Impugnazioni
Indice:
4.1 Il caso dei principi della Carta di Noto
La revisione è un mezzo di impugnazione straordinario previsto e disciplinato dagli artt. 629 - 642 c.p.p., collocati nel Libro IX, Titolo IV del codice di procedura penale.
Costituiscono impugnazioni la revisione, il ricorso straordinario per cassazione e la rescissione del giudicato. La loro particolarità rispetto alle impugnazioni ordinarie sta in questo: le impugnazioni ordinarie concernono solo le sentenze non ancora irrevocabili; le straordinarie, invece, si rivolgono esclusivamente a quelle irrevocabili.
La nozione di “sentenza irrevocabile” è presente al Libro X, “Esecuzione”, Titolo I, “Il giudicato”, dell’odierno codice di procedura penale. Ai sensi dell’art. 648 c.p.p., “Irrevocabilità delle sentenze e dei decreti penali”, sono irrevocabili le sentenze pronunciate in giudizio contro le quali non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione.
Le impugnazioni straordinarie nel codice di procedura penale hanno una propria ratio, anche in un sistema, come il nostro, in cui l’equilibrio sembra propendere per le esigenze di certezza. La revisione, il ricorso per cassazione e la rescissione del giudicato assolvono a garanzie costituzionali e invero sono espressione del principio iscritto all’art. 24 co. 4 Cost., che recita: “La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione giudiziaria”.
Una certa dottrina ebbe a dire, efficacemente: “una impugnazione volta ad accertare ed eliminare l’errore contenuto in una sentenza definitiva rappresenta essa stessa una forma di riparazione dell’errore”.
Sulla ratio dell’istituto della revisione è illuminante la considerazione compiuta dalle Sezioni Unite nella pronuncia n. 28: "La precipua funzione della revisione sta nella necessità di sacrificare il rigore delle forme alle esigenze insopprimibili della verità e della giustizia reale; essa non è ricollegabile tanto all'interesse del singolo ma piuttosto all'interesse pubblico e superiore alla riparazione degli errori giudiziari, facendo prevalere la giustizia sostanziale sulla giustizia formale”.
Ai sensi dell’art. 630 c.p.p. la revisione può essere richiesta in quattro casi.
A) se i fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto penale di condanna non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un’altra sentenza penale irrevocabile del giudice ordinario o di un giudice speciale.
La disposizione riguarda il caso in cui i fatti, posti a fondamento di una decisione definitiva di condanna, non possono più logicamente conciliarsi con quelli accertati con un’altra sentenza penale irrevocabile. Ad esempio, l’imputato A è stato condannato in via definitiva per l’omicidio di X e successivamente è intervenuta una diversa sentenza irrevocabile di condanna nei confronti di B come autore unico del suddetto delitto.
Questo caso di revisione presuppone la distinzione tra fatti e valutazioni. La differenza di valutazioni è connaturata all’attività giurisdizionale che trova il suo momento conclusivo in un apprezzamento sul materiale probatorio acquisito al processo; i fatti, invece, il cui accertamento costituisce la premessa del giudizio, non possono essere ritenuti esistenti da un giudice e inesistenti per un altro.
B) se la sentenza o il decreto penale di condanna hanno ritenuto la sussistenza del reato a carico del condannato in conseguenza di una sentenza del giudice civile o amministrativo, successivamente revocata, che abbia deciso una delle questioni pregiudiziali previste dall’art. 3 ovvero una delle questioni previste dall’art. 479 c.p.p.
Questa ipotesi concerne il caso in cui la decisione irrevocabile di condanna che si intende revocare sia stata fondata su di una questione pregiudiziale accertata in una sentenza definitiva, che è stata successivamente revocata.
C) se dopo la condanna sono sopravvenuta o si scoprono nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto a norma dell’art. 631 c.p.p.
La presente lettera delinea l’ipotesi più consistente ma anche problematica di revisione. Essa consente di chiedere la revisione di una condanna definitiva quando dopo di essa siano sopravvenute o scoperte nuove prove che, sole o congiunte a quelle già valutate, dimostrino che il condannato debba essere prosciolto a norma dell’art. 631 c.p.p.
