RITENUTO IN FATTO
1. Con il provvedimento impugnato la Corte d'Appello di Ancona, previa riunione per la parziale identità dei soggetti interessati e la connessione anche oggettiva tra le diverse fattispecie di reato in contestazione, ha deciso tre distinti processi, definiti in primo grado ciascuno con separate sentenze.
La decisione della Corte d'Appello, datata 2/5/2016, in parziale riforma delle sentenze di primo grado appellate, ha assolto V.N. dai reati ascrittigli: al capo B del proc. n. (OMISSIS), al capo A del proc. n. (OMISSIS), al capo B del proc. n. (OMISSIS) perchè il fatto non sussiste; ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di V.N. in relazione ai reati ascrittigli al capo C del proc. n. (OMISSIS), al capo B del proc. n. (OMISSIS) e nei confronti del V. stesso nonchè di T.I. in ordine ai capi B e C dei proc. n. (OMISSIS) (nei limiti in cui era stata emessa nei loro confronti condanna in primo grado) perchè estinti per prescrizione.
Di conseguenza, la Corte d'Appello ha rideterminato la pena nei confronti di V. in anni dodici di reclusione, ritenuta la continuazione tra le diverse ipotesi di reato residue, ed ha confermato nel resto le sentenze appellate, in particolare la condanna di M.C. alla pena di cinque anni di reclusione, nonchè la condanna di P.R. alla pena di anni cinque di reclusione ed alle medesime pene accessorie e interdittive inflitte al M..
Per tutti e tre tali imputati sono state confermate le pene accessorie di cui all'art. 216 L. Fall., u.c., per la durata di anni dieci, l'interdizione in perpetuo dai pubblici uffici e lo stato di interdizione legale durante l'espiazione di pena disposte in primo grado (in particolare con la sentenza del Tribunale di Ancona del 22.12.2011 relativa al p.p. n. (OMISSIS)).
I procedimenti riuniti si riferivano ai reati di bancarotta fraudolenta e documentale delle società in ciascuno di essi coinvolte (rispettivamente, distinte per procedimenti: (OMISSIS) s.r.l. e (OMISSIS) s.r.l. - p.p. n. (OMISSIS); (OMISSIS) s.r.l. - p.p. n. (OMISSIS); (OMISSIS) s.r.l. - p.p. n. (OMISSIS); (OMISSIS) s.r.l. - p.p. n. (OMISSIS); (OMISSIS) s.p.a. - p.p. n. (OMISSIS); (OMISSIS) s.r.l. - p.p. n. (OMISSIS); (OMISSIS) s.r.l. - p.p. n. (OMISSIS)) e riconducibili al (OMISSIS), avente come fine produttivo ultimo la produzione di cappe da cucina, attraverso diverse società che producevano la necessaria componentistica separatamente pur se in via collegata.
In primo grado, gli imputati già erano stati assolti dalle contestazioni di associazione a delinquere, nonchè di emissione di false fatture e truffa, con statuizioni divenute definitive a seguito della declaratoria di inammissibilità dell'appello del pubblico ministero, non impugnata.
2. Avverso la sentenza della Corte d'Appello di Ancona ricorrono gli imputati V.N., M.C. e P.R., con differenti ricorsi.
Ricorso M. - Avv. Schiava.
3.1. Con il primo motivo di ricorso si deduce vizio di violazione di legge in relazione all'art. 268 c.p.p. e conseguente inutilizzabilità ai sensi dell'art. 270 c.p.p. dei contenuti delle intercettazioni telefoniche disposte in altro procedimento.
La difesa sottolinea in proposito che la Corte di merito non ha inteso fornire risposta alcuna alle eccezioni di illegittimità sollevate identiche in appello, per aver basato il proprio convincimento su altre e differenti prove rispetto alle intercettazioni delle quali si chiedeva l'inutilizzabilità dei risultati, ma che tale ragione non è sufficiente ad aggirare l'obbligo di motivare al riguardo gravante sui giudici dell'appello.
La violazione di legge sarebbe consistita nel mancato rispetto delle formalità di deposito di verbali e registrazioni delle disposte intercettazioni in procedimento diverso e ciò determinerebbe la loro inutilizzabilità nei confronti del ricorrente, coinvolto solo nelle indagini di alcuni dei procedimenti riuniti ed in particolare nel p.p. n. (OMISSIS), non essendo sufficiente il deposito tardivo operato dal pubblico ministero e il riferimento al fatto che gli atti erano noti per gli indagati colpiti da misura cautelare e coinvolti nel procedimento "madre" n. (OMISSIS). Si sarebbe generata, pertanto, anche una nullità generale ai sensi dell'art. 178 c.p.p. per violazione del diritto di difesa, stante la diversità tra il procedimento nel quale erano stati depositati gli atti relativi alle intercettazioni e quello in cui era coinvolto il ricorrente.
3.2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione dell'art. 649 c.p.p. poichè M., quale socio della società (OMISSIS) s.r.l., sarebbe stato assolto dal GUP di Ancona, con la sentenza n. 26 del 2010 (acquisita nel corso del processo e divenuta irrevocabile), dal reato di associazione per delinquere e da quelli di emissione di fatture per operazioni inesistenti finalizzata all'evasione di imposte e di truffa aggravata nell'ambito dei procedimenti n. (OMISSIS) e (OMISSIS). I fatti sarebbero sostanzialmente gli stessi di quelli ai quali si è voluta riferire, nella sentenza della Corte d'Appello impugnata, la contestazione di bancarotta fraudolenta e ciò emergerebbe dalle stesse imputazioni, sicchè vi sarebbe stata violazione del divieto di ne bis in idem.
3.3. Un terzo motivo argomenta la violazione dell'art. 517 c.p.p. e la conseguente nullità derivatane ai sensi dell'art. 522 c.p.p. poichè, nonostante nel determinare la pena sia stato applicato l'aumento conseguente al riconoscimento delle aggravanti di cui all'art. 219 L. Fall., commi 1 e 2, n. 1, tali aggravanti non sarebbero mai state oggetto di contestazione formale nei confronti del ricorrente.
3.4. Il quarto motivo di ricorso propone vizio di carenza e contraddittorietà della motivazione in relazione all'affermazione di responsabilità del ricorrente per il reato di bancarotta fraudolenta documentale e per distrazione, pur essendo stato riconosciuto il suo ruolo di mera "testa di legno" societaria; la motivazione non avrebbe chiarito se vi sia stata reale consapevolezza delle proprie condotte da parte del ricorrente quale mero amministratore formale della società fallita, tanto più che nella già citata sentenza di assoluzione del GUP di Ancona, acquisita in atti, essa sarebbe stata esclusa.
Si argomenta, altresì, dell'insussistenza del reato di bancarotta fraudolenta documentale, poichè dall'esame del teste C., commercialista depositario delle scritture contabili, emerge che queste erano state regolarmente tenute sino al (OMISSIS); si deduce l'insussistenza anche del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non potendosi estendere all'amministratore - testa di legno il principio di automatica attribuzione della responsabilità per il reato nel caso di mancato reperimento dei cespiti sociali senza che venga fornita adeguata giustificazione della loro destinazione.
3.5. Il quinto ed ultimo motivo di ricorso si riferisce alla ipotizzabilità dell'ipotesi più lieve di bancarotta semplice documentale piuttosto che di quella di bancarotta fraudolenta documentale, mancando la prova del dolo specifico di realizzare un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori.
Ricorso P. - Avv. Schiava.
4.1. L'avv. Schiava propone ricorso anche nell'interesse dell'imputato P. riproponendo identico atto di impugnazione, con elencazione eguale, anche dal punto di vista formale, dei cinque motivi già esaminati per il caso del ricorso M. ai punti da 3.1. a 3.5., che si eviterà, pertanto, di ripetere in questa sede, specificando che la posizione del ricorrente è relativa al fallimento della società (OMISSIS).
Le due posizioni del M. e del P. sono state trattate con motivazione sovrapponibile dal GUP di Ancona, alla cui sentenza di assoluzione ci si richiama nel ricorso e della quale si è già detto nell'esposizione dei singoli motivi attinenti all'impugnazione di M. proposta dal medesimo difensore: i due, secondo tale provvedimento, avrebbero sempre dimostrato un totale disinteresse nei confronti delle società fallite delle quali erano stati solo formalmente amministratori.
Ricorso M. e P. - Avv. Ciucciomei.
5. Il ricorso proposto nell'interesse degli imputati M. e P. dall'avv. Ciucciomei si articola in due motivi.
5.1. Con il primo, si deduce violazione di legge con riferimento alla ritenuta sussistenza dell'ipotesi di bancarotta fraudolenta documentale, avendo la Corte d'Appello mal argomentato in relazione all'elemento psicologico, dimenticando gli orientamenti di legittimità che impongono, ai fini di ipotizzare la sua configurabilità in capo all'amministratore di diritto mero prestanome, che sia fornita la dimostrazione della effettiva e concreta consapevolezza dello stato delle scritture stesse, tale da impedire la ricostruzione del movimento degli affari. Il provvedimento impugnato, errando, ha riferito automaticamente tale consapevolezza al fatto di essersi i ricorrenti disinteressati della tenuta delle scritture e della gestione delle società che solo formalmente rappresentavano.
