L'illegittimità costituzionale della pena minima per appropriazione indebita impone una nuova valutazione della sanzione anche se compresa nella nuova cornice edittale (Cass. Pen. n. 22550/25)
- Avvocato Del Giudice
- 18 giu
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Premessa
Con la sentenza in esame, la Corte di cassazione affronta le ricadute della pronuncia della Corte costituzionale n. 46 del 2024 sull'art. 646 c.p., che ha dichiarato l’illegittimità della pena minima di due anni di reclusione per il reato di appropriazione indebita, ripristinando l’originaria formulazione del testo, che prevede la pena “fino a cinque anni”.
La pronuncia rileva anche per il caso in cui la pena concretamente inflitta sia contenuta dentro la nuova cornice edittale, ma sia stata commisurata sulla base di una norma incostituzionale, in violazione del principio di proporzionalità e individualizzazione della pena.
Il fatto
L’imputato Ru.Se. era stato condannato, in primo e secondo grado, per una serie di appropriazioni indebite commesse in qualità di amministratore condominiale, consistenti nel prelievo e distrazione di somme dai conti correnti dei condomìni gestiti, per finalità diverse da quelle istituzionali (ad esempio, pagamento di utenze in realtà mai avvenute o prelievi in contanti non giustificati).
La Corte d’appello di Torino aveva confermato la condanna inflitta dal Tribunale, riconoscendo le attenuanti generiche e liquidando una provvisionale a favore della parte civile (un condominio) per € 27.671,48.
Il difensore proponeva ricorso in Cassazione sollevando, tra gli altri, il profilo della mancata rivalutazione del trattamento sanzionatorio alla luce della sentenza n. 46/2024 della Corte costituzionale, oltre a motivi relativi alla prescrizione di alcuni reati, alle aggravanti, alla continuazione, al travisamento della prova e alla violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza.
La decisione
1. Illegittimità sopravvenuta e ricalcolo della pena
La Cassazione accoglie solo parzialmente il ricorso, ritenendo fondata la doglianza relativa alla pena determinata sulla base di una cornice edittale dichiarata incostituzionale.
La Corte afferma un principio fondamentale: anche quando la pena inflitta rientra formalmente nella nuova forbice edittale, essa deve essere rivalutata se originariamente commisurata su parametri dichiarati incostituzionali, poiché viene meno la coerenza tra il giudizio di disvalore del fatto e la risposta sanzionatoria.
In tal senso, la sentenza richiama il consolidato indirizzo delle Sezioni Unite (Jazouli e Sebbar) secondo cui la violazione sopravvenuta della legalità della pena incide sull’intera attività di commisurazione, vanificandone la proporzionalità e la funzione rieducativa e retributiva (artt. 132 e 133 c.p.).
2. Prescrizione del capo C
La Cassazione rileva che il solo reato di cui al capo C risulta prescritto alla data della pronuncia, intervenuta dopo la conclusione del giudizio di merito. Pertanto, la Corte annulla senza rinvio la condanna limitatamente a tale capo.
3. Rigetto degli altri motivi
La Suprema Corte ha dichiarato inammissibili o infondati gli altri motivi di ricorso:
il reato più grave resta quello di cui al capo A, in quanto successivo alla riforma del 2019, che ha innalzato il massimo edittale (la sentenza costituzionale ha inciso solo sul minimo).
la prescrizione degli altri reati non è maturata, grazie alle sospensioni legittimamente computate.
l’eccezione sulla continuazione è irrilevante o addirittura pregiudizievole per il ricorrente, che non ha indicato alcun concreto interesse.
il travisamento probatorio e la valutazione delle attenuanti risultano generici.
La mancanza di correlazione tra imputazione e sentenza è stata dedotta senza specificità.
4. Statuizioni civili e rigetto della nota spese
La Corte conferma le statuizioni civili, anche con riferimento al capo C, prescritto successivamente.
Rigetta, invece, la richiesta di liquidazione delle spese della parte civile per mancata partecipazione alla discussione orale.
Il principio di diritto
«A seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 46/2024, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 646 c.p. nella parte in cui prevedeva una pena minima di due anni di reclusione, la pena commisurata in base alla cornice edittale incostituzionale dev’essere rivalutata, anche se rientrante nella nuova forbice legale, perché non espressione di un trattamento conforme al principio di proporzione sancito dagli artt. 132 e 133 c.p.».
