La massima
Ciascuno dei delitti dichiarativi previsti dagli artt. 2, 3, 4 e 5 d.lg. 10 marzo 2000, n. 74, sanziona condotte tra loro diverse, non costituenti modalità alternative di realizzazione dello stesso reato, in quanto volte a evadere, per ogni anno, le imposte sui redditi o sul valore aggiunto mediante dichiarazioni differenti ovvero mediante la violazione dell'obbligo di presentare entrambe le dichiarazioni, sicché, ricorrendone i presupposti, può trovare applicazione l'istituto della continuazione ove, in relazione a un medesimo anno, siano realizzate diverse condotte tipizzate dalle indicate norme incriminatrici (Cassazione penale , sez. III , 16/03/2022 , n. 20050).
Fonte: Ced Cassazione Penale
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La sentenza
Cassazione penale , sez. III , 16/03/2022 , n. 20050
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 09/04/2021, la Corte di appello di Milano, in riforma della sentenza del 14/02/2019 del Tribunale della stessa città, pronunciata a seguito di giudizio ordinario e impugnata, tra gli altri, dai sigg.ri A.B., B.G., C.R. e D.V.A., ha dichiarato non doversi procedere nei confronti del C. in relazione al reato di cui al capo 1 (art. 416 c.p.) perché estinto per prescrizione e ha rideterminato la pena nei suoi confronti nella misura di tre anni di reclusione per i residui reati ha rideterminato la pena nei confronti del D.V. nella misura di un anno di reclusione, confermando nel resto l'impugnata sentenza.
In particolare, gli imputati sono stati ritenuti responsabili dei seguenti reati: 1.1. A.: capo 7 (artt. 81 cpv. e 110 c.p., D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, limitatamente all'anno di imposta 2010);
1.2. B.: capo 5 (artt. 81, cpv. e 110 c.p., D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, limitatamente agli anni di imposta 2010 e 2011);
1.3. C.: capo 5 (artt. 81, cpv. e 110 c.p., D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, limitatamente agli anni di imposta 2010 e 2011); capo 7 (artt. 81, cpv. e 110 c.p., D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, limitatamente all'anno di imposta 2010); capo 19 (artt. 81, cpv., 110 c.p., D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, limitatamente all'anno di imposta 2010);
1.4. D.V.: capo 10 (artt. 81, cpv., c.p., D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, limitatamente all'anno di imposta 2010).
La Corte di appello ha confermato, in estrema sintesi, l'esistenza di un sistema ideato dal C.R. che, avvalendosi (anche) della collaborazione dei componenti del suo studio di commercialista, aveva creato e gestito delle società "cartiere" che emettevano fatture per operazioni inesistenti, onde consentire l'abbattimento dell'imposizione fiscale ai propri clienti, non dichiaravano all'Erario i ricavi conseguiti ed occultavano/distruggevano i libri e le scritture contabili.
2. Propongono ricorso per cassazione A.B., B.G., C.R. e D.V.A..
3. A.B.;
3.1. Con unico motivo deduce la violazione dell'art. 42 c.p. e art. 192 c.p.p..
3.2. Deduce la mancanza assoluta di dolo non essendosi mai in concreto adoperato per la effettiva gestione della società della quale era solo formalmente il legale rappresentante.
4. B.G.;
4.1. Con il primo motivo deduce la violazione degli art. 40, cpv. e art. 43 c.p., in relazione al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5.
Lamenta che l'elemento soggettivo del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, a lui attribuito, è stato desunto in base a una serie di "circostanze" (durata temporale dell'evasione, deleghe rilasciate all'amministratore di fatto che consentivano a questi prelevamenti e versamenti milionari) che, tuttavia, non possono essere considerate sufficienti, soprattutto alla stregua delle risultanze dell'istruttoria dibattimentale del primo grado. La Corte d'Appello - afferma - non ha dato riscontro alle puntuali censure svolte nei motivi di impugnazione, limitandosi sostanzialmente a un "non poteva non sapere", cioè a una conclusione che non può trovare ingresso nel nostro sistema giuridico. La mera omissione dei doveri di controllo da parte dell'amministratore di diritto consente solo un addebito di colpa, non potendo dedurne automaticamente la consapevolezza della commissione di reati per i quali è richiesto il dolo anche in capo al soggetto cui si addebita il mancato adempimento dell'obbligo ex art. 40 cpv. c.p. La mera mancata valutazione di segnali di rischio da cui era intuibile la commissione di condotte illecite da parte dell'amministratore di fatto, dovuta alla omissione dei doveri di controllo dell'amministratore di diritto, comporta un addebito di colpa in relazione alla negligenza dimostrata nel mancato adempimento a quel dovere, ma, affinché si possa entrare nel terreno del dolo, non è sufficiente che il soggetto si sia reso conto dell'esistenza di tali segnali di pericolo, è altresì necessario che li abbia percepiti come tali: solo in tal caso potrà dirsi integrato l'aspetto volitivo e potrà dirsi integrato l'elemento doloso anche nella forma eventuale. Nel caso in esame, afferma, è dimostrata l'accettazione della carica di amministratore di diritto e della contestale gestione della società da parte dell'amministratore di fatto, ma non per questo l'accettazione anche della commissione di azioni delittuose, che non costituisce automatica conseguenza del