Altra deduzione del medesimo motivo di ricorso riguarda l'erroneo canone di giudizio utilizzato anche per ritenere in capo ai ricorrenti la sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, senza tener conto del fatto che nei confronti dell'amministratore mero prestanome la giurisprudenza di legittimità non attribuisce l'automatica responsabilità per il mancato rinvenimento di cespiti sociali in assenza di adeguata giustificazione, come nel caso dell'amministratore effettivo di essa, dovendosi invece pretendere la prova che la "testa di legno" abbia avuto generica consapevolezza dell'operato distrattivo dei reali gestori della società.
In particolare, si sottolinea come entrambi gli imputati - secondo la ricostruzione fornita dalla sentenza di assoluzione definitiva emessa dal GUP di Ancona nell'ambito del p.p. n. (OMISSIS) per i reati associazione a delinquere, emissione di false fatture e truffa - si fossero limitati a firmare, talvolta in bianco, disposizioni bancarie loro sottoposte dalla segretaria del V., T.I..
5.2. Il secondo motivo di ricorso deduce vizio di motivazione e violazione di legge con riferimento alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche ai ricorrenti.
Ricorso V. -
6. L'imputato V.N. propone ricorso mediante i propri difensori, avvocati Lucio Monaco e Gianni Marasca, articolando numerosi motivi.
7. Un primo motivo di ricorso (in cui si argomentano più deduzioni ed eccezioni difensive) è riferito alle contestazioni di bancarotta inerenti alle società (OMISSIS) s.r.l. e (OMISSIS) s.r.l. di cui al p.p. n. (OMISSIS) e deduce, anzitutto, mancanza anche grafica della motivazione, del tutto omessa nel provvedimento impugnato con riferimento ai capi a), b), d) ed e), nonostante i precisi motivi d'appello (proposti anche come motivi nuovi).
In particolare, si evidenzia che la Corte ha dato risposta, in relazione alle eccezioni riferite a tale procedimento, unicamente alle questioni di ordine processuale e non anche a quelle riferite ai profili sostanziali di sussistenza dei reati.
Neppure si ritiene ipotizzabile una motivazione per relationem nel caso di specie, sia perchè mancherebbe un esplicito rinvio al provvedimento di primo grado, sia perchè non vi sarebbe neppur alcun altro tipo di riferimento alla motivazione di questo.
In ogni caso, in presenza di espresse critiche alla sentenza di primo grado proposte con l'atto di appello ed anche di una ricostruzione alternativa, il giudice di secondo grado non avrebbe potuto riprodurre pedissequamente le ragioni del primo provvedimento senza dar conto delle eccezioni difensive specificamente dedotte.
Il ricorrente lamenta, altresì, violazione e falsa applicazione delle norme processuali previste a pena di nullità e inutilizzabilità in materia di intercettazioni telefoniche.
L'affermazione dei provvedimenti di merito secondo cui il p.p. n. (OMISSIS) non sarebbe un "diverso procedimento", ai fini dell'applicabilità dell'art. 270 c.p.p., rispetto al procedimento archiviato nel quale erano state disposte le intercettazioni poi utilizzate nelle sentenze di condanna, sarebbe errata così come è il concetto di procedimento diverso adottato nel provvedimento oggetto di ricorso.
I fatti emersi nel procedimento "madre", infatti, riguardavano condotte di riciclaggio precedenti ai fatti di reato poi emersi e contestati nel processo, mentre le intercettazioni di quel procedimento avevano dato l'avvio alle ulteriori indagini in seno a due procedimenti, poi confluiti in quello in esame.
Si contesta, altresì, la legittimità dell'acquisizione al processo dei risultati delle intercettazioni telefoniche disposte, per il ritardo con cui è stata depositata la relativa documentazione e le registrazioni sulle quali poi sono state decise, solo all'udienza del 11.11.2010, le trascrizioni, minando la possibilità di una selezione in contraddittorio dei risultati di esse e dando luogo ad una nullità di ordine generale intermedio, riferita all'esercizio del diritto di difesa dell'imputato, che non ha potuto esaminare i contenuti di tali prove di speciale valenza e regolare su di essi la propria strategia difensiva. Infine, anche la valutazione dei motivi d'appello riferiti al merito del contenuto delle intercettazioni trascritte è stata approssimativa ed insufficiente, basata sull'erroneo presupposto della marginalità probatoria dei loro risultati rispetto al compendio di prova complessivo.
Ancora si deduce violazione e falsa applicazione delle norme processuali previste a pena di inutilizzabilità in relazione ai contenuti delle relazioni fallimentari e delle dichiarazioni dibattimentali dei curatori dei fallimenti (OMISSIS) s.r.l. e (OMISSIS) s.r.l.
Le relazioni dei curatori sarebbero state inserite nel fascicolo del pubblico ministero e richieste per l'acquisizione solo ad istruttoria dibattimentale avanzata; dalle dichiarazioni rese in esame dai curatori stessi, sentiti ai sensi dell'art. 507 c.p.p., emerge che i loro contenuti non sono stati formati in sede extrapenale bensì solo a seguito delle indagini, basandosi proprio sui risultati di queste ultime. Tali relazioni e le dichiarazioni testimoniali ad esse relative non sarebbero, dunque, utilizzabili, incorrendosi altrimenti nel surrettizio ed irrituale utilizzo dei contenuti di atti di indagine.
Inoltre, il ricorrente evidenzia la mancata assunzione da parte del giudice di primo grado di prova decisiva a discarico richiesta dalla difesa del ricorrente, nonchè mancanza di motivazione della sentenza d'appello sulla legittimità del diniego.
La prova riguarda testimoni a discarico rispetto alle acquisizioni probatorie ex art. 507 c.p.p..
Sempre in relazione alle contestazioni relative al p.p. n. (OMISSIS), si deduce violazione di legge in relazione alle ragioni sulla base delle quali si è attribuita nelle sentenze di merito la qualifica di amministratore di fatto al ricorrente V.; violazione di legge in ordine alla utilizzabilità dei contenuti della sentenza di fallimento n. 66 del 2009 del Tribunale di Ancona; violazione di legge e vizio di motivazione quanto al canone di giudizio dell'oltre ogni ragionevole dubbio.
Si contesta, in particolare, nel merito delle accuse ritenute sussistenti a carico del ricorrente per il reato di bancarotta fraudolenta in relazione al p.p. n. (OMISSIS), che i giudici d'appello e di primo grado abbiano dato per accertato che il ricorrente rivestisse il ruolo di amministratore di fatto delle società riferibili al cd. "(OMISSIS)", facendo derivare tale dato dalle ragioni esposte nella sentenza civile e dal fallimento personale dell'imputato quale socio coordinatore delle società fallite oggetto delle contestazioni.
Il valore vincolante e definitivo dei contenuti della sentenza di fallimento - affermato dal giudice di primo grado - è frutto di un errore giuridico da parte del giudice di primo grado, perpetuato da quello di secondo grado, che sul punto si richiama alle conclusioni ed alle motivazione della sentenza del Tribunale di Ancona.
La sentenza di fallimento, infatti, è vincolante solo quanto all'accertamento delle condizioni per la declaratoria di fallimento, ma i suoi contenuti riferiti ad eventuali accertamenti di circostanze di fatto non hanno alcuna valenza probatoria.
Ne consegue un deficit di accertamento da parte della sentenza impugnata - che ricalca sul punto quella già carente di primo grado - circa la prova della responsabilità del ricorrente per i reati di bancarotta ascrittigli quale amministratore di fatto delle società riferite alla sua holding, non essendo stato evidenziato alcun elemento probatorio che riferisca all'imputato condotte gestorie delle società fallite.
Vengono poi proposte alcune eccezioni di merito relative alle conclusioni alle quali è pervenuta la sentenza impugnata, sulla scia di quella di primo grado, in punto di ricostruzione del meccanismo distrattivo e quanto all'operare delle società cartiere, nonchè relativamente alla incompatibilità di alcuni elementi di fatto emersi a sostenere il ruolo di reale gestore delle fallite da parte di V. (il commercialista e le "teste di legno" calabresi; un'unica intercettazione rilevante registrata a carico del ricorrente in due anni; nessun contatto personale tra gli altri soggetti imputati ed il ricorrente).
8. Un secondo motivo di ricorso attiene alle contestazioni riferite alla bancarotta della società (OMISSIS) s.p.a. (ed al p.p. n. (OMISSIS) riunito al p.p. n. (OMISSIS)), in relazione alla quale il ricorrente avrebbe distratto dal suo patrimonio risorse a favore della consorella (OMISSIS), pur sapendo che le difficoltà economiche di tale seconda società avrebbero impedito alla (OMISSIS) di riprendere la disponibilità di tali risorse. Si lamenta illogicità della motivazione sia quanto alla ricostruzione della condotta distrattiva realizzata, sia in relazione alla quantificazione della somma complessivamente distratta, quantificata in una misura pari a Euro 1.458.983,97 senza che la Corte d'Appello spieghi come arrivi a tale risultato.
