, che assumeva di dover inviare ad una non identificata struttura specialistica privata ospedaliera di (OMISSIS), affinchè R. fosse lì ricoverato e sottoposto ad un "non meglio precisato intervento chirurgico", che l'imputato rappresentava falsamente come necessario e poneva come condizione imprescindibile per l'esecuzione di un secondo intervento che egli stesso avrebbe dovuto eseguire; condotta non andata a buon fine per la difficoltà di R. di reperire le somme (capo a- fatto 2010);


2) O.M., affetta da grave patologia neoplasica, a versare la somma di 130.000 (lo schema imputativo è sostanzialmente lo stesso già descritto) (capo b);


3) (in concorso con Ch.Ai. e Ma.Fa., la prima in qualità di caposala presso la stessa struttura ospedaliera - addetta alla assistenza alle visite di M. ed alla acquisizione dei dati per l'inserimento dei nomi nelle liste operatorie, ed il secondo, nella qualità di dirigente medico presso la stessa Azienda ospedaliera) Sa.Lu., affetta da grave patologia neoplasica, a sottoporsi ad un intervento chirurgico in regime intramurario, sostenendo la Ch., cui M. l'aveva indirizzata per avere le necessarie informazioni, ed il Ma., che le aveva consigliato la visita con M. ed a cui la Ch. a sua volta l'aveva invitata a rivolgersi, che, contrariamente al vero, i tempi di attesa per l'intervento a carico del servizio sanitario, che in quel periodo oscillavano tra i sette ed i quindici giorni, non erano quantificabili e che per abbreviarli avrebbe potuto optare per l'intervento in regime di libera professione per il quale avrebbe speso la somma di circa Euro 60.000 (capo c);


4) (in concorso con Ch.) P.M., cui M. proponeva un intervento all'esofago, a corrispondere la somma di Euro 30.000 (lo schema imputativo è simile a quello del capo c) (capo d);


5) Pa.Br., mentre era ricoverato a (OMISSIS), a versargli somme non dovute per sottoporsi ad un intervento in (OMISSIS) (capo U);


A M.P. sono inoltre contestati quattro episodi ulteriori di truffa consumata.


Quanto al primo, l'imputato avrebbe indotto E.A., affetto da patologia neoplasica, falsamente rappresentandogli di svolgere attività di chirurgo solo a pagamento in Italia, a sottoporsi ad un intervento in regime di libera professione ed a corrispondere indebitamente la somma di 44.000 circa (capo e);


Quanto secondo ed al terzo episodio, M., in concorso con Ch., avrebbe indotto S.G. e B.L. ad accettare che un intervento chirurgico fosse eseguito in regime intramurario (lo schema è lo stesso di quello descritto per il capo c) (capi F - H).


Quanto al quarto, l'imputato avrebbe indotto p.e. a corrispondere la somma di 51.000 Euro a titolo di onorario ed a sottoporsi presso una struttura privata ad un intervento chirurgico effettuabile anche presso il servizio nazionale, affermando che, se avesse optato per questa ultima soluzione, l'intervento difficilmente sarebbe stato compiuto da lui, in quanto molto impegnato all'estero (Capo G);


A M. è ancora contestato un episodio di peculato in concorso con Ma. ed altri per essersi appropriato della somma di 38.000 Euro, corrisposta per compiere un intervento chirurgico, poi non compiuto, e non restituita (Capo T).


2. Ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Firenze articolando tre motivi.


2.1. Con il primo si deduce la nullità della sentenza per violazione di legge processuale; la sentenza sarebbe priva di motivazione.


Si assume che con l'atto di appello il Procuratore della Repubblica impugnante avrebbe chiesto che gli imputati fossero condannati per concussione, quanto ai capi e) - f) - g) - h)-, e tentata concussione per i capi a) -b) -c) -d): la Corte sarebbe stata silente sul punto.


2.2. Con il secondo motivo si lamenta violazione di legge quanto all'art. 317 c.p..


Si sostiene che se la Corte avesse riqualificato i fatti nel senso indicato, non vi sarebbe stata nessuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza e nemmeno dell'art. 2 c.p., ben potendo il reato in questione configurarsi nei confronti di un incaricato di pubblico servizio; il legislatore avrebbe attribuito rilievo a tale qualifica soggettiva sia al momento di commissione del fatto, sia, successivamente, con la modifica apportata all'art. 317 c.p. dalla L. 27 maggio 2015, n. 69.


Nella specie sarebbe configurabile una minaccia implicita, consistita nella prospettazione a persone affette da gravissime patologie di lunghi tempi di ricovero in regime pubblico, ed il conseguente "consiglio" di optare per il regime intramoenia; si aggiunge che in realtà i pazienti che accettarono di prenotarsi in regime intramoenia non ebbero alcun vantaggio rispetto agli iscritti nelle liste pubbliche.


