La massima
In tema di riciclaggio, è legittima la confisca ai sensi dell' art. 648-quater c.p. dell'intero complesso aziendale di una società, qualora sia riscontrabile una inestricabile commistione e contaminazione tra attività lecite ed illecite svolte dalla società che non può non ripercuotersi a danno dell'imputato titolare della stessa (Cassazione penale , sez. II , 24/11/2020 , n. 9102).
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La sentenza integrale
Cassazione penale , sez. II , 24/11/2020 , n. 9102
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di Appello di Torino, con sentenza del 24/04/2019, pronunziando sulle impugnazioni avverso la sentenza emessa in data 04/12/2017 dal G.U.P. del Tribunale di Torino all'esito di giudizio abbreviato, confermava detta pronunzia nella parte in cui B.M., C.R., G.G., G.d.B. e V.C.M., L.E. e T.D. erano stati condannati alla pena ritenuta di giustizia per i reati di ricettazione loro contestati; in parziale riforma della sentenza di primo grado riqualificava i fatti di cui all'art. 648 ter c.p., contestati ad A.F. e M.L. nella violazione dell'art. 648 bis c.p., confermando il trattamento sanzionatorio nonché i provvedimenti di confisca adottati nei confronti degli imputati da ultimo indicati.
1.1. I giudici territoriali ritenevano dimostrate, sulla scorta delle complessive emergenze processuali, le condotte di ricettazione di B.M., C.R., G.G., G.d.B. e V.C.M., L.E. e T.D. i quali, in una o più occasioni, avevano fornito oggetti preziosi nella loro disponibilità di provenienza illecita ad un gruppo facente capo al coimputato C.G. (nei cui confronti la sentenza risulta passata in giudicato), ed ad altri soggetti fra cui A.F. e M.L. che, acquisiti gli oggetti preziosi in questione, ne impedivano l'identificazione sia fondendoli in modo da ottenere delle verghe d'oro sia fornendo a tali verghe una patente di autenticità, creando della documentazione fittizia attestante una loro provenienza da società ungheresi o croate.
2. Contro detta sentenza propongono, a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia, ricorsi per Cassazione i suindicati imputati.
2.1. B.M., con un unico motivo articolato in più censure, deduce inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 648 c.p., e art. 192 c.p.p., nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla prova del reato presupposto.
Assume che la corte di appello, nell'adottare una motivazione per relationem, aveva omesso di affrontare la questione della illecita provenienza dell'oro venduto dall'imputato al C., confermando il ragionamento dei primi giudici basato su dati indiziari del tutto insufficienti.
Osserva che i giudici territoriali non avevano considerato che il ricorrente aveva giustificato ampiamente la provenienza dell'oro de quo nell'atto di appello formulando plurime ed articolate doglianze superate con una motivazione estremamente contraddittoria e poco chiara, pervenendo ad una pronunzia di condanna attraverso un giudizio di colpevolezza che non aveva ottemperato alla regola della prova "oltre ogni ragionevole dubbio" e finendo per porre a carico dell'imputato, in modo del tutto irragionevole, l'onere di provare la lecita provenienza dell'oro in questione.
2.2. C.R. propone due motivi:
a. violazione dell'art. 648 c.p., e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del reato presupposto qualificato nel capo di imputazione come "delitto contro il patrimonio"; violazione della regola di giudizio "al di là di ogni ragionevole dubbio" di cui all'art. 533 c.p.p..
Lamenta che la corte di appello aveva ritenuto il ricorrente responsabile del delitto di ricettazione pur in assenza di prova del delitto presupposto richiamato nel capo di imputazione e sulla base della generica consapevolezza della provenienza illecita del bene, non tenendo, peraltro, conto che l'imputato aveva indicato con precisione la persona da cui aveva ricevuto i lingotti d'oro in questione nonché le circostanze fattuali della vicenda, fornendo riscontri certi e dettagliati al suo racconto;
b. violazione degli artt. 42 e 648 c.p., e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell'elemento psicologico del reato di ricettazione; violazione della regola di giudizio "al di là di ogni ragionevole dubbio" di cui all'art. 533 c.p.p..
Assume che la corte territoriale, nel confermare la sussistenza del dolo del reato di ricettazione, aveva trascurato del tutto gli elementi evidenziati in appello e risultanti dagli atti che attestavano univocamente che l'imputato non era in alcun modo consapevole della (presunta) provenienza illecita dei lingotti.
I giudici di merito non avevano considerato, infatti, che l'imputato aveva indicato con precisione la persona che gli aveva dato i menzionati lingotti ed aveva fornito una serie di elementi di riscontro di quanto accaduto mentre non erano emersi nel giudizio elementi idonei a smentire le dichiarazioni rese; pertanto non essendovi stata una indicazione inattendibile o inverosimile circa la provenienza dei beni de quibus oggetto di dichiarazioni precise e circostanziate non poteva ritenersi configurabile l'elemento del dolo, nemmeno in forma eventuale.
2.3. G.G. formula un unico motivo, articolato in più censure, con il quale deduce violazione di legge ex art. 125 c.p.p., e art. 111 Cost., comma 6, nonché vizio di motivazione per mancanza ed apoditticità della motivazione e mancato rispetto dei canoni della c.d. motivazione per relationem.
Osserva che la corte di appello si era limitata a richiamare integralmente la motivazione di primo grado confermandola senza in alcun modo prendere in esame le precise ed argomentate censure contenute nell'atto di appello ed, in particolare, non aveva fornito risposta alcuna alla specifica censura riguardante la provenienza illecita del bene laddove tutti i dati presi in esame dall'accusa prima e dai giudici di merito, successivamente, erano elementi di prova riferibili al rapporto fra l'imputato ed il soggetto che aveva acquistato l'oro (il coimputato M.) e non invece, come doveva essere, al rapporto fra il ricorrente ed il soggetto da cui aveva ricevuto o acquistato l'oro di presunta provenienza illecita (rimasto sconosciuto agli inquirenti).
Ribadisce che la corte di appello, omettendo del tutto di motivare in relazione ai motivi di appello sub I) e II) si era limitata ribadire il ragionamento del primo giudice senza adottare alcuna motivazione avente caratteri di novità e di una autonoma valutazione e che la motivazione era da ritenere mancante o, quantomeno, apparente ed apodittica in ordine alla prova della sussistenza del reato di ricettazione in assenza di dimostrazione del rapporto fra il G. ed i suoi acquirenti (e non i venditori) e, conseguentemente, della sua consapevolezza della provenienza illecita dell'oro da lui ricevuto.
2.4. G.d.B. e V.C.M. formula due motivi:
a. vizio di motivazione e violazione di legge in punto di affermazione della penale responsabilità dell'imputato per il reato di ricettazione.
Lamenta che la corte di appello violando il disposto di cui all'art. 192 c.p.p., incorrendo in profili di illogicità della motivazione in ordine alla valutazione delle conversazioni telefoniche intercorse fra il ricorrente ed il coimputato C. ed in un vero e proprio travisamento dei fatti aveva ritenuto comprovata in capo all'imputato la consapevolezza della provenienza illecita dell'oro ceduto senza considerare che una serie di elementi smentivano tale assunto e che risultava versata in atti una copiosa documentazione a discarico, vale a dire le bollette attestanti che l'oro di cui era in possesso proveniva dal Monte dei Pegni e risultava, dunque, certificata la liceità del possesso di tali beni;
b. vizio di motivazione quanto al trattamento sanzionatorio.
Rileva che la corte di appello, con argomentazioni meramente apodittiche, aveva confermato il severo trattamento sanzionatorio stabilito dai giudici di primo grado.
2.5. La S.E. deduce, con un unico motivo, mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione quanto all'affermazione della penale responsabilità dell'imputato per il reato di ricettazione.
Evidenzia che non vi era prova alcuna in ordine alla illecita provenienza degli oggetti d'oro che l'imputato aveva ceduto al C. non considerando il rilascio di regolari fatture, sintomatico del contrario, e la circostanza che l'uso di "sim dedicate" era esclusivamente finalizzato alla volontà di sfuggire al fisco.
2.6. T.D., con un unico motivo, deduce vizio di motivazione quanto al trattamento sanzionatorio.
Osserva che la corte di appello aveva adottato una motivazione meramente apodittica e non aveva preso in esame le censure formulate riguardanti, in particolare, il parziale risarcimento del danno idoneo a ridurre le conseguenze delle condotte delittuose.
2.7. A.F. formula quattro motivi:
a. violazione ed erronea applicazione dell'art. 521 c.p.p., in relazione all'art. 6 pp. 1. e 3. della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo nonché dell'art. 111 Cost..
La difesa dell'imputato lamenta che la corte di appello, nel qualificare la condotta dell'imputato quale ipotesi di riciclaggio ex art. 648 bis c.p., in luogo dell'originaria contestazione ai sensi dell'art. 648 ter c.p., aveva violato il disposto di cui all'art. 521 c.p.p., in quanto si era verificata una "faglia" nella correlazione fra accusa e sentenza lesiva del diritto di difesa ancor più grave in ragione della circostanza che era stata rigettata la richiesta di integrazione probatoria formulata con l'atto di appello.
Deduce che, nella specie, la violazione del diritto di difesa era palese in quanto la riqualificazione dei fatti non era stata in alcun modo anticipata e, trattandosi di un rito abbreviato, la corte di appello aveva, pure, disatteso la richiesta di rinnovazione parziale dell'istruttoria evidenziando che ove l'imputato avesse voluto procedere ad attività istruttoria avrebbe dovuto rinunziare, ab origine, al rito abbreviato;
b. motivazione carente e manifestamente illogica in punto di affermazione della responsabilità dell'imputato.
Assume che la corte di appello, dopo avere premesso che la responsabilità, fra gli altri, dell' A. emergeva in modo palese dalla sentenza di primo grado del tutto illogicamente si era discostata dalle argomentazioni del primo giudice riqualificando i fatti contestati sub specie di riciclaggio (art. 648 bis c.p.) invece di impiego di denaro, beni o denaro di provenienza illecita (art. 648 ter c.p.).
Osserva, ancora, che la motivazione era del tutto incongruente perché non aveva operato alcun distinguo fra le vicende cui si riferivano i differenti capi di imputazione (nn. 1, 2, 4 e 5) addebitati all' A., proponendo un ricostruzione unitaria del tutto illogica rispetto ai fatti ed al contenuto della sentenza di primo grado, non tenendo conto che, quanto al capo sub.1) il ricorrente si era limitato solamente a mettere in contatto i coimputati M. e C..
Rileva che le argomentazioni erano palesemente contraddittorie quanto alla ritenuta consapevolezza in capo all' A. della provenienza illecita dell'oro, consapevolezza che, in realtà, era stata fatta discendere non da elementi riferibili al medesimo imputato bensì da circostanze imputabili ai concorrenti;
c. violazione degli artt. 110 e 648 bis c.p., e del D.Lgs. n. 231 del 2007, artt. 7,14 e 20.
Evidenzia che la corte di appello aveva liquidato la relativa questione asserendo che la qualifica dell' A. era irrilevante, finendo per ritenere erroneamente l' A. un concorrente e non distinguendo fra la condotta del concorrente e quella del mero connivente;
d. violazione ed erronea applicazione dell'art. 43 c.p..
Assume che la corte di appello, quanto all'elemento psicologico del reato, aveva finito per applicare principi giurisprudenziali risalenti e superati alla luce dei successivi arresti di legittimità ed, in particolare, sulla scorta dell'insegnamento delle S.U. di cui alla pronunzia n. 38343/2014 in ordine al rapporto fra dolo eventuale e colpa cosciente.
2.8. M.L. formula, a sua volta, quattro motivi.
2.8.1. Con il primo motivo deduce violazione ed erronea applicazione dell'art. 648 bis c.p., nonché contraddittorietà ed illogicità della motivazione in relazione alla qualificazione giuridica dei fatti operata in riforma della sentenza di primo grado.
Osserva che la corte di appello, nel sussumere i fatti contestati nella fattispecie di cui all'art. 648 bis c.p., ritenendo che l'attività di ricollocazione sul mercato del metallo effettuata mediante le operazioni di compravendita descritta nel capo di imputazione non poteva essere considerata un "impiego in attività economiche e finanziare con conseguente mancanza di una degli elementi costitutivi della fattispecie tipica ex art. 648 ter c.p.", aveva adottato una motivazione basata su intrinseche ed insuperabili contraddizioni.
Evidenzia che la corte territoriale muovendo dall'assunto - asseritamente pacifico ma, in realtà, indimostrato - della illecita provenienza dell'oro e dell'argento raccolti dal C. e dalla K. aveva ritenuto che le condotte dovessero essere qualificate come ipotesi di riciclaggio anziché di reimpiego ai sensi dell'art. 648 ter c.p., sul presupposto che l'attività tipica posta in essere dal M., unitamente ai coimputati C., M. ed A., era stata quella di avere acquistato oro ed argento di provenienza illecita e di averlo riciclato fondendolo in lingotti, conclusione che mal si conciliava con la ricostruzione degli accadimenti operata dalla medesima corte.
In particolare osserva che l'accertato coinvolgimento dell'imputato nell'illecita raccolta ed acquisizione del metallo, materialmente operata dai coimputati C., M. e K., impediva pacificamente di ritenerlo responsabile del reato di riciclaggio e lo rendeva necessariamente un concorrente nel reato dagli stessi commesso e che l'asserita consapevolezza dell'imputato in ordine alla illecita provenienza dell'oro raccolto dai coimputati, in uno con la finalità di profitto che orientava le sue azioni, implicava, a tutto concedere, che lo stesso doveva rispondere del reato di ricettazione.
Deduce che l'attività di vergatura dei rottami raccolti rappresentava un passaggio obbligato nel circuito commerciale legale, apparendo del tutto inverosimile che l'attività contestata nelle imputazioni era stata posta in essere con lo scopo esclusivo di ostacolare la provenienza delittuosa dell'oro e dell'argento raccolto dai coimputati C. e M. e, comunque, di concorrere nella loro attività di riciclaggio, risultando palese che, nella specie, mancava il dolo del reato di riciclaggio.
