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Riciclaggio: sui rapporti con il reato di favoreggiamento reale



La massima

Il delitto di favoreggiamento reale è una figura criminosa sussidiaria rispetto a quella del riciclaggio di denaro di cui all' art. 648-bis c.p. Ne consegue che, qualora sussistano gli estremi di questa seconda ipotesi delittuosa, deve essere esclusa la prima (Cassazione penale , sez. II , 22/03/2018 , n. 16819).

 

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La sentenza integrale

Cassazione penale , sez. II , 22/03/2018 , n. 16819

RITENUTO IN FATTO

1. M.M., K.I., Ka.Ig. e G.D., a mezzo dei rispettivi difensori, hanno proposto separati ricorsi per cassazione contro la sentenza in epigrafe.


2. M.M. - condannato per i reati di usura (capi sub b-c-d-e-j-k-1-m-n-o-q-r-s-t-u-v-w-x-y), di estorsione tentata e consumata (capi sub f-1-z) e calunnia (capo sub p) - ha dedotto la violazione delle norme sul trattamento sanzionatorio (eccessività della pena; mancata esclusione della recidiva; mancata prevalenza delle attenuanti generiche), per non avere la Corte tenuto conto del comportamento processuale e del ruolo di secondaria importanza che aveva avuto nei fatti per cui è processo, essendo stato egli soltanto la longa manus dei soggetti effettivamente interessati alle transazioni;


3. KA.IG. e K.I., sebbene con separati ricorsi, hanno dedotto motivi perfettamente identici avendo entrambi sostenuto:


3.1. l'irrilevanza causale del loro contributo alla consumazione dei vari reati di cui sono stati ritenuti colpevoli;


3.2. l'inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa T.B.: sul punto, la difesa, ha dedotto ulteriori argomenti con i motivi aggiunti depositati il 19/04/2017;


4. G.D. - condannato per il delitto di cui all'art. 648 bis c.p. - ha dedotto:


4.1. La violazione dell'art. 648 bis c.p.: la difesa ha sostenuto, innanzitutto, che il ricorrente era stato condannato "in assenza di una specifica e puntuale contestazione degli elementi costitutivi e strutturali della condotta tipica ex art. 648 bis c.p. (....) deprivando l'imputato di una precisa e puntuale conoscenza dell'imputazione su cui articolare la difesa".


In secondo luogo, la difesa, ha sostenuto che, in modo illogico e contraddittorio, la Corte aveva desunto il dolo da circostanze fattuali in realtà prive di uno spessore indiziario certo ed univoco. Anzi, la circostanza che l'imputato avesse accreditato gli assegni provento di usura sul suo c/c in maniera tracciabile e che non li avesse alterati, ne dimostrava l'assoluta buona fede. Inoltre, "quei titoli erano stati consegnanti al G. a titolo di corrispettivo a fronte di precedenti ordinazioni (a lui) commissionate": sul punto, la Corte non aveva ritenuto attendibile la versione difensiva in modo del tutto illogico. Inoltre, non erano state tenute in debita considerazione le circostanze che i c/c sui quali gli assegni veniva versati preesistevano alle operazioni in questione e che l'imputato non aveva mai avuto alcun rapporto con le persone offese dai reati di usura. In realtà, l'imputato aveva offerto una valida ed alternativa tesi difensiva secondo la quale i rapporti che aveva intrattenuto con il M. e l' A. trovavano la loro causa in leciti rapporti commerciali nell'ambito dei quali aveva, appunto, ricevuto i titoli in contestazione a pagamento totale o parziale di precedenti commissioni. In tale ottica, la difesa, ha sostenuto che la vicenda dell'assegno del B. era privo di qualsiasi attitudine esplicativa, così come l'episodio richiamato dal N..


Infine, la difesa ha sostenuto che, a tutto concedere, difettava l'idoneità della condotta contestata ad ostacolare l'identificazione dell'asserita provenienza delittuosa del denaro, proprio perchè i versamenti dei titoli erano stati "pochi, trasparenti, tutti tracciati" e cioè "tali da consentire la piena ed evidente tracciabilità dl denaro senza alcuna possibilità di errore o di difficoltà nella ricostruzione" e dell'asserita provenienza delittuosa del denaro.


4.2. La violazione dell'art. 379 c.p. per non avere la Corte riqualificato la condotta di riciclaggio in quella del favoreggiamento;


4.3. La violazione degli artt. 62 bis, 133,69 e 163 c.p. per avere la Corte omesso di motivare sui motivi di appello proposti in ordine al trattamento sanzionatorio e per non avere valutato tutti gli indici di cui all'art. 133 c.p. al fine di rimodulare in melius la pena inflitta;


4.4. La violazione della L. n. 356 del 1992, art. 12 sexies per avere la Corte respinto il motivo di appello proposto sul punto "con argomentazioni del tutto generiche ed approssimative, concretizzando così il vizio di difetto assoluto di motivazione".




