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Il teste ritratta in aula: Le dichiarazioni predibattimentali contestate non sono utilizzabili.

La massima

La corte di appello di Lecce, in tema di contestazioni ex art. 500 c.p.p., ha affermato che le dichiarazioni predibattimentali utilizzate per le contestazioni al testimone possono essere valutate come dichiarazioni rese direttamente dal medesimo in sede dibattimentale solo se siano state successivamente confermate, tali dichiarazioni possono essere valutate solo ai fini della credibilità, ma mai come elemento di riscontro o come prova dei fatti in esse narrati, neppure quando il dichiarante, nel ritrattarle in dibattimento asserendone la falsità, riconosca di averle rese.


La sentenza

Svolgimento del processo

Con sentenza del Tribunale di Lecce del 30.6.2017, Ma. Om. veniva ritenuto colpevole dell'imputazione ascritta e veniva condannato alla pena di anni tre di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali. Veniva ordinata la trasmissione degli atti al p.m. per le valutazioni di competenza in ordine alle deposizioni testimoniali di St. Fr., Ca. Al., e Na. An.


Avverso la citata sentenza ha proposto tempestivo appello il difensore dell'imputato, censurando la pronuncia sulla base dei motivi che di seguito si andranno sinteticamente ad esporre.


All'udienza del 15.11.2021, assente l'imputato per rinuncia, detenuto per altra causa, le parti, dopo la discussione, concludevano come in epigrafe riportato.


Motivi della decisione

1. I motivi di appello.


1.1. Con il primo motivo di appello si sostiene l'insussistenza del delitto di cui all'art. 337 c.p. il teste ass. capo di polizia penitenziaria Ma. An. riferiva che il Ma. usciva fuori dalla cella approfittando del momento in cui il cancello era aperto per consentire al detenuto St. di tornare in cella, in buona sostanza non vi era da parte dell'imputato alcuna condotta oppositiva all'attività del pubblico ufficiale; il cancello era già aperto e il Ma. lo avrebbe solo accompagnato per ampliare l'uscita, ma non usando violenza.


1.2. Con il secondo motivo di impugnazione si sostiene l'insussistenza del delitto di cui all'art. 610 c.p. Il primo giudice avrebbe semplicemente supposto che il Ma. avesse minacciato i detenuti Ca. e Na. per costringerli a presentare istanza di cambio di cella, e ciò faceva reputando inattendibili i testi escussi, in particolare proprio il Na., il Ca. e anche lo St., che si limitava a riferire di non ricordare nulla dell'accaduto. Al contrario, i citati testi chiarivano in dibattimento di avere chiesto spontaneamente il cambio di cella e di non avere ricevuto alcuna minaccia dall'imputato.


1.3. Con il terzo motivo di doglianza si lamenta il mancato riconoscimento della continuazione tra i due reati. Invero, se si ritiene sussistente la violenza privata, nel senso della minaccia rivolta dal Ma. nei confronti del Na. e del Ca. per costringerli al cambio di cella, non può non ravvisarsi la continuazione con il reato di resistenza a pubblico ufficiale commesso proprio al fine di usare violenza nei riguardi del Na. sempre al fine di costringerlo al cambio di cella.


1.4. Con l'ultimo motivo di appello si chiede la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale al fine di disporre perizia finalizzata a verificare la sussistenza di patologie in grado di incidere sulla capacità di intendere c/o di volere del Ma. al momento del fatto.