Lamenta che i giudici di appello, pur a fronte dello specifico motivo di impugnazione, avevano del tutto omesso di esplicitare le ragioni che avevano condotto all'esclusione della possibilità di qualificare la condotta contestata come ricettazione, rispetto alla quale la successiva fase di commercializzazione posta in essere rappresentava un mero post factum non punibile.
Evidenzia che posto che l'antecedente logico della riqualificazione della condotta operata dai giudici di appello era rappresentava dall'affermazione di una responsabilità concorsuale degli imputati per il reato presupposto di ricettazione (tale essendo, di fatto, l'acquisizione di beni di illecita provenienza menzionata in sentenza e posta materialmente in atto dai coimputati C. e M.) risultava palese la contraddittorietà della motivazione ma anche la violazione del disposto di cui all'art. 648 bis c.p. nella parte in cui esclude, espressamente, dal proprio perimetro applicativo la condotta di colui il quale concorre nella commissione del reato presupposto.
2.8.2. Con il secondo motivo deduce violazione di legge per omessa pronunzia in ordine alla possibilità di qualificare la condotta in questione ai sensi dell'art. 648 ter.1. c.p..
Osserva che, nella specie, tenuto conto della ricostruzione dell'attività delittuosa operata dai giudici di appello, doveva ritenersi che la qualificazione corretta appariva, semmai, quella di auto riciclaggio.
2.8.3. Con il terzo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al diniego della massima riduzione di pena con riferimento alle concesse circostanze attenuanti generiche e relativamente al complessivo trattamento sanzionatorio anche in relazione agli aumenti operati a titolo di continuazione.
Osserva che la motivazione adottata dalla corte di appello era del tutto carente ed apodittica, risultando palese la violazione dell'art. 125 c.p.p., comma 3, e art. 111 Cost., comma 6, e che la pressocchè impercettibile riduzione della pena conseguente all'applicazione delle circostanze attenuanti generiche, in uno con la rilevante portata degli aumenti operati ex art. 81 c.p., aveva sostanzialmente neutralizzato gli effetti premiali connessi al favorevole giudizio di bilanciamento fra circostanze ed alla scelta del rito.
2.8.4. Con il quarto motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta legittimità della confisca per equivalente applicata all'imputato ed alla disposta confisca anche della società amministrata dal medesimo, la (OMISSIS).
Osserva che del tutto erronea era l'affermazione della corte di appello per cui la mancanza di ogni documento indicativo dei profitti in nero conseguiti da ciascuno dei concorrenti non consentiva di limitare per il ricorrente, che doveva rispondere in solido anche dei profitti conseguiti dai suoi complici, la confisca al 3,5% del valore del metallo acquistato e, poi, rivenduto, trattandosi di ragionamento che non teneva conto del ruolo di mero intermediario ricoperto dall'imputato.
Si duole del fatto che, proprio il diverso ruolo rivestito dal ricorrente nell'ambito della operazione delittuosa in esame, precludeva una parificazione della sua posizione con quella dei coimputati C. e M. sotto il profilo dei beni assoggettabili a confisca, essendo del tutto illogico porre a carico del predetto la sanzione ablatoria in misura pari al profitto che non era mai stato, se non in minima parte, nella disponibilità dello stesso.
Rileva che l'affermazione secondo cui in ipotesi di concorso il concorrente deve rispondere anche del profitto conseguito dai suoi complici contrastava con l'orientamento consolidato secondo cui nell'ipotesi di reato commesso da più persone il provvedimento definitivo di confisca in ragione della natura sanzionatoria non può eccedere per ciascuno dei concorrenti la quota di profitto a lui attribuibile.
Evidenzia, infine, che la misura ablativa riguardante la società "(OMISSIS)" era del tutto illegittima in quanto trattavasi di azienda che operava stabilmente e regolarmente già prima dei fatti in contestazione ed a prescindere dalla attività illecita contestata, non risultando in alcun modo provata l'entità del vantaggio economico-patrimoniale che tale società aveva tratto dalle condotte in contestazione.
2.8.5. La difesa di M.L. ha depositato, in data 21/28 Ottobre 2020, memoria contenente motivi nuovi con la quale, nel reiterare le difese già proposte, ha dedotto, con ulteriori argomentazioni, in ordine ai primi due motivi di ricorso, rilevando che nella specie, a tutto concedere, l'imputato doveva rispondere del delitto di cui all'art. 648 c.p., in virtù della clausola di sussidiarietà o che, eventualmente, doveva rispondere del reato di cui all'art. 648 ter 1 c.p..
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Osserva la Corte che appare opportuno, avendo numerosi ricorrenti prospettato questioni comuni ed al fine di evitare inutili ripetizioni, premettere alcune considerazioni generali riguardanti i limiti del sindacato di legittimità nonché gli elementi costitutivi dei reati di ricettazione e riciclaggio oggetto del presente procedimento, prima di procedere alla disamina dei motivi "specifici" proposti da ciascun imputato.
1.1. "I limiti del sindacato di legittimità".
Va, in primo luogo, rilevato che al giudice di legittimità é preclusa - in sede di controllo della motivazione - la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell'ennesimo giudice del fatto, mentre la Corte, anche nel quadro della nuova disciplina, é - e resta - giudice della motivazione.
Secondo le Sezioni Unite "l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato - per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si é avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali; l'illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile "ictu oculi", dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Cass. Sez. Un. sent. n. 24 del 24.11.1999 dep. 16.12.1999 rv 214794).
Deve, pure, essere rimarcato che ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello, trattandosi di c.d. doppia conforme, si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando il giudice del gravame, esaminando le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordi nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (Cass. Sez. 3, sent. n. 44418 del 16/07/2013, dep. 04/11/2013, Rv. 257595). Nel giudizio di appello é pertanto consentita la motivazione "per relationem" alla pronuncia di primo grado, nel caso in cui le censure formulate dall'appellante non contengano - come nel caso di specie - elementi di novità rispetto a quelle già condivisibilmente esaminate e disattese dalla sentenza richiamata (Cass. Sez. 2, sent. n. 30838 del 19/03/2013, dep. 18/07/2013, Rv. 257056).
Va, anche, osservato che l'omesso esame di un motivo di appello da parte della Corte di merito non da luogo a un difetto di motivazione rilevante a norma dell'art. 606 c.p.p., né determina incompletezza della motivazione della sentenza allorché , pur in mancanza di espressa disamina, il motivo proposto debba considerarsi implicitamente disatteso perché incompatibile con la struttura e con l'impianto della motivazione, nonché con le premesse essenziali, logiche e giuridiche che compendiano la ratio decidendi della sentenza medesima. Secondo il disposto dell'art. 597 c.p.p., comma 1, l'appello attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione nel procedimento (limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti).
Pertanto il giudice d'appello deve tenere presente, dandovi risposta in motivazione, quali sono state le doglianze dell'appellante in ordine ai punti (o capi art. 581, comma 1, lett. e) investiti dal gravame, ma non é tenuto ad indagare su tutte le argomentazioni elencate in sostegno dell'appello quando esse siano incompatibili con le spiegazioni svolte nella motivazione, poiché in tal modo quelle argomentazioni si intendono assorbite e respinte dalle spiegazioni fornite dal giudice di secondo grado. (Sez. 1, Sentenza n. 1778 del 21/12/1992 Ud. (dep. 23/02/1993) Rv. 194804).
Occorre rilevare, altresì, che in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che "attaccano" la persuasività, l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell'attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento". (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015 - dep. 31/03/2015, 0., Rv. 26296501).
Deve, inoltre, ricordarsi che mentre é consentito dedurre con il ricorso per cassazione il vizio di "travisamento della prova", che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova obiettivamente ed incontestabilmente diverso da quello reale, non é affatto permesso dedurre il vizio del "travisamento del fatto", stante la preclusione per il giudice di legittimità a sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, e considerato che, in tal caso, si domanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, qual é quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (così, tra le tante, Sez. 3, n. 39729 del 18/06/2009, Belluccia, Rv. 244623; Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, Casavola, Rv. 238215).
E questo é tanto più vero laddove con l'impugnazione venga posto un mero problema di interpretazione di espressioni o frasi, trattandosi di questione di fatto, rimessa all'apprezzamento del giudice di merito, che si sottrae al giudizio di legittimità se - come nella fattispecie é accaduto - la valutazione risulta logica in rapporto alle massime di esperienza utilizzate.
Va, precisato, inoltre, che il giudizio sulla rilevanza ed attendibilità delle fonti di prova é devoluto insindacabilmente ai giudici di merito e la scelta che essi compiono, per giungere al proprio libero convincimento, con riguardo alla prevalenza accordata a taluni elementi probatori, piuttosto che ad altri, ovvero alla fondatezza od attendibilità degli assunti difensivi, quando non sia fatta con affermazioni apodittiche o illogiche, si sottrae al controllo di legittimità della Corte Suprema. Si é in particolare osservato che non é sindacabile in sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti. (Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011 - dep. 25/05/2011, Tosto, Rv. 25036201).
In ordine alla valutazione degli indizi la Suprema Corte (ex plurimis Cass. 23813/2009 rv 243801), ha, pervero, stabilito che il giudizio indiziario é costituito dall'esame globale e unitario tendente a dissolverne la relativa ambiguità, posto che "nella valutazione complessiva ciascun indizio (notoriamente) si somma e, di più, si integra con gli altri, talché il limite della valenza di ognuno risulta superato sicché l'incidenza positiva probatoria viene esaltata nella composizione unitaria, e l'insieme può assumere il pregnante e univoco significato dimostrativo, per il quale può affermarsi conseguita la prova logica del fatto... che - giova ricordare - non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto alla prova diretta (o storica) quando sia conseguita con la rigorosità metodologica che giustifica e sostanzia il principio del c.d. libero convincimento del giudice" (Cass., Sez. Un. 4 febbraio 1992, n. 6682, rv. 191231).
Le linee dei paradigmi valutativi della prova indiziaria sono state ribadite dalle Sezioni Unite che hanno evidenziato che il metodo di lettura unitaria e complessiva dell'intero compendio probatorio non si esaurisce in una mera sommatoria degli indizi e non può, perciò, prescindere dalla operazione propedeutica che consiste nel valutare ogni prova indiziaria singolarmente, ciascuna nella propria valenza qualitativa, tendente a porre in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo contesto dimostrativo (Cass. Sez. Un. 12 luglio 2005, n. 33748, rv. 231678).
1.2. "Il ragionevole dubbio".
Per quel che concerne il significato da attribuire alla locuzione "oltre ogni ragionevole dubbio", presente nel testo novellato dell'art. 533 c.p.p., quale parametro cui conformare la valutazione inerente all'affermazione di responsabilità dell'imputato, é opportuno evidenziare che, al di là dell'icastica espressione, mutuata dal diritto anglosassone, ne costituiscono fondamento il principio costituzionale della presunzione di innocenza e la cultura della prova e della sua valutazione, di cui é permeato il nostro sistema processuale.
Si é , in proposito, esattamente osservato che detta espressione ha una funzione meramente descrittiva più che sostanziale, giacché , in precedenza, il "ragionevole dubbio" sulla colpevolezza dell'imputato ne comportava pur sempre il proscioglimento a norma dell'art. 530 c.p.p., comma 2, sicché non si é in presenza di un diverso e più rigoroso criterio di valutazione della prova rispetto a quello precedentemente adottato dal codice di rito, ma é stato ribadito il principio, già in precedenza immanente nel nostro ordinamento costituzionale ed ordinario (tanto da essere già stata adoperata dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema - per tutte, Sez. un., sentenza n. 30328 del 10 luglio 2002, CED Cass. n. 222139 -, e solo successivamente recepita nel testo novellato dell'art. 533 c.p.p.), secondo cui la condanna é possibile soltanto quando vi sia la certezza processuale assoluta della responsabilità dell'imputato (Cass. pen., Sez. 2, sentenza n. 19575 del 21 aprile 2006, CED Cass. n. 233785; Sez. 2, sentenza n. 16357 del 2 aprile 2008, CED Cass. n. 239795).
Ciò comporta che il vizio di motivazione va escluso quando il ragionamento sia effettivamente adeguato a superare il ragionevole dubbio e, per converso, sussiste quando le alternative proposte dalla difesa siano logiche e fondate su elementi di prova acquisiti al processo e regolarmente prospettati.
Infatti, la condanna può essere pronunciata a condizione che il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili "in rerum natura" ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell'ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (Cass. 17921/2010 Rv. 247449; Cass. 2548/2015 Rv. 262280; Cass. 20461/2016 Rv. 266941).
Per quanto riguarda il reato ex art. 648 c.p., occorre ricordare, che secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte (per tutte, fra le molteplici, Sez. I, n. 13599 del 13.3.2012, Rv. 252285; Sez. II, n. 29198 del 25.5.2010, Rv. 248265; Sez. II, n. 41423 del 27.10.2010, Rv. N. 248718; Sez.II, n. 29198 del 25 maggio 2010, rv. 248265; Sez. II, n. 50952 del 26.11.2013, Rv. 257983; Sez. IL n. 5522 del 22.10.2013, dep. 2014, Rv. 258624), ai fini della configurabilità del reato di ricettazione la prova dell'elemento soggettivo può essere raggiunta anche sulla base dell'omessa o non attendibile indicazione della provenienza della cosa ricevuta, che costituisce prova della conoscenza dell'illecita provenienza della res, in quanto sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede.