fatto che un soggetto si presti a rivestire per le più svariate ragioni (anche non illecite) la carica formale, così consentendo la gestione anche illecita ad un amministratore di fatto, a meno che sia provato un preventivo accordo in tal senso o l'emergenza di fatti che dovevano indurre l'amministrare di diritto ad avvertire almeno il rischio della commissione di reati, in concreto accettandolo. E che il ricorrente fosse una mera testa di legno è circostanza emersa senza alcun dubbio nel corso del dibattimento; nessuna delle persone che avevano avuto rapporti con ISS NET lo aveva mai conosciuto, né visto, avendo solo indicato le persone del C. e del C.. Egli aveva assunto la carica (formale) di amministratore di diritto probabilmente a titolo di favore nei confronti del proprio commercialista, C.R.; tale rapporto di fiducia, nutrito nei confronti di chi gestiva la sua contabilità e i suoi affari, gli ha impedito di percepire un qualunque segnale di pericolo, anche perché non solo non aveva parola nell'attività propria della Issnet, ma nemmeno nella sua gestione finanziaria, dato che non era delegato ad operare in banca. Oltre alla totale mancanza di poteri gestori, manca - aggiunge - il dolo specifico di evasione, la consapevolezza, cioè, dell'ammontare dell'imposta dovuta e del superamento della soglia di punibilità. In definitiva, l'unico addebito che gli si può imputare è a titolo di colpa, per aver omesso i controlli connessi alla sua carica, ma non può certamente essere ritenuta la sussistenza di un previo accordo circa la commissione di reati o, in alternativa, la percezione di elementi di pericolo da cui desumerne la commissione e l'accettazione di tale pericolo. E ciò alla stregua delle emergenze processuali, da cui si evince che tutto il sistema di evasione era preordinato e orchestrato dal C. e dai suoi sodali. La Corte di appello non ha assolutamente vagliato questi aspetti nella parte motiva della sentenza in questa sede impugnata, anzi non ha nemmeno fatto alcun accenno critico alle doglianze esposte in sede di appello, se non con riferimenti meramente di stile e suggestivi.
4.2. Con il secondo motivo deduce la violazione degli artt. 133 e 62-bis c.p. in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche, non applicate dalla Corte di appello in base ai precedenti specifici che da soli non possono giustificare tale decisione.
4.3. Con il terzo motivo deduce la violazione della L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 143, nonché artt. 322-ter e 33 c.p., in relazione alla confisca disposta anche nei suoi confronti benché egli non abbia conseguito alcun profitto dai reati commessi dall'amministratore di fatto, alcun vantaggio patrimoniale, alcun risparmio di spesa. Ne' è emerso che abbia percepito alcun emolumento per prestarsi a rivestire la carica di amministratore di diritto.
5. C.R..
5.1. Con il primo motivo deduce l'incompetenza territoriale del Tribunale di Milano in ordine al delitto associativo di cui al capo 1, sotto il duplice profilo della violazione degli artt. 8,9 e 16 c.p.p., e del vizio di omessa motivazione sul punto.
Richiama in primo luogo i criteri alternativamente indicati nel tempo dalla giurisprudenza di legittimità in tema di competenza per territorio dei reati associativi (la genesi del vincolo associativo, il luogo nel quale vengono assunte le decisioni e si procede alla programmazione dell'attività, il luogo dove ha concretamente inizio l'operatività del sodalizio, criterio quest'ultimo che si articola in due distinte sotto-fattispecie: prima manifestazione all'esterno del sodalizio; luogo di consumazione delle prime condotte criminose), e osserva che la Corte di cassazione si è ormai assestata sul secondo criterio (il luogo dove pur a prescindere da quello ove il pactum sceleris sia stato siglato - ha sede la base dove si svolgono, con continuità e prevalenza, ideazione e programmazione dell'attività delittuosa). Rileva, inoltre, che sempre secondo l'indirizzo della Suprema Corte, quando è impossibile determinare la competenza nei modi anzidetti, si deve fare riferimento alle regole suppletive di cui all'art. 9 c.p.p., fermo restando che, in caso di reati connessi, per stabilire la competenza per territorio, occorre applicare anzitutto i criteri di cui all'art. 8 c.p.p., in relazione al reato più grave, e, in via succedanea, al criterio di cui all'art. 9 c.p.p., comma 1; solo quando detti criteri si rivelino insufficienti, si potranno utilizzare con riferimento, però, al secondo reato più grave (e poi al terzo, e via dicendo). Infine, qualora per nessuno dei reati satellite sia possibile determinare la competenza, può farsi riferimento alle regole suppletive di cui all'art. 9 c.p.p., commi 2 e 3, in relazione al primo reato più grave (prescindendo, queste ultime, dal nesso tra luogo di commissione del reato e giudice naturale). In sostanza, conclude, per individuare la competenza del reato associativo, ove non si riesca ad accertare dove è iniziata la permanenza, fruendo delle regole espresse dai tre anzidetti orientamenti giurisprudenziali, bisognerà guardare, in primis, all'ultimo luogo ove è stata compiuta una parte dell'azione od omissione (art. 9 c.p.p., comma 1) e solo in via subordinata si potranno utilizzare i criteri di cui all'art. 9, commi 2 e 3, codice di rito (sempre che non vi siano più reati avvinti dal vincolo della connessione).