2.3. Con il terzo motivo si lamenta violazione di legge processuale quanto all'art. 603 c.p.p., comma 3 bis, in relazione alla valutazione delle dichiarazioni rese dai testi A. e s. che avrebbero dovuto essere risentiti per fornire chiarimenti sulla gestione delle liste d'attesa e dei ricoveri dei pazienti.


3. Hanno proposto ricorso per cassazione S.L., Lo. e C., costituite parti civili quanto al capo F).


Sono stati articolati tre motivi.


3.1. Con il primo si lamenta violazione di norme processuali in ordine alla omessa pronunzia, da parte della Corte di appello, conseguente alla richiesta della Pubblica Accusa di riqualificazione dei fatti.


3.2. Con il secondo motivo si lamenta violazione di legge penale quanto al delitto di truffa; gli imputati avrebbero taciuto sulle reali condizioni critiche dei pazienti, in sostanza non operabili, e prospettato invece la possibilità di essere sottoposti ad intervento chirurgico immediatamente e con successo, così da poter "andare al mare senza ossigeno"; detti artifici e raggiri avrebbero indotto S. a sottoscrivere un contratto con cui si obbligava a pagare per essere sottoposto ad un intervento in regime privatistico. La Corte avrebbe, da una parte, affermato che il paziente fosse inoperabile e che le promesse fatte dall'imputato fossero illusorie, ma poi non avrebbe collegato tali premesse alla decisione del paziente di sottoscrivere il contratto.


Nè, si aggiunge, assumerebbe rilievo che M., dopo la morte del paziente, decise di restituire le somme percepite a tiolo di acconto.


3.3. Con il terzo motivo si lamenta violazione di legge processuale per non avere disposto la trasmissione degli atti alla Procura - che li aveva richiesti-, per procedere per il reato di omicidio.


4. Ha proposto ricorso per cassazione anche C.E., parte civile quanto al capo F); sono stati articolati quattro motivi.


4.1. Con il primo si lamenta violazione di legge processuale prevista a pena di nullità per non essere stata acquisita all'udienza del 22/11/2017 una memoria difensiva, considerata erroneamente dalla Corte di appello come replica e dunque non acquisibile in assenza di una replica della Pubblica accusa; l'art. 523 c.p.p., comma 4, diversamente dagli assunti della Corte di merito, non subordinerebbe il diritto di replica della parte civile a quello del P.M., non essendo peraltro precluso alle parti la produzione di memorie.


4.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di norma processuale per non essersi la Corte pronunciata sulle richieste del Pubblico ministero di riqualificazione dei fatti e sulla loro riconducibilità al delitto di concussione.


4.3. Con il terzo motivo si lamenta violazione di legge penale in ordine al delitto di truffa; il motivo è sostanzialmente sovrapponibile al secondo motivo formulato dalle altre parti civili.


4.4. Con il quarto motivo si lamenta violazione di legge processuale quanto alla mancata trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica per procedere per il reato di omicidio.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi sono inammissibili.


2. Sono inammissibili i ricorsi presentati dalle parti civili.


Le odierne parti civili non hanno proposto appello contro la sentenza assolutoria di primo grado, che è stata confermata dalla Corte d'appello a seguito delle impugnazioni degli Uffici del Pubblico Ministero.


Se è vero che la parte civile, in ragione del principio della immanenza della sua costituzione nel corso dell'intero procedimento (art. 76 c.p.p., comma 2), può giovarsi dell'appello del pubblico ministero, pur se non impugnante, tuttavia, nel caso in cui il giudizio di impugnazione si concluda, come nel caso di specie, in una conferma della sentenza impugnata sfavorevole alle ragioni della parte civile, quest'ultima, non avendo proposto appello, non può proporre ricorso per cassazione contro la decisione di secondo grado, non essendosi doluta, mediante autonoma impugnazione, della prima sentenza (Sez. 6, n. 12811 del 9/02/2012, Pulci, Rv. 252538; Sez. 6, n. 35513 del 21/05/2013, Spadavecchia, Rv. 256091; Sez. 6, n. 315 del 14/11/2017, dep. 2018, Gerace, Rv. 271926; sul tema cfr., Sez. U, n. 5 del 25/01/1999, dep. 2000, Loparco, Rv. 212575).


