RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 10 novembre 2022, la Corte di appello di Napoli ha riformato la sentenza pronunciata il 10 gennaio 2022 - all'esito di giudizio abbreviato - dal G.u.p. del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere nella sola parte in cui aveva disposto la confisca di una somma di denaro. La sentenza è stata confermata quanto all'affermazione della penale responsabilità di L.H. per il reato di cui all'art. 81 c.p., comma 2, D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 e art. 80, comma 2 lett. a). In particolare, L. è stato ritenuto responsabile di aver ceduto cocaina ai minori F.A. e D.I.G. in più occasioni (circa dieci volte) tra il mese di luglio e il mese di agosto del 2020 e di aver ceduto grammi 0,3 di cocaina a D.I.G. il (Omissis) al prezzo di Euro 20,00.
Con la sentenza confermata in appello, L. è stato condannato alla pena di anni cinque, mesi quattro di reclusione ed Euro 23.111,00 di multa, esclusa l'operatività della recidiva e applicata la diminuzione di pena conseguente alla scelta del rito. Non sono state applicate circostanze attenuanti.
2. Contro la sentenza della Corte di appello, l'imputato ha proposto tempestivo ricorso articolandolo in tre motivi che di seguito si riportano nei limiti strettamente necessari alla decisione, come previsto dal D.Lgs. 28 luglio 1989 n. 271, art. 173, comma 1.
2.1. Col primo motivo, la difesa lamenta violazione di legge e vizi di motivazione con riferimento alla qualificazione giuridica del fatto come violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1.
Osserva che le dichiarazioni con le quali F.A., ha sostenuto di aver acquistato stupefacente da un uomo identificato in L., quand'anche attendibili (a differenza di F., D.I. ha parlato di un unico acquisto), proverebbero poche cessioni di singole dosi: una condotta che può rientrare a pieno titolo nell'ipotesi lieve di cui all'art. 73, comma 5, D.P.R. cit. la cui applicazione sarebbe stata illogicamente esclusa solo per la reiterazione delle cessioni. A questo proposito la difesa osserva che l'applicazione dell'art. 73, comma 5, non è preclusa dalla reiterazione della condotta illecita, come dimostra la previsione dell'art. 74, comma 6, D.P.R. cit. dal quale si evince che una associazione finalizzata al traffico di stupefacenti può avere come scopo la commissione di più violazioni dell'art. 73, comma 5.
Secondo la difesa, la motivazione della Corte territoriale sarebbe carente perché non avrebbe tenuto conto delle complessive circostanze dell'azione come richiesto invece dalla giurisprudenza di legittimità. Il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata ha illogicamente valorizzato la circostanza che lo spaccio avvenisse in casa per connotare la condotta in termini di gravità e sottolinea che, nel caso di specie, non è nota la quantità della cocaina ceduta e neppure si conoscono il grado di purezza della sostanza e il prezzo pagato per l'acquisto.
2.2. Col secondo motivo, il ricorrente lamenta errata applicazione di legge e vizi di motivazione per essere stata ritenuta la circostanza aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 1, lett. a). Secondo la difesa, nel caso in esame, mancherebbero i presupposti per l'imputazione soggettiva dell'aggravante, atteso che F. ha compiuto diciotto anni pochi giorni dopo i fatti e l'affermazione secondo la quale la minore età di D.I. (appena quindicenne) non poteva sfuggire al cedente si fonda sull'assunto - frutto di travisamento della prova - che i due ragazzi abbiano entrambi interloquito con L..
2.3. Col terzo motivo, il ricorrente deduce violazione di legge e vizi di motivazione con riferimento al diniego delle circostanze attenuanti generiche, che avrebbero dovuto essere applicate per la non gravità della condotta (circoscritta nel tempo) e perché l'imputato non ha riportato condanne per reati analoghi (della contestata recidiva, infatti, non si è tenuto conto nella determinazione della pena). La difesa sottolinea che il carattere asseritamente organizzato dell'attività svolta dall'imputato e la cessione ad un minore sono stati valorizzati a più fini: per escludere l'applicazione del del D.P.R. 309 del 1990, art. 73, comma 5; per ritenere sussistente l'aggravante di cui all'art. 80 del citato D.P.R.; per escludere l'applicazione delle attenuanti generiche. Sostiene che, così operando, sarebbe stato violato il principio del ne bis in idem sostanziale, giungendo ad una pena non proporzionata al fatto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I motivi di ricorso non superano il vaglio di ammissibilità.
