RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 08/04/2022, la Corte di appello di Torino, in parziale riforma della pronuncia di primo grado resa dal Tribunale di Vercelli in data 18/07/2018, riconosciute a S.M. e a O.N. le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle contestate circostanze aggravanti, rideterminava la pena nei seguenti termini: nei confronti di S., nella misura di anni due, mesi sei di reclusione ed Euro 600 di multa (in relazione ai reati di cui ai capi F ed H, come riqualificati in primo grado ex art. 628 c.p., commi 1, 2 e comma 3, n. 1; in primo grado lo S. era stato condannato alla complessiva pena di anni cinque, mesi sei di reclusione ed Euro 2.500 di multa) e nei confronti di O.N., nella misura di anni due di reclusione ed Euro 500 di multa (in relazione al capo F, come riqualificato in primo grado ex art. 628 c.p., comma 2 e comma 3, n. 1; in primo grado l' O. era stato condannato alla pena di anni quattro, mesi sei di reclusione ed Euro 1.500 di multa).
2. Avverso la predetta sentenza, nell'interesse di S.M. e di O.N., è stato proposto ricorso per cassazione, per i motivi - a trattazione cumulativa come da elencazione - che vengono di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p..
Primo e secondo motivo: violazione di legge in relazione all'art. 125 c.p.p., comma 3, omissione, contraddittorietà ed illogicità della motivazione sul punto. L'acquisizione ex art. 500 c.p.p., commi 4 e 5, delle dichiarazioni rese in fase predibattimentale da S.R., S.P. e S.V. non è stata motivata né in primo né in secondo grado, se non in modo generico e stereotipato, essendosi in ogni caso la Corte d'appello limitata a trattare la censura relativa all'utilizzabilità delle dichiarazioni.
Terzo e quarto motivo: violazione di legge in relazione all'art. 500 c.p.p., commi 4 e 5, omissione, contraddittorietà ed illogicità della motivazione sul punto. La Suprema Corte ha affermato in più occasioni come l'operatività della disciplina acquisitiva di cui all'art. 500 c.p.p., comma 4, è condizionata al ricorrere, alternativamente, di uno dei due seguenti presupposti:
- la non accettazione (in tutto o in parte) del contraddittorio da parte del testimone, in presenza della quale non sarebbero tout court ammesse contestazioni;
- l'accettazione del contraddittorio da parte del testimone, il quale renda, peraltro, dichiarazioni dibattimentali difformi rispetto a quelle predibattimentali solo perché inquinate dalla indebita turbativa esterna.
Nella fattispecie, le tre persone offese non si sono rifiutate di deporre e, quindi, nella valutazione della responsabilità degli imputati potevano essere utilizzate solo ed esclusivamente le contestazioni effettuate a dibattimento e non il contenuto delle dichiarazioni predibattimentali. In ogni caso, la Corte territoriale ha ritenuto sussistente la minaccia solo ed esclusivamente in via presuntiva, senza specificare non solo in cosa essa sarebbe consistita ma anche gli elementi da cui desumerla. La motivazione adottata è altresì carente nella parte in cui omette di valutare tutti gli elementi sottolineati dalla difesa nell'atto di appello di segno contrario rispetto alla ritenuta intimidazione che avrebbero subito i testi.
Quinto e sesto motivo: violazione di legge in relazione all'art. 628 c.p., come riqualificato il fatto di cui al capo F); omissione, contraddittorietà ed illogicità della motivazione sul punto. Del tutto omessa è la valutazione delle contestazioni effettuate dalla difesa che aveva evidenziato come tra la sottrazione dei mezzi e l'uso della violenza da parte di S.A. mancasse proprio l'unitarietà dell'azione, necessaria a configurare il reato in questione.
Settimo e ottavo motivo: violazione di legge in relazione all'art. 110 c.p. di cui al capo F); omissione, contraddittorietà ed illogicità della motivazione sul punto. Sul concorso ex art. 110 c.p. vi è una motivazione di stile. La Suprema Corte ha in più occasioni chiarito che la responsabilità del compartecipe per il fatto più grave rispetto a quello concordato, materialmente commesso da altro concorrente, integra il concorso ordinario ex art. 110 c.p. se il compartecipe ha previsto e accettato il rischio di commissione del delitto diverso e più grave, mentre, nel caso (quale il presente) in cui l'agente, pur non avendo in concreto previsto il fatto più grave, avrebbe potuto rappresentarselo come sviluppo logicamente prevedibile dell'azione convenuta, questo configurerebbe il concorso anomalo ex art. 116 c.p..
