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Reati fallimentari: sulla durata delle pene accessorie

Bancarotta pene accessorie

Cassazione penale sez. VI, 28/10/2020, n.36256

In tema di reati fallimentari, la durata delle pene accessorie deve essere determinata in concreto dal giudice sulla base dei criteri di cui agli artt. 132 e 133 c.p., da parametrarsi, con specifica ed adeguata motivazione, alla funzione preventiva ed interdittiva delle stesse.

Reati fallimentari: sulla durata delle pene accessorie

Bancarotta fraudolenta: le pene accessorie vanno commisurate alla pena principale

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Torino confermava la sentenza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino che aveva condannato, all'esito di rito abbreviato, B.R. per il reato di cui all'art. 314 c.p.. All'imputato era stato contestato di essersi appropriato, in qualità di legale rappresentante dell'hotel (OMISSIS), della somma di Euro 5.472, RITENUTO IN FATTO. 1.Con la sentenza impugnata dell'11 aprile 2019, la Corte d'appello di Milano ha confermato la decisione del Giudice dell'udienza preliminare in sede del 19 luglio 2017, con la quale è stata affermata la responsabilità penale di B.N., in concorso con M.F., separatamente giudicato, in ordine al reato di bancarotta fraudolenta documentale sub a), nella qualità di amministratore di diritto di FOOD AND BEVERAGE s.r.l., dichiarata fallita con sentenza del 26 giugno 2014. 2. Avverso la sentenza indicata ha proposto ricorso l'imputato per mezzo del difensore, Avv. Andrea Stefani, affidando le proprie censure a due motivi. 2.1. Con il primo, deduce violazione di legge in riferimento all'art. 216 L. Fall. per avere la Corte territoriale omesso il vaglio degli indici deponenti per un'effettiva partecipazione dell'imputato alla gestione della società, limitandosi a richiamare circostanze meramente indizianti, quale l'occasionale intervento del Bartoli, nella qualità di amministratore formale, in sporadici atti, non concludenti del dolo specifico richiesto dalla legge. Censura, altresì, il diniego di qualificazione del fatto ex art. 217 L. Fall., invece ravvisabile in presenza di una mera inosservanza colposa del dovere di impedimento. 2.2. Con il secondo motivo, deduce analoga censura in relazione alla determinazione della durata delle pene accessorie fallimentari, commisurate nel massimo senza alcuna personalizzazione ed in contrasto con le indicazioni della Corte costituzionale. CONSIDERATO INI DIRITTO Il ricorso è fondato solo in parte. 1.Non colgono nel segno le censure proposte nel primo motivo di ricorso in punto di responsabilità. 1.1. Il ricorrente si duole dell'erroneo apprezzamento degli indici rivelatori del dolo rassegnati nella sentenza impugnata e dell'omessa qualificazione dei fatti ex art. 217 L. Fall., assumendo la mancanza di consapevolezza, in capo al B., della sottrazione delle scritture contabili da parte dell'amministratore di fatto della società. Sennonchè dalla motivazione dell'avversata decisione è dato cogliere come la Corte territoriale abbia ascritto all'imputato il ruolo di effettivo cogestore della fallita (ff.4 e 6), valorizzando non solo la procura effettivamente conferita al coimputato M. (abilitante quest'ultimo al compimento di operazioni finanziarie e commerciali), ma anche la serie di trasferimenti della sede della fallita e l'apertura di un conto corrente in Modena che, pur in presenza di un'ulteriore delega a terzi, ne ha delineato lo status di effettivo amministratore. E, nell'ambito così tracciato, la Corte territoriale ha ricostruito il profilo soggettivo dell'agente, ravvisando a suo carico il dolo - specifico richiesto dalla norma incriminatrice (f. 5, ultimo alinea) anche alla luce delle contraddittorie dichiarazioni rese dal medesimo riguardo l'effettiva esistenza, la custodia e, infine, la mancata messa a disposizione della curatela delle scritture contabili. 1.2. A fronte di siffatto apparato argomentativo, s'appalesano impropriamente evocati i principi che sovrintendono l'accertamento dell'elemento soggettivo in capo all'amministratore formale, in presenza di una effettiva posizione di garanzia ai sensi dell'art. 2392 c.c. e dello scopo di recare pregiudizio ai creditori, impedendo la ricostruzione dei fatti gestionali, ritenuto alla stregua della fattispecie patrimoniale, comunque attribuita al coimputato, e dell'assoluta inattendibilità delle giustificazioni rappresentate dall'imputato riguardo le scritture contabili. La dimostrazione del dolo - specifico - richiesto per la bancarotta documentale prevista dalla prima parte dell'art. 216, comma 1, n. 2, L. Fall. (Sez. 5, n. 26379 del 05/03/2019, Inverardi, Rv. 276650) risulta, pertanto, ritratta, con metodo logico-inferenziale, dalle modalità della condotta contestata (avvicendamento delle sedi sociali e dei delegati; causazione del fallimento in conseguenza di operazioni dolose; assoluta inattendibilità del contributo conoscitivo proveniente dall'imputato) e tali da giustificare l'esclusione della meno grave fattispecie della bancarotta semplice incriminata dall'art. 217, comma 2, L. Fall. (V. Sez. 5, n. 26613 del 22/02/2019, Amidani, Rv. 276910). 