2. Col primo motivo il ricorrente si duole della qualificazione giuridica del fatto e sostiene che la motivazione con la quale la Corte territoriale ha escluso l'applicazione dell'art. 73, comma 5, D.P.R. cit. sarebbe carente e non conforme ai principi ermeneutici indicati dalla giurisprudenza di legittimità. La più recente decisione adottata in materia dalle Sezioni unite di questa Corte ha sottolineato che la valutazione da svolgere ai fini dell'applicazione della fattispecie prevista dall'art. 73, comma 5, D.P.R. cit., deve essere compiuta in concreto, tenendo conto non solo del dato qualitativo e quantitativo, ma anche della personalità dell'indagato, dei mezzi, delle modalità e delle circostanze dell'azione (cfr., da ultimo, Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, Murolo, Rv. 274076).
Come opportunamente chiarito dalla sentenza citata (pag. 16 della motivazione), "ritenere che la valutazione degli indici di lieve entità elencati dal comma 5 dell'art. 73 debba essere complessiva, significa certamente abbandonare l'idea che gli stessi possano essere utilizzati dal giudice alternativamente, riconoscendo o escludendo la lieve entità del fatto anche in presenza di un solo indicatore di segno positivo o negativo, a prescindere dalla considerazione degli altri". Implica però, allo stesso tempo, "che tali indici non debbano tutti indistintamente avere segno positivo o negativo" e possano instaurarsi tra gli stessi rapporti di compensazione o neutralizzazione idonei a consentire un giudizio unitario sulla concreta offensività del fatto anche quando le circostanze che lo caratterizzano risultano prima facie contraddittorie.
La sentenza impugnata ha compiuto tale valutazione in concreto e, nell'escludere la lieve entità del fatto, ha valorizzato le dichiarazioni rese da F.A. - coincidenti, per questa parte, con quelle di D.I. - secondo le quali, per acquistare la sostanza, i due giovani si recavano nell'abitazione di L. senza bisogno di preavvisarlo; ciò che denota una stabile disponibilità di sostanza in quantità tali da soddisfare una ampia platea di fornitori senza neppure dover concordare i tempi e i modi della cessione. A sostegno di tali conclusioni, la Corte di appello ha sottolineato: che l'abitazione nella quale l'attività di spaccio si svolgeva era dotata di un "sofisticato impianto di videosorveglianza con telecamere posizionate su ciascun ingresso"; che, secondo quanto dichiarato da F., altri soggetti si alternavano a L. nell'aprire la porta e provvedere alle cessioni; che, nel pur breve periodo di riferimento, le cessioni ebbero cadenza settimanale. Secondo la Corte territoriale, l'insieme di tali elementi è indicativo "di un non indifferente flusso di circolazione di merce e della capacità dell'imputato di inserirsi stabilmente nei canali di approvvigionamento criminale".
La Corte di appello non ha affermato - come la difesa vorrebbe sostenere che l'applicazione del D.P.R. cit., art. 73, comma 5, è preclusa dalla reiterazione delle attività illecite. Ha ritenuto, invece (pag. 11 della sentenza impugnata), che la frequenza dello spaccio, la natura dello stupefacente ceduto, la predisposizione di "metodologie di spaccio di più difficile accertamento" (in una casa dotata di sistemi di videosorveglianza), la costante disponibilità di sostanza (che non rendeva necessario un previo appuntamento), la circostanza che fosse immediatamente percepibile la minore età di uno degli acquirenti (appena quindicenne), fossero indicatori idonei ad escludere la ridotta offensività del fatto. Si tratta di una motivazione completa, non contraddittoria e non manifestamente illogica che non può essere censurata in questa sede di legittimità perché, facendo applicazione dei principi di diritto sopra enunciati, esclude la lieve entità del fatto valutando in concreto le modalità della condotta e la personalità dell'imputato.
3. Col secondo motivo la difesa si duole che sia stata ritenuta applicabile l'aggravante di cui all'art. 80, comma 1, lett. a) D.P.R. cit. e sostiene che la ritenuta consapevolezza da parte di L. della minore età di D.I., sarebbe frutto di travisamento della prova.
La Corte di appello ha affermato che entrambi gli acquirenti ebbero contatti con L.; il quale, per questo, si rese conto della minore età di De Teso (il cui aspetto adolescenziale non è contestato). La difesa sostiene che, nel giungere a tali conclusioni, la Corte territoriale avrebbe tenuto conto delle sole dichiarazioni di F., secondo le quali, dopo aver chiesto a L. ciò che serviva loro, lui e D.I. aspettavano nel cortile, mentre L. entrava in casa, per uscirne, poco dopo, con lo stupefacente. Avrebbe ignorato, dunque, le dichiarazioni di De Teso (che ha sostenuto di aver compiuto un unico acquisto) e avrebbe dedotto dal riferito ingresso nel cortile di entrambi gli acquirenti che tutti e due si avvicinarono a L. ed egli pote' osservarne l'aspetto.