La sentenza integrale
Cassazione penale sez. II, 06/06/2025, (ud. 06/06/2025, dep. 16/06/2025), n.22550
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 3 dicembre 2024 la Corte di Appello di Torino ha confermato la sentenza in data 21 marzo 2024 del Tribunale della medesima città con la quale era stata affermata la penale responsabilità dell'imputato Ru.Se. in ordine ad una serie di reati di appropriazione indebita (capi da A ad E della rubrica delle imputazioni) con condanna dello stesso, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, a pena ritenuta di giustizia oltre al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, a favore della costituita parte civile Condominio Corso (Omissis) T, con una provvisionale a favore dello stesso pari ad Euro 27.671,48.
In estrema sintesi si contesta al Ru. di essersi appropriato di somme di denaro delle quali aveva il possesso in qualità di amministratore di diversi stabili condominiali al fine di pagare utenze in realtà mai saldate, ovvero effettuando prelievi in contanti dal conto corrente di uno dei condomìni amministrati.
2. Ricorre per Cassazione avverso la predetta sentenza il difensore dell'imputato, deducendo:
2.1. Violazione di legge e vizi di motivazione in relazione alla mancata applicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 46/2024.
Evidenzia, al riguardo, la difesa del ricorrente che la Corte di appello pur avendo dato atto dell'esistenza della sentenza della Consulta sopra indicata che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 646 cod. pen. nella parte in cui prevede la pena minima di due anni anziché "fino a cinque anni" non ha provveduto ad una rivalutazione del trattamento sanzionatorio nei confronti dell'imputato.
Aggiunge, inoltre, la difesa del ricorrente che, a seguito della pronuncia della citata sentenza della Corte costituzionale, il reato più grave avrebbe dovuto essere ritenuto quello di cui al capo D della rubrica delle imputazioni.
2.2. Erronea indicazione del momento consumativo dei reati e prescrizione.
Evidenzia la difesa del ricorrente, richiamando giurisprudenza sul punto, che nel caso di appropriazione indebita commessa dall'amministratore di condominio il reato si consuma al momento della cessazione dalla carica, con la conseguenza che per il capo D della rubrica delle imputazioni il dies a quo per il calcolo della prescrizione decorrerebbe dal 24 settembre 2018.
2.3. Vizio di motivazione in ordine alla sussistenza delle circostanze aggravanti contestate.
Rileva la difesa del ricorrente che la Corte di appello non avrebbe motivato sulla ricorrenza delle circostanze aggravanti in ordine ad ogni fatto.
2.4. Travisamento della prova sulla gestione contabile e mancata verifica dell'elemento psicologico in punto attenuanti.
Rileva la difesa del ricorrente che:
a) vi sarebbero state carenze nell'accertamento contabile delle appropriazioni;
b) vi sarebbe stata una omessa valutazione delle morosità.
2.5. Carenze nella motivazione sulla continuazione tra i vari episodi appropriativi con conseguente violazione dei principi di diritto in materia.
2.6. Difetto di correlazione tra accusa e provvedimento decisorio per tutti i capi di imputazione contestati.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso è fondato.
Sulla doverosa premessa che la Corte costituzionale con la sentenza n. 46/2024 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 646, primo comma, del codice penale, come modificato dall'art. 1, comma 1, lettera u), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 nella parte in cui prevede la pena della reclusione "da due a cinque anni" anziché "fino a cinque anni", occorre, innanzitutto, evidenziare che la Corte di appello ha preso atto dell'intervenuta pronuncia della Consulta e, con riguardo alla determinazione del trattamento sanzionatorio irrogato all'imputato, ha affermato (pag. 10) che lo stesso è da ritenersi adeguato alla luce di elementi quali la durata della condotta delittuosa posta in essere, la pervicacia criminale e l'intensità del dolo che ha mosso le azioni dell'imputato, nonché del consistente danno subito dal condominio e mai risarcito dall'imputato.
Deve, altresì, darsi atto che la pena irrogata all'imputato risulta contenuta nei limiti edittali dell'art. 646 cod. pen. anche dopo il citato intervento della Corte costituzionale.
Tuttavia, rileva il Collegio, che il Tribunale nella determinazione della pena base per il reato di cui al capo A aveva irrogato una sanzione detentiva (anni 2 e mesi 3 di reclusione) prossima al minimo edittale di quella indicata dall'art. 646 cod. pen. vigente all'epoca dei fatti (anni 2 di reclusione).