1.3. Nè a diversa conclusione si perverrebbe laddove si aderisse alla prospettazione difensiva. Ed invero la responsabilità per il reato di bancarotta documentale dell'amministratore, che risulti essere stato soltanto un prestanome, nasce dalla violazione dei doveri di vigilanza e di controllo che derivano dalla accettazione della carica, cui però va aggiunta la dimostrazione non solo astratta e presunta, ma effettiva e concreta, della consapevolezza dello stato delle scritture, tale da impedire la ricostruzione del movimento degli affari o, per le ipotesi con dolo specifico - quale quella contestata - di procurare un ingiusto profitto (Sez. 5, n. 44293 del 17/11/2005, Liberati, Rv. 232816 e, più recentemente, Sez. 5, n. 43977 del 14/07/2017, Pastechi, Rv. 271754); principi che - nel caso in esame - trovano corretta applicazione nell'enunciazione degli indicatori (V. Sez. 5, n. 38396 del 23/06/2017, Sgaramella, Rv. 270763 riguardo il metodo valutativo) del dolo specifico supra richiamati, sorretti da adeguata motivazione. A tanto aggiungasi come l'imputazione elevata a carico del ricorrente in concorso con l'amministratore di fatto M., separatamente giudicato - neppure postuli la prova del dolo specifico di fattispecie in capo all'amministratore formale, essendo, invece, sufficiente la consapevolezza che l'amministratore di fatto, concorrente nel reato, sia animato dalla particolare finalità di frode ai creditori richiesta dalla norma incriminatrice (V. Sez. 2, n. 38277 del 07/06/2019, Nuzzi, Rv. 276954, in linea con l'insegnamento di Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231672), in presenza di un contributo causale riferibile all'agente, come ampiamente ricostruito nelle conformi sentenze di merito. Il primo motivo è, pertanto, infondato. 2. Colgono, invece, nel segno le ulteriori censure, inerenti la determinazione nel massimo della durata delle pene accessorie fallimentari. 2.1. Come noto, il regime sanzionatorio accessorio previsto per il reato di bancarotta fraudolenta è stato completamente rivisitato in seguito alle recenti pronunce del Giudice delle leggi e del massimo consesso di questa Corte. Muovendo dalla tensione di ogni automatismo sanzionatorio con i principi costituzionali di uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità, nonchè con la necessaria funzione rieducativa della pena, le pene accessorie fallimentari, obbligatorie nell'an e fisse nel quantum, sono state riconciliate all'esigenza di necessaria personalizzazione alla quale deve essere ispirato il trattamento punitivo. 2.2. La formulazione dell'art. 216, u.c., L. fall non lasciava al Giudice alcun margine di discrezionalità per l'individualizzazione della sanzione da infliggere in concreto al condannato: se, da un lato, siffatta previsione normativa rispondeva ad una dichiarata scelta di politica criminale - tendente alla estensione dell'effetto di prevenzione speciale negativa, oltre che a una maggiore capacità deterrente dell'incriminazione, ed avente lo scopo di allontanare il reo dall'ambito di attività imprenditoriali per un lungo periodo di tempo - nondimeno un sistema sanzionatorio così delineato si poneva in termini di difficile compatibilità con i fondamentali principi costituzionali di riferimento. La questione involgeva, dunque, la possibile contrarietà di una pena prevista, in via obbligatoria e in misura fissa, con i principi di proporzionalità e necessaria individualizzazione della sanzione, nonchè con la funzione rieducativa della stessa. 2.3. La Consulta si era già espressa in thema di automatismi sanzionatori, precisando come, in generale, sussista l'esigenza di un'articolazione legale del sistema sanzionatorio che renda possibile un adeguamento individualizzato e proporzionale delle pene inflitte e che, pertanto, svolga una funzione di giustizia e di tutela delle posizioni individuali, nonchè di limite alla potestà punitiva statale. Così, secondo la Corte Costituzionale, "previsioni sanzionatorie rigide non appaiono... in armonia con il "volto costituzionale" del sistema penale ed il dubbio d'illegittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell'illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, questa ultima appaia ragionevolmente "proporzionata" rispetto all'intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato" (Corte Cost. sentenza 2 aprile 1980, n. 50). Cionondimeno, in tema di durata fissa delle pene accessorie fallimentari, la Corte Costituzionale (sentenza 21 maggio 2012, n. 134) non si era espressa in modo risolutivo, in ragione della dichiarata inammissibilità delle questioni sollevate, in quanto "risulta evidente che l'addizione normativa richiesta dai giudici a quibus non costituisce una soluzione costituzionalmente obbligata, ed eccede i poteri di intervento di questa Corte, implicando scelte affidate alla discrezionalità del legislatore. Pertanto deve farsi applicazione del principio, più volte espresso, secondo il quale sono inammissibili le questioni di costituzionalità relative a materie riservate alla discrezionalità del legislatore e che si risolvono in una richiesta di pronuncia additiva a contenuto non costituzionalmente obbligato". La Consulta aveva, dunque, precisato come il richiesto intervento additivo non avrebbe comunque rappresentato l'unica soluzione prospettabile, in quanto ben potrebbe prevedersi una pena accessoria "predeterminata ma non in misura fissa (ad esempio da cinque a dieci anni) o una diversa articolazione delle pene accessorie in rapporto all'entità della pena detentiva". Siffatta pronuncia veniva, dunque, ad assumere valenza di monito, cui, tuttavia, non fa fatto seguito l'auspicato intervento del legislatore, sicchè non è parso precluso al Giudice a quo di sollecitare nuovamente la Consulta a porre rimedio all'illegittimità costituzionale, già incidentalmente accertata ma non dichiarata. 