In corretta applicazione di questi principi, violati dai giudici di merito, la base della asserita associazione criminosa coincideva con la sede effettiva dello studio RO.MI, dove operava il commercialista C.R., presunto promotore ed organizzatore dell'associazione. In quel luogo, infatti, come emerge anche dal capo di imputazione, non solo avevano la sede legale o effettiva la maggior parte delle società poi,in ipotesi) utilizzate per la commissione dei reati-fine (nella specie, RAM SERVICE s.r.l., C.M.R. piccola soc. coop., GENERAL SOCIETY s.r.l., GE.A.S. s.r.l., ISS.NET Soc. Coop e VARCAR GROUP), ma aveva sede la struttura che - sempre secondo la prospettazione accusatoria - avrebbe agito concretamente. Stando alla rubrica, l'associazione per delinquere era nata nel 2008, quando lo studio RO.MI si era, da oltre un anno, già trasferito da Milano e Crema. Non rileva che alcune società avessero mantenuto la sede legale a Milano (SETH, MACRI e D&D) posto che si trattava di strumenti fittizi, predisposti e concretamente impiegati dagli imputati per la commissione di reati tributari, non contando la sede legale e formale, evidentemente, ma il luogo dove le società sono state utilizzate per i fini illeciti ipotizzati dalla Pubblica Accusa. Quindi, una volta ancora, Crema, presso la sede dello studio RO.MI, dove si radica la base ove sarebbero avvenute ideazione e programmazione dell'attività criminosa. E' lo stesso Tribunale, afferma, ad attestare l'incertezza del criterio utilizzato: la sede di costituzione dell'associazione; incertezza però non fugata dal Giudice e che imponeva il ricorso ai criteri succedanei stabiliti dall'art. 9 c.p.p., comma 1. Trattandosi di reato permanente doveva aversi riguardo all'ultimo luogo dove si era svolta una parte dell'azione od omissione: quindi, ancora una volta, Crema, sede dello studio RO.MI.
Infine, sia in fase di indagini preliminari che nel corso del dibattimento, non è mai emerso alcun altro luogo, oltre Crema, dove tutte le contestate attività associative sarebbero state commesse. Gli operanti di PG hanno dichiarato di non aver mai visto nessuno degli indagati nel territorio milanese e di aver effettuato unicamente accessi presso il territorio di Crema. La testimone C., dipendete dello studio RO. MI, aveva dichiarato che lo studio aveva trasferito la propria sede a Crema, a far tempo dall'anno 2007, un anno prima dell'inizio della presunta associazione. Anche il testimone C., imputato in reato connesso, aveva confermato che l'attività delle società indicate nella rubrica si era concretizzata a Crema, dove venivano sottoscritti i vari contratti con clienti e fornitori.
5.2. Con il secondo motivo deduce il vizio di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla valutazione delle testimonianze di C., C., V.M. e V.F. e, di conseguenza, al proprio ruolo di mero consulente, depositario delle scritture contabili e addetto al disbrigo degli adempimenti amministrativo-burocratici.
In estrema sintesi, deduce che la cessione della GE.A.S. S.r.l., la creazione della HR Consulting and Promotion, la possibilità per quest'ultima di avvalersi delle società clienti dello studio RO.MI quali nuovi contatti per ampliare i propri affari siano state pensate e volute dai diretti artefici, C. e C. che, soli, ne hanno anche tratto vantaggio. La predisposizione e lo scambio dei contratti, lungi dal far capo al ricorrente ed ai suoi dipendenti, avveniva a cura dei singoli amministratori con cui lo stesso C. provvedeva alla consegna della relativa documentazione. Anche per il C., A.B. è una conoscenza di C. avvenuta su di un cantiere e non un soggetto interposto nell'operazione dall'imputato o dal suo studio. Tutto ciò è confermato dalle deposizioni rese all'udienza del 19/04/2018 da molti imprenditori che negli anni in contestazione avevano intrattenuto rapporti lavorativi con la GE.A.S. S.r.l. e che hanno riferito di aver avuto a che fare per essa sempre e soltanto con i Sig.ri C. e C., e ciò anche in epoca successiva alla cessione delle quote in favore di A.B., nonché di non aver mai conosciuto il Sig. C., lo studio RO.MI ed i dipendenti di esso.
Quanto alle testimonianze dei sigg.ri V.M. e F., padre e figlio, titolari rispettivamente delle ditte Project Edil e Steel Color, che avevano disconosciuto le fatture emesse da ISS. NET Soc. Coop., escludendo di essersi mai avvalsi di prestazioni da parte di queste società e di aver effettuato i relativi pagamenti, deduce che la compiuta disamina delle altre prove assunte nel dibattimento induce invero a dissentire da una siffatta prospettazione e a ridimensionare grandemente la portata da attribuire alla deposizione de qua, smentita nel merito e nei contenuti da ben altri testi. Il riferimento, in particolare, è alle testimonianze rese all'udienza del 19/04/2018 dagli stessi imprenditori sopra indicati che avevano avuto rapporti commerciali effettivi con ISS. NET Soc. Coop, che non poteva certo essere intesa come una società cartiera. Si aggiunga che C.V., sentita all'udienza del 29/10/2018, aveva riferito che per le società Project Edil e Steel Color lo studio RO.MI si era limitato ad un'attività meramente essenziale, seguita da lei stessa.
In conclusione, la Corte di appello, condividendo il ragionamento del Tribunale, ha ritenuto che le dichiarazioni di C.M. e C.E., persone imputate in procedimento connesso o comunque probatoriamente collegato, offrano riscontro e supporto alla ricostruzione operata dalla Guardia di Finanza circa l'effettiva sussistenza dei fatti ascritti all'imputato a proposito del ruolo ricoperto nella ritenuta struttura associativa. Il presupposto argomentativo fatto proprio dalla Corte di appello è viziato "ab origine" ove solo si consideri, afferma, che, in realtà, la vicenda GE.A.S. non può che essere considerata del tutto singolare ed essa finisce per smentire anziché confermare l'apodittico assunto a mente del quale lo studio RO.MI avrebbe avuto la direzione di fatto delle imprese, già proprie clienti o create "ad hoc", sì da perpetrare i reati tributari finalizzati all'evasione fiscale a vantaggio delle stesse. Il Giudicante è addivenuto ad un siffatto convincimento valorizzando solo alcuni tratti della deposizione del teste C., operando rispetto ad essa una valutazione selettiva e segmentata che finisce per indurre ad una conoscenza solo parziale ed errata nei contenuti.