E' pertanto di tutta evidenza che, quanto alla pena detentiva, a seguito della pronuncia della Consulta, il minimo edittale per il reato di cui all'art. 646 cod. pen. è divenuto di 15 giorni di reclusione ai sensi dell'art. 23, comma 1, cod. pen., con la conseguenza che la sanzione detentiva irrogata dal Tribunale e confermata dalla Corte di appello (anni 2 e mesi 3 di reclusione) si è ampiamente discostata da detto minimo.
Questa Corte chiamata ad esaminare una problematica analoga relativa al trattamento sanzionatorio in materia di violazione della legge sugli stupefacenti ha avuto modo di chiarire che "È illegale la pena determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione che si sia basato, per le droghe cosiddette "leggere", sui limiti edittali dell'art. 73 D.P.R. 309/1990 come modificato dalla legge n. 49 del 2006, in vigore al momento del fatto, ma dichiarato successivamente incostituzionale con sentenza n. 32 del 2014, anche nel caso in cui la pena concretamente inflitta sia compresa entro i limiti edittali previsti dall'originaria formulazione del medesimo articolo, prima della novella del 2006, rivissuto per effetto della stessa sentenza di incostituzionalità" (Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264205 - 01; principio affermato anche da Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263717 - 01).
In sostanza, come chiarito nella citata sentenza "Jazouli" delle Sezioni Unite, la "illegalità" sopravvenuta della pena - concordata sulla base dei parametri edittali dettati per le cosiddette "droghe leggere" dall'art. 73 D.P.R. 309/1990 come modificato dalla legge n. 49 del 2006, in vigore al momento del fatto, ma dichiarato successivamente incostituzionale con la sentenza n. 32 del 2014 -determina la nullità dell'accordo e la Corte di cassazione deve annullare senza rinvio la sentenza basata su tale accordo in quanto "... il ripristino della distinzione tra droghe c.d. pesanti e droghe c.d. leggere ha comportato, necessariamente, che il testo normativo dell'art. 73 del D.P.R. 309 del 1990 sia oggi espressione di un diverso esercizio del principio di proporzione da parte del legislatore, di cui è manifestazione il diverso trattamento sanzionatorio vigente rispetto a quello previsto nella norma incostituzionale" in quanto "... il diverso trattamento sanzionatorio conseguente a detta distinzione, presuppone un diverso esercizio del principio di proporzione da parte del legislatore, che finisce per incidere sulla funzione retributiva e rieducativa della pena inflitta sulla base della norma dichiarata incostituzionale, anche nel caso in cui essa rientri nella nuova cornice edittale". Si era dunque, in quell'occasione, sottolineato che "... i diversi parametri incidono sulla valutazione effettuata dal giudice in sede di commisurazione della pena, sicché una volta modificati non è detto che la pena corrisponda al quantum di colpevolezza del reo nel caso concreto poiché ... in un sistema penale orientato al principio di colpevolezza la sproporzione tra la pena inflitta in relazione ad una cornice edittale prevista da una norma incostituzionale ... e quella che, pur rientrando nella cornice edittale ripristinata, è comunque espressione di una diversa valutazione del rapporto tra pena e offesa (...), rivela uno squilibrio della sanzione rispetto al quantum di colpevolezza accertato nel caso concreto e, quindi, compromette la stessa funzione che la pena dovrebbe costituzionalmente assolvere".
Le Sezioni Unite hanno quindi dedotto che "... il venir meno per contrarietà alla Costituzione con efficacia ex tunc - della cornice edittale che ha guidato il giudicante nella delicata attività di misurazione della responsabilità, finisce con il travolgere la stessa pena in concreto inflitta, vale a dire il risultato finale di detta misurazione, perché, non essendo più attuale il giudizio astratto di disvalore del fatto (essendosi modificata la forbice sanzionatoria edittale), la misurazione compiuta non traduce più - per effetto del mutamento dei parametri di riferimento - né coerentemente né correttamente il giudizio di responsabilità".
In altre parole "... la valutazione di responsabilità del reo non risulta più misurata legalmente, perché la risposta punitiva è stata elaborata sulla base di un compasso sanzionatorio incostituzionale, così da risultare alterato lo stesso giudizio di gravità del reato ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen.". In definitiva "... se la pena concretamente inflitta esprime la valutazione della responsabilità dell'imputato, essa non può considerarsi ancora legale quando sono venuti meno - per effetto di una pronuncia di incostituzionalità - i parametri edittali che hanno guidato e determinato la sua commisurazione" poiché "... l'impalcatura costruita dalla Costituzione e dal codice penale per l'individualizzazione del trattamento sanzionatorio viene così completamente travolta e vanificata per il venir meno proprio di uno dei suoi presupposti fondanti, vale a dire la legalità della cornice edittale".