L'argomentazione non ha pregio. In primo luogo, perché i giudici di merito hanno ritenuto pienamente attendibili le dichiarazioni rese da F. con riferimento alla pluralità di acquisti ed hanno spiegato la differente versione di D.I. col fatto che egli voleva ridimensionare per quanto possibile il consumo di stupefacente agli occhi della madre (che era presente quando il minore fu sentito); in secondo luogo, perché le dichiarazioni di D.T., pur riferite ad una sola cessione, convergono nel affermare che anche lui si recò, insieme all'amico, presso l'abitazione di L. (conosciuto da entrambi come "(Omissis)") e tutti e due entrarono nel cortile acquistando insieme la sostanza.
Alla luce di ciò, non può dirsi che sia stata omessa la valutazione di elementi probatori acquisiti nel processo e potenzialmente decisivi, sicché deve essere escluso il vizio di travisamento della prova per omissione (cfr. Sez. 6, n. 8610 del 05/02/2020, P., Rv. 278457). Neppure può ritenersi che siano state introdotte nella motivazione informazioni che non esistono nel processo. Non si può sostenere, quindi, che il dato probatorio sia stato trasposto in modo inesatto nel ragionamento del giudice di merito o distorto nel suo significato. Pertanto, le censure del ricorrente finiscono per esaurirsi nella richiesta di una rilettura degli elementi di prova, inammissibile nel giudizio di legittimità. L'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), non consente, infatti, neppure dopo la modifica apportata dalla L. 20 febbraio 2006 n. 46, che, attraverso il richiamo agli "atti del processo", possa esservi spazio per una rivalutazione dell'apprezzamento del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamento riservato in via esclusiva al giudice del merito. Come è stato recentemente chiarito: "il vizio di "contraddittorietà processuale" (o "travisamento della prova") vede circoscritta la cognizione del giudice di legittimità alla verifica dell'esatta trasposizione nel ragionamento del giudice di merito del dato probatorio, rilevante e decisivo, per evidenziarne l'eventuale, incontrovertibile e pacifica distorsione, in termini quasi di "fotografia", neutra e avalutativa, del "significante", ma non del "significato", atteso il persistente divieto di rilettura e di reinterpretazione nel merito dell'elemento di prova" (Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, Dos Santos Silva, Rv. 283370).
4. Non ha maggior pregio il terzo motivo, col quale il ricorrente si duole della mancata applicazione delle attenuanti generiche.
A questo proposito è sufficiente ricordare che, al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche, il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall'art. 133 c.p., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all'entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può risultare sufficiente allo scopo (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549; Sez. 2, n. 3896 del 20/01/2016, De Cotiis, Rv. 265826; Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014; Lule, Rv. 259899).
Nel caso di specie, il giudice di primo grado ha escluso l'applicazione delle attenuanti generiche osservando che, a fronte della gravità del fatto, non vi erano elementi positivamente valutabili a tal fine. La Corte territoriale ha condiviso tale motivazione e ha posto in luce: la capacità a delinquere (dimostrata dalle modalità del fatto); l'esistenza di una precedente condanna che, pur risalente nel tempo, si riferisce a un reato grave (nella specie una rapina aggravata); i precedenti dattiloscopici che dimostrano come l'imputato abbia fornito, nel tempo, generalità diverse. Ha sottolineato, inoltre, che il principio del "ne bis in idem" sostanziale non preclude la possibilità di utilizzare più volte i medesimi elementi per giustificare scelte relative ad istituti giuridici diversi, come dimostra il fatto che, i parametri di cui all'art. 133 c.p. rilevano sia nella determinazione della pena, sia ai fini della applicazione delle attenuanti generiche. Tali motivazioni resistono alle censure del ricorrente perché attribuiscono rilevanza alle modalità del fatto e sottolineano che, fornendo in più occasioni generalità diverse, l'imputato ha mostrato di volersi sottrarre agli accertamenti di polizia e giudiziari. Nessun profilo di manifesta illogicità può essere ravvisato, infatti, nell'aver fatto prevalere tali elementi sulla constatazione che l'unica condanna precedente si riferisce ad un reato diverso ed è risalente nel tempo. Quanto all'esigenza di individualizzare la sanzione, la Corte territoriale ha sottolineato che la pena è stata determinata partendo dal minimo edittale "con il minimo aumento per la contestata aggravante e nessun aumento per la contestata, e ritenuta, continuazione interna".
5. All'inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000 e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che il ricorrente non versasse in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, deve essere disposto a suo carico, a norma dell'art. 616 c.p.p., l'onere di versare la somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende, somma così determinata in considerazione delle ragioni di inammissibilità.
In caso di diffusione del presente provvedimento, dovranno essere omesse le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52 in quanto imposto dalla legge.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Oscuramento dati.
Così deciso in Roma, il 11 ottobre 2023.
Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2023