9. Un terzo motivo di ricorso attiene alla bancarotta della società (OMISSIS) s.r.l. (p.p. n. 6033 riunito al p.p. n. (OMISSIS)) e deduce violazione di legge e vizio di motivazione per illogicità in relazione alla ritenuta condanna del ricorrente per il reato di bancarotta fraudolenta riferito a tale società, per aver distratto senza causa la somma di Euro 158.000 in favore della (OMISSIS) s.r.l..
In realtà la fattura ritenuta falsa sarebbe stata mal interpretata dalla Corte d'Appello e invece riferita ad un terreno realmente di proprietà della società fallita per lo studio di progettazione di un capannone da costruirsi su tale proprietà.
4. Un quarto motivo di ricorso si riferisce alla bancarotta della società (OMISSIS) s.r.l. (capi A e D, p.p. n. (OMISSIS)) e deduce vizi di violazione di legge e di motivazione per aver il giudice di appello ritenuto la bancarotta fraudolenta in capo al ricorrente quale amministratore di fatto della (OMISSIS), anch'essa fallita, sottolineando elementi di insufficienza del quadro probatorio alla base della pronuncia di condanna ed illogicità della motivazione, soprattutto con riferimento al ruolo di amministratore di fatto del ricorrente, dato sostanzialmente per presunto anche quando, successivamente al suo arresto in esecuzione della misura cautelare per i fatti per i quali è processo, era stato nominato un altro amministratore nella persona del sig. G., del quale si era sostanzialmente ignorato di indagare il coinvolgimento effettivo nella gestione societaria.
Quanto alla contestazione di cui al capo D del procedimento relativo alla società (OMISSIS) s.r.l. (operazioni dolose che avrebbero cagionato il fallimento della società) la difesa evidenzia che le condotte contestate sono invece riconducibili ad un'ipotesi di vantaggi compensativi poichè la concessione di finanziamenti e fideiussioni alle società in difficoltà economiche del gruppo facente capo al ricorrente era diretta esclusivamente a favorire la prosecuzione della loro attività produttiva, nella logica del vantaggio appunto del Gruppo societario.
5. Un quinto ed ultimo motivo attiene al profilo della dosimetria della pena.
Si denuncia violazione del divieto di reformatio in peius per aver la Corte d'Appello quantificato l'aumento per l'aggravante di cui all'art. 219 L. Fall., comma 1, in misura maggiore rispetto al primo giudice (2 anni e sei mesi, laddove il Tribunale aveva individuato in 2 anni la misura dell'aumento), peraltro neppure giustificando, nella motivazione, il perchè di tale incremento nella sua misura massima.
Inoltre, sussiste violazione di legge, quanto al divieto di reformatio in peius, anche rispetto all'aumento di pena per la continuazione con i reati di cui alla sentenza n. 1430/2011 (capi d) ed e) del p.p. n. (OMISSIS); capi b) e c) del p.p. n. (OMISSIS)), in relazione al quale, avendo il giudice d'appello dichiarato la prescrizione dei reati di truffa e fiscali, si sarebbe dovuta operare una corrispondente diminuzione, così come si sarebbe dovuto tenere conto, nella commisurazione del trattamento sanzionatorio, della assoluzione pronunciata in appello quanto alla bancarotta impropria in relazione alla (OMISSIS) s.r.l., posta come reato base nel computo della pena in continuazione dalla sentenza di primo grado n. 992/2015.
Infine, anche rispetto ai reati relativi alla bancarotta della (OMISSIS) s.r.l. (sentenza n. 2170/2014, p.p. n. (OMISSIS)), oggetto di calcolo in continuazione sanzionatoria, non si comprende l'incidenza sulla commisurazione della pena della dichiarazione di prescrizione da parte del giudice d'appello di uno degli elementi della continuazione (si tratta della bancarotta preferenziale di cui al capo b).
Evidenti appaiono, dunque, la violazione di legge e anche il vizio di motivazione, non avendo dato conto il giudice - come avrebbe dovuto - dei singoli aumenti compiuti per i reati satellite.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi proposti dagli imputati sono, tranne che per alcune delle questioni riferite al trattamento sanzionatorio, per la gran parte manifestamente infondati, ovvero proposti in fatto, ovvero ancora generici intrinsecamente e/o estrinsecamente, a volte perchè mancanti dei necessari caratteri di specificità delle ragioni addotte, in altri casi perchè pedissequamente ripetitivi dei motivi d'appello e, pertanto, privi del necessario confronto con le ragioni già espresse dal provvedimento impugnato in relazione ad essi. Procedendo con ordine e sinteticamente raggruppando le questioni identiche o analoghe proposte da ciascun ricorrente, andranno anzitutto ricostruite le eccezioni di ordine processuale; quindi si esamineranno le ulteriori questioni, distinte per ciascun ricorrente.
Questioni di carattere processuale.
2. Viene proposta una questione comune di inutilizzabilità delle intercettazioni dai ricorsi degli imputati M. (primo motivo del ricorso proposto dall'avv. Schiava), P. (primo motivo del ricorso proposto dall'avv. Schiava) e V. (parte del primo motivo di ricorso).
Le violazioni dedotte attengono anzitutto al mancato rispetto delle formalità di deposito di verbali e registrazioni delle intercettazioni disposte in procedimento "diverso", quello principale (n. (OMISSIS), poi archiviato) dal quale esse sarebbero state tratte ed utilizzate con fonti di acquisizione di notizia di reato per i delitti relativi ai due procedimenti che, riuniti, hanno poi dato origine a quelli in cui è stata emessa la sentenza d'appello: non sarebbe sufficiente il deposito tardivo del pubblico ministero, sicchè si sarebbe generata una nullità generale per violazione del diritto di difesa.
Ebbene, deve rammentarsi che, secondo la giurisprudenza di legittimità cui il Collegio intende aderire, in tema di intercettazioni, in generale, il mancato rispetto del termine per il deposito dei verbali e delle registrazioni non è causa di nullità, non essendo espressamente prevista, nè di inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, atteso il mancato richiamo, nell'art. 271 c.p.p., all'art. 268 codice cit., commi 4 e 6, (Sez. 6, n. 14248 del 1/3/2017, Marinelli, Rv. 270025); così come anche il mancato avviso al difensore del deposito nella segreteria del pubblico ministero dei verbali e delle registrazioni non è causa di nullità, non espressamente prevista, nè di inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, atteso ancora il mancato richiamo dell'art. 271 c.p.p. all'art. 268 codice cit., commi 4 e 6, (Sez. 3, n. 33587 del 8/4/2015, Tola, Rv. 264522).
Analoghi principi erano stati affermati anche sotto la vigenza del vecchio codice di procedura penale, precedente alla riforma "accusatoria" del 1989 (cfr. Sez. 2, n. 7608 del 13/1/1989, dep. 1990, Lo Vecchio, Rv. 184488 e le altre massime nel testo richiamate).
In relazione al problema della utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni in procedimento diverso da quello in cui esse sono state disposte, la giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha costantemente affermato che l'omesso deposito degli atti concernenti le intercettazioni disposte nel procedimento a quo - tra cui anche i nastri di registrazione - presso l'autorità competente per il procedimento ad quem non determina l'inutilizzabilità dei risultati intercettativi, in quanto detta sanzione non è prevista dall'art. 270 c.p.p. e non rientra tra quelle indicate dall'art. 271 c.p.p. aventi carattere tassativo (Sez. 5, n. 14783 del 13/03/2009, Badescu, Rv. 243609; Sez. 6, n. 48968 del 24/11/2009, Scafidi, Rv. 245542; Sez. 5, n. 4758 del 10/7/2015, dep. 2016, Bagnato, Rv. 265993; Sez. 5, n. 1801 del 16/7/2015, Tunno, Rv. 266410).
E' stato, altresì, precisato che detto principio conserva la sua validità anche a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 336 del 2008 che - dichiarando l'illegittimità costituzionale, in riferimento agli art. 3 e 24 Cost., comma 2, art. 111 Cost., dell'art. 268 c.p.p., nella parte in cui non prevede che, dopo la notificazione o l'esecuzione dell'ordinanza che dispone una misura cautelare personale, il difensore possa ottenere la trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni di conversazioni o comunicazioni intercettate, utilizzate ai fini dell'adozione del provvedimento cautelare, anche se non depositate - amplia i diritti della difesa, incidendo sulle forme e sulle modalità di deposito delle bobine, ma senza incidere sul regime delle sanzioni processuali in materia di inutilizzabilità delle intercettazioni di cui all'art. 271 c.p.p. (Sez. 5, n. 14783 del 13/03/2009 e Sez. 6, n. 48968 del 24/11/2009, cit.).