Il principio é stato più volte ribadito, e sempre nei medesimi termini, anche successivamente (Sez. II, n. 37775 del 1.6.2016, Rv. 268085; Sez. II, n. 43427 del 7.9.2016, rv. 267969; Sez. IL n. 52271 del 10.11.2016, Rv. 268643; Sez. II, n. 53017 del 22.11.2016, Rv. 268713, per la quale, in particolare, ai fini della configurabilità del reato di ricettazione, la prova dell'elemento soggettivo può essere raggiunta da qualsiasi elemento, anche indiretto, e quindi anche dall'omessa o non attendibile indicazione della provenienza della cosa ricevuta da parte del soggetto agente: ciò non costituisce una deroga ai principi in tema di onere della prova, e nemmeno un "vulnus" alle guarentigie difensive, in quanto é la stessa struttura della fattispecie incriminatrice che richiede, ai fini dell'indagine sulla consapevolezza circa la provenienza illecita della "res", il necessario accertamento sulle modalità acquisitive della stessa).
La Suprema Corte ha avuto modo di precisare che al giudice non é precluso valutare la condotta processuale dell'imputato, coniugandola con ogni altra circostanza sintomatica, con la conseguenza che egli, nella formazione del suo libero convincimento, ben può considerare, in concorso di altre circostanze, la portata significativa del silenzio su circostanze potenzialmente idonee a scagionarlo (Sez. 21`, n. 22651 del 21/04/2010 Rv. 247426).
Tali principi, invero, non ledono né pongono in discussione le manifestazioni di diritti soggettivi e facoltà processuali che l'ordinamento attribuisce all'imputato quali espressione del diritto di difesa e di libera scelta della strategia processuale ritenuta più opportuna, strategia che ben può porsi in atto anche attraverso il silenzio inteso nella sua dimensione di corollario essenziale dell'inviolabilità del diritto di difesa (v. ordinanze C. Cost. n. 291 e n. 451 del 2002).
E' nella logica del sistema processuale, del resto, che l'imputato possa non fornire risposte su fatti leggibili contra se ovvero contrarie al vero e possa negare la propria responsabilità anche contro l'evidenza, stante il principio nemo tenetur se detegere, ma al Giudice non resta non di meno precluso valutare la condotta processuale del giudicando, coniugandola con ogni altra circostanza sintomatica.
Osserva in proposito la Corte che non si richiede, in tal modo, al soggetto imputato di ricettazione di provare la provenienza del possesso delle cose, ma soltanto di fornire una attendibile spiegazione dell'origine del possesso delle cose medesime, assolvendo non ad onere probatorio, bensì ad un onere di allegazione di elementi, che potrebbero costituire l'indicazione di un tema di prova per le parti e per i poteri officiosi del giudice, e che comunque possano essere valutati da parte del giudice di merito secondo i comuni principi de libero convincimento (in tal senso, Sez. un., n. 35535 del 12.7.2007, in motivazione).
Peraltro, in molte decisioni, la stessa Corte EDU risulta essersi anche preoccupata di definire i limiti del diritto al silenzio. Più precisamente, lo ius tacendi, pur essendo al centro della nozione di processo equo, non é espressione di un diritto assoluto. Una condanna non può fondarsi esclusivamente o essenzialmente sul silenzio dell'imputato, ma non é esclusa la configurabilità di situazioni in cui la mancata risposta può indirettamente nuocere all'imputato. Se, da una parte, una condanna non può essere esclusivamente o principalmente basata sul silenzio dell'imputato o sul rifiuto di rispondere alle domande o di fornire lui stesso delle prove, dall'altra parte il diritto di rimanere in silenzio non impedisce che tale condotta - in situazioni che chiaramente richiedono una qualche spiegazione - non possa essere presa in considerazione nel sostenere la persuasività del quadro probatorio fornito dall'accusa.
Pertanto, non é possibile affermare che la decisione di un imputato di rimanere in silenzio nell'ambito di un processo penale non dovrebbe avere alcun tipo di conseguenze; se dal silenzio dell'imputato siano stati tratti elementi a carico in contrasto con quanto previsto dall'art. 6, é questione che va risolta alla luce delle circostanze del caso concreto, tenendo particolarmente in considerazione il peso che le autorità giudiziarie nazionali hanno dato a tali elementi nell'esame delle prove ed al livello di pressione impiegato (John Murray v. the United Kingdom, p. 47).
E secondo la Corte di Strasburgo, qualora lo svolgimento del processo abbia evidenziato un quadro probatorio sfavorevole all'imputato, che già dimostri sufficientemente la colpevolezza, tale comunque da esigergli concretamente di dare spiegazioni in chiave difensiva, l'esercizio della facoltà di non rispondere ben potrà costituire un elemento apprezzabile come "riscontro" a suo carico (vedi Corte e.d.u., 8 febbraio 1996, (John Murray v. the United Kingdom; Corte e.d.u., 6 giugno 2000, Averill c. Regno Unito).
Va, ancora, osservato che il presupposto del delitto della ricettazione non deve essere necessariamente accertato in ogni suo estremo fattuale, poiché la provenienza delittuosa del bene posseduto può ben desumersi dalla natura e dalle caratteristiche del bene stesso. (Sez. 1, n. 29486 del 26/06/2013 - dep. 10/07/2013, Cavalli, Rv. 25610801).
Deve, quindi, richiamarsi il principio secondo cui per la configurabilità del delitto di ricettazione é necessaria la consapevolezza della provenienza illecita del bene ricevuto, senza che sia indispensabile che tale consapevolezza si estenda alla precisa e completa conoscenza delle circostanze di tempo, di modo e di luogo del reato presupposto, potendo anche essere desunta da prove indirette, purché gravi, univoche e tali da generare in qualsiasi persona di media levatura intellettuale, e secondo la comune esperienza, la certezza della provenienza illecita di quanto ricevuto. (Sez. 2, n. 18034 del 07/04/2004 - dep. 19/04/2004, Cristarelli, Rv. 22879701).
1.4. "Il reato di riciclaggio".
Secondo la costante giurisprudenza della Suprema Corte il delitto di riciclaggio é un reato a forma libera attuabile anche con modalità frammentarie e progressive. E' stato, in particolare, osservato che in tema di riciclaggio, ove più siano le condotte consumative del reato, attuate in un medesimo contesto fattuale e con riferimento ad un medesimo oggetto, si configura un unico reato a formazione progressiva, che viene a cessare con l'ultima delle operazioni poste in essere (Sez. 2, n. 52645 del 20/11/2014 - dep. 18/12/2014, Montalbano e altro, Rv. 26162401), precisandosi che integra il delitto di riciclaggio il compimento di operazioni volte non solo ad impedire in modo definitivo, ma anche a rendere difficile l'accertamento della provenienza del denaro, dei beni o delle altre utilità, attraverso un qualsiasi espediente che consista nell'aggirare la libera e normale esecuzione dell'attività posta in essere. (Sez. 2, n. 3397 del 16/11/2012 - dep. 23/01/2013, Anemone e altri, Rv. 25431401).
L'elemento soggettivo del delitto di riciclaggio - secondo l'insegnamento del Supremo Collegio - é integrato dal dolo generico, che ricomprende la volontà di compiere le attività volte ad ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa di beni od altre utilità, nella consapevolezza di tale origine, e non richiede alcun riferimento a scopi di profitto o di lucro (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 546 del 07/01/2011 Ud. (dep. 11/01/2011) Rv. 249445), precisandosi, altresì, che la norma incriminatrice del reato di riciclaggio é speciale rispetto a quella del reato di ricettazione perché richiede che il dolo si qualifichi non per una generica finalità di profitto ma per lo scopo ulteriore di far perdere le tracce dell'origine illecita (Sez. 2, n. 19907 del 19/02/2009, Abruzzese e altri, Rv. 244879).
Si é pure chiarito che in tema di riciclaggio si configura il dolo nella forma eventuale quando l'agente si rappresenta la concreta possibilità, accettandone il rischio, della provenienza delittuosa del denaro ricevuto ed investito (Sez. 2, n. 8330 del 26/11/2013, dep. 2014, Antonicelli e altri, Rv. 259010).
Per risalente e costante giurisprudenza della Corte Suprema, da cui non si ritiene di doversi discostare, non é necessario che il delitto presupposto (rispetto sia alla ricettazione sia al riciclaggio) risulti accertato giudizialmente e, pertanto, ai fini della configurabilità del reato di riciclaggio non si richiede l'esatta individuazione e l'accertamento giudiziale del delitto presupposto, essendo sufficiente che lo stesso risulti, alla stregua degli elementi di fatto acquisiti ed interpretati secondo logica, almeno astrattamente configurabile (v. Cass. Sez. 6, Sent. n. 28715/2013 Rv. 257206; Sez. 6, Sent. n. 495/2008, (dep 2009) Rv. 242374; Sez. 5, Sent. n. 36940/2008, Rv. 241581; Sez. 2, Sent. n. 546/2011, Rv. 249444; Sez. 4 n. 11303/97, dep. 9.12.97 Rv. 209393), e che il fatto costitutivo di tale delitto non sia stato giudizialmente escluso, nella sua materialità, in modo definitivo e che il giudice procedente per il riciclaggio ne abbia incidentalmente ritenuto la sussistenza (v. Sez. 2, Sentenza n. 7795 del 19/11/2013 (dep. 19/02/2014) Rv. 259007).
Ed, in particolare, é stato affermato che l'accertamento del reato di riciclaggio non richiede l'individuazione dell'esatta tipologia del delitto presupposto, né la precisa indicazione delle persone offese, essendo sufficiente che venga raggiunta la prova logica della provenienza illecita delle utilità oggetto delle operazioni compiute. (Nella fattispecie, gli indagati trasportavano nei rispettivi trolley l'ingente somma contante di 500.000,00 Euro, della quale non fornivano alcuna plausibile giustificazione). (Sez. 2, n. 20188 del 04/02/2015 - dep. 15/05/2015, Charanek e altro, Rv. 26352101).
Fatti tali premesse occorre, quindi, procedere all'esame dei singoli ricorsi.
2. Il ricorso di B.M. deve essere rigettato.
Il predetto ricorrente é stato condannato per i fatti di ricettazione di cui al capo 18) con argomentazioni che non appaiono né carenti né illogiche né contraddittorie.
I giudici di merito (vedi sentenza di primo grado ff. 353-362 e sentenza di appello ff. 115-117) hanno chiarito che dalla tipologia di rapporti intercorsi fra il predetto ricorrente ed il coimputato C. - caratterizzati dalle frequenti forniture di oro ed, inoltre, da anomale modalità di pagamento - nonché dal tenore delle intercettazioni richiamate era possibile evincere la provenienza illecita dell'oro portato dall'imputato al predetto C..
Osserva la Corte che, muovendo dai principi sopra indicati al p.. 1.2., le argomentazioni dei giudici di merito non appaiono censurabili, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente.
Pare opportuno richiamare, testualmente, quanto evidenziato dai giudici di primo grado i quali hanno chiarito come: "gli elementi offerti a discarico risultano del tutto generici nel confutare la concludenza del materiale probatorio emerso a carico dell'imputato, in quanto i testi escussi e la documentazione prodotta attestano esclusivamente la disponibilità da parte di B. di materiale di risulta delle lavorazioni e pertanto danno dimostrazione di una generica prassi operativa non necessariamente ricollegabile al veduto contesto di rapporti intrattenuti con C. che, per le relative modalità ed in particolare per l'adozione di un linguaggio convenzionale volto a celare il reale intendimento delle parti, delineano l'adozione da parte di B. di modalità operative improntate a non consentire la tracciabilità della provenienza dell'oro venduto (che infatti veniva immediatamente trasformato nel ciclo produttivo della C.G.) e che, proprio per la rilevante entità dei quantitativi e per il ruolo non occasionale svolto nella vicenda, si ritengono ricollegabili ad operazioni di cessione di materiale di illecita provenienza. Del resto, la fattura acquisita, lungi dal costituire un decisivo elemento a discarico, allude a modalità operative del tutto diverse da quelle utilizzate nei rapporti con C., in quanto B., nel vendere il cd. sfrido alla AZ Metalli, ha avuto cura di predisporre una adeguata documentazione fiscale che reca una precisa ed analitica descrizione dei metalli venduti, circostanza questa che, se posta in relazione alle ben diverse modalità operative tenute nei rapporti con C., appare un elemento perfino idoneo a confermare la ipotesi di accusa, dando conferma che, allorquando le parti hanno potuto tracciare la provenienza dell'oro (evidentemente perché non di origine illecita), esse sono ricorse ad operazioni regolarmente fatturate, ipotesi non seguita negli altri casi ove era di ostacolo non già una scelta di (evasione fiscale) ma una necessità legata all'illecita provenienza del materiale trattato.
Trattasi di argomentazioni, richiamate nella sentenza di appello e pienamente conformi alla citata giurisprudenza, che non risultano in alcun modo inficiate dalle contestazioni dell'imputato il quale si é soffermato sul fatto che non risultava dimostrata la provenienza dei beni in questione consegnati al C. da uno specifico reato, censura che non tiene conto della costante evoluzione della giurisprudenza formatasi, soprattutto nell'ultimo decennio, circa la non necessaria esatta indicazione del reato presupposto.
I giudici di merito hanno evidenziato come l'entità dei quantitativi trattati e le circostanze emerse in ordine alle modalità delle vendite dimostravano l'inserimento del B. nel sistema fraudolento facente capo ai coimputati C. e M. che lo stesso imputato, al pari degli altri fornitori, aveva alimentato, nel tempo, mediante un costante approvvigionamento di materiale ritenuto di illecita provenienza sulla scorta di un ragionamento logico-inferenziale basato su dati certi ed obiettivi.
2.1. Quanto all'elemento soggettivo, vale a dire la consapevolezza da parte dell'agente della provenienza delittuosa dell'oro in questione, la corte di appello, legittimamente, l'ha dedotta attraverso la prova logica riferita alla natura delle operazioni eseguite che non potevano avere nessun'altra spiegazione plausibile, se non schermare l'origine illecita dei beni.