Detti principi, estensibili anche al caso in esame, sono stati ribaditi in tempi più recenti da questa Corte proprio in materia di appropriazione indebita allorquando si è affermato che "... a seguito della sentenza Corte costituzionale n. 46 del 2024, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 646 cod. pen., come modificato dall'art. 1, comma l, lett. u), della legge n. 3 del 2019, nella parte in cui si stabilisce la pena della reclusione "da due a cinque anni" anziché "fino a cinque anni", deve ritenersi illegale la pena inflitta nel minimo edittale stabilito dalla norma dichiarata illegittima atteso che il trattamento sanzionatorio conseguente alla declaratoria di illegittimità costituzionale comporta un diverso esercizio del principio di proporzione della pena rispetto al fatto, che finisce per incidere sulla funzione retributiva e rieducativa della pena inflitta sulla base della norma dichiarata incostituzionale, anche nel caso in cui essa rientri nella nuova cornice edittale" (v. Sez. 2, n. 409 del 4/3/2025, Giacomini, non mass.).
Ne consegue che si impone l'annullamento in parte qua della sentenza impugnata affinché i Giudici del merito provvedano ad una rivalutazione del trattamento sanzionatorio riservato all'imputato sulla base dei principi sopra indicati.
2. La valutazione di manifesta infondatezza del ricorso investe invece il profilo di ricorso nel quale la difesa dell'imputato ha rilevato che a seguito della pronuncia della citata sentenza della Corte costituzionale il reato più grave sarebbe quello di cui al capo D della rubrica delle imputazioni in quanto relativo alla appropriazione della somma di denaro più elevata.
In realtà già il Tribunale aveva correttamente evidenziato che il reato più grave tra quelli in contestazione è quello di cui al capo A della rubrica delle imputazioni, essendo stato commesso in epoca successiva all'entrata in vigore della l. n. 3/2019 che ha elevato da 3 a 5 anni la pena massima prevista per il reato di cui all'art. 646 cod. pen.
Contrariamente all'assunto difensivo è sufficiente ricordare che la sentenza della Corte costituzionale n. 46/2024 ha inciso esclusivamente sul minimo edittale della pena per il reato di appropriazione indebita, lasciando inalterato il massimo edittale della relativa disposizione normativa, con la conseguenza che il reato più grave tra quelli in contestazione all'imputato è, e rimane, quello di cui al capo A della rubrica delle imputazioni.
3. Manifestamente infondato è poi anche il secondo motivo di ricorso nel quale si sostiene che sarebbe maturato il termine di prescrizione per il reato di cui al capo D della rubrica delle imputazioni.
Corretto è innanzitutto quanto evidenziato dalla Corte di appello (pagg. 8 e 9 della sentenza impugnata) ricordando che "Nel caso di appropriazione indebita di somme di denaro relative ad un condominio da parte dell'amministratore, il reato si consuma all'atto della cessazione della carica, sicché la circostanza aggravante di cui all'art. 61, n. 7, cod. pen. deve essere valutata con riferimento all'unicità del danno subito dal condominio, a prescindere dai singoli segmenti di condotta progressivamente posti in essere" (Sez. 2, n. 11323 del 09/02/2021, Bianchini, Rv. 280807 - 01; Sez. 2, n. 19519 del 15/01/2020, Rv. 279336 - 01).
Quanto, poi, all'individuazione del momento di cessazione della carica, che è un accertamento di fatto non sindacabile da questa Corte di legittimità e che non è neppure contestato dalla difesa del ricorrente, la Corte di appello lo ha indicato per il capo A al giorno 8 febbraio 2021, per il capo B al 1 gennaio 2020, per il capo C al 25 febbraio 2017, per il capo D al 24 settembre 2018 e per il capo E al 21 novembre 2018.
La stessa Corte di appello ha, poi, operato una corretta valutazione dei termini di prescrizione tenuto conto dei periodi di sospensione, della normativa intervenuta e della pronuncia delle Sezioni Unite "Polichetti" di questa Corte del 12 dicembre 2024 evidenziando che il termine di prescrizione è definitivamente sospeso per i reati di cui ai capi A e B della rubrica delle imputazioni mentre i termini di prescrizione per gli altri reati sono il 3 gennaio 2025 per il reato di cui al capo C, il 2 novembre 2027 per il capo D ed il 29 dicembre 2027 per il capo E.