Sul punto sono necessarie due considerazioni. Da un lato, che in funzione del giudizio preliminare di ammissibilità della revisione, è sufficiente che le nuove prove siano allegate come documenti; dall’altro che la nozione di “nuove prove” deve essere letta alla stregua delle coordinate ermeneutiche sul punto raggiunte.
In specie la Corte di Cassazione a Sezioni Unite con pronuncia n. 28 del 2001 ha chiarito che debbono considerarsi prove nuove ai sensi dell’art. 630 co. 1 lett. c) c.p.p. non solo quelle preesistenti ma non acquisite nel precedente processo, ma anche anche quelle acquisite ma non valutate dal giudice nella sentenza.
In osservanza dei principi espressi dalla detta sentenza, sono “prove nuove”:
la prova noviter reperta, cioè il materiale probatorio non conosciuto in quanto cronologicamente sopravvenuto dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna preesistente ma scoperto soltanto successivamente ad esso;
La prova noviter producta ovvero il materiale probatorio preesistente ma non introdotto nel processo;
La prova noviter cognita, ovvero il materiale probatorio introdotto nel primo giudizio ma non valutato dal giudice.
In tema di revisione la prova nuova è quella che, ex art. 630 comma 1, lett. c) c.p.p., da sola o unitamente a quelle già acquisite, sia idonea a ribaltare il giudizio di colpevolezza dell’imputato.
La valutazione preliminare circa l'ammissibilità della richiesta proposta sulla base dell'asserita esistenza di una prova nuova deve avere ad oggetto, oltre che l'affidabilità, anche la persuasività e la congruenza della stessa nel contesto già acquisito in sede di cognizione, articolandosi in termini realistici sulla comparazione tra la prova nuova e quelle esaminate, ancorata alla realtà processuale svolta (ex plurimis: Sez. I, n. 34928/2012; Sez. II, n. 18765/2018; Sez. VI, n. 25599/2020; Id., n. 25603/2020).
La prova, quindi, oltre ad essere "nuova" deve possedere il necessario requisito della "dimostratività" ai fini dell'accertamento dell'errore di giudizio da rescindere. Il "novum" posto a base di tale giudizio deve dunque presentarsi, nel quadro di un ponderato scrutinio che tenga conto anche delle prove a suo tempo acquisite, come un fattore che determini una decisiva incrinatura del corredo fattuale sulla cui base si è pervenuti al giudicato oggetto di revisione dal momento che, ove così non fosse, qualsiasi elemento in ipotesi favorevole potrebbe essere evocato a fondamento di un istituto che, da rimedio straordinario, si trasformerebbe ineluttabilmente in una non consentita impugnazione tardiva.
D) se è dimostrato che la condanna venne pronunciata in conseguenza di falsità in atti o in giudizio o di un altro fatto previsto dalla legge come reato.
La detta ipotesi riguarda il caso in cui la sentenza di condanna è stata pronunciata in conseguenza di una falsità, a sua volta accertata in successiva sentenza irrevocabile. È il caso in cui la sentenza di condanna sia stata pronunciata in conseguenza e in ragione di una testimonianza che un diverso accertamento ha verificato quale falsa.
L’art. 630 c.p.p., infine, presenta un’ultima ipotesi di revisione, la cd revisione europea, introdotta con la pronuncia della Corte Costituzionale n. 113 del 2011.
La Corte costituzionale in detta pronuncia ha dichiarato illegittimo l’art. 630 c.p.p. nella parte in cui non contempla un caso di revisione ulteriore rispetto a quelli già previsti, volto specialmente a consentire la riapertura del processo quando la stessa risulti necessaria per conformarsi a una sentenza europea della Corte EDU. In specie la Consulta ha ritenuto l’art. 630 c.p.p. in contrasto con l’art. 46 CEDU, considerata come norma interposta del giudizio di costituzionalità rispetto al parametro costituito dall’art. 117 Cost. L’art. 46 CEDU, infatti, impegna gli Stati parte della Convenzione a conformarsi alle sentenze definitive emesse dalla Corte Europea nei loro confronti.
