Reati Fallimentari
L’articolo 218 della Legge Fallimentare italiana disciplina il reato di ricorso abusivo al credito, una fattispecie che si configura quando un imprenditore, un amministratore o un direttore generale ottiene prestiti dissimulando il proprio stato di insolvenza. Questa condotta, oltre a ledere i diritti dei creditori, mette in pericolo l’intero sistema economico, creando una rete di debiti non sostenibili.
Il reato di ricorso abusivo al credito si verifica quando un imprenditore contrae debiti pur essendo consapevole di non poterli ripagare, arrecando danno ai creditori. La norma punisce l’azione di dissimulazione, che può manifestarsi sia attraverso atti di omissione delle informazioni necessarie sia mediante manovre ingannevoli. La differenza fondamentale è che, se il credito fosse stato concesso con tutte le informazioni necessarie, non si configurerebbe il reato.
"Il ricorso abusivo al credito di cui all'art. 218 L. Fall. è reato di mera condotta e richiede che il credito sia stato ottenuto mediante dissimulazione ai danni dell'ignaro creditore, che può quindi assumere il ruolo di persona offesa" (Cass. Pen. n.11218/2022)
La fattispecie sanziona le principali figure legate all’impresa, amministratori, direttori generali, liquidatori e imprenditori, ma anche soci illimitatamente responsabili di società in nome collettivo o in accomandita semplice, oltre all'institore dell'imprenditore. Questo ampio ventaglio di soggetti attivi evidenzia l’intento del legislatore di tutelare non solo i creditori, ma anche l’integrità del mercato.
Secondo l’articolo 218, la pena per il reato va da sei mesi a tre anni di reclusione.
Va sottolineato che il reato si consuma con la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore, momento in cui si concretizza il danno ai creditori.
La procedibilità è d’ufficio, il che significa che le autorità competenti possono agire senza una querela formale, e il tribunale competente è il tribunale in composizione monocratica (composto da un solo giudice).
Il termine di prescrizione - che inizia a decorrere dalla data della dichiarazione di fallimento - per questo reato è di sei anni (al quale va aggiunto un anno e sei mesi in caso di rinvio a giudizio o di altro atto interruttivo).
Il reato di mendacio bancario è un reato di falso finalizzato alla tutela dei flussi informativi bancari, mentre il ricorso abusivo al credito bancario è un reato fallimentare a tutela dei creditori e non del solo istituto di credito, che sanziona le condotte che dissimulano uno stato di dissesto della società. Essendo ontologicamente differenti i predetti due reati, per il bene e l'interesse tutelato, possono agilmente concorrere.
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Tra le norme incriminatrici di cui agli artt. 218 l.fall. e 640 c.p. sussiste un rapporto di specialità che, ai sensi dell'art. 15 c.p., consente di individuare nella prima la disposizione prevalente.
Difatti, il delitto di ricorso abusivo al credito ha un'oggettività giuridica più ampia di quello di truffa, atteso che il disvalore di questo delitto viene assorbito in quello del reato fallimentare che è volto a tutelare non solo il patrimonio del nuovo creditore ma anche quello dei creditori preesistenti e comunque ad evitare, nell'interesse pubblico dell'economia nazionale, che soggetti destinati al fallimento facciano ricorso al credito; proprio per tale ragione, il delitto di cui all'art. 218 si caratterizza per più elementi specializzanti rispetto alla truffa, ossia per la particolare qualità che deve rivestire il soggetto attivo e la necessità che alla condotta segua la sentenza dichiarativa di fallimento. Peraltro, anche prima che l'art. 32, comma 1, l. 28 dicembre 2005 n. 262 modificasse l'art. 218 r.d. 16 marzo 1942 n. 267 non era possibile il concorso formale tra il delitto di ricorso abusivo al credito e quello di truffa, atteso che il citato art. 218 conteneva una clausola di riserva che rendeva applicabile il delitto fallimentare solo in via sussidiaria, nel caso in cui il fatto non costituisse un delitto più grave.
Poiché il ricorso abusivo al credito era punito nel massimo con la pena di anni due di reclusione, mentre il massimo edittale della truffa era pari ad anni tre di reclusione, nel caso in cui il fatto fosse ricaduto sotto la previsione di entrambe le norme incriminatrici, doveva ritenersi configurabile il solo delitto di truffa.