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Misure cautelari personali: qual è il perimetro del giudizio della corte di cassazione?

ammissibilità

Cassazione penale sez. II, 25/06/2024, (ud. 25/06/2024, dep. 03/07/2024), n.25974

In tema di misure cautelari personali, la Corte di cassazione ha il compito di verificare se il giudice del merito abbia fornito una motivazione adeguata per affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell'indagato, controllando la congruenza della motivazione rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l'apprezzamento delle risultanze probatorie. La verifica della Corte si limita a controllare l'adeguatezza e la coerenza della motivazione senza entrare nella ricostruzione dei fatti o nell'apprezzamento delle prove da parte del giudice di merito. L'insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari è rilevabile in cassazione solo se si traduce nella violazione di specifiche norme di legge o in mancanza o manifesta illogicità della motivazione.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza del 29 marzo 2024, il Tribunale di Milano rigettava la richiesta di riesame che era stato proposta, ai sensi dell'art. 309 cod. proc. pen., da Le.Vi. contro l'ordinanza del 13 marzo 2024 del G.i.p. del Tribunale di Milano con la quale era stata disposta, nei confronti dello stesso Le.Vi., la misura della custodia cautelare in carcere per essere egli gravemente indiziato dei delitti di tentata rapina pluriaggravata (dall'avere agito travisato e in più persone riunite) in concorso ai danni della filiale dell'istituto di credito BCC Credito Cooperativo di M sita in M, via (Omissis), e di riciclaggio di un'autovettura Fiat Panda in concorso, e con riguardo al pericolo che l'indagato potesse commettere delitti della stessa specie. 2. Avverso tale ordinanza del 29/03/2024 del Tribunale di Milano, ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite del proprio difensore, Le.Vi., affidato a due motivi. 2.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., e con riferimento all'art. 273 dello stesso codice e agli artt. 56 e 628, primo e terzo comma, n. 1), cod. peri., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza e l'illogicità della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza del delitto di tentata rapina, "con specifico riferimento al requisito della idoneità degli atti ai sensi dell'art. 56 c.p.". Dopo avere premesso che le condotte materiali che egli, unitamente agli altri indagati, aveva posto in essere "non sono oggetto di contestazione" e avere riassunto la ricostruzione dei fatti che era stata operata dal G.i.p. del Tribunale di Milano e i motivi che egli aveva esposto nella propria richiesta di riesame, il ricorrente deduce che il Tribunale di Milano avrebbe erroneamente ritenuto che l'errore nell'esecuzione del piano criminoso che era stato rappresentato nella richiesta di riesame fosse consistito nel fatto che gli indagati si fossero ritrovati, appunto, per errore, nello sgabuzzino posto al piano seminterrato dell'edificio nel quale è ubicata la filiale dell'istituto di credito, laddove l'errore esecutivo che era stato rappresentato nella suddetta richiesta di riesame era invece relativo al fatto che gli stessi indagati avevano praticato un foro in una parete dello stesso sgabuzzino che non era adiacente ai locali della banca ma al locale dove era collocato il bancomat. Tale errore del Tribunale di Milano avrebbe reso illogico il ragionamento da esso seguito, atteso che, se era senz'altro vero che gli indagati si erano introdotti volontariamente nello sgabuzzino, tale introduzione era preordinata, nelle intenzioni degli stessi, a realizzare un foro per accedere ai locali della banca. L'errore effettivamente commesso nell'esecuzione del piano criminoso si doveva ritenere quindi tale da fare sì che "la condotta di rapina, così come attuata, non avesse alcuna possibilità di conseguire l'obiettivo programmato" e che "il mancato perfezionamento del delitto non è dipeso da eventi imprevedibili e indipendenti dalla volontà del reo, ma da un'azione inadatta al raggiungimento dello scopo", atteso che "la realizzazione del buco rappresentava il momento determinante per la realizzazione del reato, proprio perché avrebbe garantito (nell'originaria idea di azione) l'accesso ai locali della banca". Il ricorrente denuncia poi che l'ulteriore "ipotesi di azione" che è stata avanzata dal Tribunale di Milano - secondo cui "gli indagati, una volta arrivati i dipendenti, sarebbero potuti entrare all'interno dell'istituto di credito attraverso la porta scorrevole adiacente alla porta di legno che conduceva all'interno dello stanzino ove si erano nascosti, al fine di intimare a questi ultimi di aprire