Ne consegue che i reati in contestazione all'imputato non erano prescritti al momento della pronuncia della sentenza in grado di appello del 3 dicembre 2024 e, fatta eccezione per il reato di cui al capo C, non lo sono neppure alla data odierna.
4. Il terzo motivo di ricorso con il quale la difesa del ricorrente ha eccepito il vizio di motivazione in relazione alla sussistenza delle circostanze aggravanti è inammissibile ai sensi dell'art. 606, comma 3, cod. proc. pen. non essendo emerso che la questione sia stata dedotta in sede di appello come si evince dal contenuto del relativo atto di gravame e dal riepilogo dei motivi di impugnazione operato nella sentenza impugnata che parte ricorrente avrebbe avuto il dovere processuale di contestare specificamente nell'odierno ricorso se ritenuto incompleto o comunque non corretto.
5. Il quarto motivo di ricorso nel quale la difesa dell'imputato ha eccepito il travisamento della prova sulla gestione contabile è nel contempo inammissibile per genericità e manifestamente infondato.
Al riguardo deve, innanzitutto, essere evidenziato che la questione sulla corretta determinazione della gestione contabile operata dall'imputato era stata posta alla Corte di appello che vi ha dato una risposta congrua richiamando sia quanto esposto nella conforme sentenza del Tribunale, sia il fatto che gli accertamenti contabili sono stati effettuati sugli estratti conto e sulle fatture dei fornitori.
Sul punto è appena il caso di ricordare che gli accertamenti contabili rappresentano una questione di fatto non sindacabile in sede di legittimità se non nel caso di travisamenti probatori che devono però essere puntualmente e specificamente indicati, in quanto in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che "attaccano" la persuasività, l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell'attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, O., Rv. 262965).
A ciò si aggiunge la valutazione di assoluta genericità del motivo di ricorso in esame in quanto caratterizzato da affermazioni apodittiche e senza alcun specifico riferimento a elementi fattuali che non consentono a questa Corte di valutare se nel caso in esame le valutazioni conformi di entrambi i Giudici di merito sul punto siano viziate.
Nello stesso motivo di ricorso è stata anche testualmente dedotta la "mancata verifica dell'elemento psicologico in punto di attenuanti" deduzione che appare da un lato non chiara oltre che, anche in questo caso, caratterizzata da una assoluta genericità, non essendo stata poi la questione coltivata in modo specifico nello sviluppo del motivo di ricorso attraverso indicazioni di elementi in forza dei quali sarebbe emerso che difettava in capo all'imputato l'elemento soggettivo dei reati in contestazione allo stesso, elemento peraltro chiaramente, quanto implicitamente, desumibile dalla ricostruzione dei fatti.
6. Manifestamente infondato oltre che inammissibile per genericità e per carenza di interesse è, poi, il quinto motivo di ricorso nel quale la difesa dell'imputato contesta la carenza di motivazione in punto di ritenuta continuazione tra i reati.
Parte ricorrente sembra contestare la carenza di motivazione sul ritenuto vincolo di continuazione tra i reati di cui alle imputazioni ma non spiega quale interesse avrebbe ad ottenere la negazione della possibilità di applicare il combinato disposto dei commi 1 e 2 dell'art. 81 cod. pen. in quanto l'esclusione della continuazione porterebbe ad un concorso materiale dei reati per i quali è intervenuta condanna con evidenti effetti peggiorativi per l'imputato.
Non sfugge, anche in questo caso, l'assoluta genericità di tale motivo di ricorso.
Il secondo profilo dedotto nel medesimo motivo di ricorso è, poi, quello della carenza di motivazione "sul trattamento sanzionatorio complessivo", motivo che non è dato comprendere se riferito alla motivazione finale del trattamento sanzionatorio (nel qual caso la sentenza impugnata è da ritenersi congruamente motivata) ovvero alla motivazione sui singoli aumenti di pena per effetto della continuazione.
