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Violenza privata: condannato l'imputato per aver momentaneamente sottratto al possessore le chiavi del motorino

Violenza privata

Cassazione penale sez. V, 21/06/2019, n.43563

Commette il delitto di violenza privata colui che sottrae momentaneamente al possessore le chiavi di avviamento di un ciclomotore, per imporgli di attendere all'esterno di un locale e di consentire che l'agente ne assuma la guida, poiché tale condotta è preordinata a costringere la vittima a perdere, sia pure temporaneamente, il potere di utilizzo del mezzo e a subire una limitazione della propria libertà psichica.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Con il provvedimento impugnato, datato 28.2.2018, la Corte d'Appello di Catania, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Catania, sezione distaccata di Paternò, il 30.9.2011, ha rideterminato la pena inflitta nei confronti di F.V.E. in mesi quattro di reclusione (rispetto a quella di mesi sette irrogata in primo grado) in relazione al reato di violenza privata ai danni di C.G., così riqualificata l'iniziale contestazione di rapina di cui al capo B dal primo giudice, che aveva, altresì, assolto l'imputato dalla accusa di tentata estorsione ascrittagli al capo A, perchè il fatto non sussiste. La vicenda attiene, per quanto rileva, ad una condotta prevaricatoria posta in essere dall'imputato nei confronti della vittima, costretta a dargli inizialmente un passaggio con il proprio motociclo e, successivamente, in una delle tappe imposte dal F., privato momentaneamente delle chiavi del veicolo per imporgli di aspettarlo all'esterno di un locale e sino al rifiuto della persona offesa di consentirgli di guidarlo; le chiavi sono state restituite solo in seguito all'intervento casuale della polizia giudiziaria presente sul posto. La Corte d'Appello, aderendo alle conclusioni del giudice di primo grado in punto di qualificazione giuridica, ha ritenuto provata una condotta violenta e minacciosa del F., atta a costringere la persona offesa a soggiacere alla sua volontà. 2. Avverso il citato provvedimento propone ricorso l'imputato, tramite il proprio difensore avv. Baratta, deducendo due motivi di ricorso. 2.1. Con il primo motivo si argomenta violazione di legge in relazione all'art. 610 c.p. e vizio di motivazione manifestamente illogica e carente. Il ricorso lamenta la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, in seguito alla riqualificazione operata; la mancata specificazione degli elementi oggetto della contestazione; l'assenza di risposta ai motivi di gravame - in particolare ai motivi aggiunti, ai quali la Corte d'Appello non fa alcun riferimento - ed il pedissequo richiamo alle ragioni argomentative del primo giudice. Inoltre, non vi sarebbe prova del reato di violenza privata, poichè la stessa persona offesa non ha confermato pienamente i fatti, avendo precisato in dibattimento di aver firmato il verbale di denuncia pur non avendo ben letto, e poichè non sussistono i presupposti di configurabilità oggettiva, non essendo stata rivolta alcuna minaccia o violenza nei suoi confronti, per costringerla a soggiacere alla richiesta del ricorrente. 2.2. Il secondo motivo si incentra sulla contestazione della carenza di motivazione in ordine alla dosimetria della pena, ritenuta eccessiva, mentre essa avrebbe dovuto essere contenuta nei minimi edittali, escludendo la recidiva, valutata sussistente nonostante il fatto commesso non sia sintomatico di una più accentuata colpevolezza e pericolosità, o concedendo nella loro massima estensione le attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sull'aggravante citata, attenuanti generiche ingiustificatamente invece negate. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile perchè generico, sia in relazione al primo che al secondo motivo di ricorso. Entrambi i motivi, altresì, sono manifestamente infondati. 2. Il primo argomento difensivo è generico nella contestazione della mancata correlazione tra accusa e sentenza (confusamente accennata e quasi ferma alla soglia del meramente intuibile da parte del Collegio): non si spiegano i caratteri e gli elementi di contestazione mancanti nel reato ritenuto sussistente rispetto a quello contestato ben più grave. Ed invece, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che la violazione sussiste quando la riqualificazione incide su una modalità del fatto formante oggetto del capo di imputazione, modificandone sostanzialmente la struttura e diversificandone il contenuto essenziale, ma non quando ciò non accade (Sez. U, n. 6402 del 30/4/1997, Dessimone, Rv. 207942). Ed ancora, con affermazioni chiarissime, le Sezioni Unite hanno ribadito che, in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perchè, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (Sez. U, n. 36551 del 15/7/2010, Carelli, Rv. 