2.4. Con la sentenza n. 222 del 2018, il Giudice delle Leggi ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 216, u.c., L. Fall., nella parte in cui dispone "la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa", anzichè "la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo importa l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni". Nella pronuncia in esame, la Consulta ha, invero, preliminarmente individuato il petitum ad essa sottoposto, avente ad oggetto il solo carattere fisso della durata delle pene accessorie, e non anche il carattere obbligatorio nell'an di tali sanzioni. Così, la Corte ha subito segnalato che "la durata fissa delle pene accessorie previste dall'art. 216, u.c., della legge fallimentare non appare, in linea di principio, compatibile con i principi costituzionali in materia di pena, e segnatamente con i principi di proporzionalità e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio". E sebbene la determinazione del trattamento sanzionatorio dei fatti previsti come reato rientri nella competenza esclusiva del legislatore, la Consulta ha ammonito come siffatta discrezionalità non possa estrinsecarsi nella manifesta irragionevolezza delle scelte legislative. Detto limite verrebbe superato "allorchè le pene comminate appaiano manifestamente sproporzionate rispetto alla gravità del fatto previsto quale reato", ingenerando nel condannato la percezione dell'ingiustizia della pena. Alla luce di siffatte premesse, la Consulta ha proceduto alla ricognizione dei principi generali coinvolti in materia di trattamento sanzionatorio, richiamando la necessaria proporzione della sanzione, circoscritta in via generale dal legislatore, in relazione alla concreta gravità, oggettiva e soggettiva, del fatto commesso, tra il minimo ed il massimo edittale entro cui la pena deve essere concretamente commisurata, tenendo conto della vasta gamma di circostanze indicate negli artt. 133 e 133-bis c.p., in tal modo assicurandosi una risposta il più possibile individualizzata "e dunque calibrata sulla situazione del singolo condannato, in attuazione del mandato costituzionale di "personalità" della responsabilità penale di cui all'art. 27 Cost., comma 1". In tal guisa, la Consulta ha ribadito il principio di mobilità, o individualizzazione, della pena secondo cui, sulla scorta dell'insegnamento della già richiamata sentenza n. 50/1980, ogni sanzione fissa nel quantum è, per ciò solo, indiziata di incostituzionalità, "e tale indizio potrà essere smentito soltanto in seguito a un controllo strutturale della fattispecie di reato che viene in considerazione, attraverso la puntuale dimostrazione che la peculiare struttura della fattispecie la renda "proporzionata" all'intera gamma dei comportamenti tipizzati. Così come, peraltro, avvenne nel caso della disposizione scrutinata nella sentenza n. 50 del 1980". In relazione al reato di bancarotta, il Giudice delle leggi ha sottolineato come l'art. 216 L. Fall. (richiamato, nel suo contenuto precettivo, dall'art. 223 L. Fall.) non solo concerne una pluralità di fattispecie che, già solo a livello astratto, sono connotate da livelli di gravità alquanto diversi tra loro, ma come anche all'interno delle singole figure di reato previste in astratto sono individuabili livelli di gravità diversi, qualificati dalla condotta concretamente posta in essere. Con la conseguenza per cui una simile rigidità applicativa, con riferimento alle pene accessorie, non può che generare risposte sanzionatorie manifestamente sproporzionate per eccesso, rispetto ai fatti di bancarotta fraudolenta meno gravi. 2.5. Premesso che siffatto trattamento distonico configura senza dubbio una violazione, quantomeno, degli artt. 3 e 27 Cost., nonchè del principio dell'individualizzazione della pena, si trattava di verificare se a tale vulnus la Consulta potesse porre rimedio. Richiamando la sentenza n. 134 del 2012, il Giudice delle leggi ha osservato come una tutela effettiva dei principi e dei diritti fondamentali incisi dalle scelte sanzionatorie del legislatore rischierebbe di rimanere senza protezione laddove l'intervento della stessa Corte restasse vincolato, come è stato a lungo in passato, ad una rigida esigenza di "rime obbligate" nell'individuazione della sanzione applicabile in luogo di quella dichiarata illegittima. E se nel 2012 la stessa Consulta, pur riconoscendo la fondatezza della questione di legittimità costituzionale, si era mostrava, in ogni caso, vincolata alla scelta del legislatore, con la sentenza n. 236/2016 si era, invece, registrata una deviazione dal principio secondo cui l'intervento correttivo fosse condizionato alla sostituzione del trattamento sanzionatorio sulla base di un tertium comparationis, che fornisse al Giudice le "rime obbligate" entro cui allineare la sanzione sproporzionata a quella della norma con funzione di parametro; principio invece superabile in presenza di "precisi punti di riferimento, già