Nono, decimo, undicesimo e dodicesimo motivo: violazione di legge in relazione all'art. 192 c.p.p. per il capo H); violazione di legge con riferimento all'art. 628 c.p., così come riqualificato il capo H); omissione, contraddittorietà ed illogicità della motivazione sul punto; travisamento della prova. La sentenza di appello, nel confermare quella di primo grado, si limita a richiamare il contenuto del verbale delle sommarie informazioni testimoniali rese da S.R. in data 22/02/2014, ma non compie la stringente verifica sulla credibilità ed attendibilità del dichiarante sulla base delle criticità evidenziate in atto di appello. Affermare che non emerga un credito di S.M. riconducibile ad una causale lecita non solo è contraddittorio, ma travisa anche le prove raccolte.
Tredicesimo motivo: omissione, contraddittorietà ed illogicità della motivazione con riferimento alla determinazione della pena base per l'imputato S.M.. La pena base in appello (in relazione al più grave capo F) è stata indicata in anni tre, mesi sei di reclusione ed Euro 700 di multa, in misura superiore al minimo edittale: tale determinazione è priva di motivazione oltre che contraddittoria con quanto stabilito in primo grado che aveva determinato la pena base in misura pari al minimo edittale, fissandola in anni quattro, mesi sei di reclusione ed Euro 1.500 di multa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono inammissibili.
2. Manifestamente infondati sono i primi quattro collegati motivi di ricorso. Alcune precisazioni di carattere teorico s'impongono in premessa.
2.1. Come è noto, il divieto di acquisizione dibattimentale delle precedenti dichiarazioni trova una prima eccezione "quando, anche per le circostanze emerse nel dibattimento, vi sono elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità affinché non deponga ovvero deponga il falso". In tal caso, "le dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al fascicolo del dibattimento e quelle previste dal comma 3, possono essere utilizzate" (art. 500 c.p.p., comma 4).
Si tratta di una disciplina che trova la sua giustificazione nell'ambito dell'art. 111 Cost., comma 5, che contempla la "provata condotta illecita" come ipotesi di deroga alla formazione della prova nel contraddittorio delle parti. Scopo della disposizione e', chiaramente, quello di evitare un inquinamento probatorio. Per il recupero a fini probatori delle pregresse dichiarazioni, non conta chi abbia commesso l'illecito, ma se questo fosse realmente idoneo a incidere sulla libertà di scelta del testimone. Se il giudice, sulla base dell'andamento del dibattimento, ha fondati motivi per ritenere che il teste sia stato intimidito, può disporre gli accertamenti necessari al fine di appurare la fondatezza o meno dei suoi sospetti, avviando un micro procedimento incidentale a forma libera. Nulla vieta che gli elementi concreti per ritenere che il testimone sia stato sottoposto a pressioni siano tratti dall'atteggiamento assunto dal teste nel corso della deposizione dibattimentale: di tal che, del tutto irrilevante a tali fini che il comportamento reticente del teste sia totale o parziale (ovvero che il dichiarante sia stato del tutto silente alle domande ovvero abbia reso dichiarazioni o risposto solo a qualche domanda, spontaneamente o a seguito di contestazione). Ciò che rileva è che la prudente valutazione del giudice gli consenta comunque di cogliere in quel comportamento i segni della subita intimidazione, non potendo assumere alcuna valenza il mancato espletamento degli accertamenti incidentali previsti dall'art. 500 c.p.p., comma 5, trattandosi di attività istruttoria meramente eventuale, alla quale il giudice può attendere solo se ne ravvisi la necessità, senza esservi in alcun modo obbligato.
2.2. La medesima giurisprudenza riconosce come le disposizioni dell'art. 500 c.p.p., commi 4 e 5 devono essere lette ed interpretate unitariamente, nel senso che la prima consente di desumere i fatti da violenza o minacciai od offerta di utilità al testimone sia da circostanze emerse prima e fuori dal dibattimento che, alternativamente, da circostanze emerse nel dibattimento, mentre la seconda richiede l'impulso di parte solo affinché il giudice disponga gli accertamenti richiesti sulle dette circostanze, ma non anche perché decida sulla acquisizione dei verbali contenenti le dichiarazioni rese nelle indagini preliminari (Sez. 6, n. 31461 del 07/06/2004, Foriglio, Rv. 230018).