2. La decisione.


2.1. Nel giudizio di appello è consentita la motivazione "per relationem" alla pronuncia di primo grado, nel caso in cui le censure formulate dall'appellante non contengano elementi di novità rispetto a quelle già condivisibilmente esaminate e disattese dalla sentenza richiamata (Cass. pen. sez. II, 19.3.2013. n. 30838). Invero, le sentenze di primo grado e di secondo grado si saldano tra loro e formano un unico complesso motivazionale, qualora i giudici di appello abbiano esaminato le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli usati dai primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai fondamentali passaggi logico-giuridici della decisione e, a maggior ragione, quando i motivi di gravame non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione impugnata (Cass. pen. sez. III, 1.12.2011, n. 13926). Peraltro, questo tipo di motivazione della sentenza di appello non è contraria neppure alla CEDU). Invero, secondo la Corte europea dei diritti dell'uomo (vedi da ultimo Corte EDU, sez. I, 6.2.2020. Felloni c. Italia, par.par. 24-26), sebbene i giudici non possano essere tenuti a motivare il rigetto di ogni argomentazione addotta da una parte (Corte EDU 9.12.1994, Ruiz Torija c. Spagna, par. 29), essi non sono tuttavia dispensati dal dover esaminare debitamente i principali motivi di ricorso che quest'ultima deduce e dal rispondervi (si veda, Corte EDU, grande camera, 11.7.2017, Moreira Ferreira c. Portogallo, par. 84). Inoltre, la Corte sottolinea che la motivazione è finalizzata soprattutto a dimostrare alle parti che sono state ascoltate e, quindi, a contribuire ad una migliore accettazione della decisione (si veda, mutatis mutandis. Corte EDU, glande camera, 16.11.2010, Taxquet c. Belgio, par. 91). Pertanto, nel respingere un ricorso, la giurisdizione d'appello può, in linea di principio, limitarsi a fare propri i motivi della decisione impugnata (Corte EDU, grande camera, Garcia Ruiz c. Spagna, par. 26). Tuttavia, il concetto di processo equo richiede che una giurisdizione che abbia dato solo una breve motivazione alla sua decisione, incorporando le motivazioni fornite da una giurisdizione di grado inferiore o in altro modo, abbia effettivamente esaminato le questioni essenziali che le sono state sottoposte (Corte EDU, 19.12.1997, Helle c. Finlandia, par. 60 e Corte EDU, 15.2.2007, Boldea c. Romania, par. 30).


2.2. Ciò detto, va innanzitutto rigettata la richiesta di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale formulata con l'ultimo motivo di appello. Invero, dalla documentazione prodotta non emerge alcuna grave patologia al livello psichiatrico tale da generare dubbi in ordine alla capacità di intendere e/o di volere del Ma. al momento dei fatti, il quale, fra l'altro, sentito in dibattimento, ha dimostrato di ricordare bene l'episodio, fornendo giustificazione della sua condotta.


2.3. Passando al merito, il primo motivo di appello non è fondato.


Invero, dalla testimonianza dell'ass. capo di polizia penitenziaria Ma. An. emerge chiaramente che, nel tardo pomeriggio del (omissis), in un reparto in cui non era attiva la c.d. modalità delle celle aperte, mentre stava rientrando in cella il detenuto St. Fr., sicché il cancello della cella era aperto, il detenuto Ma., che si trovava già nella cella, spingeva con forza il cancello, aprendolo del tutto, in tale modo opponendosi all'azione del Ma., che, invece, stava chiudendo il cancello, riuscendo a guadagnare l'uscita, e aggrediva fisicamente un altro detenuto che stava rientrando in quel momento in reparto, e cioè Na. An., colpendolo con un pugno. Il Ma. riusciva a raggiungere l'imputato e a riportarlo in cella.


Dunque, sulla base della chiara testimonianza del teste qualificato, l'azione dell'appellante non può qualificarsi di mera resistenza passiva, né può essere ridotta a mera pressione sul cancello per consentirne un'apertura maggiore. Il Ma. è stato molto chiaro nel descrivere quei concitati momenti: dopo che lo St. era entrato nella cella e. quindi, il Ma. stava per chiudere il cancello, il Ma., che era all'interno della cella, si opponeva con la forza al movimento di chiusura dello stesso, aprendolo e uscendo dalla cella, in un momento in cui tale uscita non era consentita, al fine di aggredire il detenuto Na.. Come è noto, a concretare il reato di resistenza a pubblico ufficiale non è necessario che la violenza o la minaccia sia usata sulla persona del pubblico ufficiale, ma soltanto che sia stata posta in essere per opporsi allo stesso nel compimento di un atto di ufficio. Pertanto è sufficiente anche la mera violenza sulle cose, quando sia indirizzata a turbare, ostacolare o frustrare il compimento dell'atto di ufficio (Cass. pen. sez. VI, 29.9.1997, n. 3682).


Su tali basi, va confermata l'affermazione di penale respo