5.3.Con il terzo motivo deduce l'erronea applicazione della legge penale con riferimento alla natura dei reati tributari contestati quali fattispecie a più norme alternative e conseguente violazione della disciplina del reato continuato e della prescrizione. Afferma che i reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2 e 5, sono fattispecie a più norme integrative con la conseguenza che per la loro configurabilità è sufficiente la commissione anche solo di una tra le plurime condotte previste con riferimento alle dichiarazioni relative alle imposte dirette o all'IVA. Ne consegue che qualora, rispetto all'anno di imposta, siano omesse una o entrambe le dichiarazioni ai fini delle imposte dirette e dell'IVA, il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, sarà sempre unico, risultando identico il bene giuridico leso (l'interesse dell'Erario) e sussistendo la contestualità temporale (riferendosi entrambe le dichiarazioni al medesimo anno di imposta) con conseguente inapplicabilità del regime della continuazione c.d. interna. Le medesime conclusioni valgono per D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, risultando la previsione normativa, per quanto qui rileva, del tutto sovrapponibile a quella dell'art. 5, cit. Non poteva, dunque, essere applicata la continuazione interna ai fatti rubricati ai capi 5 e 7 relativi alla omessa presentazione di dichiarazioni annuali relative alle imposte IRES e IVA per lo stesso anno di imposta. Il capo di imputazione 5) riguarda quattro anni di imposta, con consumazione indicata, rispettivamente, al (OMISSIS). Ciononostante, la Corte di appello ha aumentato, per la continuazione interna, la pena con riferimento a tre reati satelliti, con un incremento, complessivo, della pena di mesi sei di reclusione. Ne deriva che la Corte, da un lato, ha erroneamente aumentato la pena, assumendo che il reato in esame integrasse più reati, quante sono le dichiarazioni omesse, dall'altro ha comunque disposto l'aumento della pena anche con riguardo al reato di omessa dichiarazione, relativa all'anno di imposta 2008, che era già estinto per prescrizione. Con riferimento al capo 7 la Corte territoriale ha applicato due aumenti pari a quattro mesi di reclusione, di cui uno a titolo di continuazione interna per le dichiarazioni dell'anno di imposta 2010. Infine, deduce che il reato più grave, sul quale parametrare la pena base, non è quello rubricato al capo 5, che ha ad oggetto il delitto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, bensì quello di cui al capo 19, che ha ad oggetto D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2. Infatti, la pena per il reato di omessa dichiarazione, per fatti commessi prima del 2015, era compresa da uno a tre anni di reclusione; mentre la pena per il reato di dichiarazione fraudolenta era compresa da un anno e sei mesi a sei anni di reclusione.
5.4.Con il quarto motivo deduce l'erronea applicazione dell'art. 133 c.p., nonché il vizio di motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio. Diversamente da quanto afferma la Corte di appello, la pena del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, vigente "ratione temporis" era compresa nella forbice edittale da uno a tre anni di reclusione, sicché la pena di due anni di reclusione è tutt'altro che prossima al minimo con conseguente assertività e illogicità della motivazione che ha indicato una pena-base superiore dodici volte quella applicata a titolo di continuazione dal tribunale.
5.5. Con il quinto motivo deduce la mancata revoca della confisca per equivalente del profitto dei reati prescritti già dal primo grado, in particolare di quelli di cui ai capi 5, 7 e 19 in relazione alle annualità 2008 e 2009.
Motivi aggiunti:
5.1. Con il primo motivo aggiunto, che riprende il tema introdotto con il quarto motivo di ricorso introduttivo e prende le mosse dalla sopravvenuta Sez. U, n. 47127 del 2021, deduce l'erronea applicazione degli artt. 81 e 133 c.p. e il vizio motivazione mancante, illogica e contraddittoria. Osserva che non vi è motivazione alcuna in ordine ai singoli aumenti di pena, determinati nella misura di due mesi per ciascun reato satellite. La Corte, infatti, si è limitata a definire unicamente l'entità della pena, senza null'altro aggiungere o chiarire. Omissione tanto più rilevante, in quanto sussiste una palese sproporzione tra i fatti posti in continuazione: gli stessi, infatti, in parte identici e comunque tutti di natura omogenea (si tratta sempre di reati fiscali dichiarativi; D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5 per i capi 5 e 7, art. 2, D.Lgs. n. 74 del 2000 per il capo 19), sono stati puniti con pene radicalmente diverse: "modestissime", per i reati satellite, e oltremodo severa per il reato base, che è stato destinatario di una sanzione superiore al medio edittale. Il tutto si connota, poi, di un ulteriore profilo di irragionevolezza: la Corte milanese, infatti, individua il reato di cui al capo 5 come quello più grave, in quanto "contenente il maggior numero di condotte illecite poste in essere attraverso la società ISS NET", ragion per cui stabilisce, appunto, la pena di anni due di reclusione. Poi, però, applica l'aumento della continuazione interna per le restanti tre ipotesi sempre previste nel capo 5; con ciò, da un lato, duplicando, di fatto, l'entità della sanzione finale, che era stata comminata in misura così elevata, proprio per il numero delle condotte contemplate; dall'altro, mostrando una irragionevole disparità, in termini di proporzione, tra una delle quattro condotte contemplate nel capo 5), per la quale ha determinato la pena in misura superiore al medio edittale; e le rimanenti tre (sempre del capo 5), che, pur identiche, sono state però sanzionate in modo "modestissimo".