rinvenibili nel sistema legislativo", intesi quali "soluzioni (sanzionatorie) già esistenti, idonee a eliminare o ridurre la manifesta irragionevolezza lamentata". In tal guisa, la Corte costituzionale - con la sentenza n. 222 del 2018 ha ripudiato la storica e maggioritaria tesi giurisprudenziale, avallando, invece, quella minoritaria del 2016, affermando come "a consentire l'intervento di questa Corte di fronte a un riscontrato vulnus ai principi di proporzionalità e individualizzazione del trattamento sanzionatorio - non è necessario che esista, nel sistema, un'unica soluzione costituzionalmente vincolata in grado di sostituirsi a quella dichiarata illegittima, come quella prevista per una norma avente identica struttura e ratio, idonea a essere assunta come tertium comparationis. Essenziale, e sufficiente, a consentire il sindacato della Corte sulla congruità del trattamento sanzionatorio previsto per una determinata ipotesi di reato è che il sistema nel suo complesso offra alla Corte "precisi punti di riferimento" e soluzioni "già esistenti" (sentenza n. 236 del 2016) - esse stesse immuni da vizi di illegittimità, ancorchè non "costituzionalmente obbligate" - che possano sostituirsi alla previsione sanzionatoria dichiarata illegittima; sì da consentire a (questa) Corte di porre rimedio nell'immediato al vu/nus riscontrato, senza creare insostenibili vuoti di tutela degli interessi di volta in volta tutelati dalla norma incriminatrice incisa dalla propria pronuncia". Passando alla verifica della questione rimessa, la Consulta ha, quindi, osservato come il quadro della legge fallimentare offra "una diversa soluzione, in grado di sostituirsi a quella prevista dalla disposizione in questa sede censurata, e di inserirsi al tempo stesso armonicamente all'interno della logica già seguita dal legislatore, al netto del riscontrato vizio di costituzionalità", individuandola negli artt. 217 e 218 L. Fall., nella parte in cui dispongono l'applicazione delle medesime pene accessorie della bancarotta fraudolenta, rispettivamente, "fino a due anni" e "fino a tre anni". Per tali fattispecie, è prevista l'applicazione di pene accessorie individuate dal legislatore solo nel massimo edittale e, pertanto, discrezionalmente determinabili nel quantum dal giudice nel caso concreto, nulla vietando che la condanna per uno dei fatti previsti dall'art. 216 L. Fall. comporti una pena accessoria di durata, in concreto, di entità diversa da quella detentiva. 2.6. A siffatto approdo la Consulta ha aggiunto - per quanto qui di interesse - una specifica disamina della funzione delle pene accessorie fallimentari. Queste - ha sostenuto la Corte - hanno una funzione distinta da quella della pena principale della reclusione, in quanto le prime si caratterizzano per essere "marcatamente orientat(a)e alla prevenzione speciale negativa imperniata sull'interdizione del condannato da quelle attività che gli hanno fornito l'occasione per commettere gravi reati", oltre che per avere un diverso grado di afflittività rispetto ai diritti fondamentali della persona, aggiungendo come "in ottica de iure condendo, anzi, strategie siffatte ben potrebbero risultare funzionali a una possibile riduzione dell'attuale centralità della pena detentiva nel sistema sanzionatorio, senza indebolire la capacità deterrente della norma penale, nè l'idoneità della complessiva risposta sanzionatoria rispetto all'altrettanto legittimo obiettivo della prevenzione speciale negativa". 2.7. Sulla scorta di tali argomentazioni, dunque, il Giudice delle Leggi ha dichiarato l'art. 216, u.c., L. Fall. illegittimo nella parte in cui dispone l'applicazione delle pene accessorie "per la durata di dieci anni" anzichè "fino a dieci anni". L'approdo si inscrive, dunque, nella progressiva erosione degli automatismi sanzionatori, ulteriormente segnata dala sentenza n. 102 del 29 maggio 2020, con la quale la Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 574-bis c.p., comma 3 nella parte in cui prevede(va) come la condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di sottrazione e mantenimento di minore all'estero comportasse (necessariamente) la sospensione dell'esercizio della responsabilità genitoriale, anzichè la possibilità per il giudice di disporre (o non) la sospensione medesima, sviluppando, anche in tal caso, una disamina tutta incentrata sulla specifica proiezione della norma citata e sulla funzione assegnata alla pena accessoria. 3. La sostanziale modifica del sistema sanzionatorio accessorio previsto per il delitto di bancarotta fraudolenta ha, nell'immediatezza, posto il problema della concreta modalità di commisurazione delle pene accessorie nel caso concreto. 