In quest'ultimo caso è appena il caso di ricordare che è un principio consolidato richiamato e fatto proprio anche dalle Sezioni Unite "Pizzone" di questa Corte (Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, Rv. 282269 - 01) quello secondo il quale "In tema di determinazione della pena, è ammissibile il ricorso per cassazione contro la sentenza che non abbia specificato il "quantum" dei singoli aumenti inflitti a titolo di continuazione in relazione a ciascun reato satellite, a condizione che venga dedotto un interesse concreto ed attuale a sostegno della doglianza" (Sez. 2, n. 26011 del 11/04/2019, PG C/Cuocci, Rv. 276117 - 01).
Nel caso in esame la difesa del ricorrente non risulta avere indicato alcun concreto elemento a sostegno del fatto che l'aumento della pena operato per la ritenuta continuazione tra il reato di cui al capo A e quelli di cui agli altri capi sia incongruo o comunque sproporzionato rispetto alla complessiva valutazione dei fatti per i quali è intervenuta condanna od in relazione alla personalità dell'imputato ed agli altri criteri di cui all'art. 133 cod. pen., il che rende inammissibile anche sotto questo profili il relativo motivo di ricorso.
7. Del tutto generico e di fatto privo di adeguata illustrazione è, infine, anche il sesto motivo di ricorso considerato che lo stesso è manchevole dell'indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'atto di impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato. Va, in proposito, rammentato il principio di diritto secondo il quale la mancanza di specificità del motivo deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, queste non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato, senza cadere nel vizio di mancanza di specificità, che comporta, a norma dell'art. 591, comma 1, lett. c) cod. proc. pen., l'inammissibilità.
8. Resta da dire del solo reato di cui al capo C della rubrica delle imputazioni in relazione al quale, come detto, il termine di prescrizione non era maturato all'epoca della pronuncia della sentenza della Corte di appello ma risulta maturato il 3 gennaio 2025 e, quindi, anteriormente all'odierna decisione.
La parziale fondatezza del ricorso in esame ha comportato una regolare instaurazione del presente giudizio e poiché il conseguente parziale annullamento della sentenza impugnata incide sul complessivo trattamento sanzionatorio anche in relazione ai reati ritenuti in continuazione (tra i quali quello di cui al capo C), è da ritenersi decorso ad oggi il termine di prescrizione di tale reato.
9. Per le considerazioni esposte la sentenza impugnata deve pertanto:
a) essere annullata senza rinvio limitatamente al reato di cui al capo C della rubrica delle imputazioni per essere lo stesso estinto per prescrizione;
b) essere annullata limitatamente alle residue imputazioni, relativamente al trattamento sanzionatorio con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Torino per un nuovo giudizio sul punto.
Il ricorso dell'imputato deve, invece, essere dichiarato inammissibile nel resto.
10. Ai sensi dell'art. 624, comma 2, cod. proc. pen. va dichiarata irrevocabile l'affermazione della penale responsabilità dell'imputato in reazione ai residui reati di cui ai capi A, B, D ed E della rubrica delle imputazioni.
11. L'intervenuta declaratoria di estinzione per prescrizione del reato di cui al capo C della rubrica delle imputazioni in epoca successiva alla definizione di entrambi i gradi del giudizio di merito, unita all'assenza di impugnazione sul punto, impone la conferma delle statuizioni civili.
12. Non può, infine, essere accolta la richiesta di liquidazione delle spese di assistenza e rappresentanza nel presente grado di giudizio formulata nell'interesse della parte civile Condominio di Corso (Omissis) di T, dato che la parte civile non ha presentato le proprie conclusioni in sede di trattazione orale del presente procedimento.
Infatti, come questa Corte ha già avuto modo di chiarire nel suo massimo consesso, "Nel giudizio di cassazione con trattazione orale non va disposta la condanna dell'imputato al rimborso delle spese processuali in favore della parte civile che non sia intervenuta nella discussione in pubblica udienza, ma si sia limitata a formulare la richiesta di condanna mediante il deposito di una memoria in cancelleria con l'allegazione di nota spese" (Sez. U, n. 27727 del 14/12/2023, dep. 2024, Gambacurta, Rv. 286581 - 03).
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo C, senza rinvio, perché è estinto per prescrizione.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alle residue imputazioni, relativamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Torino.
Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.
Dichiara irrevocabili le residue affermazioni di responsabilità.
Conferma le statuizioni civili.
Rigetta la richiesta di rifusione delle spese della parte civile Condominio Corso (Omissis) T, in persona del leg. rappr. P.T.
Così è deciso, 6 giugno 2025.
Depositata in Cancelleria il 16 giugno 2025.