248051). La giurisprudenza successiva e più recente rispetto agli arresti delle citate Sezioni Unite, ha individuato il punto di discrimine per ritenere o meno la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, coerentemente con le affermazioni del massimo collegio di legittimità, nell'effettivo pregiudizio arrecato al diritto di difesa dell'imputato dal mutamento della qualificazione giuridica del fatto per cui è stato condannato, rispetto a quella inizialmente configurata. Qualora non si sia avuta alcuna lesione dei diritti difensivi, non sussiste violazione del principio. Ciò che deve essere rilevato, dunque, è se sussista la radicale eterogeneità o incompatibilità sostanziale tra fatto contestato e fatto ritenuto, sicchè si determini un cambiamento sostanziale della fisionomia dell'ipotesi accusatoria che incide in modo effettivo sul diritto di difesa, minandolo o menomandolo; la lesione del diritto di difesa non si verifica quando il mutamento riguardi profili marginali, non essenziali per l'integrazione del reati e sui quali l'imputato abbia avuto modo di difendersi nel corso del processo (Sez. 6, n. 6346 del 9/11/2012, Domizi, Rv. 254888; Sez. 4, n. 4497 del 16/12/2015, dep. 2016, Addio, Rv. 265946; Sez. 2, n. 17565 del 15/3/2017, Beretti, Rv. 269569). In particolare, quanto al reato di violenza privata, si è ritenuta insussistente la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza nel confronto con reati che abbiano in comune l'elemento della minaccia o della violenza funzionali al conseguimento dello scopo avuto di mira dall'agente, vale a dire l'induzione della vittima a determinati comportamenti (cfr. Sez. 5, n. 34939 del 10/6/2016, Rotaru, Rv. 267746 che ha ritenuto insussistente la violazione in caso di riqualificazione del reato di intralcio alla giustizia in quello di violenza privata). Infine, il mutamento della qualificazione giuridica è compatibile con il sistema costituzionale e convenzionale di garanzie previsto in favore dell'imputato, come ha chiarito l'arresto delle Sezioni Unite n. 31617 del 26/6/2015, Lucci, Rv. 264438, secondo cui persino l'attribuzione, all'esito del giudizio di appello ed in assenza di una richiesta del pubblico ministero, di una qualificazione giuridica del fatto contestato diversa da quella enunciata nell'imputazione non determina la violazione dell'art. 521 c.p.p., neanche per effetto di una lettura della disposizione alla luce dell'art. 111 Cost., comma 2, e dell'art. 6 della Convenzione EDU come interpretato dalla Corte Europea, qualora la nuova definizione del reato fosse nota o comunque prevedibile per l'imputato e non determini in concreto, una lesione dei diritti della difesa derivante dai profili di novità che da quel mutamento scaturiscono. Nel caso di specie, la riqualificazione non determina alcuna radicale immutazione del contenuto essenziale del fatto contestato, essendo la violenza o minaccia diretta nei confronti della vittima per costringerla a subire la volontà dell'agente una delle componenti del reato di rapina, e per questo rappresenta anche una eventualità ben ipotizzabile e prevedibile dall'imputato. In conclusione deve affermarsi che non sussiste violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza nel caso di condanna per il reato di violenza privata a fronte della contestazione del delitto di rapina, trattandosi di figure criminose che hanno in comune l'elemento della minaccia o della violenza nei confronti della vittima, funzionali al conseguimento dello scopo avuto di mira dall'agente. 2.1. La seconda parte del primo motivo di ricorso è inammissibile perchè in fatto. Si chiede di rivalutare le prove a carico dell'imputato circa la sussistenza del reato di violenza privata, apoditticamente facendo riferimento alla mancanza di violenza o minaccia posta in essere da parte sua nei riguardi della persona offesa, neppure provando ad articolare un ragionamento ricostruttivo delle fonti di prova differente da quello indotto dai giudici di merito coerentemente tra loro nè, ciò che più conta, riuscendo ad indicare manifeste illogicità o incongruenze della motivazione impugnata. Invero, costituisce giurisprudenza consolidata quella che afferma l'insindacabilità da parte di questa Corte di profili ricostruttivi della prova e della versione dei fatti articolata dai giudici di merito, in assenza di vizi di manifesta illogicità della motivazione ovvero di profili di travisamento della prova (cfr. ex multis Sez. 6, n. 27429 del 4/7/2006, Lobriglio, Rv. 234559; Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482 vedi anche Sez. U, n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv. 226074; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794). Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/4/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. 