3.1. L'eliminazione del riferimento temporale "fisso", a favore dell'indicazione di un massimo edittale, ha posto il quesito se tali pene debbano considerarsi di durata "non predeterminata" ovvero "predeterminata", con la conseguente applicazione, rispettivamente, dell'art. 37 c.p. o dell'art. 133 c.p.; questione fortemente condizionata dal richiamo - nella sentenza della Consulta - a quest'ultima norma, ritenuta tale da "...assicurare altresì che la pena appaia una risposta - oltre che non sproporzionata - il più possibile "individualizzata", e dunque calibrata sulla situazione del singolo condannato", suggestivo della soluzione per cui l'applicazione concreta delle pene accessorie debba corrispondere a una modulazione delle stesse autonoma e indipendente dalla pena principale. Ed a siffatta impostazione hanno aderito le Sezioni Unite di questa Corte che, pur non vincolate a fornire un'interpretazione dell'art. 216 L. Fall. adesiva all'impianto della sentenza Corte Cost. 222 del 2018, ne hanno, di fatto, condiviso l'indicazione, riconoscendo alle pene accessorie del reato di bancarotta fraudolenta una commisurazione concreta ai sensi dell'art. 133 c.p.. 3.2. Con la sent. n. 28910 del 2019, le Sezioni Unite hanno affermato il seguente principio di diritto: "le pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all'art. 133 c.p.". Esclusa l'applicabilità dell'art. 37 c.p., al quale viene riconosciuta valenza residuale, e ritenuto superato il dictum della sentenza n. 134 del 2012 della Corte Costituzionale, le Sezioni Unite hanno evidenziato come la recente sentenza del 2018 abbia, invece, espresso un netto disfavore verso ogni forma di automatismo nella commisurazione concreta delle pene accessorie; e poichè la determinazione del quantum di pena accessoria ai sensi dell'art. 37 c.p. comporterebbe l'aggancio della stessa alla misura di quella principale, senza possibilità di modulazione autonoma della prima, verrebbe a (re)introdursi un nuovo automatismo in una materia invece completamente rivisitata. 3.3. Ai fini che qui ne occupano, va sottolineato come anche le Sezioni Unite abbiano disaminato le funzioni proprie svolte dalla pena accessoria rispetto a quella principale, rimarcando il diverso finalismo sanzionatorio delle due tipologie di pene in questione e la diversa portata afflittivi delle stesse; e proprio alla luce di siffatta lettura funzionale hanno ribadito l'importanza di una modulazione personalizzata della prima rispetto al disvalore del fatto di reato e alla personalità del responsabile, senza la necessità di riprodurre in maniera automatica la pena principale. In altri termini, è proprio dal diverso finalismo sanzionatorio che discende - nella convergente lettura delle Sezioni unite - la necessità di una differente operazione di calcolo della pena principale e accessoria; e poichè l'applicazione dell'art. 37 c.p. determinerebbe la sostituzione dell'automatismo della pena fissa, ripudiato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 222/2018, con un diverso automatismo, consistente nella equiparazione della pena accessoria a quella principale, le Sezioni Unite hanno optato per la commisurazione autonoma delle stesse, ai sensi dell'art. 133 c.p.. Dovendosi, pertanto, determinare in concreto la pena accessoria, per la quale la legge indica un termine di durata non fissa, sulla base dei criteri previsti all'art. 133 c.p., il giudice deve tenere conto della gravità del reato, desumibile dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione, dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato, dalla intensità del dolo o dal grado della colpa, e dalla capacità a delinquere del colpevole. Alla stregua di tali considerazioni, le Sezioni Unite hanno enunciato il seguente principio di diritto: "le pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all'art. 133 c.p.". 4. Nel quadro delineato dalle coeve pronunce della Consulta e delle Sezioni unite, viene a stagliarsi il metodo di concreta determinazione delle pene accessorie fallimentari secondo gli indici declinati dall'art. 133 c.p., esemplificativamente enunciati in termini di: - gravità del reato, desumibile dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione; - gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; - intensità del dolo o dal grado della colpa; - capacità a delinquere del colpevole. Trattasi di indici che - in coerenza con lo sviluppo argomentativo delle decisioni supra sintetizzate - debbono nondimeno parametrarsi alla funzione delle pene accessorie fallimentari ed al fondamento di ragione che ne giustifica la perdurante obbligatoria applicazione. 4.1. Come accennato (p. 2.7.), con specifico riferimento alla funzione delle pene accessorie fallimentari - profilo rispetto al quale la Consulta ha verificato la (in)compatibilità costituzionale del previgente regime - la sentenza n. 222 del 2018 ha rimarcato come la pena accessoria abbia una funzione distinta da quella della pena principale della reclusione, in quanto la prima si caratterizza per essere "marcatamente orientata alla prevenzione speciale negativa - imperniata sull'interdizione del condannato da quelle attività che gli hanno fornito l'occasione per commettere gravi reati", oltre che per avere un diverso grado di afflittività rispetto ai diritti fondamentali della persona, finendo per auspicare come "in ottica de iure condendo, anzi, strategie siffatte ben potrebbero risultare funzionali a una possibile riduzione dell'attuale centralità della pena detentiva nel sistema sanzionatorio, senza indebolire la capacità deterrente della norma penale, nè l'idoneità della complessiva risposta sanzionatoria rispetto all'altrettanto legittimo obiettivo della prevenzione speciale negativa". 