CONSIDERATO IN DIRITTO

1. RICORSO M.M.:


Il ricorso è inammissibile essendo manifestamente infondata la censura dedotta.


Il trattamento sanzionatorio - comprensivo del riconoscimento delle circostanze attenuanti e della loro comparazione con le eventuali aggravanti e della concessione dei benefici della sospensione condizionale e della non menzione - rientra nelle attribuzioni esclusive del giudice di merito e così anche la determinazione della pena da infliggere in concreto che, per l'art. 132 c.p., è applicata discrezionalmente dal giudice che deve indicare i motivi che giustificano l'uso di tale potere.



In sede di legittimità, è consentito esclusivamente valutare se il giudice, nell'uso del suo potere discrezionale, si sia attenuto a corretti criteri logico giuridici e abbia motivato adeguatamente il suo convincimento.


E', infatti, da ritenere adempiuto l'obbligo della motivazione in ordine alla misura della pena allorchè sia indicato l'elemento, tra quelli di cui all'art. 133 c.p., ritenuto prevalente e di dominante rilievo (Sez. un., n. 5519 del 21/4/1979, rv. 142252): invero, una specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata, in tutte le sue componenti, appare necessaria soltanto nel caso in cui la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale, potendo altrimenti risultare sufficienti a dare conto del corretto impiego dei criteri di cui all'art. 133 c.p. espressioni del tipo "pena congrua", "pena equa" o "congruo aumento", come pure il richiamo alla gravità del reato oppure alla capacità a delinquere (Sez. 2, n. 36245 del 26/6/2009, rv. 245596; Sez. 4, n. 46412 del 5/11/2015, rv. 265283).


Nel caso di specie, a fondamento della statuizione contestata, la Corte di appello, (pag. 5) ha quindi incensurabilmente valorizzato i precedenti penali dell'imputato, gravi e specifici, e le gravi modalità dei fatti accertati, che denotano spiccata capacità criminale: va peraltro rilevato che la Corte, prendendo atto del corretto comportamento processuale, ha calcolato la pena base (per il reato di estorsione) nel minimo edittale ed applicato minimi aumenti di pena per tutti i reati in continuazione, ed, infine, ha provveduto a ridurre la pena inflitta dal primo giudice. Tanto basta per ritenere incensurabile la decisione impugnata.


2. RICORSI KA.IG. E K.I.;


Entrambi i ricorsi sono inammissibili.


Quanto alla dedotta irrilevanza causale del contributo dei ricorrenti alla consumazione dei vari reati di cui sono stati ritenuti colpevoli, è sufficiente osservare che si tratta della medesima censura dedotta con i motivi di appello ma disattesa dalla Corte Territoriale con motivazione amplissima, congrua e coerente con i numerosi elementi fattuali puntualmente indicati (pag. 6 ss della sentenza impugnata): null'altro resta da aggiungere trattandosi di una mera questione di fatto riproposta in modo tralaticio e reiterativo in questa sede al fine di ottenere, in modo surrettizio, una nuova valutazione del merito.


Stessa cosa dicasi, mutatis mutandis, in ordine alla dedotta inattendibilità della persona offesa T.B. ampiamente confutata, in fatto, dalla Corte Territoriale (pag. 8). In particolare, con i motivi aggiunti del 19/04/2017, entrambi i ricorrenti hanno sostenuto l'insussistenza dei fatti loro addebitati ai capi sub g-h-i (usura ed estorsione in danno del T.) adducendo una serie di circostanze di fatto dalle quali, ad avviso della difesa, dovrebbe desumersi che il prestito fu effettuato ma senza interessi.


Al che deve replicarsi che si tratta della stessa tesi difensiva dedotta in appello (con il quale fu sostenuto che il prestito era stato concesso "per mero spirito di solidarietà umana") ma ritenuta dalla Corte Territoriale "risibile se raffrontata con le emergenze probatorie (....)" (pag. 8).