L’ipotesi in parola consente di esperire la revisione quando la Corte europea ha condannato con sentenza definitiva lo Stato italiano per la violazione di una norma della Convenzione in tema di giusto processo penale.
Questa ipotesi di revisione è eccentrica rispetto alle ipotesi tradizionali di revisione per due elementi: da un lato, le ragioni che impongono la riapertura del processo e, dall’altro, gli effetti che la riapertura determina.
In specie, l’esperimento della revisione cd. europea consente all’ordinamento la riapertura di un procedimento per celebrare nuovamente il procedimento con i crismi di legalità che sono stabiliti dall’art. 6 CEDU. A questi fini, pertanto, risulta del tutto irrilevante che siano presenti elementi tali da cui desumere con un certo grado di certezza che il processo si chiuda con una assoluzione.
La Consulta, poi, in quella stessa sentenza, ha anche delineato i principi che regolano il processo di cd revisione europea. In specie:
Diversamente da quanto previsto dall’art. 637 co. 3 c.p.p., è possibile per la Corte d’Appello, in sede di revisione, pronunciarsi anche esclusivamente sulla base di una diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio;
Diversamente da quanto previsto dall’art. 631 c.p.p., sarà possibile applicare la revisione anche se non si potrò ottenere il proscioglimento del condannato;
Al fine di valutare la natura della violazione e il rimedio più idoneo, occorre tenere conto delle indicazioni contenute nella sentenza della Corte europea;
Vi è una deroga al principio per cui i vizi processuali restano coperti dal giudicato. Il giudice della revisione valerà anche come le cause della non equità del processo si debbano tradurre in vizi degli atti processuali alla stregua del diritto interno, adottando nel nuovo giudizio tutti i conseguenti provvedimenti per eliminarli.
Il giudizio di revisione è previsto e disciplinato dagli artt. 631 a 642 c.p.p.
Ai sensi dell’art. 632 c.p.p. possono chiedere la revisione una serie di soggetti:a) il condannato o un suo prossimo congiunto ovvero la persona che ha sul condannato l’autorità tutoria e, se il condannato è morto, l’erede o un prossimo congiunto;
b) il procuratore generale presso la Corte d’Appello nel cui distretto fu pronunciata la sentenza di condanna.
Le persone indicate nella lettera a) possono unire la propria richiesta a quella del procuratore generale.
Ai sensi dell’art. 633 co. 1 c.p.p. l’autorità competente è la Corte di Appello diversa da quella in cui si è svolto il giudizio divenuto irrevocabile, determinata in base alla medesima tabella con cui si individua la competenza per i procedimento riguardanti i magistrati (art. 11 c.p.p.)
Ai sensi dell’art. 633 co. 1 c.p.p. la richiesta di revisione è proposta personalmente o per mezzo di un procuratore speciale. Essa deve contenere l’indicazione specifica delle ragioni e delle prove che la giustificano e deve essere presentata unitamente a eventuali atti e documenti nella cancelleria della Corte d’Appello individuata secondo i criteri di cui all’art. 11 c.p.p.
Ai sensi dell’art. 631 c.p.p. la revisione può esser richiesta con un limite ineliminabile. Gli elementi in base ai quali si chiede la revisione devono, a pena di inammissibilità della domanda, essere tali da dimostrare, se accertati, che il condannato deve essere prosciolto a norma degli artt. 529, 530 o 531 c.p.p.
Il procedimento di revisione si compone di una serie di fasi e di attività.
Nel processo di revisione è dato apprezzare due fasi, l'una rescindente e l'altra rescissoria: la prima è costituita dalla valutazione che avviene de plano, senza avviso al difensore o all'imputato della data fissata per la camera di consiglio dell'ammissibilità della relativa istanza e mira a verificare che essa sia stata proposta nei casi previsti e con l'osservanza delle norme di legge, nonchè che non sia manifestamente infondata; la seconda è, invece, costituita dal vero e proprio giudizio di revisione mirante all'accertamento e alla valutazione delle "nuove prove", al fine di stabilire se esse, sole o congiunte a quelle che avevano condotto all'affermazione di responsabilità del condannato, siano tali da dimostrare che costui deve essere prosciolto dal reato ascrittogli (Sez. Un., n. 18/1999; Sez. III, n. 31309/2019).