Sulla scorta delle considerazioni sopra formulate rispettivamente ai pp. 1.1., 1.2. ed 1.3. non può parlarsi di violazione della regola della prova "oltre ogni ragionevole dubbio" né di vizi di illogicità in relazione ad un'indebita inversione dell'onere della prova, venendo piuttosto in rilievo la mancata allegazione di elementi concreti a confutazione di un'ipotesi accusatoria positivamente fondata su solide basi istruttorie, dovendosi ribadire che la sentenza ha ricostruito i profili di responsabilità del ricorrente con iter argomentativo rigoroso, logico e perfettamente ancorato alle complessive risultanze processuali.
Nel caso di specie l'imputato, piuttosto che rilevare vizi decisivi della motivazione, si limita ad offrire una interpretazione degli elementi di prova raccolti diversa da quella fatta propria dalla corte di appello (la quale ha confermato, come detto, la ricostruzione formulata dai giudici di primo grado respingendo, con congrue argomentazioni le tesi difensive), in contrasto palese con le indicate linee interpretative riguardanti l'ipotesi della ricettazione.
3. Il ricorso di C.R. va rigettato in quanto le censure proposte con tutti e due i motivi del ricorso, da esaminare congiuntamente in quanto fra loro connesse, appaiono prive di fondamento.
Il predetto imputato é stato ritenuto responsabile per la ricettazione di 6 lingotti d'oro del peso di tre chilogrammi (capo 23) sulla scorta di argomentazioni (v. sentenza di primo grado ff. 385-390 e sentenza di appello f. 119) adeguate e prive di aporie logiche nonché in linea con i principi giurisprudenziali sopra richiamati in tema di ricettazione.
I giudici hanno chiarito le ragioni per le quali, tenuto conto delle anomale modalità di vendita e della non plausibilità delle versione fornita dall'imputato (il quale aveva riferito che l'oro in questione, del valore di circa 100.000,00 Euro, gli era stato consegnato da tale M. titolare di una ditta di formaggi, il quale gli aveva detto che aveva trovato tali lingotti fra le vecchie cose che gli aveva lasciato il padre) prospettazione ritenuta dalla corte di appello, con argomentazioni adeguate e che non appaiono illogiche, del tutto inverosimile, anche perché non coerente con la conoscenza del mercato dell'oro, regolato da una normativa assai rigida come evidenziato dalla corte di appello, da parte dell'imputato da un lungo periodo addetto al settore, sicché dovevano ritenersi integrati sia l'elemento oggettivo che quello soggettivo del reato di cui all'art. 648 c.p..
Posto che, secondo la giurisprudenza pacifica sopra citata, ricorre il dolo di ricettazione, nella forma eventuale, quando l'agente ha consapevolmente accettato il rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di illecita provenienza, non limitandosi ad una semplice mancanza di diligenza nel verificare la provenienza della cosa, che, invece, connota l'ipotesi contravvenzionale dell'acquisto di cose di sospetta provenienza, la sentenza impugnata si appalesa immune da censure nella parte in cui ha accertato, con ragionamento in fatto non sindacabile in questa sede, che i dati probatori convergevano nel senso di fare ritenere che il C. era perfettamente consapevole della provenienza illecita dell'oro, ciò risultando univocamente confermato dal fatto che, pur a conoscenza, come detto, delle dinamiche del settore ove aveva lavorato per un lungo periodo, "aveva omesso qualunque sia pur minimo doveroso controllo".
Muovendo da tali considerazioni non colgono nel segno le contestazioni secondo cui la corte di appello, del tutto infondatamente a dire del ricorrente, aveva disatteso l'eccezione secondo cui difettava la prova del esistenza del reato presupposto qualificato genericamente nel capo di imputazione come "delitto contro il patrimonio", e questo in ragione del fatto che, come detto, l'affermazione della responsabilità per il delitto di ricettazione non richiede l'accertamento giudiziale dell'esatta tipologia del reato presupposto, potendo il giudice affermarne l'esistenza attraverso prove logiche, prove certamente sussistenti nella fattispecie in esame secondo la ricostruzione operata dai giudici di merito.
Posto che la regola di giudizio che richiede l'accertamento della sussistenza del reato "al là di ogni ragionevole dubbio" implica che, in caso di prospettazione di un'alternativa ricostruzione dei fatti, siano individuati gli elementi di conferma dell'ipotesi accusatoria e sia motivatamente esclusa la plausibilità della tesi difensiva (Sez. 6, n. 10093 del 05/12/2018 - dep. 07/03/2019, ESPOSITO GIUSEPPE, Rv. 27529001) non può revocarsi in dubbio che nella specie i giudici di merito con argomentazioni, tutt' altro che carenti o illogiche, hanno ritenuto, del tutto non credibile la prospettazione difensiva in ordine alla lecita provenienza dei beni essendo emerse, per contro, una serie di "anomalie" ritenute "eloquenti della consapevolezza in capo all'imputato della provenienza delittuosa del materiale trattato".
Pertanto non essendo evidenziabile alcuno dei vizi motivazionali deducibili in questa sede quanto alla affermazione della penale responsabilità dell'imputato in ordine al reato di cui sopra e non essendo configurabile, quindi, la dedotta contraddittorietà della motivazione anche tenuto conto dei poteri del giudice di merito in ordine alla valutazione della prova, tutte le censure di cui al ricorso, essendo sostanzialmente tutte incentrate su una nuova rivalutazione di elementi fattuali e, quindi, di mero merito, appaiono infondate.
4. Il ricorso di G.G. va rigettato.
La sentenza impugnata ha desunto il convincimento della consapevolezza in capo all'imputato della provenienza illecita dei beni in questione da una serie di elementi di natura indiziaria che in ragione della loro gravità, precisione e concordanza sono stati ritenuti idonei a costituire prova della penale responsabilità dell'imputato in ordine al reato contestato, con una motivazione che, in quanto congrua e non manifestamente illogica, non é censurabile in questa sede.
Va ribadito che in tema di ricettazione, la consapevolezza dell'agente circa l'illecita provenienza della cosa, presupposto soggettivo per la configurabilità del delitto "de quo", può trarsi anche da elementi indiretti, ma solo nell'ipotesi in cui la loro coordinazione logica ed organica sia tale da consentire l'inequivoca dimostrazione della mala fede; detta consapevolezza può, dunque, desumersi anche dalla qualità delle cose ricevute nonché dagli altri elementi considerati dall'art. 712 c.p., in tema di incauto acquisto, purché i sospetti sulla legittimità della provenienza della "res" siano così gravi ed univoci da ingenerare, in qualsiasi persona di media levatura intellettuale e secondo la più comune esperienza, la certezza che non possa trattarsi di cose legittimamente detenute da chi le offre.
Nella specie i giudici di merito (v. sent. di primo grado ff. 326-338 nonché sentenza di appello ff. 111-114) hanno ritenuto G.G. responsabile del reato di ricettazione continuata di cui al capo 9) evidenziando come lo stesso aveva rifornito il coimputato M. (con il quale aveva mantenuto, peraltro, contatti con schede telefoniche dedicate, circostanza questa che, già di per sé , appariva sintomatica della illiceità dei rapporti) notevoli quantità di oro negoziate in nero senza alcuna formalizzazione ed, inoltre, non aveva fornito alcuna plausibile indicazione circa la provenienza di detti beni.
In ordine a tale aspetto va dato seguito all'orientamento secondo cui, in tema di valutazione della prova, l'omessa prospettazione da parte dell'imputato di una ricostruzione alternativa e plausibile dai fatti in addebito, pur non potendo essere valutata come prova a carico, ben può essere valorizzata dal giudice come argomento di supporto della assenza di ipotesi suscettibili di minare il giudizio di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio già espresso sulla base delle prove acquisite. (Sez. 6, n. 50542 del 12/11/2019 - dep. 13/12/2019, ERARIO GREGORIO DAMIANO, Rv. 27768201).
Invero il ricorrente, solo formalmente, ha indicato vizi della motivazione della decisione gravata, ma non ha, invero, prospettato alcuna reale contraddizione logica, intesa come implausibilità delle premesse dell'argomentazione, irrazionalità delle regole di inferenza, ovvero manifesto ed insanabile contrasto tra quelle premesse e le conclusioni né é stata lamentata, come pure sarebbe stato astrattamente possibile, una incompleta descrizione degli elementi di prova rilevanti per la decisione, intesa come incompletezza dei dati informativi desumibili dagli atti del procedimento.
5. Il ricorso di G.d.B. e V.C.M. va rigettato.
5.1. I giudici di merito (v. sentenza di primo grado ff. 377-385 nonché sentenza di appello ff. 111-114) sono pervenuti all'affermazione della penale responsabilità dell'imputato per il reato di ricettazione continuata di cui al capo 22) valutando il tenore complessivo delle captazioni telefoniche analiticamente richiamate nonché rilevando che il ricorrente non aveva fornito prova alcuna in ordine alla lecita provenienza di circa 300-400 grammi venduti al C..
Hanno spiegato, altresì, le ragioni per le quali doveva ritenersi indimostrata la allegazione secondo cui il predetto avrebbe rivenduto oro proveniente dal Monte dei Pegni evidenziando la circostanza che le polizze prodotte risalivano ad un periodo di gran lunga anteriore "da dodici a vent' anni prima", rispondendo, quindi, alle censure che oggi vengono reiterate senza che parte ricorrente si confronti adeguatamente con l'iter argomentativo della sentenza di appello.
Il ricorso, del tutto infondatamente, parla di un "travisamento dei fatti" quanto alla lettura delle intercettazioni citate, non considerando che i profili relativi all'interpretazione delle frasi e del linguaggio usato dai soggetti interessati a quelle conversazioni intercettate costituiscono questioni di fatto rimesse all'apprezzamento del giudice di merito che si sottraggono al giudizio di legittimità se - come nella fattispecie é accaduto - la valutazione risulta logica in rapporto alle massime di esperienza utilizzate (in questo senso, tra le tante, Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, R.v. 263715; Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, D'Andrea, Rv. 268389; Sez. 3, n. 35593 del 17/05/2016, Folino, Rv. 267650; Sez. 6, n. 46301 del 30/10/2013, Corso, Rv. 258164; Sez. 2, n. 35181 del 22/05/2013, Vecchio, Rv. 257784; Sez. 6, n. 11794 del 11/02/2013, Melfi, Rv 254439; Sez. 6, n. 17619 del 08/01/2008, Gionta, Rv. 239724).
Il ricorrente, invero, ha formulato una serie di censure che si muovono nella prospettiva di accreditare una diversa lettura delle risultanze istruttorie e si risolvono, quindi, in non consentite censure in fatto all'iter argomentativo seguito dalla sentenza di merito, nella quale é presente una adeguata replica a quei rilievi che il ricorrente si limita a reiterare.
5.2. Il secondo motivo é generico, aspecifico e, comunque, manifestamente infondato.
Ed, invero, la graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 c.p.; ne discende che é inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013 04/02/2014, Ferrario, Rv. 259142), ipotesi che - nel caso di specie - non ricorre.
6. Il ricorso di L.D. é inammissibile.
Il ricorrente, con le censure proposte, tende a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti attinenti alla ricostruzione del fatto e all'apprezzamento del materiale probatorio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito e non indica in maniera specifica vizi di legittimità o profili di illogicità della motivazione della decisione impugnata ma mira solo a prospettare una ricostruzione alternativa dei fatti, indicata come preferibile rispetto a quella adottata dai giudici del merito, ricostruzione che é insuscettibile di valutazione in sede di controllo di legittimità.
I giudici di merito con una motivazione adeguata, logica e conforme ai principi giurisprudenziali sopra richiamati in tema di ricettazione (v. sent. di primo grado ff. 338-353 nonché sentenza di appello ff. 111-114) hanno ritenuto accertata la responsabilità dell'imputato il quale non é stato in grado di fornire alcuna indicazione in ordine ai soggetti che avrebbero consegnato gli oggetti da cui l'imputato aveva ricavato l'oro consegnato al C. mentre con l'odierno ricorso il predetto imputato si limita a ribadire la tesi secondo cui trattavasi di beni provenienti da "clienti occasionali", tesi solo genericamente prospettata e priva di riscontro alcuno e con la quale l'imputato finisce per sollecitare una differente lettura delle emergenze processuali, preclusa in questa sede.
In relazione a tale circostanza deve sottolinearsi l'inammissibilità delle censure perché il ricorrente non si confronta con gli effettivi argomenti utilizzati in sede di motivazione del provvedimento impugnato. La mancanza di specificità del motivo, infatti, deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell'art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all'inammissibilità (Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, Rv. 268823; Sez. 2, Sentenza n. 11951 del 29/01/2014 Rv. 259425, Lavorato; Sez. 4, 29/03/2000, n. 5191, Barone, Rv. 216473; Sez. 1, 30/09/2004, n. 39598, Burzotta, Rv. 230634; Sez. 4, 03/07/2007, n. 34270, Scicchitano, Rv. 236945; Sez. 3, 06/07/2007, n. 35492, Tasca, Rv. 237596).
7. Il ricorso proposto da T.D. é inammissibile.
Osserva la corte che la motivazione della sentenza in punto di trattamento sanzionatorio é congrua ed adeguata e tale da resistere alla censure del ricorrente il quale, del tutto genericamente, lamenta delle carenze motivazionali che non appaiono in alcun modo ravvisabili atteso che la corte di appello ha tenuto in considerazione la gravità dei fatti nonché il carattere parziale dei risarcimenti offerti.
In ordine alla graduazione della pena va, pervero, ribadito che tale potere rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 c.p.; ne discende che é inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013 - 04/02/2014, Ferrario, Rv. 259142). Invero, una specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata, specie in relazione alle diminuzioni o aumenti per circostanze, é necessaria soltanto se la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale, potendo altrimenti essere sufficienti a dare conto dell'impiego dei criteri di cui all'art. 133 c.p. le espressioni del tipo: "pena congrua", "pena equa" o "congruo aumento", come pure il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere (Sez. 2, n. 36245 del 26/06/2009, Denaro).