La dedotta censura (con la quale si adombra una sorta di travisamento della prova: omessa valutazione di due cambiali prodotte nel corso dell'udienza preliminare), quindi, va ritenuta manifestamente infondata alla stregua del seguente principio di diritto: "Qualora ci si trovi innanzi ad una cd. doppia conforme (doppia pronuncia di uguale segno) il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l'argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado. Infatti, in considerazione del limite del devolutum (che impedisce che si recuperino, in sede di legittimità, elementi fattuali che comportino la rivisitazione dell'iter costruttivo del fatto, salvo il caso in cui il giudice d'appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice) il sindacato di legittimità, deve limitarsi alla mera constatazione dell'eventuale travisamento della prova, che consiste nell'utilizzazione di una prova inesistente o nell'utilizzazione di un risultato di prova incontrovertibilmente diverso, nella sua oggettività, da quello effettivo".


3. RICORSO G.D.:


Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito indicate.



3.1. La Violazione dell'art. 648 bis c.p..


La difesa del ricorrente ha articolato un complesso motivo ruotante, sostanzialmente, sulle seguenti censure.


3.1.1. La nullità della sentenza in quanto la responsabilità dell'imputato era stata affermata "in assenza di una specifica e puntuale contestazione degli elementi costitutivi e strutturali della condotta tipica ex art. 648 bis c.p.".


La censura è manifestamente infondata. Infatti, ove la difesa intenda riferirsi alla genericità ed indeterminatezza del capo d'imputazione, l'eventuale nullità deve ritenersi sanata ex art. 181 c.p.p. non risultando essere mai stata dedotta nei giudizi di merito (SSUU 5307/2008, Battistella). Comunque, il capo d'imputazione è preciso e determinato in quanto descrive perfettamente la condotta di "riciclaggio" tenuta dal ricorrente.


3.1.2. L'assenza di dolo: anche la suddetta censura è manifestamente infondata. Sul punto non resta che rinviare alla lettura della sentenza impugnata (pag. 12 ss) in cui la Corte indica l'univoco e convergente quadro probatorio a carico dell'imputato (dichiarazioni accusatorie rese dal M. davanti al P.m. seppure poi ritrattate davanti al giudice delle indagini preliminari; intercettazioni telefoniche; servizi di appostamento; analisi dei c/c sequestrati) dal quale risulta che fosse perfettamente a conoscenza dell'illecita attività che svolgeva in favore degli usurai e per la quale veniva ricompensato.


La Corte Territoriale ha, poi, preso in esame anche la tesi difensiva (secondo la quale l'imputato era all'oscuro di ogni cosa ed i titoli che versava sui propri c/c derivavano da leciti rapporti commerciali) ma l'ha confutata in modo congruo, logico e coerente con gli evidenziati elementi fattuali stigmatizzandone, quindi, l'inverosimiglianza (pag. 13).


In questa sede, la difesa non ha fatto altro che reiterare la propria tesi alternativa sostenendone l'attendibilità. Al che deve replicarsi che, in tema di controllo sulla motivazione, alla Corte di cassazione è normativamente preclusa la possibilità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi e, quindi, di procedere ad una surrettizia rivalutazione del merito, potendo solo procedere a valutare la tenuta logica della motivazione (che, quindi, non dev'essere, ictu oculi, manifestamente illogica, dovendo il sindacato di legittimità essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze: ex plurimis SS.UU. 24/1999) e che la medesima sia rispettosa della regola di giudizio compendiata nella formula "al di là di ogni ragionevole dubbio".



Ciò comporta che il vizio di motivazione va escluso quando il ragionamento sia effettivamente adeguato a superare il ragionevole dubbio e, per, converso sussiste quando le alternative proposte dalla difesa siano logiche e fondate su elementi di prova acquisiti al processo e regolarmente prospettati.


Infatti, la condanna può essere pronunciata a condizione che il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili "in rerum natura" ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benchè minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell'ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (Cass. 17921/2010 Rv. 247449; Cass. 2548/2015 Rv. 262280; Cass. 20461/2016 Rv. 266941).


Nel caso di specie, non è ravvisabile alcun vizio motivazionale sotto il profilo dell'al di là di ogni ragionevole dubbio, perchè il giudice di merito, ha pronunciato sentenza di condanna sulla base di un compendio probatorio formato da indizi gravi, precisi e concordanti ex art. 192 c.p.p., comma 2 ed ha contestualmente escluso, con motivazione logica e congrua, la tesi alternativa prospettata dalla difesa in quanto priva di ogni riscontro processuale e, quindi, non razionalmente plausibile.


3.1.3. L'inidoneità della condotta contestata ad ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa del denaro. Anche la suddetta censura è manifestamente infondata.


In punto di fatto risulta accertato che gli usurai consegnavano denaro e titoli provenienti dal delitto di usura al G. il quale - dopo averli custoditi in un box di cui aveva la disponibilità - li versava sui propri conti correnti, li incassava e poi li restituiva, una volta "ripuliti", ai suddetti usurai che, in cambio, lo ricompensavano.