le casseforti per poi immobilizzarli in attesa dell'apertura delle stesse" - sarebbe "del tutto congetturale e indimostrata", "in difetto di qualsivoglia elemento indiziario", nonché "inverosimile", atteso che, se le intenzioni degli indagati fossero state effettivamente quelle, non si comprenderebbe: a) perché "non abbiano immobilizzato una singola impaurita donna (cioè la donna delle pulizie che li aveva sorpresi all'interno dello sgabuzzino), così da potere tranquillamente attendere l'imminente arrivo degli impiegati che (...) avrebbero a loro volta dovuto immobilizzare, anziché allontanarsi repentinamente alla sua vista"; b) "come avrebbero potuto procedere ad immobilizzare all'esterno dell'edificio bancario - luogo ben visibile anche a terzi - un numero imprecisato di dipendenti ed occasionali avventori, per poi condurli all'interno degli edifici bancari, data la mancanza di armi di qualsivoglia genere". Il ricorrente rappresenta ancora che i sopralluoghi che sarebbero stati effettuati nei giorni che precedettero i fatti (che ebbero luogo il 11/03/2024) dai coindagati Li.Gi. e Ru.Sa. avevano riguardato un altro istituto di credito, con la conseguenza che "neanche tali atti possono valere in termini di idoneità dell'azione oggetto di accertamento". 2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., e con riferimento all'art. 273 dello stesso codice e agli artt. 110 e 648-bis cod. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza e l'illogicità della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza del proprio concorso nel delitto di riciclaggio dell'autovettura. Il ricorrente deduce che, "non risultando) alcuna condotta materiale di contraffazione", in particolare, di applicazione, sulle targhe originali dell'autovettura rubata, di targhe autoadesive a copertura di quelle originali, non vi sarebbe prova né che egli avesse partecipato a tale materiale applicazione delle targhe autoadesive né che ne fosse a conoscenza e l'avesse, quindi, condivisa, volendo così ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa dell'autovettura Fiat Panda. Quanto alla circostanza, valorizzata dal Tribunale di Milano, costituita dal fatto che l'autovettura era destinata a essere abbandonata dopo la fuga, il ricorrente deduce: da un lato, "che non vi è prova che Le.Vi. fosse al corrente e avesse condiviso tale intenzione"; dall'altro lato, che la stessa circostanza potrebbe al più fare ritenere che egli fosse consapevole della provenienza delittuosa dell'automobile, con la conseguente configurabilità di un concorso nel delitto di ricettazione e non di riciclaggio. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Occorre preliminarmente rammentare che le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno da tempo chiarito che, "in tema di misure cautelari personali, allorché sia denunciato, con ricorso per cassazione, vizio di motivazione del provvedimento emesso dal tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, alla Corte suprema spetta il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l'hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell'indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l'apprezzamento delle risultanze probatorie" (Sez. U., n. 11 del 22/03/2000, Audino, Rv. 215828-01). Tale orientamento, dal quale il Collegio non ha ragione di discostarsi e al quale intende, perciò, dare continuità, è stato ribadito anche in pronunce più recenti di questa Corte (tra le altre: Sez. 4, n. 26992 del 29/05/2013, Tiana, Rv. 25546001; Sez. 4, n. 22500 del 03/05/2007, Terranova, Rv. 237012-01). Da ciò consegue che "l'insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza ex art. 273 cod. proc. pen. e delle esigenze cautelari di cui all'art. 274 stesso codice è rilevabile in cassazione soltanto se si traduce nella violazione di specifiche norme di legge od in mancanza o manifesta illogicità della motivazione, risultante dal testo del provvedimento impugnato. (In motivazione, la S.C. ha chiarito che il controllo di legittimità non concerne né la ricostruzione dei fatti, né l'apprezzamento del giudice di merito circa l'attendibilità delle fonti e la rilevanza e concludenza dei dati probatori, onde sono inammissibili quel e censure che, pur investendo formalmente la motivazione, si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione di circostanze già esaminate dal giudice di merito)" (tra le altre: Sez. F, n. 47748 del 11/08/2014, Contarmi, Rv. 261400-01). 2. Richiamati tali principi, affermati dalla Corte di cassazione, il primo motivo non è consentito. 