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Truffa: può concorrere con il reato di spendita di monete falsificate?


Sentenze della Corte di Cassazione in relazione al reato di truffa

La massima

È configurabile il concorso formale fra le norme di cui agli artt. 640 e 455 c.p. , in quanto le relative fattispecie, che tutelano beni giuridici diversi, non si pongono fra loro in rapporto di specialità ai sensi dell' art. 15 c.p. , richiedendo la prima non solo l'esistenza di artifici e raggiri - integrati dalla spendita di monete falsificate -, ma anche ulteriori elementi essenziali, costituiti dall'induzione in errore e dall'atto di disposizione patrimoniale (Cassazione penale , sez. II , 24/10/2019 , n. 50697).

 

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La sentenza integrale

Cassazione penale , sez. II , 24/10/2019 , n. 50697

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 23/01/2019, la Corte d'Appello di Firenze, sezione per i Minorenni, confermava la sentenza del Tribunale per i Minorenni in Firenze, appellata da P.S., in forza della quale l'imputato era stato condannato per i reati di concorso in spendita di moneta falsa (capo a) e truffa (capo b) alla pena di mesi nove di reclusione ed Euro 200,00 di multa, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e della diminuente della minore età.


2. Contro tale decisione propone ricorso per cassazione l'imputato, a mezzo del difensore, chiedendone l'annullamento per i seguenti motivi:


- vizio di motivazione in punto di affermazione della penale responsabilità dell'imputato in ordine ai reati di cui agli art. 455 e 640 c.p..


Assume che non era dato comprendere da quali elementi poteva desumersi la configurazione del reato di cui all'art. 455 c.p. ascritto all'imputato sia in termini di concorso sia in termini di consapevolezza della detenzione di moneta falsa che di consapevolezza e volontà di spenderla e, conseguentemente, di metterla in circolazione. Rileva, altresì, che i giudici di merito erroneamente avevano riconosciuto l'imputato anche responsabile del reato di truffa;


- difetto di motivazione quanto al trattamento sanzionatorio in relazione all'omessa applicazione della riduzione della pena nella misura di 1/3 in forza del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e violazione di legge in ordine alla mancata applicazione della diminuente ex art. 98 c.p..


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.


2. Il primo motivo è manifestante infondato.


2.1. Osserva il Collegio che le censure, da considerare una mera e tralaticia riproposizione della medesima tesi difensiva disattesa in entrambi i giudizi di merito, devono essere ritenute inammissibili in quanto, surrettiziamente tese ad ottenere una nuova rivalutazione del merito.


2.2. La Corte di Appello, con motivazione congrua, esauriente ed immune da censure logico giuridiche rilevabili in questa sede, nel confermare la ricostruzione operata dal primo giudice, espressamente richiamata, valutate criticamente le complessive risultanze istruttorie, ha ribadito la sussistenza di elementi univoci idonei a fondare la dichiarazione di penale responsabilità dell'imputato in ordine ai reati ascrittigli.


In particolare ha chiarito le ragioni per cui anche se non era stato accertato chi dei tre giovani entrati nel negozio aveva consegnato la moneta falsa di cento Euro ciò non assumeva rilievo in quanto "lo svolgimento dei fatti rende evidente che i tre giovani erano d' accordo per spendere la suddetta banconota e, quindi, hanno concorso nel reato tanto che appena consegnata la banconota e ricevuto il resto sono scappati" precisando che "l'ipotesi che quella del pagamento mediante la banconota falsa sia stata invece una iniziativa estemporanea e non prima concertata di uno solo dei tre ragazzi neppure è stata allegata dall'imputato nel dibattimento cui non ha partecipato".


2.3. Va, peraltro, rimarcato che la regola dell'"al di là di ogni ragionevole dubbio", secondo cui il giudice pronuncia sentenza di condanna solo se è possibile escludere ipotesi alternative dotate di razionalità e plausibilità, impone all'imputato che, deducendo il vizio di motivazione della decisione impugnata, intenda prospettare, in sede di legittimità, attraverso una diversa ricostruzione dei fatti, l'esistenza di un ragionevole dubbio sulla colpevolezza, di fare riferimento ad elementi sostenibili, cioè desunti dai dati acquisiti al processo, e non meramente ipotetici o congetturali (Sez. 5, n. 18999 del 19/02/2014 - dep. 08/05/2014, C e altro, Rv. 26040901).


2.4. Nè appare condivisibile l'affermazione del ricorrente secondo cui la corte territoriale nell'evidenziare che l'imputato non aveva fornito una spiegazione persuasiva in ordine agli elementi a suo carico non partecipando al giudizio non aveva considerato che l'imputato aveva legittimamente esercitato il suo diritto di difesa.


La Suprema Corte ha avuto modo di precisare che al giudice non è precluso valutare la condotta processuale dell'imputato, coniugandola con ogni altra circostanza sintomatica, con la conseguenza che egli, nella formazione del suo libero convincimento, ben può considerare, in concorso di altre circostanze, la portata significativa del silenzio su circostanze potenzialmente idonee a scagionarlo (Sez. 2, n. 22651 del 21/04/2010 Rv. 247426).


Peraltro in molte decisioni la stessa Corte Europea pare essersi anche preoccupata di definire i limiti del diritto al silenzio. Più precisamente, lo ius tacendi, pur essendo al centro della nozione di processo equo, non è espressione di un diritto assoluto. Una condanna, come si è visto, non può fondarsi esclusivamente o essenzialmente sul silenzio dell'imputato, ma non è esclusa la configurabilità di situazioni in cui la mancata risposta può indirettamente nuocere all'imputato.