5.2.Con il secondo motivo aggiunto invoca la applicazione della continuazione tra i fatti oggetto di odierna regiudicanda e quelli oggetto della sentenza del 19/07/2021 del GIP del Tribunale di Milano divenuta irrevocabile dopo la proposizione del primo ricorso, segnalando il contrasto di giurisprudenza sulla possibilità di dedurre per la prima volta la questione in Corte di cassazione.
6. D.V.A.;
6.1. Con unico motivo deduce la violazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5 e dell'art. 521 c.p.p., nonché il vizio di omessa motivazione sul punto.
Quanto alla violazione della norma penale sostanziale afferma che la società da lui legalmente rappresentata (la SSI S.r.l.) era stata cancellata dal registro delle imprese il 31/05/2007 e che il 22/11/2007 era stato presentato il bilancio finale di liquidazione. Ne consegue che non esisteva alcun obbligo dichiarativo relativo all'anno di imposta 2010.
La circostanza affermata dalla Corte di appello per superare il rilievo (il transito sui conti del ricorrente di denaro riconducibile ai traffici illeciti della ROMI che, in ogni caso, costituirebbero redditi da lui non dichiarati) costituiscono violazione dell'art. 521 c.p.p. poiché oggetto di evasione è l'IRES, non l'IRPEF.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono inammissibili.
2. A.B..
2.1. L'imputato risponde del reato di cui agli artt. 81, cpv. e 110 c.p., D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, rubricato al capo 7 della rubrica, perché, nella sua qualità di legale rappresentante pro-tempore della società "GE.A.S. S.r.l.", agendo in concorso con il C., amministratore di fatto e reale gestore della medesima società, aveva omesso di presentare le dichiarazioni annuali ai fini dell'imposta sul reddito e sul valore aggiunto della predetta società relativamente all'anno di imposta 2010. Il fatto è contestato come commesso in (OMISSIS).
2.2. La deduzione difensiva di aver svolto un ruolo di mera "testa di legno", ignara di quanto il vero amministratore stesse facendo a sua insaputa, contrasta con quanto risulta dalla sentenza impugnata che descrive il ricorrente quale persona tutt'altro che estranea alla gestione societaria e niente affatto inconsapevole delle effettive intenzioni del concorrente.
2.3. Il ricorrente semplicemente neglige tale ricostruzione rendendo così generico il ricorso. Manca, infatti, una compiuta correlazione tra i vizi denunciati e le ragioni poste a fondamento dell'atto impugnato.
2.4. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, in tema di inammissibilità del ricorso per cassazione, i motivi devono ritenersi generici non solo quando risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (Cass., Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013 Rv. 255568); cosicché è inammissibile il ricorso per cassazione quando manchi l'indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'atto d'impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 2, n. 19951 del 15/05/2008 Rv. 240109). Ai fini della validità del ricorso per cassazione non e', perciò, sufficiente che il ricorso consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate e i limiti dell'impugnazione, ma è altresì necessario che le ragioni sulle quali esso si fonda siano esposte con sufficiente grado di specificità e che siano correlate con la motivazione della sentenza impugnata; con la conseguenza che se, da un lato, il grado di specificità dei motivi non può essere stabilito in via generale ed assoluta, dall'altro, esso esige pur sempre - a pena di inammissibilità del ricorso - che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle del ricorrente, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime. E' quindi onere del ricorrente, nel chiedere l'annullamento del provvedimento impugnato, prendere in considerazione gli argomenti svolti dal giudice di merito e sottoporli a critica, nei limiti - s'intende - delle censure di legittimità (così, in motivazione, Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014).
2.5. Va in ogni caso ricordato che, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, l'amministratore di diritto risponde del reato tributario punito a titolo di dolo specifico quale diretto destinatario degli obblighi di legge, anche se questi sia mero prestanome di altri soggetti che abbiano agito quali amministratori di fatto, atteso che la semplice accettazione della carica attribuisce allo stesso doveri di vigilanza e controllo, il cui mancato rispetto comporta responsabilità penale o a titolo di dolo generico, per la consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato, o a titolo di dolo eventuale per la semplice accettazione del rischio che questi si verifichino (Sez. F, n. 42897 del 09/08/2018, Rv. 273939; Sez. 3, n. 7770 del 05/12/2013, dep. 2014, Rv. 258850; cfr., altresì, Sez. 5, n. 50348 del 22/10/2014, Serpetti, Rv. 263225).
2.6. Nel caso di specie, però, si tratta di obblighi dichiarativi gravanti direttamente ed immediatamente sul legale rappresentante dell'ente secondo quanto dispongono D.P.R. n. 322 del 1988, art. 1, comma 4 e art. 8, comma 6, a mente dei quali le dichiarazioni relative alle imposte dirette e sul valore aggiunto dei soggetti diversi dalle persone fisiche devono essere sottoscritte da chi ne ha la legale rappresentanza e solo in assenza di questi da chi ne ha l'amministrazione, anche di fatto. La responsabilità omissiva del legale rappresentante dell'ente, dunque, non deriva dall'applicazione dell'art. 40 cpv. c.p. (e dunque dalla violazione di un dovere di controllo), bensì dalla violazione dell'obbligo gravante direttamente su di lui, obbligo che concorre a tipizzare la fattispecie di reato di omessa dichiarazione di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, selezionandone l'autore e qualificando il reato stesso come a "soggettività ristretta" che può essere commesso solo da chi sia obbligato, per legge, a presentare la dichiarazione.