11. Il ricorso avanzato da A.F. deve essere rigettato.
11.1. Va, in primo luogo, rilevata la infondatezza della censura formulata con il primo motivo relativa all'asserito vizio fondato sostanzialmente sulla violazione dell'art. 521 c.p.p., in quanto, a fronte dell'iniziale contestazione del reato di cui all'art. 648 ter c.p., l'imputato sarebbe stato condannato per riciclaggio costituente un fatto diverso.
Tale tesi non coglie nel segno in quanto é palese che il fatto contestato é quello di cui al capo di imputazione, diversamente qualificato dai giudici di merito, sicché non vi é stata alcuna violazione della norma richiamata.
La questione prospettata dall'imputato con tale motivo di ricorso ha in passato costituito oggetto di pronuncia da parte della Corte EDU, nel noto caso Drassich contro Italia ric. n. 25575/04 (sentenza in data 11/12/2007).
Nell'occasione la Corte EDU ha ritenuto che il combinato disposto dell'art. 6 CEDU, commi 1 e 3, lett. a) e b), relativo al diritto ad un equo processo, configura il diritto dell'imputato ad essere informato della natura e dei motivi dell'accusa formulata a suo carico, ivi compresa la qualificazione giuridica del fatto-reato, e del diritto di disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la difesa.
Più in generale é stato affermato che il citato principio impone l'onere di una informazione precisa e completa in ordine all'accusa gravante sull'imputato, nel rispetto del principio del contraddittorio, in modo tale da offrire alle parti la possibilità di conoscere e di dibattere ogni questione essenziale per lo svolgimento del processo, specie se si tratta di questioni relative a motivi sollevati d'ufficio.
Il principio sovranazionale risulta, peraltro, inserito anche nel tessuto dell'ordinamento interno mediante la trasposizione, pressoché letterale, della medesima formula nel corpo dell'art. 111 Cost., comma 3, (come modificato con L. Cost. 23 novembre 1999, n. 2).
La norma sancisce il diritto della persona accusata di un reato a essere "informata... della natura e dei motivi della accusa" e non v'é dubbio che l'enunciazione della qualificazione giuridica dei fatti addebitati concorra a definirne la "natura" dell'addebito e le relative conseguenze sanzionatorie (v. Sez. 1, 29/04/2011, n. 18590 - Rv. 250275).
Il diritto tutelato dalla Costituzione e dalla CEDU deve essere, tuttavia, correlato al potere del giudice, previsto dall'art. 521 c.p.p., comma 1, di dare, comunque al fatto una definizione giuridica diversa da quella contenuta nel capo di imputazione. Ciò impone un'interpretazione conforme al dettato costituzionale dell'art. 521 c.p.p., tale da escludere che l'esercizio del potere-dovere previsto da tale disposizione possa determinare concreto ed irreparabile pregiudizio alle facoltà di difesa dell'imputato, di cui il diritto al contraddittorio costituisce un baluardo di anticipata tutela.
Tornando ai principi fissati a livello sovranazionale va precisato che il fatto giudicato dalla Corte di Strasburgo riguardava un caso di riqualificazione giuridica dei fatti oggetto di imputazione avvenuta per la prima volta solo in sede di procedimento in Cassazione. La riqualificazione aveva condotto all'individuazione di un reato diverso da quello per il quale era stato perseguito in primo e secondo grado, con la conseguente impossibilità di difendersi nei confronti della nuova accusa emersa solo nell'ultimo grado del giudizio.
La Corte Europea, in particolare, ha rimarcato che: a) non risultava che il P.M. o la Corte di cassazione avesse sottolineato l'opportunità della riqualificazione dei fatti in una fase anteriore del procedimento; b) il ricorrente non era stato avvertito della possibilità di tale riqualificazione; c) all'imputato non era stata data l'occasione di dibattere in contraddittorio la nuova accusa; d) alla luce della normativa nazionale, una successiva riqualificazione dell'accusa non era sufficientemente prevedibile per l'imputato.
Solo constatando queste condizioni il Giudice sovranazionale é giunto ad affermare che l'accusato non aveva avuto la possibilità di esercitare il proprio diritto alla difesa in modo concreto ed effettivo. Ed infatti la Corte Europea, ben lungi dall'aver affermato il divieto di riqualificazione giuridica della fattispecie anche ex officio, si é limitata ad osservare che l'esercizio di tale prerogativa nell'esercizio della giurisdizione può rivelarsi in contrasto coi principi fondamentali della CEDU laddove, in concreto, l'imputato non sia informato, in tempo utile, non solo dei fatti materiali addebitatigli, ma anche della qualificazione giuridica data ad essi.
L'applicazione del principio in esame porta, dunque, alla conclusione che la riqualificazione giuridica dei fatti effettuata dalla corte d'appello direttamente in sentenza é senz'altro legittima; tanto si ricava dalla considerazione che la Corte Europea avrebbe ritenuto del pari legittima anche la medesima operazione compiuta nell'ambito della sentenza della Corte di cassazione, se solo fosse stata preceduta, nell'ambito del medesimo giudizio di legittimità, dalla contestazione in udienza al opera del P.G..
Una simile anticipazione della possibilità di una diversa qualificazione giuridica dei fatti giudicati - in alternativa alla semplice oggettiva prevedibilità di quest'esito del giudizio - é quindi considerata come elemento sufficiente ad avvertire l'imputato "in tempo utile" per approntare le proprie difese.
A maggior ragione la medesima soluzione si impone quando la riqualificazione dei fatti é compiuta dalla corte d'appello, dal momento che in tal caso all'imputato residua comunque la possibilità di difendersi dalla nuova imputazione quantomeno in sede di legittimità.
Né vale osservare, in contrario, che i limiti del giudizio di legittimità non consentirebbero l'esercizio di un'adeguata attività difensiva: infatti, la questione della qualificazione giuridica del fatto (e non di accertamento materiale dello stesso) rientra fra i casi tipici del ricorso per cassazione (art. 606 c.p.p., lett. b) e, quindi, può essere adeguatamente discussa anche in ultima istanza.
Deve, invero, evidenziarsi che le disposizioni normative che disciplinano le nuove contestazioni, la modifica dell'imputazione e la correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza avendo la finalità di assicurare il contraddittorio sul contenuto dell'accusa e, quindi, il pieno esercizio del diritto di difesa dell'imputato, vanno interpretate con riferimento alle finalità alle quali sono dirette, di guisa ché non possono ritenersi violate da qualsiasi modificazione rispetto all'accusa originaria ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell'imputazione pregiudichi, in concreto, la possibilità di difesa dell'imputato.
In quest' ottica perché possa parlarsi del mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale nei suoi elementi essenziali della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, si da pervenire ad un'incertezza sull'oggetto della contestazione da cui scaturisca un concreto ed effettivo pregiudizio dei diritti della difesa.
Ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel mero pedissequo confronto puramente letterale fra imputazione e decisione perché , vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione é del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, si sia trovato nella condizione concreta di difendersi in ordine al fatto ritenuto in sentenza (cfr., Sez. U, sent. n. 16 del 19/06/1996, dep. 22/10/1996, Di Francesco, Rv. 205617).
In particolare é stato affermato che non sussiste violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza quando nella contestazione, considerata nella sua interezza, siano contenuti gli stessi elementi del fatto costitutivo del reato ritenuto in sentenza in quanto l'immutazione si verifica solo nel caso in cui tra i due episodi ricorra un rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale per essersi realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell'addebito nei confronti dell'imputato, posto, così, a sorpresa di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza avere avuto nessuna possibilità d'effettiva difesa. (Nella fattispecie la Corte ha escluso che tra l'imputazione di sottrazione di persone incapaci, originariamente contestata, e quella di ritenzione di persone incapaci vi fosse immutazione, giacché il reato di cui all'art. 574 c.p. può in concreto articolarsi attraverso due forme alternative e, perciò, equivalenti) (vedi Sez. 6, n. 17799 del 06/02/2014 - dep. 28/04/2014, M, Rv. 26015601).
Invero, secondo l'orientamento giurisprudenziale più recente, pienamente condiviso da questo Collegio, il criterio da applicare é quello "teleologico" del mancato pregiudizio per la difesa dell'imputato, quale limitazione di derivazione giurisprudenziale del generale principio di cui all'art. 521 c.p.p., funzionale alla garanzia del contraddittorio, con la precisazione che il criterio é operante a prescindere dalle strategie processuali dell'imputato e dalla opzione, dallo stesso eventualmente effettuata, di non fornire una propria versione dei fatti, atteso che la concreta possibilità di difendersi consiste non soltanto nella scelta di rispondere o meno alle domande delle parti, ma nell'insieme delle opzioni difensive che si esplicano in tutte le fasi e gli stati del giudizio (cfr., Sez. 5, sent. n. 3161 del 13/12/2007, dep. 21/01/2008, Piccione, Rv. 238345).
Ne discende che, quando nel capo di imputazione originario - come nella fattispecie siano contestati tutti gli elementi fondamentali idonei a porre l'imputato in condizione di difendersi dal fatto, poi ritenuto in sentenza non sussiste violazione del principio di doverosa correlazione tra accusa e sentenza, principi quelli sopra indicati di cui la corte territoriale ha fatto corretta applicazione, non cogliendo, conseguentemente, nel segno la contestazione riguardante i pregiudizi al diritto di difesa dell'imputato per effetto del rigetto della richiesta di integrazione probatoria formulata con l'atto di appello.
Non va, del resto, sottaciuto che nel giudizio abbreviato d'appello, le parti sono titolari di una mera facoltà di sollecitazione del potere di integrazione istruttoria, esercitabile dal giudice "ex officio" nei limiti della assoluta necessità ai sensi dell'art. 603 c.p.p., comma 3, atteso che in sede di appello non può riconoscersi alle parti la titolarità di un diritto alla raccolta della prova in termini diversi e più ampi rispetto a quelli che incidono su tale facoltà nel giudizio di primo grado. (Sez. 2, n. 17103 del 24/03/2017 - dep. 05/04/2017, A e altro, Rv. 27006901).
Sarebbe stato, peraltro, onere del ricorrente chiarire per quali specifiche ragioni, effettuata la riqualificazione senza dare corso alla chiesta rinnovazione istruttoria, sarebbe stato pregiudicato il suo diritto di difesa.
Nella specie il ricorrente si é limitato a dedurre che la intervenuta differente qualificazione dei fatti aveva determinato "una faglia nella correlazione tra accusa e sentenza lesiva del diritto di difesa vieppiù grave se si considera che - senza alcun serio impegno argomentativo aveva disatteso la richiesta di "integrazione probatoria" formulata con l'atto di appello" non chiarendo, tuttavia, quali specifiche prove, tali da consentire in ipotesi il ribaltamento del giudizio di colpevolezza in relazione al reato di cui all'art. 648 bis c.p., non sarebbero state disposte.
In sostanza, per ciò che riguarda il rispetto delle garanzie difensive, il doppio binario connesso al principio ‘Lira novit curia presente nella legislazione italiana deve ritenersi compatibile con il giusto processo di cui all'art. 111 Cost., e con gli art. 117 Cost., comma 1, e art. 6, commi 1 e 3, lett. a e b Cedu (quale parametro interposto), e con riferimento sia alla la direttiva 2012/13/UE e all'art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea nell'ipotesi in cui si versi nel mutamento della qualificazione giuridica e non in quello del fatto.
11.2. Fatte tali considerazioni va osservato che deve ritenersi adeguata in fatto e conforme ai principi di diritto menzionati ai pp. 1.3. ed 1.4 la motivazione della corte territoriale nella parte in cui ha riconosciuto la sussistenza di condotte materiali integranti il concorso nel reato di riciclaggio da parte dell' A., dovendosi ritenere infondati il secondo ed il terzo motivo di ricorso, da esaminare congiuntamente in quanto fra loro connessi.
Va, invero, rilevato che nel caso di specie i giudici di merito hanno evidenziato una serie di elementi, tratti da intercettazione telefoniche ed ambientali nonché dalle indagini di P.G., univocamente convergenti nell'indicare nell' A., titolare della ditta individuale (OMISSIS), esercente l'attività di "procacciatori d'affari di altri prodotti nca", colui che, nel giugno 2015, mette in relazione i coimputati C.G. e M.L., permettendo, così, che l'oro di provenienza illecita, irregolarmente raccolto dal primo, venga regolarizzato e commercializzato dal secondo o, comunque, grazie al secondo.
I giudici hanno accertato, con adeguata motivazione, che l' A. era, ab origine, perfettamente a conoscenza del meccanismo fraudolento realizzato dai coimputati ed, a tal fine, aveva posto in essere una condotta del tutto strategica per la realizzazione dei reati in contestazione, in quanto diretta a sondare ed ad ottenere la disponibilità delle società (OMISSIS) ((OMISSIS) S.p.a.) e di (OMISSIS) S.p.A. a ricevere i quantitativi di oro lavorati presso la C.G., favorendo, in tal modo, le condizioni per la reimmissione nel mercato legale dell'oro di illecita provenienza.
E' stato sottolineato come il ricorrente aveva svolto il ruolo di un "facilitatore" che, sfruttando, di volta in volta, le proprie conoscenze acquisite nel settore merceologico di riferimento, non soltanto si era limitato a mettere in contatto, di volta in volta, i soggetti di interesse, ma in tutte le diverse fasi in cui si era articolata la vicenda delittuosa in esame aveva prestato, in loro, favore "una strategica collaborazione" al fine di prevenire e di superare eventuali problemi di natura tecnica e burocratica, in relazione alla predisposizione della necessaria documentazione fiscale e doganale, che, diversamente, avrebbero intralciato la realizzazione di un progetto delittuoso che doveva reputarsi da lui accettato e da subito pienamente condiviso, peraltro, nella consapevolezza, ammessa dallo stesso A. in sede di interrogatorio, in ordine al fatto che l'oro non proveniva dall'Ungheria, ma era frutto della lavorazione effettuata presso la ditta riferibile a C.G..