5, n. 39048 del 25/9/2007, Casavola, Rv. 238215; Sez. 2, n. 7380 del 11/1/2007, Messina, Rv. 235716; Sez. 6, n. 25255 del 14/2/2012, Minervini, Rv. 253099; Sez. 6, n. 13809 del 17/3/2015, 0., Rv. 262965). Restano precluse in sede di legittimità, dunque, la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata ed il sindacato di questa Corte è limitato a verificare se la motivazione dei giudici del merito sia intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e spiegare l'iter logico seguito (fra le tante v. Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482, nonchè, da ultimo, in motivazione, Sez. 6, n. 27784 del 05/04/2017, Abbinante, Rv. 270398). Nel caso di specie, la motivazione dei giudici d'appello si salda con quella di primo grado a formare il canone valutativo della cd. doppia pronuncia conforme, cui si connettono limiti anche dal punto di vista della deducibilità del vizio di travisamento della prova, circoscritto alle ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice, ovvero a quella in cui entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (Sez. 4, n. 44765 del 22/10/2013, Buonfine, Rv. 256837; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, La Gumina, Rv. 269217; Sez. 2, n. 5336 del 9/1/2018, L, Rv. 272018). Invero, la Corte d'Appello e il giudice di primo grado hanno messo in risalto nell'ambito di una ricostruzione assai favorevole all'imputato rispetto alle iniziali apparenze - le logiche convergenze di due dati fondamentali: i carabinieri intervenuti hanno trovato l'imputato in stato di alterazione contro la persona offesa e in possesso delle chiavi del motorino di questa, che consegnava soltanto in ragione dell'intervento dei militari; la persona offesa in dibattimento ha confermato i fatti, non potendo costituire contestazione valida all'accertamento in fatto dei giudici di merito il vago evocare, da parte della difesa, una sorta di ritrattazione della vittima, evincibile da una frase (proposta per estratto assai parziale nel ricorso e, pertanto, in modo non autosufficiente) in cui egli avrebbe affermato di non aver letto bene il verbale di denuncia al momento della firma. Nulla si dice specificamente neppure del contenuto dei motivi aggiunti pretermessi (a parte un rapido cenno nel secondo motivo di ricorso), e ciò ancor più determina la statuizione di genericità ed aspecificità del motivo di ricorso. 2.2. Quanto all'inquadramento della condotta nel reato di violenza privata, essa deve ritenersi senza dubbio corretta. Da un lato, infatti, è indubbio che non è configurabile il delitto di rapina, nemmeno nella forma tentata, bensì quello di violenza privata, quando la persona offesa è costretta, con violenza o minaccia, a consegnare un proprio bene per un uso meramente momentaneo e ne conserva inoltre il controllo durante l'utilizzo, senza che l'agente consegua un autonomo possesso della cosa, come in sostanza è accaduto nella fattispecie all'esame del Collegio (cfr. Sez. 3, n. 34905 del 7/5/2013, Siragusa, Rv. 257102, in cui la consegna coartata aveva riguardato non già le chiavi del motorino, ma il motorino stesso). Dall'altro, la momentanea consegna delle chiavi di un automezzo indotta da un comportamento altrui idoneo a privare coattivamente l'offeso della libertà di determinazione e di azione, integra il reato di cui all'art. 610 c.p., potendo consistere la "violenza" prevista dalla fattispecie anche in una forma impropria, che si attua attraverso l'uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione (cfr. Sez. 5, n. 1913 del 16/10/2017, dep. 2018, Andriulo, Rv. 272322; Sez. 5, n. 4284 del 29/9/2015, G., Rv. 266020; Sez. 5, n. 3403 del 17/12/2003, dep. 2004, Agati, Rv. 228063; Sez. 5, n. 1195 del 27/2/1998, Piccinin, Rv. 211230) senza che sia necessaria una minaccia verbale o esplicita, essendo sufficiente un qualsiasi comportamento od atteggiamento, sia verso il soggetto passivo, sia verso altri, idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, finalizzato ad ottenere che, mediante tale intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualcosa (Sez. 5, n. 29261 del 24/2/2017, S., Rv. 270869). Nella specie, sottrarre momentaneamente le chiavi del motorino al proprietario (come anche eventualmente sarebbe per il possessore) per imporgli di attenderlo all'esterno di un locale, nonchè tentare di indurlo a consentire che l'autore della condotta guidi ed utilizzi il veicolo per il proprio bisogno, sia pur in presenza della persona offesa, configura la condotta violenta e coartante della libertà di autodeterminazione individuale che il reato di cui all'art. 610 c.p. mira a sanzionare. In altre parole, aderendo ad un condivisibile precedente di legittimità deciso in una fattispecie con punti di contatto con quella in esame, deve riaffermarsi che integra il delitto di violenza privata la condotta di colui che si appropri delle chiavi di avviamento del motorino della parte lesa per ottenere di guidarlo ed