3. B.;
3.1. Anche il B. risponde del reato di cui agli artt. 81, cpv. e 110 c.p., D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, rubricato al capo 5 della rubrica, perché, nella sua qualità di legale rappresentante pro-tempore della società "ISS NET Soc. Coop", agendo in concorso con il C., amministratore di fatto e reale gestore della medesima società, aveva omesso di presentare le dichiarazioni annuali ai fini dell'imposta sul reddito e sul valore aggiunto della predetta società relativamente agli anni di imposta 2010 e 2011. Il fatto è contestato come commesso in (OMISSIS).
3.2. La manifesta infondatezza del primo motivo di ricorso deriva dalle considerazioni svolte in sede di esame del ricorso dell' A. (p.p. 2.6-2.7) contro le quali si infrange la deduzione difensiva d'esser stata la condanna fondata sull'inaccettabile postulazione del principio: "non poteva non sapere". Non è in gioco la mera omissione dei doveri di controllo bensì, come detto, l'inescusabile violazione pluriennale di un obbligo dichiarativo strumentale alla corretta esecuzione dell'obbligazione tributaria derivante dall'assunzione della carica di rappresentante legale dell'ente. Non può il rappresentante legale dell'ente, personalmente tenuto all'adempimento tributario, dedurre l'ignoranza dell'imposta dovuta e del superamento della soglia di punibilità poiché una simile allegazione si traduce non in un errore sul fatto bensì in un errore di diritto, come tale inescusabile. Vieppiù, che nel caso di specie non si tratterebbe nemmeno di scomodare la categoria del dolo eventuale, posto che la totale indifferenza alle sorti (e alla gestione) dell'azienda, legalmente rappresentata per anni, più che l'accettazione del rischio manifesta un atteggiamento di piena e consapevole adesione all'altrui disegno illecito.
3.3. La predilezione dei precedenti specifici ritenuti ostativi alla applicazione delle circostanze attenuanti generiche (secondo motivo) pone una barriera tra il giudice di merito e quello di legittimità che impedisce a quest'ultimo di interloquire con il primo sul modo cui ha esercitato la discrezionalità che il legislatore gli affida.
3.4. La manifesta infondatezza del terzo motivo deriva dalla mera constatazione che la confisca per equivalente costituisce la risposta sanzionatoria dell'ordinamento al mancato reperimento del profitto, sicché sostenerne l'illegittimità per non aver conseguito alcun profitto costituisce una contraddizione in termini che non ha la forza (logica e giuridica) di conseguire il risultato sperato (l'annullamento della sentenza "in parte quà).
C.;
4. Il C. risponde, quale gestore di fatto, dei reati di cui ai capi 5 e 7, in concorso, rispettivamente, con il B. e l' A., e del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, di cui al capo 19, perché, nella sua qualità di amministratore di fatto della società "C.M.R. piccola soc. coop. a d.", legalmente rappresentata da persona nel frattempo deceduta, al fine di evadere le imposte sui redditi, nella dichiarazione relativa all'anno di imposta 2010 aveva indicato elementi passivi fittizi avvalendosi di fatture per operazioni inesistenti emesse da società a lui riconducibili. Il fatto è contestato come commesso in (OMISSIS).
4.1. L'eccezione di incompetenza del Tribunale di Milano si nutre di inammissibili deduzioni fattuali e di una non consentita inversione di giudizio.
4.2. Il giudice dell'impugnazione, a cui sia stata ritualmente devoluta la questione della competenza territoriale, deve operare il controllo con valutazione "ex ante", riferita cioè alle emergenze cristallizzate in sede di udienza preliminare o, in mancanza di questa, a quelle acquisite non oltre il termine di cui all'art. 491 c.p.p., comma 1, in quanto, trattandosi di verifica su una questione preliminare, prescinde dagli esiti dell'istruttoria dibattimentale (Sez. 2, n. 14557 del 04/03/2021, Rv. 281067 - 01; Sez. 2, n. 4876 del 30/11/2016, dep. 2017, Rv. 269212 - 01; Sez. 6, n. 49754 del 21/11/2012, Rv. 254100 - 01; Sez. 6, n. 33435 del 04/05/2006, Rv. 234348 - 01).
4.3. L'intero, articolato primo motivo di ricorso dà per scontata la possibilità di sovrapporre, sul piano logico e giuridico, la verifica sulla correttezza formale della domanda di processo con la verifica sulla correttezza sostanziale dell'oggetto della pretesa che quella domanda propone, utilizzando, oltremodo, elementi fattuali di giudizio che non possono essere dedotti in questa sede di legittimità. L'azione ha investito il Tribunale di Milano in virtù della ipotizzata esistenza di un'associazione per delinquere radicata in Milano e Crema (così il capo 1 della rubrica), associazione che ha gemmato plurimi reati-fine anch'essi consumati tra le due città. Nell'ambivalenza del dato formale legato alla prospettazione, appunto, della domanda, le note sostanzialistiche introdotte dal ricorrente sembrano piuttosto sollecitare un giudizio "ex post", sulla fondatezza della regiudicanda che è estraneo alla verifica su chi fosse competente a pronunciarsi su di essa.