Anche per A., quindi, la corte territoriale ha messo in evidenza gli elementi che hanno giustificato la configurabilità, a suo carico, del reato di riciclaggio sia in ordine alla condotta materiale che alla consapevolezza del concorso nella stessa, evidenziando, in modo logico, ad esempio, il ruolo essenziale del ricorrente emerso anche nella relazione con B.F. della (OMISSIS) ed il suo fondamentale contributo al sistema operativo delittuoso, unito alla cennata consapevolezza della provenienza delittuosa dei metalli preziosi.
Nella sentenza, conforme a quella di primo grado, tranne che per la qualificazione dei fatti, vengono individuati i plurimi dati probatori emersi a suo carico: conoscenza della falsità della documentazione fiscale utilizzata e della reale provenienza del metallo da Torino per sua stessa ammissione, la determinante collaborazione fornita anche nella predisposizione della documentazione fiscale e doganale, il suo ruolo di tramite tra il C. ed il M. e di referente tra C. e tale Ro., la circostanza che lo stesso era stato promotore di riunioni strategiche ed aveva preso parte a numerosi incontri ritenuti decisivi per la commercializzazione dell'oro.
A., secondo quanto ricostruito dai giudici di merito, é colui: che rassicura la (OMISSIS) sull'adeguatezza della documentazione a fini antiriciclaggio, fornendo un contributo determinante per buon esito del sistema; che replica uno stesso modus operandi collaudato per le altre condotte criminose; che cura anche il trasporto del materiale, secondo quanto risultava dalle bolle di trasporto e dai servizi di osservazione della polizia giudiziaria; che promuove e sviluppa i rapporti con K. N. della Target, altro fornitore - schermato dalla documentazione falsa di M. -; che raccoglie materiale prezioso da soggetti non identificati per quantitativi ingenti alla settimana sì da rendere inverosimile, atteso il rapporto privilegiato con il ricorrente, che questi non immaginasse l'esistenza di canali illeciti di raccolta.
Si tratta di una serie di elementi che la corte territoriale, facendo corretta applicazione delle richiamate regole di valutazione codicistiche in materia di prova indiziaria, ha ritenuto univocamente convergenti nell'indicare la provenienza illecita dell'oro e dell'argento commercializzati con il rilevante contributo del ricorrente di ciò consapevole, ricostruzione che non presenta illogicità manifeste e decisive.
I profili di responsabilità concorsuale dell'imputato, alla luce degli elementi sopra richiamati, riguardano tutte le condotte contestate mentre la prospettazione dell' A., il quale deduce che quanto meno nella prima fase oggetto del capo di imputazione sub. 1) si sarebbe solamente limitato a mettere in contratto il C. ed il M. senza offrire alcun contributo all'attività illecita in questione, si configura come ricostruzione alternativa, non supportata da elementi di prova decisivi, e, come sopra chiarito, non ammissibile in sede di legittimità.
Anche il quarto motivo di ricorso, che tende ad escludere la configurabilità dell'elemento psicologico del reato di cui all'art. 648 bis c.p., é infondato.
Il ricorrente, da un lato, lamenta il vizio di violazione di legge (art. 43 c.p.), in punto di elemento soggettivo del reato (il dolo), avendo la corte di merito ritenuto sufficiente, a tale scopo, la sola capacità di rappresentazione (conoscenza o conoscibilità) delle operazioni asseritamente sospette e non quella volontaristica, come richiesto dalla più recente giurisprudenza di legittimità e, in particolare, dalle S.U. nella più volte citata sentenza del 24/4/2014, "sentenza Thyssen"; dall'altro lamenta, quale vizio di motivazione, l'assenza di adeguate argomentazioni in punto di dolo eventuale come ridefinito dalla Suprema Corte a Sezioni Unite, tenuto conto che l'imputato non aveva avuto contezza della provenienza delittuosa dell'oro e dell'argento.
Si tratta, in entrambi, i casi di censure che attaccano l'apparato motivazionale sotto il profilo della violazione di legge avuto riguardo all'elemento soggettivo del reato (il dolo) erroneamente parametrato, nella prospettiva difensiva, a precedenti giurisprudenziali superati dalla richiamata sentenza delle Sezioni Unite n. 38343 del 24/4/2014.
Occorre procedere allora, in via preliminare, ad una chiara definizione della condotta materiale integrativa del delitto di riciclaggio, sì da poter, poi, individuare quale sia l'oggetto di volizione (diretta od eventuale) da parte dell'agente.
Quanto all'elemento soggettivo del delitto di riciclaggio, come sopra evidenziato, é stato ripetutamente affermato che esso é integrato dal dolo generico che richiede la consapevolezza della provenienza delittuosa dell'oggetto del riciclaggio e la volontà di ostacolarne, con una condotta idonea, l'identificazione della provenienza e non richiede alcun riferimento a scopi di profitto o di lucro.
Il riciclaggio propone, quanto all'elemento soggettivo, problemi analoghi a quelli solitamente affrontati per la ricettazione: come la ricettazione può essere sorretto anche da un dolo eventuale che si configura in termini di rappresentazione da parte dell'agente della concreta possibilità della provenienza del denaro da delitto.
Nel caso in esame la corte di merito ha desunto, dalle circostanze di fatto emerse dalle complessive risultanze processuali, che l'imputato aveva la consapevolezza dell'illecito, quanto meno nella dimensione del dolo eventuale.
Si tratta, ad avviso della Corte, di conclusioni pienamente in linea con i principi fissati, con riferimento alla (in parte analoga) fattispecie della ricettazione, dalla citata Sez. U, n. 12433 dei 26/11/2009 - dep. 30/03/2010, Nocera, Rv. 24632301.
Le S.U., con tale pronunzia, hanno avuto modo di chiarire che in tema di ricettazione, il dolo eventuale riguarda, oltre alla verificazione dell'evento, il presupposto della condotta, consistendo, in questo caso, nella rappresentazione della possibilità dell'esistenza del presupposto stesso e nell'accettazione dell'eventualità di tale esistenza, principi che la difesa richiama a proprio favore al fine di dimostrare la dedotta carenza di dolo del reato di riciclaggio.
Hanno, in particolare, rilevato che: "Occorrono per la ricettazione circostanze più consistenti di quelle che danno semplicemente motivo di sospettare che la cosa provenga da delitto, sicché un ragionevole convincimento che l'agente ha consapevolmente accettato il rischio della provenienza delittuosa può trarsi solo dalla presenza di dati di fatto inequivoci, che rendano palese la concreta possibilità di una tale provenienza. In termini soggettivi ciò vuol dire che il dolo eventuale nella ricettazione richiede un atteggiamento psicologico che, pur non attingendo il livello della certezza, si colloca su un gradino immediatamente più alto di quello del mero sospetto, configurandosi in termini di rappresentazione da parte dell'agente della concreta possibilità della provenienza della cosa da delitto. Insomma perché possa ravvisarsi il dolo eventuale si richiede più di un semplice motivo di sospetto, rispetto al quale l'agente potrebbe avere un atteggiamento psicologico di disattenzione, di noncuranza o di mero disinteresse; é necessaria una situazione fattuale di significato inequivoco, che impone all'agente una scelta consapevole tra l'agire, accettando l'eventualità di commettere una ricettazione, e il non agire, perciò, richiamando un criterio elaborato in dottrina per descrivere il dolo eventuale, può ragionevolmente concludersi che questo rispetto alla ricettazione é ravvisabile quando l'agente, rappresentandosi l'eventualità della provenienza delittuosa della cosa, non avrebbe agito diversamente anche se di tale provenienza avesse avuta la certezza.
Insomma perché possa ravvisarsi il dolo eventuale si richiede più di un semplice motivo di sospetto, rispetto al quale l'agente potrebbe avere un atteggiamento psicologico di disattenzione, di noncuranza o di mero disinteresse; é necessaria una situazione fattuale di significato inequivoco, che impone all'agente una scelta consapevole tra l'agire, accettando l'eventualità di commettere una ricettazione, e il non agire, perciò, richiamando un criterio elaborato in dottrina per descrivere il dolo eventuale, può ragionevolmente concludersi che questo rispetto alla ricettazione é ravvisabile quando l'agente, rappresentandosi l'eventualità della provenienza delittuosa della cosa, non avrebbe agito diversamente anche se di tale provenienza avesse avuta la certezza".
Ma a fronte della contestazione riguardante la carenza dell'elemento psicologico giova replicare che nella sentenza impugnata la componente volontaristica, sub specie di dolo, é ben tracciata ed é ricavata da indici sintomatici inequivoci quali: l'anomalia delle operazioni connotate dalla movimentazione di ingenti quantità di oro e di argento; le competenze professionali del ricorrente; la specificità della normativa violata - particolarmente rigorosa implicante la tracciabilità di ogni acquisto proprio al fine di evitare la commercializzazione di beni di provenienza illecita; la effettuazione di vendite in nero e, talvolta, con documentazione fittizia quanto alla provenienza, circostanze tutte che imponevano all'imputato "esperto del settore", riconosciute le operazioni come anomale, di astenersi dal compierle, sicché la scelta attiva di fornire ai suoi concorrenti "una strategia di collaborazione al fine di superare i problemi di natura tecnica e burocratica", ha costituito l'esito di un processo decisionale autonomo, con accettazione del rischio che si attuasse il riciclaggio.
Sotto altro profilo, e quanto alla ulteriori eccezioni afferenti la carenza del dolo, occorre osservare che, acclarati i suindicati elementi di fatto, a nulla rileva, quindi, che la corte di appello non abbia svolto il giudizio controfattuale consistente nella verifica della consapevolezza dell' A., circa le conseguenze derivanti dal suo comportamento illecito poiché trattasi di argomenti che introducono rilevazioni non necessarie, anche tenendo conto della sentenza delle Sezioni Unite n. 38343 del 24/4/2014 citata dal ricorrente.
Con tale pronunzia le Sezioni unite si sono occupate di individuare la linea di demarcazione tra la colpa cosciente e il dolo eventuale precisando che: "in tema di elemento soggettivo del reato, il dolo eventuale ricorre quando l'agente si sia chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell'evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l'eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l'evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi".
Nello stesso arresto le Sezioni unite hanno fornito, sul piano probatorio, l'indicazione degli elementi sintomatici del dolo eventuale, ai fini della distinzione con la colpa cosciente, affermando: "In tema di elemento soggettivo del reato, per la configurabilità del dolo eventuale, anche ai fini della distinzione rispetto alla colpa cosciente, occorre la rigorosa dimostrazione che l'agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si é verificata nella fattispecie concreta aderendo psicologicamente ad essa e a tal fine l'indagine giudiziaria, volta a ricostruire riter" e l'esito del processo decisionale, può fondarsi su una serie di indicatori quali: a) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa; b) la personalità e le pregresse esperienze dell'agente; c) la durata e la ripetizione dell'azione; d) il comportamento successivo al fatto; e) il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali; f) la probabilità di verificazione dell'evento; g) le conseguenze negative anche per l'autore in caso di sua verificazione; h) il contesto lecito o illecito in cui si é svolta l'azione nonché la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l'agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell'evento (cosiddetta prima formula di Frank)". Ebbene, in questa cornice ermeneutica, non può non prendersi atto che le categorie del dolo eventuale (e della colpa cosciente) sono concepite dogmaticamente come figure contigue e speculari, tanto é vero che si utilizza la "formula di Frank" proprio allo scopo di risolvere i casi di confine, ma da ciò non discende alcuna violazione di legge da parte dei giudici chiamati a verificare la sussistenza dell'elemento psicologico nel caso concreto atteso che, come affermato dalle S.U., il giudice, nel compiere una tale valutazione processuale, deve "avvalersi di tutti i possibili alternativi strumenti d'indagine".
E, difatti, la corte di merito ha sviluppato in maniera completa, come sopra precisato, l'indagine sull'iter decisionale esaminando, é bene ribadirlo, le caratteristiche delle operazioni di commercializzazione delle verghe aurifere, la loro consistenza, i tempi di loro verificazione, ricavando da esse, come sopra detto, sicuri indici di anomalia che nonostante tutto non hanno dissuaso l'agente, pur soggetto addetto al settore e, quindi, pienamente a conoscenza delle regole assai rigide che disciplinano la compravendita dell'oro, dal fornire il proprio contributo decisivo accettando così, consapevolmente, il rischio della consumazione del riciclaggio.
Ne deriva l'infondatezza anche di tale motivo.
12. Il ricorso di M.L., pure valutate le ulteriori argomentazioni di cui alla memoria in data 20 Ottobre 2020, deve essere rigettato.
12.1. I primi due motivi, da esaminare congiuntamente in quanto fra loro connessi, sono privi di fondamento.
La corte di appello, con motivazione priva di fratture logiche manifeste e decisive, coerente con le emergenze processuali e rispettosa delle linee ermeneutiche tracciate dalla Corte di Cassazione in materia e che si sottrae, quindi, a censure di legittimità, ha evidenziato come la condotta contestata comprendeva un' attività di "trasformazione" dell'oro rubato in lingotti successivamente commercializzati attraverso la predisposizione di documentazione, evidentemente finalizzata a dissimulare la provenienza illecita del metallo prezioso, ma anche la successiva attività di "trasferimento" di tali lingotti.
Attività che vedeva coinvolto, in prima persona, il M. il quale, secondo la ricostruzione operata dai giudici di merito, é risultato impegnato sia nella fasi preliminari che, evidentemente, nella fase successiva di commercializzazione.
Tali azioni di "trasformazione" e di "trasferimento", ovvero di passaggio dell'oro di provenienza illecita, coinvolge in modo concorsuale non solo chi mette in circolazione il bene ma anche chi lo riceve e si attiva nella consapevolezza della sua illecita provenienza e della sua successiva, illecita trasformazione (con riferimento al trasferimento illecito di valori cfr. Cass. sez. 1, n. 39567 del 13/06/2014, Rv. 260904; con riguardo al trasferimento di denaro cfr. Cass. sez. 2, n. 43881 del 09/10/2014, Rv. 260694).