utilizzarlo per il proprio momentaneo bisogno, considerato che tale condotta è preordinata a costringere la vittima del reato a perdere, sia pure per breve tempo, il potere di utilizzo del mezzo, subendo una limitazione della propria libertà psichica (vedi Sez. 5, n. 36082 del 9/7/2007, Ugliarolo, Rv. 237727). Viceversa, poichè, ai fini della configurabilità del delitto di violenza privata è necessaria l'estrinsecazione di una qualsiasi energia fisica, immediatamente produttiva di una situazione idonea ad incidere sulla libertà psichica di determinazione e azione del soggetto passivo, esula dalla fattispecie delittuosa un comportamento meramente omissivo a fronte di una richiesta altrui, quando lo stesso si risolva in una forma passiva di mancata cooperazione al conseguimento del risultato voluto dal richiedente (Sez. 6, n. 2013 del 18/11/2009, dep. 2010, C., Rv. 245769; Sez. 5, n. 15651 del 7/3/2014, C., Rv. 259879). 3. Il secondo motivo eccepisce il difetto di motivazione del provvedimento impugnato quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, invocate come prevalenti sulla ritenuta sussistenza della recidiva, contestata poichè legata alla commissione di un unico precedente non significativo di una più accentuata colpevolezza o pericolosità del reo. Il motivo è inammissibile. Il giudice d'appello si richiama alle ragioni indicate dal Tribunale quanto alla complessiva valutazione di congruità della pena, avuto riguardo al diniego delle circostanze attenuanti generiche per la negativa personalità dell'imputato, in cui è implicito il richiamo, ovviamente, alla recidiva che di tale negativa personalità costituisce lo specchio giuridico: la risposta della Corte sulle circostanze generiche è sintetica, per quanto comunque specifica, dandosi atto, peraltro, della genericità dei motivi d'appello corrispondenti, il che già determinerebbe l'inammissibilità del ricorso relativo in sede di legittimità. Infatti, non può formare oggetto di ricorso per cassazione, che è, pertanto, sul punto inammissibile, l'eccezione riferita al difetto di motivazione della sentenza di appello in ordine a motivi generici, pur se proposti insieme ad altri motivi specifici, poichè i motivi generici restano viziati da inammissibilità originaria anche quando la decisione del giudice dell'impugnazione non pronuncia in concreto tale sanzione (Sez. 3, n. 10709 del 25/11/2014, dep. 2015, Botta, Rv. 262700). In ogni caso, le considerazioni svolte dal giudice di secondo grado rispondono alle indicazioni interpretative univoche fornite sul tema dalla giurisprudenza di legittimità. Ed infatti, si è condivisibilmente affermato, quanto al diniego della concessione delle attenuanti generiche, che la "ratio" della disposizione di cui all'art. 62-bis c.p. non impone al giudice di merito di esprimere una valutazione circa ogni singola deduzione difensiva, essendo, invece, sufficiente l'indicazione degli elementi di preponderante rilevanza, ritenuti ostativi alla concessione delle attenuanti; ne deriva che queste ultime possono essere negate anche soltanto in base ai precedenti penali dell'imputato, perchè in tal modo viene formulato comunque, sia pure implicitamente, un giudizio di disvalore sulla sua personalità (Sez. 2, n. 3896 del 20/1/2016, De Cotiis, Rv. 265826; Sez. 4, n. 8052 del 6/4/1990, Spiteri, Rv. 184544). Ed ancora, costituisce principio consolidato configurare come giudizio di fatto quello che il giudice del merito esprime in relazione alle circostanze attenuanti generiche, con conseguente insindacabilità della motivazione relativa in sede di legittimità, tranne che nel caso di sua contraddittorietà, purchè si richiamino anche sinteticamente gli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 c.p., ritenuti preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione di dette attenuanti generiche (ex multis Sez. 5, n. 43952 del 13/4/2017, Pettinelli, Rv. 271269 che ha considerato sufficiente, ai fini dell'esclusione, il richiamo in sentenza ai numerosi precedenti penali dell'imputato; Sez. 6, n. 34364 del 13/6/2010, Giovane, Rv. 248244; cfr. anche Sez. 1, n. 12496 del 21/9/1999, Guglielmi, Rv. 214570). 4. Alla luce dei richiamati principi, il provvedimento impugnato appare congruamente motivato ed i motivi di ricorso, di contro, inammissibili anche per manifesta infondatezza. 5. Alla declaratoria d'inammissibilità segue, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente che lo ha proposto al pagamento delle spese processuali nonchè, ravvisandosi profili di colpa relativi alla causa di inammissibilità (cfr. sul punto Corte Cost. n. 186 del 2000), al versamento, a favore della Cassa delle Ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 3.000. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il 21 giugno 2019. Depositato in Cancelleria il 24 ottobre 2019
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