Rientrano fra gli elementi valutabili ai fini dell'accertamento dell'inquinamento probatorio, quale presupposto dell'acquisizione al fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone ai sensi dell'art. 500 c.p.p., comma 4, le modalità della deposizione ed il contegno tenuto dal teste in dibattimento (Sez. 6, n. 22555 del 05/04/2017, Pascale, Rv. 270155), ma anche i condizionamenti economici o la para di essere allontanato dal nucleo familiare (Sez. 3, n. 2696 del 01/12/2011, dep. 2012, F., Rv. 251909).
2.3. Ai fini dell'acquisizione al fascicolo per il dibattimento delle dichiarazioni predibattimentali del testimone, l'idoneità della "minaccia" richiesta è integrata da qualsiasi comportamento suscettibile di incutere timore e di far sorgere la preoccupazione di poter soffrire un male o un danno ingiusti, ancorché non oggettivi ma semplicemente percepiti, tale da compromettere o diminuire la libertà morale del teste che ne è destinatario, a nulla rilevando la circostanza che il teste abbia poi reso deposizione (Sez. 3, n. 46501 del 01/10/2015, D., Rv. 265553). Infine, per quanto concerne il "grado della prova", premessa la necessità della sussistenza di "elementi concreti" per ritenere che il predetto sia stato sottoposto a pressioni, desumibili da qualunque circostanza sintomatica della subita intimidazione, purché connotata da precisione, obiettività e significatività, non potendo risolversi in vaghe ragioni o in meri sospetti, disancorati da qualunque dato reale (cfr., ex multis, Sez. 3, n. 19155 del 15/04/2021, O., Rv. 281879), la giurisprudenza richiede uno standard probatorio intermedio fra la semplice deduzione logica e l'accertamento dell'al di là di ogni ragionevole dubbio.
2.4. Fermo quanto precede, ritiene il Collegio come i giudici di merito, nella fattispecie, abbiano fatto precisa applicazione dei principi di diritto sopra descritti, riconoscendo la ricorrenza di "intimidazioni.. idonee a condizionare la libertà espositiva delle persone offese le quali nel corso della loro escussione hanno dichiarato di non riuscire più a ricordare alcunché, con una ostentata e plateale rinuncia ad ottenere tutela che ragionevolmente non può che fondarsi su precedenti minacce dagli stessi ricevute. Del resto è evidente come un tale tipo di minaccia possa essere ricostruito soltanto in via presuntiva, visto che la persona offesa minacciata che viene chiamata a testimoniare mai andrà a riferire di avere ricevuto minacce sul contenuto della propria deposizione. Ne' a conclusioni diverse può indurre il fatto che il pubblico ministero abbia chiesto la trasmissione degli atti al proprio ufficio, trattandosi di un atto dovuto a fronte di tale comportamento platealmente reticente. Neppure i toni aggressivi usati dal S.V. nella conversazione intercettata, cui ha fatto riferimento la difesa, consentono di escludere che lo stesso fosse terrorizzato dallo S., potendosi interpretare gli stessi alla stregua di una rancorosa frustrazione derivante dalle costanti richieste di cui egli era stato destinatario".
3. Manifestamente infondati sono il quinto ed il sesto motivo.
Questa Suprema Corte - in relazione alla nozione di "immediatezza" - ha, in più occasioni affermato che "nella rapina impropria, la violenza o la minaccia possono realizzarsi anche in luogo diverso da quello della sottrazione della cosa e in pregiudizio di persona diversa dal derubato, sicché, per la configurazione del reato, non è richiesta la contestualità temporale tra sottrazione e uso della violenza o minaccia, essendo sufficiente che tra le due diverse attività intercorra un arco temporale idoneo a realizzare, secondo i principi di ordine logico, i requisiti della quasi flagranza e tale da non interrompere il nesso di contestualità dell'azione complessiva posta in essere al fine di impedire al derubato di rientrare in possesso della refurtiva o di assicurare al colpevole l'impunità" (cfr., Sez. 2, n. 30127 del 09/04/2009, Scalvini, Rv. 244821; Sez. 2, n. 40421 del 26/06/2012, Zappala, Rv. 254171; Sez. 2, n. 43764 del 04/10/2013, Mitrovic, Rv. 257310; Sez. 7, n. 34056 del 29/05/2018, Belegrouh, Rv. 273617).
Invero, come è stato precisato, "ciò comporta che sia ancora in atto non la sottrazione, bensì l'assicurazione dell'impossessamento della cosa, o che sia in corso di svolgimento la reazione difensiva privata o repressiva pubblica" (Sez. 2, n. 3721 del 18/05/1990, Villa, Rv. 186764).