4.2. Facendo riferimento al legittimo intento del legislatore storico di colpire in modo severo gli autori dei delitti di bancarotta fraudolenta, considerati come gravemente lesivi di interessi, individuali e collettivi, vitali per il buon funzionamento del sistema economico, e disaminando l'art. 861 del Codice di commercio del 1882, modificato in mitius e con pena mobile con la L. 10 luglio 1930, n. 995 (Disposizioni sul fallimento, sul concordato preventivo, e sui piccoli fallimenti), la Consulta ha sottolineato come la legge fallimentare del 1942, intervenuta ad inasprire nuovamente il trattamento sanzionatorio per il condannato a titolo di bancarotta fraudolenta, attraverso la previsione di due distinte pene accessorie, autonome e complementari, abbia inteso allontanare il predetto dall'ambito imprenditoriale per un lungo periodo successivo all'esecuzione della pena detentiva, allo scopo evidente di estendere nel tempo l'effetto di prevenzione speciale negativa già esplicato dall'esecuzione della pena detentiva, oltre che di conferire maggiore capacità deterrente all'incriminazione. E da siffatti rilievi ha concluso come la scelta legislativa compiuta nel 1942 sottendesse l'idea di una funzione almeno in parte distinta delle pene accessorie rispetto alle funzioni proprie della reclusione: ciò che ne giustifica, nell'ottica del legislatore storico - e in consapevole difformità rispetto alla regola residuale di cui all'art. 37 c.p., già esistente nel 1942 - una durata di regola maggiore rispetto a quella della pena detentiva concretamente inflitta. Siffatta prospettiva, che assegna alle pene accessorie una funzione almeno in parte distinta rispetto a quella delle pene detentive, e marcatamente orientata alla prevenzione speciale negativa - imperniata sull'interdizione del condannato da quelle attività che gli hanno fornito l'occasione per commettere gravi reati - se è stata di per sè ritenuta immune da censure sotto il profilo della sua legittimità costituzionale, cionondimeno costituisce il necessario parametro cui ancorare la valutazione degli indicatori di cui all'art. 133 c.p., nel senso che la determinazione delle pene accessorie, condotta secondo i predetti elementi, deve tuttavia a tale peculiare funzione essere raccordata. 4.3. Le Sezioni Unite, del pari (V. supra p. 3.3.) nell'affermare la necessaria applicazione di una dosimetria sanzionatoria quanto più personalizzata alla luce degli indicatori di cui all'art. 133 c.p., hanno altresì ribadito la peculiare funzione delle pene accessorie (V. in generale p. 7 e, più specificamente, p. 9.2), "specie quelle interdittive ed inabilitative, collegate al compimento di condotte postulanti lo svolgimento di determinati incarichi o attività, (sono) più marcatamente orientate a fini di prevenzione speciale, oltre che di rieducazione personale, che realizzano mediante il forzato allontanamento del reo dal medesimo contesto operativo, professionale, economico e sociale, nel quale sono maturati i fatti criminosi e dallo stimolo alla violazione dei precetti penali per impedirgli di reiterare reati in futuro e per sortirne l'emenda". Viene, così, a rimarcarsi, anche nell'argomentazione delle Sezioni Unite Suraci, una netta distinzione con le pene principali, che svolgono, invece, "funzioni retributive, preventive di carattere generale e speciale, nonchè rieducative mediante la sottoposizione al trattamento orientato al graduale reinserimento sociale del condannato". E l'esigenza della personalizzazione delle prime è stata espressamente collegato alla "piena realizzazione soprattutto dello specifico finalismo preventivo,, cui sono preordinate le pene complementari", che richiede "una loro modulazione personalizzata in correlazione con il disvalore del fatto di reato e con la personalità del responsabile...risultato questo conseguibile soltanto ammettendone la determinazione caso per caso ad opera del giudice nell'ambito della cornice edittale disegnata dalla singola disposizione di legge sulla scorta di una valutazione discrezionale, che si avvalga della ricostruzione probatoria dell'episodio criminoso e dei parametri dell'art. 133 c.p. e di cui è obbligo dare conto con congrua motivazione". 4.4. Dalla sentenza della Consulta e dai principi esplicitamente enunciati dalle Sezioni Unite emerge, allora, che se lo strumento di commisurazione delle pene, principali ed accessorie, è il medesimo, diversa ne è, invece, la funzione ed altrettanto diversificata deve esserne la valutazione in correlazione al fondamento razionale ed alle finalità delle une e delle altre. Sicchè la gravità del reato, desumibile dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione; la gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; l'intensità del dolo; la capacità a delinquere del colpevole andranno riguardati - al fine della determinazione delle pene accessorie fallimentari - nella peculiare funzione preventiva che le medesime svolgono, senza indebite sovrapposizioni delle valutazioni svolte, alla stregua dei medesimi indici, per la commisurazione della pena principale, e mediante l'esplicitazione della funzione specifica che alle medesime è assegnata dall'ordinamento e in concreto rimessa nel quantum al giudice. Del resto, Le Sezioni Unite hanno, sul punto, richiamato la necessità dell'obbligo di "congrua motivazione", che non può che interpretarsi come l'ostensione di un apparato argomentativo effettivamente calibrato sulla funzione preventiva rispetto ai diritti fondamentali della persona (libertà di iniziativa economica) ed alla finalità (non (solo) rieducativa) delle pene