Tale disciplina trova peraltro conferma nella previsione contenuta nell'art. 587 c.p.p., in materia di effetto estensivo delle impugnazioni, secondo cui l'imputato non impugnante non è abilitato a reagire contro la sentenza di appello (o di rinvio) che non abbia accolto le ragioni del coimputato impugnate, in quanto egli può solo beneficiare degli effetti favorevoli, a lui estensibili, della decisione assunta sulla base dell'impugnazione del coimputato (cfr., Sez. 5, n. 11959 del 29/09/2000, Delle Cave, Rv. 218556; Sez. 5, n. 6810, del 14/05/ 1997, Galluccio, Rv. 208373).


L'inammissibilità dei ricorsi comporta la condanna delle ricorrenti parti civili al pagamento delle spese processuali e ciascuna al versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende che si stima equo determinare in Euro cinquecento per ciascuna.


3. E' inammissibile anche il ricorso del Procuratore Generale presso la Corte di appello.


3.1. Sono inammissibili, per diverse ragioni, il primo ed secondo motivo, che possono essere trattati congiuntamente.


Sotto un primo profilo, la Corte di appello, diversamente dagli assunti del Procuratore impugnante, ha fornito una risposta alla richiesta di riqualificazione dei fatti nel più grave delitto di concussione, escludendo la oggettiva rilevanza penale dei comportamenti attribuiti agli imputati (pag. 40), e, dunque, la loro sussumibilità in qualsiasi fattispecie di reato, compresa quella di concussione.


Sotto altro profilo, nell'ambito di imputazioni in cui non è oggettivamente chiaro nè quando i singoli reati sarebbero stati commessi- non essendo stata precisata la data di commissione dei fatti-, nè quale sarebbe stata la qualifica soggettiva che gli odierni imputati avrebbero rivestito, si è sostenuto da parte del Procuratore impugnante che il reato di concussione sarebbe nella specie configurabile in quanto, sia al momento in cui i fatti sarebbero stati compiuti, sia al momento della decisione impugnata, la fattispecie, in relazione alle modifiche apportate con la L. n. 69 del 2015 al testo novellato dalla L. 6 novembre 2012, n. 190, avrebbe potuto essere integrata anche da un incaricato di pubblico servizio; dunque, se i giudici di merito avessero ritenuto sussistente il reato non sarebbe stato violato il principio di cui all'art. 2 c.p..


Si tratta di un ragionamento giuridico errato.


A seguito della riforma compiuta con la L. n. 86 del 1990, soggetti attivi del reato di concussione potevano essere sia il pubblico ufficiale che l'incaricato di pubblico servizio.


Successivamente, con la L. 6 novembre 2012, n. 190, il legislatore ha eliminato la figura dell'incaricato di pubblico servizio dalla classe dei possibili soggetti attivi del reato e le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno chiarito che l'abuso costrittivo dell'incaricato di pubblico servizio commesso, secondo il ricorrente, prima della entrata in vigore della L. n. 190 del 2012, configura un illecito estraneo allo statuto dei reati contro la pubblica amministrazione ed è punibile, ove ne sussistano i requisiti strutturali, in base ad altre disposizioni incriminatrici (Sez. U, n. 12228 del 24/10/2013, dep. 2014, Maldera Rv. 258472).


Dunque, ove pure si volesse ragionare con il Procuratore Generale ricorrente, i fatti oggetto del processo, commessi- parrebbe di comprendere- prima della entrata in vigore della L. n. 190 del 2012, non potrebbero essere sussunti nel reato di concussione, non potendo certo attribuirsi rilievo alla circostanza che, a seguito della ulteriore modifica apportata all'art. 317 c.p., dalla L. n. 69 del 2015, sia stato nuovamente inserito l'incaricato di un pubblico servizio fra i soggetti che possono compiere il delitto in questione.


La "nuova" ulteriore modifica della norma non consente cioè di "recuperare", sotto il profilo della rilevanza penale, le condotte commesse prima della entrata in vigore della L. n. 190 del 2012 e poi divenute irrilevanti; si tratterebbe di una chiara violazione dei principi in tema di successione di leggi penali nel tempo.


Nè il Procuratore impugnante ha chiarito quale sarebbe la possibile altra fattispecie di reato alla quale i fatti sarebbero riconducibili.


Sotto ulteriore profilo, a fronte di una puntale motivazione con cui la Corte di appello ha ricostruito con rigore i dolorosi fatti oggetto del processo ed il senso e la portata dei comportamenti degli imputati, valutato le singole dichiarazioni, anche riassumendole nel corso del giudizio di secondo grado, ricostruito il quadro probatorio in relazione alle singole imputazioni, vagliato la consistenza degli ondivaghi assunti accusatori ed escluso la valenza decettiva delle condotte, nulla di specifico è stato dedotto, essendosi limitato il Procuratore Generale ricorrente ad una mera ricostruzione alternativa generalizzante, senza indicare i capi ed i punti della sentenza oggetto di censura ovvero spiegare perchè il ragionamento probatorio dei giudici di merito sarebbe errato.