In punto di diritto, va premesso che il riciclaggio, è una norma speciale rispetto alla ricettazione il cui elemento specializzante è costituito dalla ricezione di un bene di provenienza illecita (elemento comune con la ricettazione) finalizzata ad ostacolare l'identificazione della sua origine delittuosa tramite la cd "ripulitura".


In altri termini, sotto il profilo dell'elemento materiale, il reato di riciclaggio, punisce le condotte che impediscono di identificare la provenienza delittuosa del denaro, beni o altra utilità, mentre quello di ricettazione sanziona il soggetto che si limita a ricevere la cosa di provenienza delittuosa, senza modificarla e ripulirla dalle possibili tracce della propria illecita provenienza.



L'art. 648 bis c.p. prevede tre condotte di riciclaggio (due nominate: la sostituzione ed il trasferimento; un'altra innominata: altre operazioni) finalizzate tutte ad "ostacolare la provenienza delittuosa": fra queste, ad es. il "successivo ritiro di denaro contante dell'importo corrispondente quello versato presso banche in assegno o altre tipologie di denaro": Cass. pen., sez. 4, 30 gennaio 2007, Gazzella.


Queste notorie nozioni, consentono, ora di affrontare la problematica del riciclaggio degli assegni e del denaro, problematiche che, spesso, vengono impropriamente sovrapposte e confuse.


Sulla suddetta problematica questa Corte di legittimità ha ritenuto quanto segue.


Ove l'imputato versi denaro contante, stante la fungibilità del bene, non può dubitarsi che il deposito in banca di denaro "sporco" realizzi automaticamente la sostituzione di esso, essendo la banca obbligata a restituire al depositante la stessa quantità di denaro depositato (ex plurimis Cass. 19504/2012 Rv. 252814, in motivazione).


Si verifica, poi, un'ipotesi di riciclaggio anche in tutti quei casi in cui l'imputato si presti a monetizzare un assegno (di provenienza illecita) con operazioni tali "da ostacolare la provenienza delittuosa" e, quindi, a ripulire l'importo di denaro per il quale è stato emesso: Cass. 1924/2016 rv. 265988; Cass. 4631/2016 Rv. 268316; Cass. 30265/2017 Rv. 270302.


Ora, applicando i suddetti principi di diritto alle concrete fattispecie in esame, ne deriva che la conclusione alla quale sono pervenuti entrambi i giudici di merito è corretta e conforme alla citata giurisprudenza di questa Corte di legittimità.


L'imputato, infatti, monetizzò gli assegni provento dei delitti commessi dagli usurai con il preciso obiettivo di "ostacolare" l'accertamento della provenienza illecita di quegli assegni, girando l'assegno (rilasciato dalle vittime dei reati presupposti) e versandolo sui propri conti correnti.


In altri termini, l'obiettivo di riciclaggio (ottenere la disponibilità di denaro "pulito" non riconducibile ai reati commessi dagli usurai), fu raggiunto dall'imputato attraverso il compimento delle seguenti tre operazioni tra di loro coordinate:


a) ricezione degli assegni provento del delitto di usura: in tal modo, veniva ostacolato il collegamento fra gli assegni con gli autori dei reati per effetto dei quali quegli assegni erano stati rilasciati dalle vittime;


b) versamento dei suddetti assegni sui propri conti correnti: essendo l'imputato estraneo al reato presupposto (usura), il collegamento fra gli assegni con gli autori dei reati, diventava ancora più difficoltoso;


c) monetizzazione degli assegni, con conseguente disponibilità del denaro a favore degli autori del reato i quali, quindi, alla fine di tutta questa operazione, si ritrovavano ad avere la disponibilità di denaro "pulito" non riconducibile agli assegni rilasciati a loro favore dalle vittime dei reati.


E' chiaro, quindi, che ci si trova di fronte ad una classica operazione di riciclaggio.


Infine, va osservato che è del tutto irrilevante, che il suddetto meccanismo fu scoperto a seguito delle indagini degli inquirenti perchè, ciò non significa, che il reato non fu commesso, essendo sufficiente, secondo quando dispone letteralmente l'art. 648 bis c.p. che le operazioni compiute ostacolino l'identificazione la provenienza delittuosa dei beni riciclati.



Infatti, a seguire la tesi del ricorrente (secondo la quale per il solo fatto che il meccanismo di riciclaggio venne scoperto, il reato non sarebbe configurabile), il suddetto reato non sarebbe, in pratica, mai perseguibile perchè, paradossalmente, sarebbe configurabile solo allorquando i marchingegni posti in essere dall'imputato siano tali da non rendere possibile l'accertamento del reato.