Infine, ancor più radicalmente, in relazione al caso in cui i risultati delle intercettazioni siano stati utilizzati unicamente come notizie di reato (come è nella fattispecie dedotta dai ricorrenti), si è affermato condivisibilmente che deve ritenersi legittima la loro acquisizione in un diverso procedimento come notitiae criminis, costituenti, nel procedimento ad quem, il presupposto di nuovi ed autonomi provvedimenti autorizzativi, senza che sia necessario il deposito di verbali e registrazioni relativi al procedimento a quo, giacchè in tal caso non trova applicazione l'art. 270 c.p.p., che disciplina il differente profilo dell'utilizzazione del contenuto delle intercettazioni eseguite in altro procedimento (Sez. 5, n. 4758 del 10/7/2015, dep. 2016, Bagnato, Rv. 265992).
Alla luce della giurisprudenza richiamata e ribadito in particolare tale ultimo principio, le eccezioni dei ricorrenti devono dichiararsi manifestamente infondate.
2.1. Ulteriori questioni di ordine processuale sono state proposte dal secondo e dal terzo motivo di ricorso di M. e di P., riferiti, rispettivamente, alla sussistenza della violazione del divieto di ne bis in idem ed alla violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza per l'applicazione dell'aumento di cui alle aggravanti dell'art. 219 L. Fall., commi 1 e 2, n. 1, che non sono mai state formalmente contestate.
2.2. La deduzione riferita alla violazione del ne bis in idem è inammissibile in quanto genericamente proposta, poichè non deduce specificamente le circostanze della condotta dalle quali dovrebbe desumersi l'identità del fatto tra il reato di associazione per delinquere e di emissione di fatture per operazioni inesistenti finalizzata all'evasione di imposte nonchè di truffa - da un lato - e la condotta di bancarotta fraudolenta per cui l'imputato è stato condannato nel presente processo: per le prime, ci si limita a dire che vi sarebbe stata assoluzione con sentenza del GUP presso il Tribunale di Ancona, acquisita in atti, e che le condotte relative coinciderebbero con quella di bancarotta fraudolenta.
L'eccezione, come detto, è intrinsecamente generica e non tiene conto delle stringenti regole interpretative oramai dettate dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 200 del 2016 con cui è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 649 c.p.p. nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale, sancendo, tuttavia, la "non identità del fatto" qualora anche uno solo degli elementi della triade "condotta - nesso di causalità - evento naturalistico" in cui l'idem factum viene scomposto non corrisponda reciprocamente.
Tanto più che, di per sè, il confronto tra i fatti costitutivi del reato di bancarotta fraudolenta contestata all'imputato e quelli di associazione per delinquere e di emissione di fatture per operazioni inesistenti presentano diversi punti di difficile sovrapposizione, quanto all'oggetto ed alla struttura stessa delle condotte concrete poste in essere.
Anche la giurisprudenza di legittimità, dopo la citata pronuncia della Corte costituzionale del 2016, ha adottato definitivamente i criteri guida dettati dal giudice delle leggi, segnalando come la preclusione connessa al principio del ne bis in idem opera ove il reato già giudicato si ponga in concorso formale con quello oggetto del secondo giudizio nel solo caso in cui sussista l'identità del fatto storico, inteso sulla base della triade condotta-nesso causale-evento (Sez. 4, n. 54986 del 24/10/2017, Montagna, Rv. 271717), non essendo sufficiente la generica identità della sola condotta (in tal senso anche Sez. 3, n. 21994 del 1/2/2018, Pigozzi, Rv. 273220 in una fattispecie in cui la Corte, richiamando i principi espressi dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 200 del 2016 in relazione all'art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, ha escluso la sussistenza di un rapporto di identità del fatto tra condotte di bancarotta fraudolenta e di omesso versamento di IVA di cui all'art. 10-ter D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74).
E' evidente che il problema del confronto tra fatti assume caratteristiche diverse a seconda che ci si trovi innanzi a reati di pura condotta ovvero a reati di danno o di evento: l'omogeneità della struttura delle fattispecie si riverbera sui parametri di confronto e semplifica la valutazione comparativa finalizzata alla verifica di sussistenza o meno di un bis in idem, laddove, qualora nel focus della comparazione siano coinvolte fattispecie a struttura disomogenea, alcune di evento o danno e altre di pericolo o di pura condotta, la verifica diviene inevitabilmente più complicata, volendo applicare la giurisprudenza costituzionale ed i criteri da ultimo dettati dalla sentenza n. 200 del 2016 (decisione costruita intorno al confronto tra fatti riferiti a delitto di evento).
Nel caso di specie, l'identità del fatto non è rilevabile dalle motivazione dei provvedimenti giurisdizionali nè immediatamente dal confronto dei capi di imputazione, come invoca la difesa del ricorrente, anche perchè due delle fattispecie delittuose sono costruite come reati di pericolo (il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti - cfr. Sez. 3, n. 12719 del 14/11/2007, dep. 2008, Iannazzo, Rv. 239339 - e quello di associazione a delinquere), laddove la bancarotta fraudolenta patrimoniale e la truffa configurano un reato di danno.
Si sarebbero, pertanto, dovute rappresentare nel motivo di ricorso quanto meno le ragioni sulla base delle quali si ritiene possibile (e verificatosi nel caso di specie) che reati realizzati attraverso la commissione di mere azioni idonee a creare pericolo per i beni giuridici protetti oggetto della tutela penale coincidano perfettamente, nell'idem factum, con condotte che si manifestano attraverso un successivo evento che ne costituisce la prosecuzione e lo sviluppo naturalistico.
Nulla di tutto ciò è stato fatto dalla difesa, sicchè il motivo è senz'altro inammissibile.
2.3. La seconda eccezione (già proposta in appello, cfr. pag. 43 della sentenza impugnata) è stata ritenuta infondata dai giudici di secondo grado facendo leva sulla giurisprudenza che ammette la possibilità di contestazione anche solo in fatto delle aggravanti poi effettivamente riconosciute; il ricorso di M. e P., d'altra parte, deduce in poche righe la sussistenza del vizio di violazione di legge e, tuttavia, è fondato.
Ed infatti, è pur vero che la giurisprudenza di legittimità da tempo ha chiarito che, ai fini della contestazione di una aggravante, non è necessaria la specifica indicazione della norma che la prevede, nè la sua enunciazione letterale, essendo sufficiente la precisa esposizione "in fatto" della stessa, così che l'imputato possa avere cognizione degli elementi concreti che la integrano (il principio è stato affermato in relazione a numerose e diverse aggravanti: cfr., ex multis, tra quelle massimate, Sez. 2, n. 14651 del 10/1/2013, Chatbi, Rv. 255793; Sez. 6, n. 40283 del 28/9/2012, Diaji, Rv. 253776; Sez. 2, n. 47863 del 28/10/2003, Ruggio, Rv. 227076).
Tuttavia, le contestazioni di bancarotta fraudolenta per distrazione oggetto del presente procedimento, ed in particolare anche quella che vede coinvolti i ricorrenti (capo a del proc. n. (OMISSIS)), indicano unicamente le somme oggetto della distrazione, sicuramente di elevato importo e pari a circa 4 milioni e mezzo di Euro, senza null'altro specificare nè richiamando la disposizione di legge corrispondente all'aggravante (l'art. 219 L. Fall.) nè precisando nel fatto una qualsiasi notazione dalla quale sia possibile evincere che l'aggravante sia stata contestata, sia pur in fatto.
E' innegabile, pertanto, che resti quanto meno il dubbio che l'imputato non sia stato posto nelle condizioni di comprendere la portata effettiva della contestazione a lui mossa dal punto di vista della valutazione di gravità della condotta; valutazione che non può essere affidata a meri dati di ordine numerico, potendo la rilevanza del danno dipendere da una serie di fattori ulteriori e diversi che implicano una valutazione specifica da dichiararsi quanto meno in misura intellegibile ad un soggetto mediamente avvisato.
Tale conclusione risponde, altresì, anche ai criteri interpretativi dettati dalla Corte EDU (cfr. sentenza Drassich vs Italia del 1.12.2007 e, precedentemente, Pelissier e Sassi vs Francia del 25.3.1999) che affermano il diritto dell'imputato di essere tempestivamente informato dettagliatamente, tanto dei fatti materiali posti a suo carico, quanto della qualificazione giuridica data a questi ultimi.
Nel caso degli odierni imputati, pare innegabile che il rapporto processuale si sia instaurato con riferimento a una contestazione che non aveva adeguatamente esplicitato la sussistenza della aggravante de qua.
3. Il ricorso di V.N. deduce anche ulteriori eccezioni processuali.
Si lamenta violazione di legge ed inutilizzabilità delle relazioni dei curatori fallimentari e delle dichiarazioni da loro rese in dibattimento, quanto ai fallimenti (OMISSIS) s.r.l. e (OMISSIS) s.r.l., come illustrato nell'esposizione dei motivi del suddetto ricorrente. Le ragioni di ricorso dedotte, peraltro, sono manifestamente infondate ed inammissibili anche perchè genericamente proposte.