accessorie. A tal fine, non basta dunque il generico riferimento ai richiamati parametri, dovendo il giudice fare buon governo dell'attribuzione, costituzionalmente imposta, di ampi margini di discrezionalità, impiegati in concreto nella commisurazione delle pene accessorie, dandone conto in motivazione in maniera autonoma ed indipendente rispetto alla pena principale, anche alla luce del ridimensionamento della centralità della pena principale detentiva a favore di quella accessoria interdittiva, come sottolineato dalla Consulta. In tal senso, può in concreto prospettarsi una vasta gamma, a geometria variabile, dei rapporti tra quantificazione della pena principale e delle pene accessorie, potendo i medesimi indicatori rilevare diversamente ai fini della commisurazione dell'una e delle altre, così garantendosi l'effettiva personalizzazione del complessivo trattamento sanzionatorio, nei termini polifonici introdotti dalle sentenze richiamate. 4.5. Nella delineata prospettiva, la motivazione della decisione di merito in punto di quantificazione delle pene accessorie fallimentari deve dar conto innanzitutto delle connotazioni, oggettive e soggettive, che caratterizzano la fattispecie contestata, della natura - di pericolo concreto o di danno - del reato per cui si procede, della dimostrazione o meno del nesso causale, nel poliedrico contesto - al quale, non a caso, ha fatto riferimento la Consulta - dei delitti variamente declinati dagli artt. 216 e 223 L. Fall.. Ed invero, a titolo meramente esemplificativo, la "gravità del fatto, desumibile dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione" deve, in prima battuta, confrontarsi in astratto con il tipo di imputazione; quindi deve procedere, in concreto, alla valutazione del fatto entro lo specifico contesto di riferimento, in correlazione al numero degli atti distrattivi o causativi del dissesto (Sez. U, n. 21039 del 27/01/2011, PM in proc. Loy, Rv. 249667) ed agli strumenti di effettiva realizzazione; allo stesso modo, la "gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato" non può che involgere la valutazione di impatto sul pregiudizio ai creditori; l'intensità del dolo (invero il riferimento al "grado della colpa" non costituisce effettivo indice selettivo, in quanto le fattispecie colpose erano già soggette a pena mobile) dovrà intanto parametrarsi alla tipologia di elemento soggettivo richiesto (dolo generico per la bancarotta patrimoniale e documentale generica e per le correlative ipotesi di bancarotta impropria; dolo specifico per la bancarotta documentale specifica), come ricostruito sulla base di una puntuale analisi (Sez. 5, n. 12897 del 06/10/1999, 10 Tassan Din, cit.) della fattispecie concreta in tutte le sue peculiarità, rifuggendo da qualsiasi approccio astrattizzante e ricercando appunto nel caso di specie i possibili (positivi o negativi) "indici di fraudolenza" necessari a dar corpo, da un lato, alla prognosi postuma di concreta messa in pericolo dell'integrità del patrimonio dell'impresa funzionale ad assicurare la garanzia dei suoi creditori e, dall'altro, alla proiezione soggettiva di tale concreta messa in pericolo (Sez. 5, n. 38396 del 23/06/2017, Sgaramella, Rv. 270763). E, come per la pena principale, i predetti indici ben possono convergere in una valutazione complessiva ed unitaria: l'art. 132 c.p., prescrivendo l'obbligo della motivazione anche in merito all'applicazione della pena entro i limiti legali, non richiede una giustificazione dettagliata con riferimento esplicito a tutti gli elementi indicati nell'art. 133 poichè essi costituiscono soltanto una guida al corretto esercizio del potere discrezionale, per cui la determinazione della pena può essere il risultato di una valutazione singolare, cumulativa o comparativa degli elementi indicati. Ciò che conta è che dalla sentenza possa desumersi quali tra le circostanze indicate all'art. 133 c.p. abbiano avuto peso preponderante ai fini della determinazione della pena (Sez. 1, n. 2391 del 13/01/1984, RADZISZESKY, Rv. 163166) accessoria e dunque - per dirla con la Corte costituzionale - per quanto tempo l'imputato debba essere allontanato, successivamente all'esecuzione della pena detentiva, dall'ambito imprenditoriale "allo scopo evidente di estendere nel tempo l'effetto di prevenzione speciale negativa già esplicato dall'esecuzione della pena detentiva, oltre che di conferire maggiore capacità deterrente all'incriminazione". 5. Ripercorsi i criteri di determinazione, la funzione delle pene accessorie e l'obbligo di motivazione, va ulteriormente rimarcato come il consolidato insegnamento di questa Corte richieda, in tema di sanzioni, un impegno giustificativo direttamente proporzionale alla misura del discostamento dai valori minimi edittali (V. Sez. 5, n. 35100 del 27/06/2019, Torre, Rv. 276932), sia in ordine ai criteri soggettivi ed oggettivi elencati dall'art. 133 c.p., sia in riferimento alla valutazione ed all'apprezzamento della funzione della sanzione; un procedimento, quest'ultimo, necessariamente bifasico, che attrae nel fuoco degli stessi indicatori le differenti e non fungibili componenti funzionali. 