2.1. Si deve evidenziare che, per quanto concerne il requisito dell'idoneità degli atti, l'opinione maggioritaria della giurisprudenza di legittimità è nel senso che un atto può essere ritenuto idoneo quando, valutato ex ante e in concreto (criterio cosiddetto della prognosi postuma), ossia tenendo conto di tutte le circostanze conosciute e conoscibili e non di quelle oggettivamente presenti e conosciute dopo, il giudice, sulla base della comune esperienza dell'uomo medio, possa ritenere che gli atti - indipendentemente dall'insuccesso determinato da fattori estranei - erano tali da ledere, ove portati a compimento, il bene giuridico tutelato dalla norma violata. L'idoneità degli atti non va, infatti, valutata con riferimento a un criterio probabilistico di realizzazione dell'intento delittuoso, bensì in relazione alla possibilità che alla condotta consegua lo scopo che l'agente si propone, configurandosi invece un reato impossibile per inidoneità degli atti, ai sensi dell'art. 49 cod. pen., in presenza di un'inefficienza strutturale e strumentale del mezzo usato, che sia assoluta e indipendente da cause estranee ed estrinseche, ove l'azione, valutata ex ante e in relazione alla sua realizzazione secondo quanto originariamente voluto dall'agente, risulti del tutto priva della capacità di attuare il proposito criminoso (Sez. 6, n. 17988 del 06/02/2018, Mileto, Rv. 272810-01; Sez. 1, n. 36726 del 02/07/2015, L.M., Rv. 264567-01). Per quanto riguarda, invece, la nozione di univocità degli atti, secondo la tesi cosiddetta soggettiva, che è quella prevalente nella giurisprudenza di legittimità, l'atto preparatorio può integrare gli estremi del tentativo punibile quando sia idoneo e diretto in modo non equivoco alla consumazione di un reato, ossia qualora abbia la capacità, sulla base di una valutazione ex ante e in relazione alle circostanze del caso, di raggiungere il risultato prefisso e a tale risultato sia univocamente diretto (Sez. 2, n. 40702 del 30/09/2009, Cristiano, Rv. 24512301); la prova del requisito dell'univocità dell'atto (da considerare quale parametro probatorio) può essere raggiunta non solo sulla base dell'atto in sé considerato, ma anche aliunde e, quindi, anche sulla base di semplici atti "preparatori" che rivelino la finalità dell'agente e addirittura l'imminente passaggio alla fase esecutiva del delitto, ma non ne postulino necessariamente l'avvio. Si deve quindi ritenere che, per la configurabilità del tentativo, rilevino non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come preparatori, facciano fondatamente ritenere che l'agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, che l'azione abbia la significativa probabilità di conseguire l'obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo (Sez. 2, n. 46776 del 20/11/2012, D'Angelo, Rv. 254106-01). 2.2. Il Tribunale di Milano ha rispettato tali principi. Tale Tribunale ha anzitutto dato atto di come gli indagati e, tra questi, il Le.Vi., avessero approntato il proprio piano criminoso in ogni dettaglio, come era comprovato anche dalla predisposizione di autovetture "pulite" (un'Audi A3 e una Volkswagen Polo) per la fuga e dalla disponibilità sia di arnesi da scasso sia di fascette per immobilizzare le persone, e avessero iniziato ad attuare lo stesso piano, atteso che si erano introdotti travisati nello sgabuzzino posto al piano seminterrato dell'edificio nel quale era ubicata la filiale dell'istituto di credito e avevano cominciato a praticare un foro nella parete del suddetto locale, lavoro al quale avevano atteso per circa un'ora. Con specifico riguardo al contestato requisito del tentativo dell'idoneità degli atti, il Tribunale di Milano ha altresì motivato l'attitudine degli atti che erano stati compiuti dal Le.Vi. e dagli altri indagati, qualora portati a comp mento, a realizzare una rapina ai danni della filiale di M dell'istituto di credito BCC Credito Cooperativo di M. E ciò a prescindere da quale potesse essere stato il preciso piano delittuoso che avevano avuto in mente gli stessi indagati. Il Tribunale di Milano ha in particolare argomentato al riguardo che: a) il menzionato foro nella parete dello sgabuzzino non si poteva, allo stato, ritenere essere stato realizzato in modo erroneo, anche perché non si poteva escludere che gli indagati, dopo la rapina, intendessero uscire di là, così neutralizzando un eventuale blocco delle porte scorrevoli della filiale; b) anche a ipotizzare che vi fosse stato un errore di esecuzione consistito nella realizzazione del foro in una parte sbagliata delle pareti dello sgabuzzino, ciò non avrebbe comunque impedito agli indagati l'accesso ai locali della filiale, in particolare, attraverso la porta scorrevole adiacente alla porta di legno che conduceva all'interno del medesimo sgabuzzino, per poi intimare ai dipendenti dell'istituto di credito di aprire le casseforti e, successivamente, immobilizzarli, come era