Difatti, secondo la Corte di Strasburgo, qualora lo svolgimento del processo abbia evidenziato un quadro probatorio sfavorevole all'imputato, che già dimostri sufficientemente la colpevolezza, tale comunque da esigergli concretamente di dare spiegazioni in chiave difensiva, l'esercizio della facoltà di non rispondere ben potrà costituire un elemento apprezzabile come "riscontro" a suo carico (vedi Corte e.d.u., 8 febbraio 1996, Murray c. Regno Unito; Corte e.d.u., 6 giugno 2000, Averill c. Regno Unito).


2.4.1. Correttamente, quindi, i giudici di merito hanno ritenuto l'imputato responsabile del reato in quanto lo stesso dopo la consegna di una moneta falsa ad un commerciante era fuggito immediatamente con i suoi complici senza che il predetto avesse spiegato, in modo logico e plausibile, i motivi per cui si sarebbe trattata di una estemporanea iniziativa individuale cui lo stesso sarebbe rimasto totalmente estraneo.


2.5. Osserva, altresì, il collegio che giudici di merito, con motivazione logica e conforme a diritto hanno pure chiarito che il consegnare moneta falsa facendosi restituire come resto moneta avente regolare corso legale costituiva condotta fraudolenta fonte di danno per la vittima e di ingiusto profitto per chi aveva agito, ragionamento a fronte del quale l'imputato ha formulato delle contestazioni del tutto generiche ed aspecifiche.


2.5.1. Deve ritenersi, invero, che il reato di spendita di monete false si perfeziona non appena è posta in essere la condotta, indipendentemente dal profitto e dal danno.


Il bene giuridico tutelato dalle norme che puniscono il falso nummario è la pubblica fede, messa in pericolo da condotte che possano pregiudicare il sentimento di fiducia generalizzata nei confronti dell'autenticità dei mezzi di scambio di cui si serve l'economia. Si tratta, dunque, di un reato di pericolo che si consuma nel momento in cui la falsificazione mette in pericolo la pubblica fede, bene giuridico tutelato dalla norma.


Pertanto, ove ne derivi all'agente un ingiusto profitto con danno patrimoniale altrui, si configura in concorso formale col falso il delitto di truffa che tutela l'integrità del patrimonio del'individuo.


Deve, infatti, escludersi sia l'ipotesi del reato complesso, non essendo la truffa elemento costitutivo dell'altro reato, sia l'ipotesi del concorso apparente di norme, non essendo applicabile nè il principio di specialità nè quello di consunzione (vedi Sez. 5, n. 373 del 11/10/1979 - dep. 09/01/1980, MURDACA, Rv. 14386701).


Non appaiono, pertanto, condivisibili nè il principio secondo cui la norma penale che prevede la spendita di moneta falsa (artt. 453 e 455 c.p.) è norma speciale rispetto a quella che prevede il reato di truffa poichè il primo delitto contiene tutti gli elementi del secondo con l'apporto di un elemento specializzante costituito dall'uso di moneta falsa come mezzo per trarre in inganno e si avrebbe, quindi, assorbimento della norma generale in quella speciale ex art. 15 c.p. e non concorso formale di reati (vedi Sez. 5, n. 5197 del 10/12/1976 - dep. 22/04/1977, COSTANZA, Rv. 13567001) nè il principio secondo cui nel caso di spendita di monete false (art. 455 c.p.) la tutela della fede pubblica inerente alla regolare circolazione delle monete assorbe la tutela della buona fede individuale e del patrimonio di cui all'art. 640 c.p. (vedi Sez. 5, n. 8091 del 09/01/1976 - dep. 16/07/1976, RICEPUTI, Rv. 13413901).


Ed, invero, la consegna di moneta falsa ad un terzo in occasione di una transazione commerciale comporta chiaramente un danno patrimoniale a chi la riceve in buona fede con correlativo ingiusto profitto da parte di colui il quale la consegna, realizzandosi, oltre che l'offesa alla fede pubblica, la lesione patrimoniale che, in quanto determinata da un raggiro, integra il reato di truffa.


In caso di spendita di monete false e truffa vi è, dunque, concorso di reati e non concorso di norme essendo diversa sia l'obbiettività giuridica delle due figure criminose sia la struttura del reato il quale nella truffa richiede come evento il conseguimento di un ingiusto profitto con altrui danno patrimoniale.


3. Il terzo motivo è manifestamente infondato.


Deve ritenersi adempiuto l'obbligo di motivazione da parte del giudice di merito in ordine alla misura della riduzione della pena per effetto dell'applicazione di un'attenuante, attraverso l'adozione, in sentenza, di una formula sintetica (quale: "Si ritiene congruo") (Sez. 6, n. 9120 del 02/07/1998 - dep. 04/08/1998, Urrata S e altri, Rv. 21158301).


Non sussiste, dunque, il paventato vizio in quanto sono state riconosciute dalla corte territoriale sia le circostanze attenuanti generiche che la riduzione ex art. 98 c.p. (non rispondendo al vero l'affermazione secondo cui i giudici di merito non avrebbero applicato la diminuente della minore età) e la pena è stata ritenuta congrua dalla corte di appello tenuto conto della personalità dell'imputato e dei suoi precedenti penali sulla scorta di una valutazione discrezionale che appare, comunque, adeguata e conforme a diritto.


4. Il ricorso deve, in conseguenza, essere dichiarato inammissibile.


4.1. Si deve disporre, in caso di diffusione del presente provvedimento, che siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi del minore a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.


P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.


In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.


Così deciso in Roma, il 24 ottobre 2019.


Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2019

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