La Corte di cassazione ha costantemente affermato che la funzione tipica dell'impugnazione è quella della critica argomentata avverso il provvedimento cui si riferisce. Tale critica argomentata si esplica attraverso la presentazione di motivi che, a pena di inammissibilità (artt. 581 e 591 c.p.p.), devono indicare specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta. Contenuto essenziale dell'atto di impugnazione è infatti il confronto puntuale (cioè con specifica indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che fondano il dissenso) con le argomentazioni del provvedimento il cui dispositivo si contesta.


Ne consegue che se il motivo di ricorso si limita ad affermazioni generiche, esso non è conforme alla funzione per la quale è previsto e ammesso, cioè la critica argomentata al provvedimento, posto che con siffatta mera riproduzione il provvedimento formalmente "attaccato", lungi dall'essere destinatario di specifica critica argomentata, è di fatto del tutto ignorato.


Ne deriva l'inammissibilità dei motivi di ricorso.


3.2. Anche il terzo motivo di impugnazione è inammissibile perchè generico.


La Corte ha spiegato (pag. 13-14) il meccanismo delle liste di attesa, per come descritto e ricostruito dai testi, evidenziando come l'ordine di priorità fosse derogabile e la c.d. unicità della lista fosse solo tendenziale e ritenendo, dunque, esaustiva la indagine dibattimentale.


Rispetto a tale scrupolosa ricostruzione, anche in questo caso il motivo di ricorso ha una strutturale componente esplorativa che, in realtà, non evidenzia affatto un vizio della sentenza impugnata.


La rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale ai sensi dell'art. 603 c.p.p., comma 1, è subordinata alla verifica dell'incompletezza dell'indagine dibattimentale ed alla conseguente constatazione del giudice di non poter decidere allo stato degli atti senza una rinnovazione istruttoria, accertamento rimesso alla valutazione del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivata (Sez. 6, n. 8936 del 13/01/2015, Leoni, Rv. 262620; Sez. 4, n. 4981 del 05/12/2003, Ligresti, Rv. 229666).


E' diffusa in giurisprudenza l'affermazione di principio secondo cui, mentre la decisione di procedere a rinnovazione deve essere specificatamente motivata - occorrendo dar conto dell'uso del potere discrezionale derivante dalla acquisita consapevolezza della rilevanza dell'acquisizione probatoria - nell'ipotesi di rigetto, viceversa, la decisione può essere sorretta anche da una motivazione implicita nella stessa struttura argomentativa, posta a base della pronuncia di merito, che, tuttavia, evidenzi la sussistenza di elementi sufficienti ed adeguati per una valutazione in ordine alla responsabilità dell'imputato, con la conseguente mancanza di necessità di rinnovare il dibattimento (Sez. 6, n. 8936 del 13/01/2015, Leoni, Rv. 262620).


Ai fini del sindacato sulla decisione di non procedere alla rinnovazione della istruttoria, ciò che tuttavia deve essere valutato è se esista un vizio della deliberazione assunta sulla regiudicanda e della relativa motivazione, e, posto che esista, se detto vizio appaia conseguente, dipendente, derivante dalla erronea decisione di non provvedere all'integrazione della prova, d'ufficio o su richiesta delle parti processuali.


Si è notato, in conformità ad alcuni precedenti, che "può essere censurata la mancata rinnovazione in appello dell'istruttoria dibattimentale qualora si dimostri l'esistenza, nell'apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate provvedendosi all'assunzione o alla riassunzione di determinate prove in appello" (Sez. 6, n. 1400 del 22/10/2014, dep. 2015, PR, Rv. 261799; Sez. 6, Sentenza n. 1256 del 28/11/2013, Cozzetto, Rv. 258236).


Dunque, ciò che conta non è la qualità della risposta che la Corte territoriale ha inteso dare alle istanze di prova della Difesa, ma la desumibilità o meno dal tessuto argomentativo della sentenza posto in relazione alle censure difensive - di una grave lacuna del ragionamento probatorio e della sua rappresentazione a livello motivazionale, dipendente dalla decisione di non rinnovare l'istruttoria dibattimentale al fine di chiarire la circostanza dedotta dalla difesa dell'imputato.


Nel caso di specie, tale connessione non esiste, nè è stata specificamente prospettata, essendosi il ricorrente limitato ad affermazioni generiche la cui valenza non è stata chiarita.


P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna le ricorrenti parti civili al pagamento delle spese processuali e ciascuna al versamento della somma di Euro cinquecento in favore della Cassa delle Ammende.


In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.


Così deciso in Roma, il 30 aprile 2019.


Depositato in Cancelleria il 30 gennaio 2020

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