L'eccezione che le relazioni dei curatori delle due predette società non si sarebbero formate in sede extrapenale ma solo a seguito delle indagini in corso è apodittica e proposta per la prima volta dinanzi a questa Corte di legittimità in violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 3, (cfr. ex multis Sez. 2, n. 29707 del 8/3/2017, Galdi, Rv. 270316; Sez. 2, n. 13826 del 17/2/2017, Bolognese, Rv. 269745; Sez. 5, n. 28514 del 23/4/2013, Grazioli Gauthier, Rv. 255577) sicchè incorre doppiamente nel vizio di inammissibilità.
In ogni caso, le relazioni, anche se formatesi successivamente al sorgere dei procedimenti penali ed in seguito alle indagini già in corso, se redatte secondo i crismi legali dettati dall'art. 33 L. Fall., non possono che ritenersi legittimamente formatesi ed utilizzabili secondo le ordinarie regole interpretative sedimentatesi nella giurisprudenza della Suprema Corte quali documenti, qualsiasi sia il loro contenuto (ex multis Sez. 5, n. 12338 del 30/11/2017, dep. 2018, Castelletto, Rv. 272664; Sez. F, n. 49132 del 26/7/2013, De Seriis, Rv. 257650); nessuna eccezione specifica che riguardi la loro compilazione in violazione delle regole del R.D. n. 267 del 1942, invece, è stata proposta.
Inoltre, le relazioni sono state oggetto, come ammette la stessa difesa, di esame dei curatori e le loro dichiarazioni dibattimentali - sulle quali alcuna eccezione specifica si propone, tranne il fatto che esse sarebbero inutilizzabili perchè viziate dalla matrice non extrapenale - sono diventate correttamente parte della piattaforma probatoria utilizzata dai giudici di merito.
Altro motivo deduce la mancata assunzione di prove decisive testimoniali a discarico necessarie rispetto alle prove dichiarative assunte mediante la procedura d'ufficio ex art. 507 c.p.p. utilizzata dal giudice di primo grado, nonchè la mancata motivazione riguardo al loro diniego da parte della Corte d'Appello; tuttavia la doglianza è avanzata in modo generico, non esprimendo compiutamente nè il canone di decisività pur invocato, nè, per ciascuno dei testi, solo brevemente indicati nominativamente, le circostanze sulle quali dovevano essere sentiti.
Nella intrinseca genericità della argomentazione dedotta rimane assorbita anche la doglianza sulla mancanza di motivazione specifica della Corte d'Appello in merito, non potendo questa Corte valutare in sè il motivo di ricorso inammissibile.
Ancora si lamenta che sarebbero stati utilizzati i contenuti della sentenza di fallimento n. 66 del 2009 per desumere da essi il ruolo di amministratore di fatto del cd. (OMISSIS) da parte del ricorrente.
Il motivo è manifestamente infondato.
La motivazione del provvedimento impugnato, così come anche quella del giudice di primo grado che si salda con essa, pur dando atto dei contenuti della sentenza di fallimento, ripercorre in molteplici punti le ragioni per le quali V. è stato individuato come l'amministratore di fatto delle società fallite e, sostanzialmente, l'ideatore di un sistema illegale di tenuta della contabilità e della stessa gestione delle singole società del "gruppo" a lui facente capo, non essendo determinante il contenuto, pur valorizzato, della sentenza di fallimento.
Più volte e da tempo oramai la giurisprudenza di legittimità si è trovata a dover valutare la ammissibilità del valore pregiudiziale della sentenza di fallimento, anche rispetto a valori costituzionali chiamati in causa, in particolare sub violazione dell'art. 24 Cost., sempre escludendo pregiudizi del diritto di difesa, potendo in sede di procedura fallimentare giurisdizionalizzata di opposizione al fallimento pienamente eccepirsi tutte le argomentazioni contrarie agli accertamenti in essa contenuti (Sez. 5, n. 396 del 273/1970, Menicatti, Rv. 115037).
Specificamente, poi, quanto al contenuto della sentenza di fallimento relativo alle qualifiche imprenditoriali del fallito, la pronuncia Sez. 5, n. 10855 del 24/9/1986, Marcenò, Rv. 173965 ha affermato, con principio che va oggi ribadito per il caso di specie, che in tema di reati fallimentari, il giudice penale, nel giudicare delle violazioni che allo status di imprenditore commerciale si riconnettono, non può riesaminare la qualifica di "socio di fatto" dell'imputato in contrasto con le statuizioni sul punto contenute nella sentenza dichiarativa di fallimento passata in giudicato.
Dunque, le qualifiche soggettive imprenditoriali accertate con la sentenza di fallimento non sono più riesaminabili dal giudice penale e correttamente, quindi, la Corte d'Appello di Ancona ha desunto la qualifica di amministratore di fatto dell'imputato, in relazione alle società riferibili al gruppo a lui facente capo, dalla sentenza di fallimento citata dal ricorrente, essendo pienamente corrispondente tale valutazione al valore di accertamento non più rivedibile del contenuto di tale provvedimento reso in sede civile, vincolante non soltanto quanto agli effetti dichiarativi del fallimento, ma anche sotto i profili accertativi di status riferiti al fallito.
Altre questioni.
4. I ricorrenti hanno dedotto, come si è evidenziato nella parte espositiva, ulteriori, numerosi motivi di ordine sostanziale, principalmente attinenti a vizi della motivazione del provvedimento impugnato.
4.1. Nel quarto motivo proposto nel ricorso M. e nel ricorso P. dall'avv. Schiava, la questione riferita alla contraddittorietà della motivazione nella parte in cui afferma la responsabilità dei ricorrenti per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale e punta sulla dedotta loro inconsapevolezza di quanto stava accadendo nella compagine societaria - essendo essi, pur nella qualità di soci amministratori, rispettivamente della (OMISSIS) s.r.l. e della (OMISSIS) s.r.l., mere "teste di legno" - è manifestamente infondata, oltre che proposta in maniera inammissibile perchè rivolta a chiedere alla Corte di legittimità una rilettura degli elementi ricostruttivi del fatto ed una rivalutazione nel merito della sentenza non consentite (Sez. 6, n. 27429 del 4/7/2006, Lobriglio, Rv. 234559; Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482 vedi anche Sez. U, n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv. 226074; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794).
Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una rivisitazione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/4/1997, Dessimone, Rv. 207944; successivamente il principio è stato ribadito da Sez. 5, n. 39048 del 25/9/2007, Casavola, Rv. 238215; Sez. 6, n. 25255 del 14/2/2012, Minervini, Rv. 253099).
In ogni caso, la ricostruzione dei fatti offerta dai giudici di merito, con decisioni che si integrano sul punto della responsabilità del M. e del P. a formare una "doppia pronuncia conforme", è logicamente costruita, priva di evidenti aporie argomentative ed improntata ai criteri interpretativi dettati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità dell'amministratore mera "testa di legno".
In tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, infatti, si è affermato che sussiste la responsabilità dell'amministratore di diritto a titolo di concorso nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale con l'amministratore di fatto non già ed esclusivamente in virtù della posizione formale rivestita all'interno della società, ma in ragione della condotta omissiva dallo stesso posta in essere, consistente nel non avere impedito, ex art. 40 c.p., comma 2, l'evento che aveva l'obbligo giuridico di impedire e cioè nel mancato esercizio dei poteri di gestione della società e di controllo sull'operato dell'amministratore di fatto, connaturati alla carica rivestita (tra le tante, cfr. Sez. 5, n. 44826 del 28/5/2014, Regoli, Rv. 261814; Sez. 5, n. 11938 del 9/2/2010, Mortillaro, Rv. 246897).
Nel caso di specie, accanto alla evidente mancanza di controllo esercitato sull'operato del V., definito il reale dominus delle operazioni illecite numerose perpetrate ai danni del patrimonio delle società a lui facenti capo come amministratore di fatto, la Corte di merito ha messo in risalto una vera e propria condotta commissiva da parte dei ricorrenti, i quali non si sono limitati a prestarsi a risultare titolari delle società poi fallite ed a consentire a V. di attuare i suoi piani distrattivi, ma hanno essi stessi collaborato alla loro realizzazione attraverso l'emissione di fatture di comodo ed il continuo rilascio di titoli di credito, inequivocabilmente sintomatici di "complicità" anche perchè spesso firmati in bianco (cfr. pag. 75 della sentenza impugnata, in particolare). Viene pertanto soddisfatta anche quella esigenza più rigorosa, individuata dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento alla responsabilità dell'amministratore solo apparente, di non applicare automaticamente il principio secondo il quale, una volta accertata la presenza di determinati beni nella disponibilità dell'imprenditore fallito, il loro mancato reperimento, in assenza di adeguata giustificazione della destinazione ad essi data, legittima la presunzione della dolosa sottrazione, e ciò perchè la pur consapevole accettazione del ruolo di amministratore apparente non necessariamente implica la consapevolezza di disegni criminosi nutriti dall'amministratore di fatto (ex multis, tra quelle massimate, Sez. 5, n. 54490 del 26/9/2018, C., Rv. 274166; Sez. 5, n. 19049 del 19/2/2010, Succi, Rv. 247251; Sez. 5, n. 28007 del 4/6/2004, Squillante, Rv. 228713).