Sono parti del procedimento di revisione le seguenti fasi:
La fase di delibazione da svolgersi secondo il regime della segretezza.
In questa sede la Corte d’Appello è chiamata a compiere una prima e sommaria valutazione sul requisito della prova nuova.
Di fronte alla mutata struttura del giudizio di revisione, la giurisprudenza di legittimità è concorde nell'affermare che, quanto alla fase preliminare della delibazione dell'ammissibilità, la verifica della potenzialità delle nuove prove a pervenire ad una pronuncia di proscioglimento, non può mai consistere in una penetrante anticipazione dell'apprezzamento di merito riservato al vero e proprio giudizio di revisione, da svolgere nel contraddittorio delle parti. Essa, invece, secondo la giurisprudenza consolidata, implica soltanto una sommaria delibazione degli elementi di prova o della inerenza del contrasto di giudicati su fatti che evocano una alternativa ed inconciliabile ricostruzione della vicenda oggetto della domanda di revisione.
L’esito della fase di delibazione può condurre a diversi esiti: a una declaratoria di inammissibilità o ad una ordinanza di ammissibilità della richiesta.
In specie la declaratoria di ammissibilità è emessa nei casi e nei modi previsti dall’art. 634 c.p.p. Ai sensi dell’art. 634 c.p.p la Corte d’Appello dichiara con ordinanza l’inammissibilità e può condannare il privato che ha proposta richiesta al pagamento a favore della casa delle ammende di una somma da euro 258 e 2065 quando la richiesta è proposta fuori delle ipotesi previste dagli artt. 629 e 630 o senza l’osservanza delle disposizioni previste dagli artt. 631, 632, 633 e 641 ovvero risulta manifestamente infondata.L’altro esito cui può giungere la Corte d’Appello è l’accoglimento della richiesta di revisione. Con questa si apre il predibattimento del giudizio di revisione. La parte privata, ammessa al giudizio di revisione, da questo momento acquista la qualità di imputato nuovamente. La Corte d’Appello può, altresì, in ogni momento disporre con ordinanza la sospensione dell’esecuzione della pena o della misura di sicurezza applicando se del caso una delle misure cautelari coercitive previste dagli artt. 281, 282, 283 e 284 c.p.p.
L’emissione da parte del presidente della Corte d’Appello del decreto di citazione con le forme dell’art. 601 c.p.p.
L’assunzione e della valutazione delle prove. Il giudizio inizia con le richieste di assunzione delle prove a discarico che già in precedenza erano state indicate o allegate. È la novità delle prove che deve convincere dell’innocenza o quantomeno fare sorgere il ragionevole dubbio dell’innocenza. Ciò si desume a contrario dall’art. 637 co. 3 c.p.p., che dispone che il giudice non può pronunciare il proscioglimento esclusivamente sulla base di una diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio.
L’emissione della sentenza ai sensi dell’art. 637 c.p.p.
La sentenza di revisione può avere i contenuti di cui ai co. 2 e 3 dell’art. 637 c.p.p.
La sentenza può essere di accoglimento e in questo caso il giudice revoca la sentenza di condanna o il decreto penale di condanna e pronuncia il proscioglimento, indicandone la causa nel dispositivo.
Ai sensi dell’art. 639 c.p.p., quando la Corte d’Appello pronuncia sentenza di proscioglimento a seguito di accoglimento della richiesta di revisione, ordina la restituzione delle somme pagate in esecuzione della condanna per le pene pecuniarie, per le misure di sicurezza patrimoniali, per le spese processuali e di mantenimento in carcere e per il risarcimento dei danni a favore della parte civile citata per il giudizio di revisione oltre che la restituzione delle cose che sono state confiscate a eccezione di quelle previste nell’arte. 240 co. 2 n. 2 c.p.
