RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 26 febbraio 2019, la Corte di appello di Milano confermava la sentenza del Giudice per l'udienza preliminare del locale Tribunale che aveva ritenuto B.S. colpevole del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale per avere ceduto, quale amministratore di fatto della srl Corona, dichiarata fallita il 12 aprile 2012, il ramo d'azienda de "(OMISSIS)" al prezzo di Euro 55.000, un prezzo inadeguato al suo effettivo valore che doveva considerarsi pari ad Euro 241.803.
1.1. La Corte territoriale, in risposta ai motivi di appello, osservava che:
- il curatore aveva riferito che l'amministratore di diritto della fallita, un semplice pizzaiolo, non era a conoscenza delle operazioni societarie che erano condotte dall'imputato in forza di una procura generale;
- il commercialista dalla fallita confermava che il suo interlocutore per la predisposizione dei bilanci era il B.;
- B. aveva ceduto il ramo d'azienda ad un prezzo vile, ricalcolato dall'agenzia delle entrate, in contraddittorio con la parte, in Euro 241.803;
- il danno provocato non poteva considerarsi eliso dal successivo concordato; - le pene accessorie erano congruenti all'impudenza dimostrata con l'operazione descritta in imputazione.
2. Propone ricorso l'imputato, a mezzo del suo difensore, articolando le proprie censure in tre motivi.
2.1. Con il primo deduce la violazione di legge ed il difetto di motivazione in relazione al ritenuto ruolo di amministratore di fatto del ricorrente.
Il prevenuto si era in realtà limitato ad interessarsi, quale consulente, dell'operazione di cessione del ramo di azienda senza però amministrare in altro modo la fallita anche in considerazione che l'amministratore, di diritto, della medesima era pienamente operativo.
Non si era poi neppure acquisita la procura di cui il prevenuto si sarebbe avvalso.
2.2. Con il secondo motivo lamenta la violazione di legge ed il difetto di motivazione in relazione al mancato riconoscimento della circostanza attenuante prevista dalla L. Fall., art. 219, u.c., che era invece dovuta considerando che la procedura fallimentare era stata definita con il pagamento di tutti i creditori, con un concordato fallimentare.
2.3. Con il terzo motivo denuncia la violazione di legge ed il vizio di motivazione in riferimento alla conferma della durata delle pene accessorie fallimentari, considerando grave il fatto che la prima sentenza aveva ritenuto, invece, di modesta gravità.
3. La Procura generale della Repubblica presso questa Corte, nella persona del sostituto Dr. Vincenzo Senatore, ha chiesto che il ricorso venga dichiarato inammissibile.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso promosso nell'interesse di B.S. è inammissibile.
1. Il primo motivo è versato in fatto e non considera che l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali così che esula dai poteri di questa Corte la riconsiderazione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (per tutte: Sez. Un., 30/4-2/7/1997, n. 6402, Dessimone, Rv. 207944; ed ancora: Sez. 4, n. 4842 del 02/12/2003 - 06/02/2004, Elia, Rv. 229369).
La Corte territoriale aveva adeguatamente motivato in ordine al ruolo di amministratore di fatto del prevenuto, osservando come l'amministratore di diritto, che aveva anche dovuto conferirgli una procura generale ad agire, non si era dimostrato a conoscenza delle operazioni svolte dalla società e come il B. si fosse, significativamente, interessato proprio dell'operazione dalla quale era derivato il dissesto della società.
2. Il secondo motivo - speso sulla sussistenza della circostanza attenuante del danno di patrimoniale di speciale tenuità, prevista dalla L. Fall., art. 219, u.c., a seguito dell'intervenuto concordato post-fallimentare - è manifestamente infondato, perchè:
- deve ritenersi che, anche in tema di reati fallimentari, debba trovare applicazione il principio generale secondo il quale le ragioni di attenuazione della pena dipendenti dalla misura del danno cagionato debbono essere riguardate facendo riferimento al momento della consumazione del reato, costituendo un elemento, seppur accessorio, della materialità del medesimo (l'orientamento in tema di applicabilità dell'art. 62 c.p., n. è costante e da ultimo rappresentato da Sez. 2, n. 39703 del 13/09/2019, Amirante, Rv. 277709), dovendosi considerare gli eventuali eventi successivi sotto diversi profili (ad esempio, in tema di applicazione dell'art. 62 c.p., n. 6 e artt. 62 bis e 133 c.p.);
- non sono state allegate al ricorso le copie degli atti da cui dovrebbe dedursi la concreta incidenza del concordato sul danno cagionato dalla condotta consumata dall'imputato.
3. Anche il terzo motivo è inammissibile perchè la graduazione della pena, anche in relazione alle sanzioni accessorie, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 c.p.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013 - 04/02/2014, Ferrario, Rv. 259142), ciò che, nel caso di specie, non ricorre avendo la Corte fatto congruo riferimento alla particolare gravità dell'operazione dissipatoria e dovendosi considerare come le pene accessorie fallimentari abbiano una finalità diversa rispetto alla pena principale come ha rilevato la stessa Corte costituzionale, proprio nella sentenza n. 222 del 2018 (in cui aveva dichiarato l'illegittimità della durata, inderogabilmente fissata in anni dieci, delle seconde), laddove aveva indicato che la commisurazione delle pene accessorie fallimentari andava operata non ai sensi dell'art. 37 c.p. (e, quindi, in misura uguale alla pena principale) ma con i criteri indicati dall'art. 133 c.p. e ciò in considerazione "sia del diverso carico di afflittività, sia della diversa finalità, che caratterizzano le pene accessorie in parola rispetto alla pena detentiva: diverse afflittività e finalità che suggeriscono, nell'ottica di una piena attuazione dei principi costituzionali che presiedono alla commisurazione della pena, una determinazione giudiziale autonoma delle due tipologie di pena nel caso concreto".
4. All'inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, versando il medesimo in colpa, della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 26 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2021