Nel caso di specie, detta consapevolezza è stata correttamente individuata negli elementi di fatto già evidenziati, che ne costituiscono validi indici, e collima con le affermazioni consolidate secondo cui il dolo individuato per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale commesso dall'amministratore di diritto è quello generico costituito proprio dalla consapevolezza che l'amministratore di fatto compia una delle condotte indicate nell'art. 216 L. Fall., comma 1, n. 1, senza che sia necessario che tale consapevolezza investa i singoli episodi delittuosi (Sez. 5, n. 29896 del 1/2/2002, Arienti, Rv. 222389), potendosi configurare l'elemento soggettivo sia come dolo diretto che come dolo eventuale (Sez. 5, n. 38712 del 19/6/2008, Prandelli, Rv. 242022; Sez. 5, n. 50438 del 22/10/2014, Serpetti, Rv. 263225).
Anche per il delitto di bancarotta fraudolenta documentale la Corte d'Appello ha ampiamente messo in risalto i caratteri della sua configurabilità in capo ad entrambi gli imputati, negando ingresso, con motivazione logica e priva di macroscopiche aporie argomentative, alla richiesta di derubricazione della bancarotta fraudolenta documentale nella meno grave ipotesi di bancarotta semplice, riproposta anche in sede di ricorso dinanzi a questa Corte di legittimità.
Del resto, la frammentaria tenuta della contabilità viene ricondotta dal provvedimento impugnato proprio al periodo di amministrazione dei ricorrenti e tale circostanza, unitamente al mancato deposito dei bilanci sempre in quel periodo ed alle condotte già sopra descritte, costituiscono chiari indici sintomatici di responsabilità e del dolo specifico di rendere concreto il pericolo di conseguire un ingiusto profitto da parte degli amministratori delle società poi fallite ovvero di recare pregiudizio alle ragioni dei creditori.
Ciò anche alla luce della giurisprudenza che, a differenza di quanto affermato per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, per quello di bancarotta fraudolenta documentale per sottrazione o per omessa tenuta in frode ai creditori delle scritture contabili ritiene che l'amministratore di diritto debba rispondere del reato anche qualora sia investito solo formalmente dell'amministrazione della società fallita (come nel caso della cosiddetta "testa di legno"), in quanto sussiste il diretto e personale obbligo dell'amministratore di diritto di tenere e conservare le predette scritture, purchè sia fornita la dimostrazione della effettiva e concreta consapevolezza del loro stato, tale da impedire la ricostruzione del movimento degli affari (cfr. Sez. 5, n. 43977 del 14/7/2017, Pastechi, Rv. 271754; Sez. 5, n. 642 del 30/10/2014, Demajo, Rv. 257950; Sez. 5, n. 44293 del 17/11/2005, Liberati, Rv. 232816, nonchè la giurisprudenza già citata in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale dell'amministratore apparente).
4.2. Le medesime considerazioni devono essere rivolte identiche anche alle deduzioni del primo motivo di ricorso proposto nell'interesse di M. e di P. dall'avv. Ciucciomei, che sostanzialmente si equivalgono nelle argomentazioni a quelle già esaminate nell'analisi del quarto motivo di ricorso dei predetti proposto dall'avv. Schiava per ciascuno separatamente (cfr. il paragrafo precedente), rievocando la giurisprudenza di legittimità sul tema, ma agganciandola non correttamente alla fattispecie.
5. V.N. ha dedotto, altresì, numerosi motivi rivolti a contestare l'accertamento di responsabilità cui sono pervenuti la Corte d'Appello di Ancona e, prima ancora, i giudici di primo grado, per i diversi fatti contestatigli.
Le argomentazioni proposte sul punto della responsabilità come sub-specificazioni del lunghissimo primo motivo di ricorso sono tutte, peraltro, inammissibili poichè chiedono alla Corte di legittimità un suo non consentito sindacato di merito (secondo le indicazioni giurisprudenziali già poc'anzi richiamate al par. 4.1.) sulla ricostruzione del meccanismo distrattivo, l'operato delle società "cartiere", dedite alle false fatturazioni, il ruolo di amministratore di fatto e gestore dal ricorrente rivestito nelle società del gruppo, tutte poi fallite.
L'eccezione riferita alla omissione totale della motivazione, anche graficamente non rinvenibile, secondo il ricorrente, quanto ai motivi d'appello proposti in relazione ai capi a), b), d) ed e) della contestazione relativa al p.p. n. (OMISSIS), deve ritenersi manifestamente infondata.
Invero, come è stato fatto notare anche dal Procuratore Generale presso la Corte di cassazione nella sua requisitoria, un attento esame della sentenza impugnata, senza dubbio complicata nella lettura dal punto di vista espositivo, conduce, tuttavia, agevolmente a ritrovare le ragioni di accertamento della responsabilità del V. per i fatti sopradetti nella ricostruzione delle posizioni dei coimputati M. e P. (cfr. pagg. 74 e ss. del provvedimento impugnato), ai quali i medesimi reati vengono contestati in concorso con V. (capi a, b per M. e capi d, e per P.): le condotte e le responsabilità penali dei due amministratori "teste di legno" vengono infatti tessute a livello motivazionale in modo speculare alla condotta del teste V., reale dominus delle società facenti solo formalmente capo ai due amministratori apparenti, concentrando in tal modo in un'unica porzione argomentativa l'accertamento di merito effettuato (e non riportandolo nella parte dedicata espressamente alle condotte del solo V., dal che il ricorrente ha tratto erroneamente le conseguenze di una omessa motivazione al riguardo).
Eguale destino di inammissibilità segue il secondo motivo di ricorso del V. per essere esso costruito in fatto e volto a negare la distrazione dal patrimonio della società (OMISSIS) s.p.a. di risorse a favore della (OMISSIS), che, in stato di decozione, non avrebbe potuto restituirle.
La motivazione utilizzata dalla Corte d'Appello ha uno sviluppo logico plausibile e si inscrive nella ricostruzione, necessariamente sintetica e per punti decisivi, delle complesse attività delittuose poste in essere dal ricorrente e dagli altri coimputati negli anni, sicchè non sussiste alcun vizio motivazionale di tale gravità da poter essere rilevato in sede di legittimità.
Analogamente deve ritenersi per il terzo motivo di ricorso, riferito alla bancarotta della società (OMISSIS) s.r.l. per la distrazione di 158.000 Euro (somma in verità contestata in misura più elevata nel capo d'imputazione, per 758.400 Euro, ma indicata nella misura predetta in sentenza) in favore della (OMISSIS) s.r.l.
La difesa postula una affermazione a mò di petizione di principio riferita alla reale proprietà da parte della società (OMISSIS) del terreno in relazione al quale la (OMISSIS) avrebbe svolto un progetto ed uno studio di fattibilità per la fallita, il cui pagamento è oggetto della contestazione di bancarotta di cui al capo d'imputazione relativo al p. n. (OMISSIS), e la questione, di per sè inammissibile per il suo contenuto in fatto, è esposta anche con scarsa chiarezza espositiva e, dunque, incorrendo nel difetto di specificità del motivo. Inoltre, il motivo in esame non tiene conto della consistente motivazione in merito articolata dalla Corte d'Appello (cfr. pag. 72 della sentenza impugnata), con le cui argomentazioni non si confronta affatto, così incorrendo nel vizio di genericità estrinseca.
Deve, infatti, essere ribadito il principio secondo cui, quanto al ricorso per cassazione, i motivi difensivi sono da considerarsi aspecifici se mancanti di correlazione tra le ragioni argomentative della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione (Sez. 6, n. 13449 del 12/2/2014, Kasem, Rv. 259456; Sez. 2, n. 36406 del 27/6/2012, Livrieri, Rv. 253983; da ultimo, con riferimento all'applicabilità di tale vizio dell'impugnazione non soltanto al ricorso per cassazione ma anche all'atto di appello, cfr. Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, Galtelli, Rv. 268822).
I giudici d'appello hanno evidenziato, sotto il profilo in esame, come non fosse stata rinvenuta alcuna documentazione che giustificasse l'incarico di studio di fattibilità e progettazione, sicchè anche il profilo della titolarità o meno dell'immobile, e della stessa esistenza di quell'immobile così come rappresentato per il progetto predetto, appare irrilevante.