La sentenza può essere anche di rigetto della richiesta. In questo caso il giudice condanna la parte privata che l’ha proposta al pagamento delle spese processuali e, se è stata disposta la sospensione, dispone che riprenda l’esecuzione della pena o della misura di sicurezza.
La giurisprudenza nel corso del tempo ha elaborato una particolare forma di revisione probatoria, la cd revisione scientifica. In particolare l’opera della giurisprudenza di legittimità è stata quella di considerare come “prova nuova”, ai sensi dell’art. 630 co. 1 lett. c) c.p.p., anche la consulenza o la perizia, già espletate nel corso del procedimento conclusosi con sentenza definitiva, con un metodo scientifico diverso, perchè, e purchè, sopravvenuto.
La Corte di Cassazione ha così ammesso che la revisione possa fondarsi su di un nuovo metodo scientifico anche se questo è applicato a risultanze già note nel precedente processo.
La giurisprudenza di legittimità consolidata esige però il rispetto di una serie di condizioni:
che si tratti di un metodo in astratto “nuovo” e già sperimentato o scoperto successivamente a quello applicato nel processo ormai chiuso;
Che si tratti di un metodo scientifico;
Che le risultanze probatorie già vagliate siano sottoposte ad un metodo nuovo rispetto a quello già utilizzato;
Che il metodo applicato sia idoneo a produrre in concreto risultati diversi da quelli già acquisiti;
Che i nuovi risultati, da soli o uniti alle prove già valutate, siano quanto meno idoneo a far sorgere un ragionevole dubbio in favore dell’imputato.
In argomento la giurisprudenza di legittimità ha registrato negli anni una significativa evoluzione.
Inizialmente, la Suprema Corte tendeva a negare che una diversa valutazione tecnico-scientifica di elementi già acquisiti al procedimento definito potesse costituire "prova nuova" ai sensi e per gli effetti di cui all’ art. 630 co. 1 lett. c) c.p.p., (Sez. I, n. 5369/1992). In seguito si è ammesso che una nuova valutazione tecnico-scientifica degli elementi già oggetto di accertamento nel giudizio precedente potesse costituire il novum richiesto dall’art. 630 c.p.p., purchè svolta con nuove metodologie e sulla scorta di nuovi principi, i quali possono ben "condurre anche alla conoscenza di fatti nuovi e non solo di valutazioni diverse" (Sez. I, n. 4837/1998). Questa impostazione è stata avallata dalle Sezioni Unite con sentenza n. 624 del 2001, le quali, per la definizione di prova "nuova" in vista del giudizio di revisione, hanno precisato che, ai fini in discorso, la nuova metodica deve anzitutto essere accreditata dalla comunità scientifica, e in secondo luogo risultare idonea a raggiungere risultati diversi rispetto a quelli già acquisiti.
Alla luce di questa premessa in termini storico-evolutivi, la più recente elaborazione giurisprudenziale che ha trattato il tema dell'introduzione postuma in sede processuale di nuove acquisizioni scientifiche e di metodologie innovative, è approdata alla conclusione che, ai fini dell'ammissibilità della richiesta di revisione possono costituire "prove nuove" ai sensi dell’art. 630 comma 1, lett. c) c.p.p., quelle che, pur incidendo su un tema già divenuto oggetto di indagine nel corso della cognizione ordinaria, siano fondate su nuove acquisizioni scientifiche e tecniche diverse e innovative, tali da fornire risultati non raggiungibili con le metodiche in precedenza disponibili (ex plurimis, Sez. I, n. 26637/2008; Sez. V, n. 2982/2009; Sez. V, n. 10523/2018; Sez. I, n. 35660/2019), sicchè "la novità della prova scientifica può essere correlata all'oggetto stesso dell'accertamento oppure al metodo scoperto o sperimentato, successivamente a quello applicato nel processo ormai definito, di per sè idoneo a produrre nuovi elementi fattuali" (Sez. I, n. 15139/2011). Invero, in tal caso è tangibile il carattere di novità della scoperta scientifica e della tecnica innovativa, tale da riverberarsi nel processo con l'efficacia dirompente di scardinare la decisione di condanna.