Il collegio ritiene, infatti, che la fattispecie prevista dall'art. 648 bis c.p., é rivolta a sanzionare non solo le condotte finalizzate alla dissimulazione della provenienza illecita dei beni, attraverso la attività di modifica e trasformazione dei beni di provenienza illecita, ma anche le condotte di trasferimento degli stessi, sia antecedenti che successive ad eventuali attività di trasformazione, essendo tali condotte funzionali a favorire la circolazione di beni di provenienza illecita (in materia di trasferimento di auto rubata e già alterata negli aspetti identificati: Cass. sez. 2, n. 51414 del 18/09/2013, Rv. 258195).
In ordine alla contestazione di parte ricorrente secondo cui il M., in quanto ritenuto dalla medesima corte di appello coinvolto nella fase iniziale relativa alla ricezione di oro di provenienza illecita, doveva rispondere esclusivamente del reato di ricettazione in virtù della clausola di sussidiarietà va chiarito quanto segue.
La questione se il reato di ricettazione possa essere ritenuto un reato presupposto del reato di riciclaggio con la conseguenza che l'agente che se ne sia reso responsabile non possa rispondere del reato di riciclaggio, in virtù della clausola di esclusione di cui all'art. 648 bis c.p., comma 1, é stata affrontata e risolta da questa Corte di legittimità nei seguenti termini che, qui vanno ribaditi e confermati: "dalla lettura della norma é agevole desumere che oggi il delitto di riciclaggio non é più distinguibile da quello di ricettazione sulla base dei delitti presupposti; e che le differenze strutturali tra i due reati debbono essere ricercate oltre che nell'elemento soggettivo (scopo di lucro come dolo specifico nella ricettazione, e dolo generico per il riciclaggio) nell'elemento materiale e in particolare nella idoneità a ostacolare l'identificazione della provenienza del bene, che é elemento caratterizzante le condotte del delitto previsto dall'art. 648 bis c.p." (vedi in tale senso Cass. Sez. 2, Sentenza n. 25940 de 12/02/2013 Ud (dep. 13/06/2013, Rv. 256454).
Deve ritenersi, quindi, che l'elemento differenziale tra le due ipotesi delittuose di cui agli artt. 648 e 648 bis c.p., a seguito dell'intervento modificativo posto in essere dalla L. 9 agosto 1993, n. 328, art. 4, consiste, oltre che nell'elemento soggettivo (che assume la configurazione del dolo specifico nella ricettazione consistendo nella specifica finalità di profitto, e del dolo generico nel riciclaggio), nella condotta incriminata, consistente, nel reato di riciclaggio, oltre che nella sostituzione o trasferimento di denaro, beni o utilità provenienti da delitto, anche nella interposizione di ostacoli alla identificazione della provenienza delittuosa di tali beni o utilità, attività, quest'ultima, che rappresenta un "quid pluris" rispetto all'acquisto, alla ricezione o all'occultamento, che caratterizzano, invece, l'elemento materiale del reato di ricettazione.
Va, pertanto, in questa sede dato seguito all'orientamento secondo cui il delitto di riciclaggio si distingue da quello di ricettazione in relazione all'elemento materiale, che si connota per l'idoneità ad ostacolare l'identificazione della provenienza del bene e all'elemento soggettivo, costituito dal dolo generico di trasformazione della cosa per impedirne l'identificazione. (Fattispecie nella quale é stato qualificata come riciclaggio la condotta, posta in essere dall'imputato e da correi, consistente nel ricevere assegni provento di delitto, nel contraffarli quanto al nome del beneficiario, nel fare aprire a terzi conti postali con false generalità su cui versava gli assegni, con monetizzazione dei titoli e prelievo della corrispondente somma di denaro). (Sez. 2, n. 30265 del 11/05/2017 - dep. 16/06/2017, Giamé , Rv. 27030201).
Allorquando l'acquisto o la ricezione sono accompagnati dal compimento di operazioni o attività atte ad ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa del denaro, dei beni e delle utilità, non é configurabile il mero reato di ricettazione, ma si é in presenza del più grave reato di cui all'art. 648 bis c.p..
E, pertanto, tale elemento rappresenta, sicuramente, l'elemento distintivo delle due fattispecie, nel senso che colui il quale si limita a ricevere, acquistare od occultare denaro o cose provenienti da delitto senza compiere alcuna attività specificamente volta ad ostacolare la identificazione della loro provenienza, risponderà esclusivamente del reato ricettazione, mentre colui il quale, a prescindere dal modo in cui ne sia venuto in possesso, compie sui beni provenienti da delitto attività, diverse dal mero nascondimento, idonee ad ostacolare la individuazione della illecita provenienza di essi, risponderà del reato di riciclaggio, indipendentemente dai motivi che hanno determinato tale ulteriore attività.
Vero é infatti che, per molti aspetti, le due condotte, a prescindere dal diverso atteggiarsi del dolo (specifico - per come detto - nella ricettazione, generico nel riciclaggio) sono perfettamente sovrapponibili.
Ma, appunto perciò, verificandosi un tipico caso di concorso apparente di norme, si deve applicare il cosiddetto principio di specialità, in virtù del quale, quando tutti gli elementi contenuti nella fattispecie generale sono compresi nella fattispecie speciale, che presenta inoltre uno o più elementi particolari, é quest'ultima che si deve applicare con esclusione dell'altra.
Il riciclaggio é una norma speciale rispetto alla ricettazione il cui elemento specializzante é costituito dalla ricezione di un bene di provenienza illecita (elemento comune con la ricettazione) finalizzata ad ostacolare l'identificazione della sua origine delittuosa tramite la c.d. "ripulitura".
Si é , infatti, condivisibilmente, affermato che sussiste relazione di specialità fra il delitto di riciclaggio e quello di ricettazione, poiché il primo si compone della stessa condotta di acquisto o ricezione di denaro o altra utilità, arricchita dall'elemento aggiuntivo del compimento di attività dirette ad ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa. (Sez. 2, n. 43730 del 12/11/2010 - dep. 10/12/2010, Gizzi, Rv. 24897601).
Le S.U., con la pronunzia n. 25191/2014, hanno chiarito che la plurioffensività dei delitti disciplinati dagli artt. 648 bis e 648 ter c.p., costituisce uno dei profili che giustificano l'affermazione che il delitto di riciclaggio é speciale rispetto alla ricettazione (cfr. ex plurimis Sez. 2, n. 43730 del 12/12/2010, Gizzi, Rv. 248976; Sez. 2, n. 32901 del 09/05/2007, Batacchi, Rv. 237488; Sez. 2, n. 199707 del 19/02/2009, Abruzzese, Rv. 244879), ferma restando la loro reciproca distinzione anche per l'elemento materiale e per quello soggettivo (Sez. 2, n. 25940 del 12/02/2013, Bonnici, Rv. 256454; Sez. 2, n. 35828 del 09/05/2012, Acciaio, Rv. 253890; Sez. 2, n. 47088 del 14/10/2003, Di Capua, Rv. 227731; Sez. 2, n. 13448 del 23/02/2005, De Luca, Rv. 231053), e che analogo rapporto di specialità esiste tra il delitto di riciclaggio e quello di reimpiego (Sez. 2, n. 18103 del 10/01/2003, Sirani, Rv. 224394; Sez. 2, n. 29912 del 17/05/2007, Porzio, Rv. 237262; Sez. 4, n. 6534 del 23/03/2000, Aschieri, Rv. 216733).
La corte d'appello, in parte richiamando il condiviso percorso argomentativo del primo giudice, in parte richiamando le risultanze probatorie ed, in particolare, il significativo materiale captativo, ha ricostruito il meccanismo operativo criminoso in questione, perdurante nel tempo, sviluppato con la raccolta di materiali d'oro e d'argento di provenienza illecita, circostanza questa non contestata dal medesimo imputato, nella successiva trasformazione in lingotti e nella loro commercializzazione tramite documentazione fiscale di copertura fornita da M., risultato pienamente compartecipe del meccanismo de quo, con le sue società, a cui si univano le prestazioni accessorie, come la movimentazione del denaro che costituiva la provvista per le operazioni.
Un progetto unitario, dunque, che, secondo la ricostruzione operata dai giudici territoriali con congrue argomentazioni, ha visto il pieno coinvolgimento del M. fin dalla prima fase, secondo quanto confermato dalle plurime frequentazioni del ricorrente nello stabilimento del coimputato C. nonché dai reiterati contatti testimoniati dalle immagini della videosorveglianza con alcuni fornitori, tanto da assistere allo scambio di merce dietro pagamento di cui garantiva la provvista ed, ancora, dalla presenza del medesimo alle riunioni "strategiche" per l'azione delittuosa, univocamente indicativa della sua piena compartecipazione alla condotta delittuosa in questione, non diversificandosi, pertanto, la condotta del ricorrente, nei suoi elementi fattuali, rispetto a quella contestata ed acclarata e nei confronti dei correi non impugnanti.
I giudici di appello senza incorrere, quindi, in alcuna illogicità ma diversamente qualificando i fatti per come emersi nel corso del giudizio sono pervenuti alla corretta contestazione di riciclaggio in quanto gli imputati, fra cui il M., provvedevano non a reimpiegare i metalli preziosi di provenienza illecita in attività economiche o finanziarie, secondo il dettato normativo previsto dall'art. 648 ter c.p., ma direttamente a commercializzarlo grazie ad una accertata attività dissimulatoria costituita dalla loro trasformazione e relativa copertura documentale per costruire un'origine lecita, attività che, rientra, pienamente, nel paradigma del riciclaggio alla luce dei principi sopra citati.
La tesi difensiva, per cui ricevendo la merce di provenienza delittuosa si commetterebbe il reato di cui all'art. 648 c.p., e il resto delle condotte costituirebbero un post factum non punibile o potrebbero integrare il reato di cui all'art. 648 ter 1 c.p., non coglie in alcun modo nel segno perché finisce per parcellizzare una condotta che, correttamente, é stata letta unitariamente dalla corte di appello, risultando rispettati i parametri ermeneutici sopra richiamati quanto ai rapporti fra riciclaggio e ricettazione.
Nella specie, come chiarito dalla corte di appello, il ricorrente non può rispondere di ricettazione in quanto, secondo la ricostruzione operata dai giudici di appello il M., unitamente ai quattro coimputati suindicati, esaurita la fase di dissimulazione, aveva cooperato per la vendita dell'oro "trasformato" in lingotti fornendo una "patente di autenticità creando della documentazione fittizia attestante una loro provenienza da società ungheresi o croate", condotta che rientra, come detto, nel paradigma di cui all'art. 648 bis c.p..
Invero la soluzione ermeneutica idonea a risolvere il problema del rapporto della fattispecie in questione con i delitti di ricettazione e/o di riciclaggio, appare quella che si fonda sulla distinzione tra unicità o pluralità di comportamenti e determinazioni volitive, dovendosi escludere dalla punibilità ex art. 648 bis, coloro che abbiano già commesso il delitto di ricettazione e che, successivamente, con determinazione autonoma abbiano poi operato una qualche trasformazione e dissimulazione e sono, invece, punibili per riciclaggio coloro che, con unicità di determinazione teleologica originaria, hanno compiuto operazione tese a dissimulare la provenienza illecita e lo abbiano ceduto, senza una vera e propria attività di "reimpiego" in attività economiche o finanziarie.
Il discrimine passa, dunque, attraverso il criterio della pluralità ovvero della unicità di azioni (e delle determinazioni volitive ad esse sottese), non apparendo né carente né illogica né contraddittoria la motivazione della corte di appello la quale ha ricostruito la condotta del M. quale "unicum".
12.2. Il ricorrente, con il secondo motivo, ha insistito, poi, sulla necessità di qualificare la condotta suddetta quale ipotesi di auto riciclaggio ex art. 648 ter.1 c.p., eventualmente collegata a violazioni della normativa fiscale, evidenziando che, secondo la tesi fatta propria dalla corte di appello, egli era risultato coinvolto nella condotta di ricettazione materialmente compiuta dai correi (e per il reato di cui al capo 3. di fatturazione di operazione per operazioni inesistenti direttamente a lui ascrivibile), aveva concorso alla attività dissimulatoria attraverso la trasformazione fisica dei beni ricettati in verghe aurifere e la predisposizione di documentazione fiscale fittizia ed aveva direttamente commercializzato le verghe aurifere presso le aziende operanti nel settore attraverso la società di cui era legale rappresentante, la "(OMISSIS)".
Osserva la Corte che, con l'introduzione dell'autoriciclaggio, la scelta del legislatore é stata quella di identificare condotte ritenute espressive di un disvalore aggiuntivo rispetto al delitto presupposto senza procedere all'eliminazione della clausola di riserva di cui all'art. 648 bis c.p., lavorando sulla condotta di "reimpiego", ritenendo, però, di dover apportare dei correttivi una volta riferita all'autore o concorrente nel delitto presupposto.
Da un lato, infatti, l'autoriciclaggio si distingue dall'art. 648 bis, sia perché nel riciclaggio sono puniti anche i comportamenti diversi dalla sostituzione e dal trasferimento ("altre operazioni") che ostacolano la rintracciabilità del provento, sia perché nell'autoriciclaggio le condotte di laundering devono risolversi in un impiego in attività economiche e finanziarie, e rivelarsi "autenticamente frappositive, idonee a recare concreto ostacolo alla identificazione del provento illecito".
Il nuovo delitto si differenzia dal reimpiego di cui all'art. 648 ter, il quale non contempla - a differenza del primo - alcun profilo di necessaria decettività della condotta.
Orbene rileva la corte che come sopra chiarito ed alla luce degli elementi di fatto sopra indicati come ricostruiti dalla corte di appello deve ritenersi integrata, in relazione alle condotte di cui capi di imputazione in esame, la condotta ex art. 648 bis c.p. sussistendone i presupposti oggettivi e soggettivi.