Il quarto motivo del ricorso V. è anch'esso inammissibile perchè in fatto: si ritorna sulla negazione della qualifica di amministratore di fatto del ricorrente, questa volta in relazione alla (OMISSIS) s.r.l., deducendo un quadro di insufficienza probatoria che si chiede al Collegio di ricostruire diversamente, nonostante tale deduzione non possa, come noto, formare oggetto del sindacato di legittimità.
Si argomenta, altresì, la sussistenza di una ipotesi di vantaggi compensativi nel procedimento riferito al fallimento della (OMISSIS) s.r.l., con una deduzione che segue lo stesso destino di inammissibilità collegato alla natura di merito del sindacato che si chiede di esercitare a questa Corte, tanto più che la rigorosa quanto consolidata giurisprudenza sul tema ammette la possibilità di tali vantaggi compensativi, utili ad escludere la sussistenza della bancarotta fraudolenta patrimoniale, soltanto in presenza di determinate e rigorose condizioni (cfr. ad esempio, Sez. 5, n. 16206 del 2/3/2017, Magno, Rv. 269702).
Non è sufficiente, infatti, allegare la mera partecipazione al gruppo, ovvero l'esistenza di un vantaggio per la società controllante, dovendosi invece dimostrare il saldo finale positivo delle operazioni compiute nella logica e nell'interesse del gruppo, elemento indispensabile per considerare lecita l'operazione temporaneamente svantaggiosa per la società depauperata (ex multis Sez. 5, n. 46689 del 30/6/2016, Coatti, Rv. 268675; Sez. 5, n. 8253 del 26/6/2015, dep. 2016, Moroni, Rv. 271149; Sez. 5, n. 44963 del 27/9/2012, Bozzano, Rv. 254519).
Tale dimostrazione, che rimane a carico del ricorrente, non è stata addotta in alcun modo concreto, ma solo mediante il riferimento apodittico alla "logica del gruppo" ed al tentativo di "rianimare" le disastrate situazioni economiche di alcune delle società di detto gruppo, svolto attraverso la (OMISSIS) s.r.l., mediante le condotte correttamente ritenute distrattive.
Questioni relative alle attenuanti, alle aggravanti ed alla pena.
I ricorrenti hanno altresì proposto alcune questioni riferite direttamente al trattamento sanzionatorio ovvero che su questo influiscono.
1. Anzitutto, deve rilevarsi come, nei confronti dei ricorrenti M. e P., la ritenuta violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza (vedi par. 2.3. delle "Questioni processuali") determina l'annullamento del provvedimento impugnato nella parte in cui ha riconosciuto l'aggravante del danno di rilevante gravità di cui all'art. 219 L. Fall., comma 1; l'esclusione dell'aggravante del danno di rilevante entità, di conseguenza, rende necessario rideterminare la pena.
Tale rideterminazione deve essere svolta necessariamente dal giudice di merito in difetto di statuizioni contenute nella sentenza d'appello che consentano al Collegio di esercitare i suoi poteri decisori ai sensi dell'art. 620 c.p.p., lett. l), sicchè si impone per questa parte l'annullamento con rinvio.
2. V. ha denunciato violazione del divieto di reformatio in peius per aver la Corte d'Appello, in relazione al trattamento sanzionatorio inflitto nel p. n. (OMISSIS), quantificato l'aumento per l'aggravante di cui all'art. 219 L. Fall., comma 1, in misura maggiore rispetto al primo giudice (due anni e sei mesi, laddove il Tribunale aveva individuato in due anni la misura dell'aumento), peraltro neppure giustificando, nella motivazione, il perchè di tale incremento nella sua misura massima.
La ragione di ricorso è fondata.
In presenza dell'appello solo dell'imputato, infatti, (quello del pubblico ministero, al di là del suo contenuto, è stato dichiarato inammissibile dalla Corte anconetana) costituisce violazione del divieto di reformatio in peius determinare, per una circostanza aggravante già ritenuta in primo grado, un aumento di pena differente e superiore a quello precedentemente commisurato dal giudice di primo grado, tenuto anche conto del fatto che il reato di bancarotta in relazione al quale l'aumento per l'aggravante del danno di rilevante gravità è stato rimodulato in senso sfavorevole all'imputato compone la porzione-base di un reato continuato, del quale complessivamente forma uno degli elementi.
Seguendo i principi consolidati in materia di reformatio in peius, infatti, ed applicandoli alla peculiare fattispecie all'esame del Collegio, si evidenzia che, nel giudizio di appello, il divieto di reformatio in peius della sentenza impugnata dall'imputato non riguarda solo l'entità complessiva della pena, ma tutti gli elementi autonomi che concorrono alla sua determinazione (per cui il giudice di appello, anche quando esclude una circostanza aggravante e per l'effetto irroga una sanzione inferiore a quella applicata in precedenza, non può fissare la pena base in misura superiore rispetto a quella determinata in primo grado: Sez. U, n. 40910 del 27/9/2005, William Morales, Rv. 232066; Sez. 5, n. 14991 del 12/1/2012, Strisciuglio, Rv. 252326).
Con principio del tutto sovrapponibile alla fattispecie oggi sottoposta al Collegio, si è, altresì, specificamente affermato che viola il divieto di "reformatio in peius" il giudice di appello che, pur provvedendo alla rideterminazione della pena in termini complessivamente inferiori a quelli stabiliti dalla sentenza impugnata, applica alla pena base l'aumento per un'aggravante in una misura superiore rispetto a quanto disposto dal giudice di primo grado (Sez. 2, n. 35183 del 6/6/2013, Marino, Rv. 257744).
Il principio suddetto deve essere ribadito anche nell'ipotesi sottoposta al Collegio, in cui, da un lato, il Tribunale aveva individuato in sei anni di reclusione la pena base per il reato più grave della continuazione - indicato nel capo a) del p.p. n. (OMISSIS) - aumentandola ad otto anni di reclusione in considerazione della ritenuta sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 219 L. Fall., comma 1, (sulla cui contestazione in fatto l'imputato non ha proposto motivo, a differenza degli altri due correi), proseguendo poi il calcolo di pena con la continuazione sino ad arrivare alla misura finale di anni dieci di reclusione.
La Corte d'Appello, invece, pur partendo da una pena base inferiore per il suddetto capo a) del p.p. n. (OMISSIS) - indicata in cinque anni di reclusione, peraltro senza giustificare le ragioni di tale diminuzione, visto che le assoluzioni e le dichiarazioni di prescrizione non riguardavano fatti ricompresi in detta contestazione - ha rideterminato l'aumento per l'aggravante di cui all'art. 219 L. Fall., comma 1, in due anni e sei mesi di reclusione, indicando la pena all'esito di detto aumento nella misura di anni sette e mesi sei di reclusione (e proseguendo, poi, nell'ulteriore calcolo degli altri elementi che configuravano il trattamento sanzionatorio finale).
Tale modalità di procedere non è consentita dalla regole interpretative poc'anzi esaminate, dettate dalla giurisprudenza di legittimità in materia di divieto di reformatio in peius.
E' pur vero che l'elemento base di partenza è stato più favorevolmente determinato dal giudice d'appello rispetto alla quantificazione del primo giudice, tuttavia, in assenza di indicazioni sulle ragioni di tale diminuita determinazione, rimane l'evidente aumento del successivo elemento di composizione del calcolo costituito dall'aggravante ex art. 219 L. Fall., comma 1, non consentito dall'operare del divieto di reformatio in peius già esaminato, ed oscura la ragione in base alla quale detto aumento è stato in peius riformato.
Deve, pertanto, conclusivamente affermarsi il principio secondo cui viola il divieto di "reformatio in peius" il giudice di appello che, qualora sia dichiarato inammissibile l'appello del pubblico ministero ed in presenza di impugnazione, quindi, del solo imputato, pur provvedendo alla rideterminazione della pena finale in termini complessivamente inferiori a quelli stabiliti dalla sentenza impugnata, applica alla pena base l'aumento per un'aggravante in misura superiore rispetto a quanto disposto dal giudice di primo grado, ancorchè su una pena base diminuita.
Tale violazione si apprezza particolarmente là dove il giudice d'appello non abbia in alcun modo giustificato, sia pur implicitamente nella motivazione della sentenza, la diminuzione della pena base rispetto alla misura individuata dal primo giudice e, in modo incoerente con tale rivalutazione favorevole, abbia incrementato, invece, la misura dell'aumento disposto per l'aggravante in primo grado.