comprovato dal fatto che gli indagati avevano portato con sé, oltre che arnesi da scasso, anche una cospicua quantità di fascette (cioè di uno strumento che è comunemente utilizzato dai rapinatori di banche per immobilizzare i dipendenti e i clienti delle stesse). Tale motivazione dell'idoneità degli atti compiuti dal Le.Vi. a commettere una rapina ai danni della filiale di M dell'istituto di credito BCC Credito Cooperativo di M e, più in generale, della configurabilità, nella specie, di un tentativo di rapina ai danni della stessa filiale, oltre a porsi in linea, come si è anticipato, con i principi che sono affermati dalla Corte di cassazione in materia di delitto tentato, appare esente da contraddizioni e da illogicità manifeste, atteso anche che, quanto alle specifiche censure che sono state avanzate dal ricorrente: a) come è stato correttamente osservato dal Tribunale di Milano (pag. 8 dell'ordinanza impugnata), il fatto che gli indagati non avessero immobilizzato la donna delle pulizie che li aveva sorpresi all'interno della sgabuzzino e avessero piuttosto deciso di non proseguire nell'azione non costituisce un elemento idoneo a incidere sulla valutazione dell'idoneità degli atti che gli stessi indagati avevano compiuto fino a quel momento; b) l'intento degli indagati di immobilizzare i dipendenti della filiale appare logicamente riscontrato dalla disponibilità, da parte degli stessi indagati, di una cospicua quantità di fascette, cioè, come si è detto, di strumenti che sono comunemente utilizzati dai rapinatori di banche (o di uffici postali) per immobilizzare i dipendenti e i clienti delle stesse. Il Tribunale di Milano risulta insomma avere dato adeguatamente conto delle ragioni che l'hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario del reato di tentata rapina in capo al Le.Vi., argomentandola sulla base di una valutazione degli elementi indizianti che appare conforme ai canoni della logica e rispettosa del combinato disposto degli artt. 56 e 628 cod. pen. A fronte di ciò, le doglianze del ricorrente appaiono sostanzialmente dirette a ottenere una diversa valutazione delle circostanze che sono state non illogicamente esaminate e valutate dal giudice del merito, il che non è possibile fare in sede di legittimità. 3. Anche il secondo motivo non è consentito. Il Tribunale di Milano ha ritenuto la gravità indiziaria del concorso del Le.Vi. nel reato di riciclaggio dell'autovettura Fiat Panda che era stata utilizzata dallo stesso Le.Vi., insieme ad altri tre coindagati, per raggiungere la filiale dell'istituto di credito - reato che era stato commesso apponendo, sulle targhe originali della suddetta autovettura, delle targhe adesive che riportavano una serie alfanumerica diversa - sulla base degli elementi che, poiché la Fiat Panda era stata utilizzata solo per raggiungere la filiale dell'istituto di credito (il Le.Vi. aveva infatti raggiunto L a bordo della Volkswagen Polo che era condotta da Ve.Lu.) ed era destinata a essere abbandonata dopo essere servita per la fuga (come era dimostrato dal fatto che il coindagato Ru.Sa. era rimasto a guardia delle due autovetture "pulite" Volkswagen Polo e Aucli A3), il Le.Vi. si doveva ritenere consapevole che la Fiat Panda fosse un'automobile il cui uso, grazie alla manomissione delle targhe originali, avrebbe impedito l'individuazione degli autori della rapina. Tale motivazione della gravità indiziaria del concorso del Le.Vi. nel reato di riciclaggio dell'autovettura Fiat Panda appare, ad avviso del Collegio, del tutto priva di contraddizioni e di illogicità, tanto meno manifeste, atteso che si deve reputare del tutto conforme ai canoni della logica ritenere che - come ha fatto il Tribunale di Milano - l'utilizzazione di un'autovettura con le targhe manomesse solo per commettere un reato costituisca un indice evidente del fatto chi l'ha utilizzata fosse consapevole del fatto che, proprio grazie alla suddetta manomissione, l'utilizzo della stessa autovettura avrebbe impedito di individuarlo come autore del reato e, quindi, del suo concorso, quanto meno morale, nel riciclaggio commesso mediante la manomissione delle targhe. A fronte di tale del tutto logica motivazione, le doglianze del ricorrente appaiono sostanzialmente dirette a ottenere una diversa valutazione delle circostanze già esaminate dal giudice del merito, il che non è possibile fare in sede di legittimità. 3. Pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell'art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento, nonché, essendo ravvisabili profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen. Così deciso in Roma, il 25 giugno 2024. Depositata in Cancelleria il 3 luglio 2024.
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