4.4. In ogni caso, l'affermazione della Corte di appello, per la quale la sede operativa e decisionale l'associazione era radicata in Milano ("era dunque in Milano che, appunto, avevano luogo e si consumavano le molteplici attività illecite formalmente concretanti la frode fiscale in esame e sempre in Milano aveva sede formale e fiscale, per scelta del promotore dell'associazione stessa, lo studio commercialistico che rappresentava il fulcro intorno al quale ruotava ogni illegalità commessa dagli associati (in particolare dal C.), ma anche dai diversi soggetti non associati (in particolare dal B., A.B. e D.V.), che pure avevano sede legale in Milano, i quali per quanto qui soprattutto interessa profittavano della copertura fornita dallo studio commercialistico ROMI e risultavano evasori totali nel periodo in contestazione", pag. 18), non è di certo sovvertibile dalle avverse deduzioni fattuali difensive secondo le quali la sede operativa doveva identificarsi in Crema, città nella quale il ricorrente aveva trasferito lo studio.
4.5. L'intero secondo motivo sollecita un'indagine extra-testuale della motivazione non consentita in sede di legittimità se non nei (limitati) casi di travisamento della prova (vizio qui non dedotto). Devono, al riguardo, essere ribaditi i principi più volte affermati da questa Corte secondo i quali: a) l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato - per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali; esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione e', in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/2017, Dessimone, Rv. 207944 - 01); b) la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione devono risultare dal testo del provvedimento impugnato, sicché dedurre tale vizio in sede di legittimità significa dimostrare che il testo del provvedimento è manifestamente carente di motivazione e/o di logica, e non già opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica (Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205621), sicché una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si prestavano a una diversa lettura o interpretazione, munite di eguale crisma di logicità (Sez. U, n. 30 del 27/09/1995, Mannino, Rv. 202903).
4.6. Il terzo motivo è manifestamente infondato.
4.7. D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2 e 5, puniscono, rispettivamente, la indicazione in "una delle dichiarazioni" (art. 2) e l'omessa presentazione di "una delle dichiarazioni" (art. 5) relative alle imposte sui redditi e/o sul valore aggiunto.
4.8. Le dichiarazioni in materia di imposte sui redditi e quelle in materia di imposta sul valore aggiunto sono separatamente disciplinate: le prime sono previste dal D.P.R. n. 22 luglio 1998, n. 322, art. 1, e devono essere presentate nei termini stabiliti dallo stesso D.P.R. art. 2; le seconde sono disciplinate dal D.P.R. n. 322 del 1998, art. 8, che prevede termini di presentazione diversi. La diversità dell'oggetto ("una delle dichiarazioni") e dell'imposta che l'agente intende evadere (sui redditi o sul valore aggiunto) rende le condotte ontologicamente diverse tra loro. Ne' D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, né gli artt. da 2 a 4 dello stesso decreto tipizzano condotte alternative di realizzazione di un medesimo reato dichiarativo (artt. 2-4) o omissivo (art. 5), non nel senso voluto dal ricorrente.
4.9. Vero è che l'intero D.Lgs. n. 74 del 2000 codifica condotte ciascuna potenzialmente idonea a ledere, da angolazioni diverse, il medesimo ed unico bene giuridico individuato nel dovere di ciascuno di concorrere alle spese pubbliche (e di garantire, conseguentemente, il flusso di beni necessario a farvi fronte). Da questo punto di vista, non diversamente dagli altri reati, anche quello di cui all'art. 5, cit., individua uno dei modi tipici e preselezionati di aggressione al bene tutelato, nella sua unitarietà, dall'intero impianto sanzionatorio disegnato dal D.Lgs. n. 74 n. 2000, il dovere, cioè, di concorrere alle spese pubbliche ognuno secondo le proprie capacità (art. 53 Cost.).
4.10. Ma ciò non equivale ad escludere la diversità materiale delle condotte aggressive quando volte a evadere imposte diverse mediante dichiarazioni diverse ovvero mediante la violazione dell'obbligo di presentare entrambe le dichiarazioni. Le norme a più fattispecie alternative si caratterizzano per il fatto che le condotte da esse previste hanno sempre ad oggetto il medesimo bene materiale: l'indifferenza penalistica dell'una condotta rispetto all'altra presuppone sempre l'identità dell'oggetto materiale della condotta. Nel caso dei reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. da 2 a 5, la condotta tipica è costituita dalla presentazione (o dall'omessa presentazione) di "una delle dichiarazioni" che riguarda la specifica imposta evasa dovuta dallo specifico contribuente. Esiste, dunque, una corrispondenza stretta tra "dichiarazione" e "imposta" che osta alla penale indifferenza dell'una condotta rispetto all'altra che si traduce, nell'intenzione del ricorrente, in un'equivalenza delle condotte smentita, come detto, dalla diversità dell'oggetto. Il fatto, dunque, che l'omessa presentazione (o la presentazione) di una delle due dichiarazioni perfezioni il delitto non rende l'omessa presentazione (o la presentazione) dell'altra un "post-factum" non punibile.
4.11. Correttamente, pertanto, la Corte di appello ha applicato al ricorrente la continuazione interna ai reati omissivi relativi al medesimo anno di imposta e a entrambe le imposte evase. Poiché, in relazione al reato di cui al capo 5 (ritenuto il reato più grave; infra, p. 4.12), le residue annualità di imposta interessate sono due (2010 e 2011), la Corte di appello ha applicato tre aumenti a titolo di continuazione "interna" sulla pena-base; allo stesso modo, per il capo 7, relativo ad un solo anno di imposta, sono stati correttamente applicati due aumenti a titolo di continuazione in relazione a ciascuna imposta evasa; con riferimento al capo 19 è stato applicato un solo aumento di pena a titolo di continuazione in considerazione dell'unica dichiarazione presentata per l'anno di imposta 2010. Alcuna pena, inoltre, è stata applicata per il reato di omessa dichiarazione relativo all'anno di imposta 2008 (pag. 16 della sentenza impugnata).