Inoltre, quanto alla violazione del divieto di reformatio in peius dedotta anche rispetto all'aumento di pena per la continuazione con i reati di cui alla sentenza n. 1430/2011 (capi d) ed e) del p.p. n. (OMISSIS); capi b) e c) del p.p. n. (OMISSIS)), in relazione al quale, avendo il giudice d'appello dichiarato la prescrizione dei reati di truffa e fiscali, si sarebbe dovuta operare una corrispondente diminuzione, così come si sarebbe dovuto tenere conto, nella commisurazione del trattamento sanzionatorio, della assoluzione pronunciata in appello quanto alla bancarotta impropria in relazione alla (OMISSIS) s.r.l., posta come reato base nel computo della pena in continuazione dalla sentenza di primo grado n. 992/2015, deve evidenziarsi la scarsa chiarezza sul punto della motivazione impugnata, che non indica le variazioni del trattamento sanzionatorio, nel confronto con le diverse pronunce di primo grado, in relazione alle diverse componenti del reato continuato ed alla eliminazione delle porzioni di contestazione escluse per prescrizione. Anche per questo aspetto il ricorso, pertanto, è fondato e si impone l'annullamento con rinvio per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio, tenendo conto, da parte del giudice di merito, della giurisprudenza che, in materia di reato continuato, ha affermato che, nel giudizio di appello, il divieto di "reformatio in peius" della sentenza impugnata dall'imputato non riguarda solo l'entità complessiva della pena, ma tutti gli elementi autonomi che concorrono alla sua determinazione e, quindi, anche l'aumento conseguente al riconoscimento della continuazione (cfr. ex multis Sez. 5, n. 31998 del 6/3/2018, Rossi, Rv. 273570; Sez. 5, n. 50083 del 29/9/2017, D'Ascanio, Rv. 271626; Sez. 3, n. 38084 del 23/6/2009, Riggio, Rv. 244961, in fattispecie riferite proprio a rapporti tra reato continuato e prescrizione. Conforme, sul principio generale, anche Sez. U, William Morales cit.).
Si impone, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata limitatamente anche al trattamento sanzionatorio di V.N., con rinvio alla Corte d'Appello di Perugia che si atterrà, nel nuovo esame, ai principi indicati.
3. Un'ultima questione attiene alle pene accessorie di cui all'art. 216 L. Fall., comma 3, inflitte ai tre imputati, in ragione della condanna per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, nella misura fissa prevista dalla richiamata disposizione.
Ebbene, recentemente la Corte costituzionale, con sentenza n. 222 del 5/12/2018 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 216 L. Fall., u.c., nella parte in cui dispone: "la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa", anzichè: "la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni".
La sentenza, "manipolativa per sostituzione", non elimina la disposizione penale ma modifica il contenuto del precetto, sulla base di un doppio meccanismo operativo della declaratoria di illegittimità costituzionale, che prima si attua mediante una porzione di pronuncia "demolitoria" (la dichiarazione di illegittimità parziale della norma "nella parte in cui prevede") e poi si sviluppa in una quota ricostruttiva (realizzata dalla locuzione "anzichè prevedere"), immediatamente e contestualmente colmandosi, in tal modo, il vuoto normativo creatosi per effetto della pars destruens della sentenza e, sostanzialmente, creando un "nuovo" precetto penale conforme ai dettami costituzionali.
La pronuncia della Corte costituzionale determina, quale diretta conseguenza, la illegalità delle pene accessorie irrogate sulla base del criterio di commisurazione dichiarato incostituzionale, secondo il principio chiaramente stabilito dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione per le pene principali con le sentenze Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264207 e Sez. U, n. 37107 del 26/02/2015, Marcon, Rv. (rese in occasione della dichiarazione di illegittimità costituzionale della cornice edittale prevista per i reati in materia di stupefacenti dalla L. n. 49 del 2016 che aveva innovato il D.P.R. n. 309 del 1990) e la rilevabilità di tale illegalità da parte del giudice di legittimità anche d'ufficio e pur se in presenza di ricorso inammissibile (cfr. ancora Sez. U Jazouli, Rv. 264207).
Nella citata sentenza Jazouli, in particolare, si sottolinea come il venir meno per contrarietà alla Costituzione - con efficacia ex tunc - della cornice edittale che ha guidato il giudicante nella "misurazione della responsabilità" finisce con il travolgere la stessa pena in concreto inflitta, vale a dire il "risultato finale" di detta misurazione, perchè, non essendo più attuale il giudizio astratto di disvalore del fatto (essendosi modificata la forbice sanzionatoria edittale), la misurazione compiuta non traduce più - per effetto del mutamento dei parametri di riferimento - nè coerentemente nè correttamente il giudizio di responsabilità.
Ciò a maggior ragione non può che valere per la pena accessoria che, come nel caso dell'art. 216 L. Fall., u.c., abbia addirittura avuto sinora un volto "obbligato" che sia stato poi dichiarato incostituzionale, con corrispondente apertura a parametri di commisurazione discrezionali del giudizio relativo anche alla misura della meritevolezza di detta pena accessoria.
Per seguire ancora le linee di ragionamento segnate dalle Sezioni Unite nella citata sentenza Jazouli, "la pena di cui si discute è stata inflitta in base ad una dosimetria non più attuale, rectius, che non avrebbe mai dovuto essere applicata, in quanto contraria alla Costituzione".
Le affermazioni delle Sezioni Unite, valide per le pene principali, non possono che essere ritenute applicabili anche qualora la dichiarazione di incostituzionalità intervenga in relazione alle pene accessorie "non essendo consentita dall'ordinamento l'esecuzione di una pena (sia essa principale o accessoria) non conforme, in tutto o in parte, ai parametri legali. Il principio di legalità della pena si applica, invero, anche con riferimento alle pene accessorie" (Sez. U. n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B., Rv. 262327, in motivazione).
Rilevata la sussistenza di una ipotesi, dunque, di illegalità della pena accessoria per effetto della dichiarazione di incostituzionalità del parametro commisurativo "obbligato" di essa e, conseguentemente, per la rimodulazione di esso in una formula aperta nel minimo e limitata solo alla determinazione massima (pari alla durata di dieci anni precedentemente prevista in misura fissa), si determina la necessità per il giudice - anche quello di legittimità e anche d'ufficio, in base alle affermazioni delle Sezioni Unite richiamate - di ricondurre al "nuovo" parametro commisurativo costituzionalmente corretto la pena accessoria inflitta.
Per tale rideterminazione potrebbero individuarsi, già nella giurisprudenza di legittimità formatasi immediatamente dopo la sentenza n. 222 del 2018 Corte Cost., due possibili differenti modalità operative.
Da un lato, si potrebbe indicare nell'art. 37 c.p. la disposizione di riferimento per attuare la rimodulazione in senso costituzionale della pena accessoria irrogata sulla base dell'art. 216 L. Fall., u.c., con conseguente rideterminazione di essa in misura pari alla durata della pena principale in concreto inflitta (tale soluzione sembrerebbe peraltro corrispondere alle affermazioni delle Sezioni Unite rese nella sentenza Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B., Rv. 262327); dall'altro, invece, potrebbe ritenersi che la rideterminazione della pena accessoria illegale non necessariamente debba essere parametrata alla stessa durata della pena principale ai sensi dell'art. 37 c.p., in quanto i principi di proporzionalità e di individualizzazione del trattamento sanzionatorio, posti alla base della decisione di illegittimità costituzionale, non consentono di applicare alcun tipo di automatismo sanzionatorio, sicchè, qualora la questione si presenti in sede di legittimità, deve disporsi l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata limitatamente al punto delle pene accessorie, al fine di consentire al giudice di merito di stabilire la durata delle stesse, trattandosi di giudizio, che, implicando valutazioni discrezionali, è sottratto al giudice di legittimità.
Il Collegio intende aderire a tale seconda prospettiva, che preferendo la rideterminazione della pena accessoria illegale per i reati di bancarotta fraudolenta da parte del giudice di merito secondo parametri di commisurazione discrezionali e sganciati dalla misura della pena principale in concreto inflitta, corrisponde maggiormente alle ragioni argomentative proposte dalla Corte costituzionale nella richiamata sentenza n. 222 del 2018 che, in motivazione, ha evidenziato come la scelta di ancorare la durata concreta delle pene accessorie a quella della pena detentiva concretamente inflitta "finirebbe per sostituire l'originario automatismo legale con un diverso automatismo, che rischierebbe altresì di risultare distonico rispetto al legittimo intento del legislatore storico di colpire in modo severo gli autori dei delitti di bancarotta fraudolenta, considerati a buon diritto come gravemente lesivi di interessi, individuali e collettivi, vitali per il buon funzionamento del sistema economico".
Tale soluzione, inoltre, nel caso di specie, è funzionale anche a criteri di economicità e utilità del giudizio, dovendo il Collegio disporre, come già evidenziato, il rinvio al giudice di merito anche sotto ulteriori profili esclusivamente attinenti al trattamento sanzionatorio.
4. Ai sensi dell'art. 624 c.p.p., dall'annullamento con rinvio circoscritto a tale punto della decisione, deriva l'autorità di cosa giudicata in tutti i restanti punti della sentenza privi di connessione con quello annullato e quindi, nella specie, con riferimento all'accertamento della responsabilità degli imputati.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di V.N., M.C. e P.R., limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio per nuovo esame alla Corte d'Appello di Perugia.
Dichiara inammissibili nel resto i ricorsi.
Così deciso in Roma, il 14 dicembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 2 aprile 2019