3.1.4. Infine, va osservato che, nella condotta tenuta dal ricorrente, non è ipotizzabile il diverso reato di favoreggiamento reale in quanto, secondo la giurisprudenza di questa Corte "il delitto di favoreggiamento reale è una figura criminosa sussidiaria rispetto a quella del riciclaggio di cui all'art. 648 bis c.p., allorquando siano ravvisabili gli estremi di detta ipotesi delittuosa. Ne consegue che, in tal caso, va affermata la sussistenza del reato di riciclaggio ed escluso quello di favoreggiamento reale": Cass. 43295/2010 rv. 248949; Cass. 11709/1994 rv 199762.


3.2. La violazione degli artt. 62 bis, 133,69 e 163 c.p..


La censura deve ritenersi manifestamente infondata alla stregua dello stesso principio di diritto illustrato supra al p. 1 (ricorso M.) essendo la motivazione addotta sul punto dalla Corte Territoriale (pag. 14) congrua e coerente con gli evidenziati elementi fattuali e conforme alla giurisprudenza di questa Corte puntualmente richiamata.


3.3. LA CONFISCA:



La censura è manifestamente infondata per le ragioni di seguito indicate.


Nella sentenza di primo grado (pag. 144), il giudice dell'udienza preliminare scrisse: "la Polizia Giudiziaria ha effettuato opportune indagini patrimoniali a carico degli imputati all'esito delle quali si è accertato che gli imputati sia personalmente che tramite gli stretti congiunti conviventi avevano la disponibilità di beni in misura sproporzionata rispetto ai redditi dichiarati e alle attività economiche effettivamente svolte, tali da poter essere giustificati solo da introiti illegali quali quelli provenienti dall'attività illecita svolta", Il giudice, dopo avere illustrato i principi di diritto ai quali si sarebbe attenuto e, in particolare, la sproporzione del reddito al momento dei singoli acquisti (SSUU n. 920/2004, Montella) e chiarito che al G. erano già stati dissequestrati alcuni beni, ha ristretto il sequestro solo ad alcuni di essi.


Nel proporre appello, la difesa (pag. 17 ss dell'atto di appello) si limitò a chiedere la revoca della suddetta confisca riportandosi integralmente ad una Ct di parte (dott. S.) che trascriveva integralmente.


La Corte Territoriale ha respinto il suddetto motivo di appello osservando che "le generiche argomentazioni contenute nell'atto di appello non consentono di ritenere superata la presunzione di illecita accumulazione patrimoniale da parte dell'interessato, sicchè la Corte ritiene che i condivisibili rilievi del giudice dell'udienza preliminare, ai quali si rimanda, giustifichino la conferma della confisca".


In questa sede il ricorrente ha lamentato, a sua volta, la genericità della motivazione addotta dalla Corte.


Al che deve replicarsi che, il motivo di appello era, in effetti, del tutto generico in quanto le osservazioni del Ctp dott. Fo., si limitavano, in pratica, ad un mero "confronto tra gli investimenti e le fonti legittime riferibili ai coniugi G.- F. per il periodo 1987-2010" (pag. 19 atto di appello), per poi concludere che, siccome "l'eccedenza numerica delle fonti legittime", pari ad Euro 621.354,79, era superiore di Euro 29.708,51, rispetto "al valore degli investimenti realizzati", pari ad Euro 591.646,28, allora non sussistevano i requisiti per la confisca: ma, è del tutto evidente che si tratta di un ragionamento di natura meramente "ragioneristico" (contrario a quanto stabilito dalle SSUU cit.) che, saltando a piè pari tutta la complessa problematica giuridica di cui ha dato atto lo stesso primo giudice, rende il motivo di appello del tutto generico ed aspecifico come correttamente ha ritenuto la Corte Territoriale.


E' chiaro, quindi, che in questa sede di legittimità, il ricorrente non può pretendere di "recuperare" e far valere quelle questioni di diritto la cui soluzione presuppone la valutazione di precisi dati fattuali che non sono stati fatti valere nel merito.


La censura, pertanto, va ritenuta manifestamente infondata.


3. In conclusione, tutte le impugnazioni devono ritenersi inammissibili a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 3, per manifesta infondatezza: alla relativa declaratoria consegue, per il disposto dell'art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonchè al versamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 2.000,00 ciascuno.


P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila ciascuno a favore della Cassa delle Ammende.


Così deciso in Roma, il 22 marzo 2018.


Depositato in Cancelleria il 16 aprile 2018


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