4.12. Ne' il ricorrente ha un concreto interesse a dolersi del fatto che il reato più grave utilizzato per il calcolo della pena-base sia stato ritenuto quello di cui al capo 5 della rubrica (D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5) piuttosto che quello di cui al capo 19 (D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2). Indubbiamente il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, all'epoca dei fatti ((OMISSIS)) era punito con pena edittale più elevata nel massimo e nel minimo; tuttavia, la Corte di appello ha correttamente applicato una pena base (due anni di reclusione) non inferiore al minimo edittale (un anno e sei mesi di reclusione) del reato (erroneamente) considerato meno grave (Sez. U, n. 25939 del 28/02/2013, Ciabotti, Rv. 255348 - 01; Sez. U, n. 15 del 26/11/1997, dep. 1998, Varnelli, Rv. 209487 - 01; Sez. 3, n. 18099 del 15/11/2019, dep. 2020, Rv. 279275 - 01). Ne consegue che, oltre a non aver alcun interesse ad emendare l'errore, l'errore stesso si è rivelato ininfluente.
4.13. Le considerazioni che precedono privano di sostanza il quarto motivo.
4.14. Il ricorrente, infine, è stato assolto in appello dal solo reato di cui al capo 1 (art. 416 c.p.). La condanna per i reati tributari contestati ai capi 5, 7 e 19 è rimasta ferma negli stessi termini indicati dal Tribunale, sicché non si comprende perché la Corte di appello avrebbe dovuto ridurre l'entità della somma soggetta a confisca obbligatoria.
4.15. L'inammissibilità del ricorso osta all'esame dei motivi aggiunti, non essendo stata applicata al ricorrente una pena illegale.
D.V.;
5. Il ricorrente risponde del reato di al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, rubricato al capo 10 della rubrica, perché, quale legale rappresentante della società "S.S.I. Safety and Securety International s.r.l.", aveva omesso di presentare le dichiarazioni obbligatorie ai fini IRES per l'anno 2010. Il fatto è contestato come commesso in (OMISSIS).
5.1. La tesi difensiva secondo la quale la cancellazione della società dal registro delle imprese e la presentazione del bilancio di liquidazione fanno venir meno l'obbligo dichiarativo di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, è totalmente infondata finendo per legittimare la prosecuzione "in nero" dell'attività di impresa con conseguente sottrazione di ricavi ed elementi attivi all'imposizione diretta o sul valore aggiunto. Ai fini dell'integrazione del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, infatti, rileva l'esercizio effettivo dell'attività di impresa che genera redditi imponibili, potendosi evincere il fine di evasione proprio dalla mancata iscrizione nel registro dell'imprese ovvero dalla prosecuzione dell'attività nonostante la cancellazione. La fattispecie penale deve essere interpretata in base ad un criterio di effettività che, del resto, non è estraneo alla giurisprudenza delle sezioni civili di questa Corte (cfr., in tal senso, Cass. civ., Sez. 1, n. 4455 del 28/03/2001, Rv. 545232 - 01, secondo cui ai fini della decorrenza del termine annuale dalla cessazione dell'attività, entro il quale, ai sensi della L.Fall., art. 10, può essere dichiarato il fallimento dell'imprenditore, il principio della effettività, alla cui stregua l'acquisizione della qualità di imprenditore commerciale è indissolubilmente collegata, al di là di ogni elemento nominalistico e formale, al concreto esercizio dell'attività di impresa, anche la dismissione di tale qualità - per quanto attiene all'imprenditore individuale, diversi criteri essendo accolti per le società - deve intendersi correlata al mancato compimento, nel periodo di riferimento, di operazioni intrinsecamente corrispondenti a quelle poste normalmente in essere nell'esercizio dell'impresa, ed il relativo apprezzamento compiuto dal giudice del merito, se sorretto da sufficiente e congrua motivazione, si sottrae al sindacato in sede di legittimità; nello stesso senso, Cass. civ., Sez. 6-1, n. 10139 del 27/04/2018, Rv. 649103 01; Sez. 6-1, n. 16107 del 14/07/2014, Rv. 632088 - 01).
La questione posta dal ricorrente ha dunque natura inammissibilmente fattuale e rivalutativa degli elementi di prova in base ai quali i Giudici di merito hanno ritenuto di ricondurre all'attività della (cancellata) società i flussi di denaro transitati sui conti correnti personali del D.V..
Peraltro, non è affatto vero che il ricorrente è stato condannato per un fatto diverso da quello a lui contestato, avendo la Corte di appello affermato soltanto che, al più, egli avrebbe dovuto dichiarare tali somme ai fini dell'imposta sul reddito delle persone fisiche. Non avendolo egli fatto, l'argomento corrobora, sul piano logico, la conclusione della non riferibilità di tali somme all'imputato-persona fisica, bensì alla società (schermo) da lui legalmente rappresentata.
5. Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi (che osta alla rilevazione della prescrizione maturata dopo la sentenza impugnata) consegue, ex art. 616 c.p.p., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa dei ricorrenti (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l'onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di Euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 16 marzo 2022.
Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2022