5.1. In particolare, l'irrogazione della pena in una misura prossima al massimo edittale rende necessaria una specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata, non essendo sufficienti a dare conto dell'impiego dei criteri di cui all'art. 133 c.p. il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere (Sez. 4, n. 27959 del 18/06/2013, Pasquali, Rv. 258356), in linea, peraltro, con lo standard giustificativo inerente le componenti aggravatrici del fatto (V. Sez. U, n. 5859 del 27/10/2011 - dep. 2012, Marcianò, Rv. 251690 in tema di recidiva facoltativa). In tal senso, può dirsi che "l'obbligo di motivazione costituisce misura dell'esercizio della discrezionalità", consentendone il controllo; e ciò a maggior ragione quando a quella discrezionalità le pene accessorie siano state restituite per effetto delle decisioni supra disaminate. E se, con riferimento alle pene accessorie fallimentari, l'esercizio della discrezionalità giudiziale nella determinazione resta inevitabilmente insindacabile (Sez. 5, n. 7034 del 24/01/2020, Murru, Rv. 278856), nondimeno questa Sezione ha già affermato come, nel caso in cui la durata di queste è determinata in misura superiore alla media edittale, sia necessaria una specifica motivazione in ordine ai criteri soggettivi ed oggettivi elencati dall'art. 133 c.p., valutati ed apprezzati tenendo conto della funzione rieducativa, retributiva e preventiva della pena (Sez. 5, n. 11329 del 09/12/2019 - dep. 2020, Retrosi, Rv. 278788); principio, quest'ultimo, che va qui ulteriormente specificato, nel senso della necessaria ostensione, nel percorso giustificativo, della peculiare funzione assegnata alle pene accessorie fallimentari. 5.2. In tal senso, gli indici di cui all'art. 133 c.p., andranno riguardati con riferimento alla funzione preventiva ed interdittiva: così, la gravità del reato, desumibile dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione, dovrà essere valutata quale specifico indicatore della durata temporale dell'interdizione dell'imputato ad operare nel settore economico; la gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato quale componente del giudizio proiettivo prevenzionale; l'intensità del dolo e la capacità a delinquere del colpevole dovranno essere riguardati quale indice prognostico della reiterazione del reato. 6. La Corte d'appello di Milano non ha fatto corretta applicazione degli enunciati principi. 6.1. Nel determinare le pene accessorie nella misura massima di anni dieci, la sentenza impugnata ha richiamato "la natura delle accertate violazioni, la gravità del danno cagionato in ragione dell'assenza di elementi per la ricostruzione dell'eventuale attivo e, sotto il profilo soggettivo, delle competenze dell'imputato, indicative dell'intensità del dolo e degli specifici precedenti a carico". Siffatti richiami, per nulla esplicativi della loro inerenza rispetto alla peculiare funzione delle pene accessorie - e, riguardo il danno, risolti nella stessa condotta del reato, senza indicazione alcuna del passivo fallimentare si risolvono nella mera enunciazione dei criteri di cui all'art. 133 c.p., non accompagnati dalla successiva e concreta valutazione e delibazione funzionale, giustificativa del perchè le pene accessorie interdittive dovessero essere determinate nel massimo e non in diversa misura. 6.2. Donde la motivazione denuncia una sostanziale abdicazione ad una effettiva giustificazione della quantificazione massimalista delle sanzioni, nell'ampia latitudine prevista dalla legge, ora affidata in concreto alla dosimetria del giudice del merito. Ed a tale vulnus neppure sopperisce l'evocazione della recidiva specifica infraquinquennale che - all'oscuro del dettaglio dei precedenti - non può sostenere, sic et simpliciter ed in via automatica - le pene accessorie nella massima estensione, introducendosi, altrimenti, un nuovo, inaccettabile automatismo. Manca, in buona sostanza anche l'implicita argomentazione - non evincibile dalla motivazione sulla pena detentiva per la sua eterogeneità funzionale - del perchè le pene interdittive ed inabilitative, collegate al compimento di condotte poste in essere nella qualità di amministratore formale della fallita, possano assolvere ai fini di prevenzione speciale, oltre che di rieducazione personale, che si realizzano "mediante il forzato allontanamento del reo dal medesimo contesto operativo, professionale, economico e sociale, nel quale sono maturati i fatti criminosi e dallo stimolo alla violazione dei precetti penali per impedirgli di reiterare reati in futuro e per sortirne l'emenda", nella misura massima prevista dall'art. 216, u.c., L. Fall.. Di guisa che la motivazione in nessun tratto rivela quelle valutazione indipendente ed autonoma che ne giustifica ed anzi ne impone la commisurazione secondo parametri e finalità diverse dalla pena principale. 7. La sentenza impugnata deve essere, pertanto, limitatamente al punto della determinazione della durata delle pene accessorie fallimentari, annullata perchè il giudice del merito, in piena libertà di giudizio ma facendo corretta applicazione degli enunciati principi, proceda a nuovo esame. P.Q.M. annulla la sentenza impugnata, limitatamente alla determinazione della durata delle pene accessorie di cui all'art. 216, u.c., legge fallimentare, con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Milano. Rigetta nel resto il ricorso. Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2020. Depositato in Cancelleria il 17 dicembre 2020
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