Non può del resto non considerarsi che secondo quanto ricostruito dai giudici di merito il M.: "titolare di una soltanto formale attività imprenditoriale con sede in Ungheria, garantisce alla platea di imprenditori interessati (nella specie, C.) la predisposizione di fittizia documentazione fiscale idonea a garantire la reimissione nel mercato legale di merce di illecita provenienza. Questo é dunque il ruolo che deve annettersi al M. nella vicenda in esame, in quanto, in tutte le fasi in cui si é articolata l'azione delittuosa, il suo apporto é consistito nell'emettere la falsa documentazione fiscale atta a dimostrare una presunta diversa e lecita provenienza dell'oro e, al contempo, nel movimentare tra l'Ungheria e l'Italia ingenti somme di denaro contante costituenti il profitto delle operazioni commerciali soltanto formalmente intercorrenti con la società ungherese a lui facente capo".
Ed a sua volta la corte di appello, senza in alcun modo alterare un simile accertamento, ha ricostruito la vicenda nel senso che la società, di cui era legale rappresentante, la (OMISSIS). operava come "schermo fittizio" (v. sent. pag. 99).
A fronte di una simile ricostruzione in fatto non coglie nel segno la contestazione secondo cui il M. avrebbe compiuto una mera attività di auto-riciclaggio difettando l'elemento di un vero e proprio "impiego" in attività finanziarie, economiche o imprenditoriali dei proventi del reato presupposto.
12.3. Anche l'ulteriore motivo riguardante il trattamento sanzionatorio é manifestamente infondato in quanto la graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 c.p.; ne discende che é inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013 - 04/02/2014, Ferrario, Rv. 259142), ipotesi che - nel caso di specie - non ricorre.
Occorre, rilevare, che la mancata concessione delle attenuanti generiche nella massima estensione di un terzo non impone al giudice di considerare necessariamente gli elementi favorevoli dedotti dall'imputato, sia pure per disattenderli, essendo sufficiente che nel riferimento a quelli sfavorevoli di preponderante rilevanza, ritenuti ostativi alla concessione delle predette attenuanti nella massima estensione, abbia riguardo al trattamento sanzionatorio nel suo complesso, ritenendolo congruo rispetto alle esigenze di individualizzazione della pena, ex art. 27 Cost., (Sez. 7, n. 39396 del 27/05/2016 - dep. 22/09/2016, Jebali, Rv. 26847501)
Sono, poi, inammissibili anche le censure rivolte nei confronti della motivazione relativa agli aumenti per continuazione. Il collegio condivide l'orientamento espresso dalla Corte di legittimità secondo cui, in tema di determinazione della pena nel reato continuato, non sussiste l'obbligo di specifica motivazione per gli aumenti di pena effettuati ai sensi dell'art. 81 c.p., valendo a questi fini le ragioni a sostegno della quantificazione della pena - base (Cass. sez. 5, n. 27382 del 28/04/2011, Rv. 250465; Cass. sez. 5, n. 11945 del 22/09/1999, Rv. 214857).
12.4. L'ultimo motivo é infondato.
12.4.1. Assume la difesa del ricorrente che la confisca per equivalente avrebbe dovuto riguardare solamente il profitto da lui conseguito (pari al 3,5% del prezzo di vendita secondo quanto emerso) e non già il profitto realizzato anche dai suoi complici, ed in tal senso richiama l'orientamento giurisprudenziale secondo cui "quanto all'estensione della confisca nel caso di reato commesso da più persone in concorso tra loro, questa Corte ha affermato che, mentre il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente - avendo natura provvisoria - può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l'intera entità del profitto accertato, il provvedimento definitivo di confisca - rivestendo invece natura sanzionatoria - non può essere duplicato o comunque eccedere, per ciascuno dei concorrenti, la quota di profitto a lui attribuibile (Cass., Sez. Un., n. 26654 del 27/03/2008 Rv. 239926; Sez. 5, n. 13562 del 10/01/2012 Rv. 253581; Sez. 2, n. 8740 del 16/11/2012 Rv. 254526; Sez. 6, n. 18536 del 06/03/2009 Rv. 243190; Sez. 6, n. 10690 del 20/02/2009 RV. 243189; Sez. 2, n. 38599 de. 20/09/2007 Rv. 238160", Cass. n. 17787/2014.
Al fine di esaminare la questione occorre muovere dal tenore dell'art. 648 quater c.p., comma 1, disposizione che stabilisce che nel caso di condanna ovvero di patteggiamento relativo ai reati di cui agli artt. 648 bis, 648 ter e 648 ter.1 c.p., "é sempre ordinata la confisca per equivalente dei beni che ne costituiscono il prodotto o il profitto, salvo che appartengano a persone estranee al reato": il che significa che la confisca, per il reo, ha natura afflittiva e sanzionatoria proprio perché , essendo parametrata al "valore equivalente al prodotto, profitto o prezzo del reato", prescinde dall'utile ricavato dai menzionati reati che, in ipotesi, potrebbe essere anche inferiore.
La confisca per equivalente, infatti, viene ad assolvere una funzione sostanzialmente ripristinatoria della situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l'imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile ed é , pertanto, connotata dal carattere afflittivo e da un rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, mentre esula dalla stessa qualsiasi funzione di prevenzione che costituisce la principale finalità delle misure di sicurezza (ex plurimis, Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255037; Sez. 3, n. 18311 del 06/03/2014, Cialini, Rv 259103; Sez. 3, n. 23649 del 27/02/2013, D'Addario, Rv. 256164). I suddetti rilievi, consentono, quindi, di ritenere che la confisca prevista nell'art. 648 quater c.p., non possa essere qualificata come una misura di sicurezza ma come una forma di prelievo pubblico a compensazione di guadagni illeciti e, quindi, come una misura sanzionatoria ed afflittiva che, in quanto tale, giustifica il sequestro (e la successiva confisca) per equivalente del prezzo o profitto del reato (nella specie riciclaggio) anche nei soli confronti di alcuni dei concorrenti nel reato, ferma la ripartizione interna.
E per la natura sanzionatoria della confisca si sono espresse, di frequente, le Sezioni Unite della Cassazione.
La suddetta conclusione trova, del resto, una giustificazione, a livello dogmatico, ove si osservi che, per la teoria monistica, cui é ispirata la disciplina del concorso di persone nel reato, ciascun concorrente, la cui attività si sia inserita con efficienza causale nel determinismo produttivo dell'evento, risponde anche degli atti posti in essere dagli altri compartecipi e dell'evento delittuoso nella sua globalità, che viene considerato come l'effetto dell'azione combinata di tutti.
Le Sezioni unite si sono, invero, espresse nel senso dell'applicazione, nel caso di illecito plurisoggettivo, del principio solidaristico che implica l'imputazione dell'intera azione e dell'effetto conseguente in capo a ciascun concorrente e pertanto, una volta perduta l'individualità storica del profitto illecito, la sua confisca e il sequestro preventivo a essa finalizzato possono interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l'intera entità del profitto accertato, ma l'espropriazione non può essere duplicata o comunque eccedere nel "quantum" l'ammontare complessivo dello stesso (Sez. un., 27 marzo 2008, dep. 2 luglio 2008 n. 26654);
E', dunque, irrilevante quale sia la "quota" di profitto eventualmente incamerata dall'imputato o anche solo se egli abbia effettivamente ricavato una parte dello stesso a seguito della consumazione in concorso con altri del reato, quello che conta é solo che il suddetto profitto sia effettivamente conseguito e che lo stesso non sia più (in tutto o in parte) acquisibile nella sua materialità o in quella che gli autori del reato gli hanno impresso procedendo alla sua trasformazione.
La superiore censura, pertanto, va disattesa, alla stregua del seguente principio di diritto: "é legittima la confisca di cui all'art. 648 quater c.p., disposta in danno di un concorrente del reato di cui all'art. 648 bis c.p., per l'intero importo relativo al prezzo o profitto dello stesso reato, nonostante le somme illecite siano state incamerate in tutto o in parte da altri coindagati, in quanto, da un lato, il principio solidaristico, che informa la disciplina del concorso di persone nel reato, implica l'imputazione dell'intera azione delittuosa e dell'effetto conseguente in capo a ciascun concorrente e comporta solidarietà nella pena; dall'altro, la confisca per equivalente riveste preminente carattere sanzionatorio e può interessare ciascuno dei concorrenti anche per l'intera entità del prezzo o profitto accertato, salvo l'eventuale riparto interno tra i medesimi concorrenti che non ha alcun rilievo ai fini penali".
12.2.2. Anche l'ulteriore censura riguardante la confisca della società (OMISSIS) non può trovare accoglimento per le ragioni appresso chiarite.
Va premesso che i primi giudici, nel richiamare i principi fissati dalla giurisprudenza con la pronunzia delle S.U. n. 10561/2014 Gubert, hanno stabilito che la confisca andava estesa in solido anche ai beni di proprietà della (OMISSIS) di M. rilevando che, "la (OMISSIS) é risultata priva di una autonoma struttura e come tale ha operato come mero schermo formale impiegato da M. che ha agito quale vero e proprio dominus delle operazioni in contestazione. In altri termini, la (OMISSIS) ha di fatto agito come mero strumento operativo per la realizzazione di un'azione delittuosa riferibile al suo legale rappresentante. Sicché , in conformità alla giurisprudenza sopra richiamata, la confisca deve essere disposta anche a carico della (OMISSIS) risultata priva di un'autonoma struttura distinta da quella del suo legale rappresentante".
Sulla questione l'imputato, con l'atto di appello, ha proposto censure del tutto generiche essendosi limitato a rilevare, con riferimento alla suindicata società ungherese, che era evidente che le condotte imputate al M. non avevano recato alcun beneficio alla società nonché a sottolineare come "la (OMISSIS) contrariamente a quanto affermato in sentenza e come documentalmente provato in atti abbia regolarmente svolto, anche prima dei fatti in contestazione, attività di compravendita di metalli preziosi nell'ambito del mercato nazionale ed est-Europeo, ecco che non pare davvero giustificabile assoggettare i beni a confisca".
Invero un motivo di appello, così formulato, si caratterizza per il suo contenuto palesemente assertivo e aspecifico giacché non solo non sollevava alcuna puntuale critica rispetto alle argomentazioni adottate dal giudice di primo grado ma non consente neppure di identificare con precisione per il punto in questione e le ragioni di diritto e/o gli elementi di fatto su cui il gravame si fonda, limitandosi in sostanza a una mera apodittica contestazione degli argomenti spesi dal primo giudice.
La corte territoriale, a fronte di un simile contenuto, doveva rilevare (prima ancora di constatare, con argomenti non rivedibili nel merito in questa sede, che gli elementi acquisiti consentivano di ritenere che la (OMISSIS) aveva agito quale mero "strumento" del M. e che non sussisteva prova dell'attività svolta dalla società prima dei fatti in contestazione) l'inammissibilità del motivo gravame per difetto di specificità, giacché non risultavano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto e di diritto poste a fondamento della sentenza impugnata.
Va ricordato che la questione della specificità dei motivi di appello e dei poteri di declaratoria di inammissibilità delle impugnazioni, ai sensi dell'art. 591 c.p.p., é stato risolto dalla sentenza delle S.U. n. 8825 del 27/10/2016, Galtelli, Rv. 268823.
Con tale pronunzia le Sezioni Unite hanno affermato la sostanziale omogeneità della valutazione della specificità estrinseca dei motivi di appello e dei motivi di ricorso per cassazione per cui "L'appello (al pari del ricorso per cassazione) é inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della sentenza impugnata", precisando che "il sindacato sull'ammissibilità dell'appello, condotto ai sensi degli artt. 581 e 591 c.p.p., non può ricomprendere - a differenza di quanto avviene per il ricorso per cassazione (art. 606 c.p.p.,, comma 3) o per l'appello civile - la valutazione della manifesta infondatezza dei motivi di appello. La manifesta infondatezza non é infatti espressamente menzionata da tali disposizioni quale causa di inammissibilità dell'impugnazione".
Nel caso in esame risultando di immediata evidenza l'aspecificità estrinseca del motivo di appello enunciati senza idonea argomentazione critica alla decisione impugnata (motivo di appello, quindi, inammissibile) vanno ritenute inammissibili le censure, con le quali viene contestata la "non confiscabilità" della menzionata società, basate sulla deduzione di profili in punto di fatto mai adeguatamente dedotti in precedenza e che, pertanto, non possono essere formulati per la prima volta nell'odierno giudizio di legittimità.
In ogni caso anche a ritenere fondata la tesi di parte ricorrente circa una iniziale attività lecita della menzionata società si sarebbe verificata una inestricabile commistione e contaminazione fra attività lecita ed illecita della società che non può che ridondare a danno dell'imputato.
In proposito va richiamato l'orientamento secondo cui il sequestro preventivo funzionale alla confisca del profitto del reato di cui all'art. 648-ter c.p., può riguardare una intera società e il relativo compendio aziendale quando sia riscontrabile un inquinamento dell'intera attività della stessa, così da rendere impossibile distinguere tra la parte lecita dei capitali e quella illecita. (Nella concreta fattispecie, si trattava di una società che aveva utilizzato capitali di provenienza illecita, riconducibili al gestore del patrimonio di un sodalizio di stampo mafioso, per coprire crisi di liquidità, onorare gli impegni assunti con le banche e i
fornitori, ed incrementare l'attività aziendale). (Sez. 1, n. 2737 del 21/12/2010 - dep. 26/01/2011, Tassielli, Rv. 24917801).
13. Conclusivamente va dichiarata l'inammissibilità dei ricorsi proposti da L.E. e da T.D. che vanno condannati al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.
Vanno rigettati i ricorsi di B.M., C.R., G.G., G.d.B e V.C.M., M.L. e A.F., con condanna dei ricorrenti da ultimo indicati al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
dichiara inammissibili i ricorsi di L.E. e T.D. che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende. Rigetta i ricorsi di B.M., C.R., G.G., G.d.B. e V.C.M., M.L. e A.F. che condanna al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 24 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 5 marzo 2021