Pertanto, "il requisito della "immediatezza", richiesto dalla norma incriminatrice, non deve essere inteso in senso rigorosamente letterale, ma deve essere posto in relazione allo scopo perseguito di assicurarsi il possesso della cosa sottratta ovvero l'impunità" (Sez. 6, n. 2410 del 25/06/1999, Concas, Rv. 214926); infatti, tra la violenza costitutiva del reato e l'impossessamento deve sussistere "un nesso di causalità tale da avere carattere di strumentalità, sicché l'impossessamento sia diretta derivazione della violenza stessa" (Sez. 2, n. 42076 del 03/11/2010, Arillo, Rv. 248509).
Di tali principi la Corte di merito ha fatto corretta applicazione.
Ferma la correttezza della qualificazione giuridica del fatto di cui al capo F) in rapina impropria, in quanto la condotta violenta e minacciosa non ha avuto quale effetto quello di coartare la volontà dei S. obbligandoli a consegnare i due camion, ma è intervenuta in epoca immediatamente successiva alla sottrazione, allo scopo di mantenere il possesso della cosa sottratta, risulta giudizialmente provato che, dopo la consegna dei camion e il loro spostamento nella cascina di S., S.V. aveva raggiunto immediatamente il figlio presso tale abitazione e qui S.A., alla presenza di S.M. ed O.N., aveva estratto un coltello e glielo aveva puntato alla gola; quindi aveva minacciato S.R., colpendo poi con una coltellata alla nuca V. e con una coltellata al braccio R..
La condotta di aggressione posta in essere deve ritenersi in rapporto di strumentalità e di consequenzialità con il precedente furto, tale per cui quest'ultimo e la violenza costituiscono un'azione complessiva e tra essi non è ravvisabile alcuna soluzione di continuità. Anche in ordine all'elemento temporale, la decisione di entrambi i giudici di merito si sottrae ad ogni censura di legittimità. Infatti, nel caso di specie, l'immediatezza va rinvenuta nel fatto che l'incontro, da subito degenerato, fra vittime ed aggressori si è verificato pochissimo tempo dopo la sottrazione e senza alcuna soluzione di continuità con la stessa anche in considerazione della "causale" del successivo incontro (volontà dei S. di rientrare subito in possesso dei camion appena sottratti loro).
4. Manifestamente infondati sono il settimo e l'ottavo motivo.
Già il giudice di primo grado aveva riconosciuto che "quanto al contributo fornito dagli imputati nella realizzazione del reato... al capo F), occorre anzitutto prendere in esame il momento della sottrazione dei mezzi: tale condotta è avvenuta in presenza dei tre imputati (ndr., S.A., nelle more deceduto): l'ordine di asportare i camion è stato impartito da S.A. e, per quanto riguarda il Mercedes, è stato eseguito da O.N.. S.M., presente quando il padre si è fatto consegnare i mezzi, aveva, invece, ricevuto ordine di comunicare a terze persone, rimaste non identificate, l'avvenuto impossessamento. Tutti gli imputati, pertanto, hanno contribuito a realizzare la sottrazione. Le lesioni ai S. e la minaccia esercitata con il coltello sono poi attribuibili materialmente ad S.A., ma sono state commesse in presenza di S.M. e O.N., che con la loro presenza hanno agevolato e rafforzato il proposito criminoso del primo, rendendo più sicura l'azione di S.A. e più difficile l'eventuale difesa che avrebbero potuto porre in essere i S.".
Ciò considerato, evidenzia il Collegio come i giudici ci merito si siano attenuti al consolidato insegnamento di legittimità in tema di concorso di persone nel reato, secondo il quale anche la semplice presenza, purché non meramente casuale, sul luogo della esecuzione del reato è sufficiente ad integrare gli estremi della partecipazione criminosa, quando sia servita a fornire all'autore del fatto stimolo all'azione o un maggiore senso di sicurezza nella propria condotta, palesando chiara adesione alla condotta delittuosa (cfr., Sez. 2, n. 40420 del 08/10/2008, Bash Hysa, Rv. 241871; Sez. 2, n. 50323 del 22/10/2013, Aloia, Rv. 257979; Sez. 2, n. 28895 del 13/07/2020, Massaro, Rv. 279807).
5. Aspecifici e comunque manifestamente infondati sono il nono, il decimo, l'undicesimo ed il dodicesimo motivo.
In relazione al reato di cui al capo H), già il primo giudice aveva evidenziato come S.A. e M. avevano atteso S.R. e quando costui gli si era accostato, M. aveva estratto un coltello, puntandoglielo, mentre gli intimava la consegna del suo portafogli dal quale prelevava la somma di trecento Euro.