Ciò premesso, la Corte di Cassazione sulla scia della giurisprudenza più risalente, è costante nel ritenere che non integra prova nuova ai sensi dell'art. 630 lett. c), la semplice ritrattazione o la modifica delle dichiarazioni originariamente rese da un testimone (Sez. I n. 968/1998) e che non può ritenersi prova nuova la mera modifica o ritrattazione di dichiarazioni già dal teste rese nei precedenti gradi del giudizio. Ed invero, nuove prove sono solo tutte quelle testimonianze che, pur preesistenti al giudizio, non sono state acquisite agli atti del processo, ovvero riferite a persone non sentite (Sez. I n. 1368/1993; Sez. V, n. 8237/1993).
All’attenzione della giurisprudenza più recente, sulla scorta di questo dibattito, si è posta una questione di delicatissimo rilievo e cioè quella del valore probatorio attribuibile alla c.d. Carta di noto. Più specificamente la questione che si è posta è se la Carta di Noto, con l'aggiornamento del 2017, possa effettivamente essere equiparata ad una nuova prova scientifica nei termini in precedenza richiamati.
La soluzioni ha importanti conseguenze.
La Carta di Noto costituisce un riferimento costante per giurisprudenza, letteratura e dottrina, in tema di abusi sessuali su minori. Le linee guida in essa inscritte devono considerarsi quali suggerimenti diretti a garantire l'attendibilità dei risultati degli accertamenti tecnici e la genuinità delle dichiarazioni rese dal minore, assicurando nel contempo a questi la protezione psicologica, nel rispetto dei principi costituzionali del giusto processo e degli strumenti del diritto internazionale. Quando non fanno riferimento a specifiche figure professionali le linee guida valgono per qualunque soggetto che nell'ambito del procedimento instauri un rapporto con il minore.
Aderire alla tesi per cui l’aggiornamento della Carta di Noto potrebbe considerarsi alla stregua di una nuova metodologia scientifica con cui svolgere le consulenze tecniche, di tipo psicologico, sui minori, avrebbe esiti dirompenti. In specie, ciò consentirebbe di avanzare richieste di revisione di processi in cui sono intervenute consulenze tecniche, non osservanti dei principi della Carta di Noto, comportando la revisione di un numero consistente di procedimenti, tra l’altro oltre modo delicati come quelli afferenti le violazioni della libertà sessuale dei minori.
Pertanto la questione è rilevantissima.
Da una disamina della giurisprudenza di legittimità l’orientamento maggioritario è chiaro.
Le linee guida sull'ascolto del minore (c.d. Carta di Noto) e il successivo aggiornamento sono considerati non come l'enunciato di teorie o, se si vuole, di tecniche, scientifiche, verificabili attraverso lo strumento della falsificabilità, quanto, piuttosto, un insieme di cautele, precauzioni, verifiche, modelli comportamentali finalizzati allo scopo di procedere all'ascolto del minore, in primo luogo riducendo al minimo le ricadute pregiudizievoli della esperienza, pur sempre invasiva e traumatica, e, in secondo luogo, di acquisire le informazioni necessarie a scopo di giustizia con il minor tasso possibile di fallacia (Sez. IV, n. 3446/2014; Sez. III, n. 35319/2016).
In questa direzione, a dimostrazione del consolidamento di questo orientamento, si pone da ultimo anche Cassazione penale sez. III, 25/11/2020, (ud. 25/11/2020, dep. 13/01/2021), n.1144, che ha chiarito: “il riferimento alla Carta di Noto non può avere alcuna incidenza sul caso specifico, poichè le linee guida e i relativi protocolli della suddetta Carta sono solo orientativi e non vincolanti impartendo autorevoli raccomandazioni e indicazioni di rilevanza solo interpretativa e operativa, nonchè meri suggerimenti diretti a garantire l'attendibilità delle dichiarazioni e la protezione psicologica del minore vittima di abusi sessuali e non assumono pertanto alcun valore rigorosamente scientifico in quanto fondati su un corpo d'ipotesi, più o meno accreditate e su dati di osservazione e di teorie non del tutto pacifiche”.