I giudici di secondo grado, ribadendo il giudizio di attendibilità della vittima, riconoscevano come la narrazione contenuta nello stesso verbale fosse del tutto chiara, non potendo rilevare il fatto che egli non abbia riferito alcunché al riguardo in occasione della sua precedente audizione, non potendo equivalere la narrazione tardiva di taluni episodi ad un deficit di veridicità degli stessi, visto che è ben possibile che, per le più svariate ragioni, solo in seguito il dichiarante se ne possa essere ricordato. Si è riconosciuto, inoltre, come la fattispecie non potesse essere riqualificata come esercizio arbitrario delle proprie ragioni "non emergendo in alcun modo dagli atti un credito degli odierni imputati riconducibile ad una causale lecita (potendosi al più ascrivere il debito nei confronti di S.A. ad una pattuizione usuraria o a precedenti consegne di sostanza stupefacente: cfr. sit di S.R. e S.V.); ne segue che tale credito difetta delle necessarie caratteristiche onde poter essere validamente azionato in un eventuale giudizio".
Con queste argomentate conclusioni, il ricorrente omette di confrontarsi, preferendo la "strada", conducente all'inammissibilità, della reiterazione del motivo di appello, risultando poi del tutto sfornita di prova l'affermazione di un operato travisamento della prova, il cui preteso vizio vede, in ogni caso, circoscritta la cognizione del giudice di legittimità alla verifica dell'esatta trasposizione nel ragionamento del giudice di merito del dato probatorio, rilevante e decisivo, per evidenziarne l'eventuale, incontrovertibile e pacifica distorsione (nella specie, in alcun modo rilevabile), in termini quasi di "fotografia", neutra e a-valutativa, del "significante", ma non del "significato", atteso il persistente divieto di rilettura e di re-interpretazione nel merito dell'elemento di prova (Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, Dos Santos Silva Welton, Rv. 283370).
In caso di "doppia conforme", poi, il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo quando il ricorrente rappresenti, con specifica deduzione, che il dato probatorio asseritamente travisato, è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione della motivazione del provvedimento di secondo grado ovvero qualora entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite, in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili (ossia, in assenza di alcun discrezionale apprezzamento di merito), il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (cfr., Sez. 4, n. 35963 del 03/12/2020, Tassoni, Rv. 280155; Sez. 2, n. 5336 del 09/01/2018, L., Rv. 272018; Sez. 2, n. 7896 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269217; Sez. 4, n. 44765 del 22/10/2013, Buonfine, Rv. 256837): ipotesi qui non ricorrente.
6. Manifestamente infondato e, ai limiti della carenza di interesse, è il tredicesimo motivo.
Esclusa ogni violazione di reformatio in peius (che il ricorrente nemmeno denuncia) e preso atto che il minimo edittale di pena per la rapina aggravata commessa, al tempus delitti commissi (nella specie, maggio 2012), era pari ad anni quattro, mesi sei di reclusione ed Euro 1.032 di multa (il giudice di primo grado, irrogando la pena di 1.500 Euro di multa - in realtà - non si è attenuto al dichiarato minimo, quantomeno con riferimento alla pena pecuniaria), ritiene il Collegio che il giudice di appello, rivalutando il fatto ("degradato", quoad poenam, da rapina aggravata a rapina semplice) e determinando una sanzione finale complessiva inferiore rispetto a quella riconosciuta in primo grado, ben abbia potuto considerare un limite edittale di pena più alto rispetto a quello riconosciuto dal giudice di primo grado, proprio in conseguenza dell'avvenuta mutazione del titolo di reato e della necessità di una riconsiderazione della "diversa" fattispecie, con riferimento ai parametri di cui all'art. 133 c.p., tanto più dovendo necessariamente riconsiderare il "nuovo" contesto del reato continuato (cfr., in fattispecie in qualche modo assimilabile, Sez. 5, n. 19366 del 08/06/2020, Finizio, Rv. 279107, nella quale, in presenza di impugnazione proposta dal solo imputato, veniva riconosciuta da parte del giudice di secondo grado un'ulteriore circostanza attenuante che tuttavia comportava una riduzione di pena inferiore a quella già riconosciuta per le già applicate circostanze attenuanti generiche).
7. Alla pronuncia consegue, per il disposto dell'art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 10 maggio 2023.
Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2023