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Diffamazione: non sussiste il reato se l'autore si limita a denunciare “comportamenti scorretti”


Corte di Cassazione

La massima

Non integra il reato di diffamazione, per carenza di offensività della condotta, l'invio di una missiva con la quale il creditore non ammesso al passivo denunci al presidente del tribunale e agli altri organi della procedura fallimentare "comportamenti scorretti" del commissario straordinario, qualora essa si sostanzi in una rimostranza rispetto ad una situazione ritenuta ingiustamente lesiva dei propri diritti o prerogative, che ha per obiettivo, attraverso la rappresentazione della propria versione dei fatti, di sollecitare, in un contesto naturalmente conflittuale, l'intervento dei legittimi interlocutori istituzionali per favorire la piena realizzazione della "par condicio creditorum", e le espressioni utilizzate non trasmodino in alcun modo in aggressioni gratuite della altrui reputazione, essendo preordinate al ripristino di una situazione compromettente per i propri interessi economici (Cassazione penale sez. V - 30/01/2020, n. 12898)


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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO

1. Il Giudice di Pace di Mantova ha assolto P.G. dal reato di diffamazione, commesso mediante l'invio di una missiva al Presidente del Tribunale di Mantova e alla società Marcegaglia s.p.a, nella quale accusava B.D.G., nella qualità di commissario straordinario della società Omicon's s.r.l. - il quale aveva escluso dall'ammissione al passivo fallimentare la società edile di cui il P. era L.R., e che aveva eseguito lavori per la Omicon's - di comportamenti scorretti perchè "sta mettendo in ginocchio degli imprenditori onesti e sta aiutando degli imprenditori con un curriculum di tutto riguardo quanto a evasione fiscale e truffe".


2. Avverso la pronuncia assolutoria ha proposto ricorso la parte civile B.D.G. il quale si affida, per il tramite del difensore, a due motivi.


2.1. Denuncia, in primo luogo, violazione dell'art. 595 c.p., e correlato vizio della motivazione, lamentando che, nella sentenza impugnata, il giudizio assolutorio, con la formula perchè il fatto non sussiste, si è fondata su una erronea ricostruzione della struttura e degli elementi della fattispecie. In specie, deduce che il Giudice ha ritenuto che non fosse ravvisabile il requisito dell'assenza della persona offesa per avere quest'ultima preso cognizione del contenuto della missiva. Ci si duole che, in ogni caso, ricorrerebbe un caso di concorso formale dei reati di ingiuria e diffamazione, citando orientamento giurisprudenziale di questa Sezione. Inoltre, si lamenta che il giudice gravato abbia del tutto omesso il vaglio dell'elemento soggettivo, mancando in sentenza la ricostruzione della intenzione diffamatoria dell'agente.


2.2.Con il secondo motivo si censura la formula assolutoria che, invece, premessa la riqualificazione del fatto in ingiuria - secondo l'opzione ermeneutica proposta dalla sentenza impugnata - avrebbe dovuto condurre alla assoluzione con la formula perchè il fatto non costituisce reato. Tanto riverbera i suoi effetti anche nel giudizio civile e sulle correlate richieste risarcitorie.


3. In data 17 gennaio 2020 l'imputato ha depositato memoria, denunciando che la parte civile ricorrente ha omesso di esplicitare il riferimento agli effetti civili che intende conseguire, donde la inammissibilità del gravame per carenza di interesse. Lamenta altresì l'incompatibilità con i principi espressi dalle Sezioni Unite Dasgupta, in caso di annullamento con rinvio, e conclude per la inammissibilità del ricorso.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso non è fondato, pur dovendosi prendere atto della erroneità dei motivi di diritto che sono stati posti alla base della decisione, che, vanno, quindi correttamente individuati come segue.


2. Occorre, dunque, preliminarmente, sgombrare il capo dall'errore in cui è incorso il giudice di merito, il quale erra quando esclude la diffamazione sul presupposto che, poichè la persona offesa era venuta a conoscenza del contenuto della missiva, perchè inclusa tra i destinatari della stessa, non possa ravvisarsi uno dei requisiti oggettivi del reato di cui all'art. 595 c.p., ovvero l'assenza della persona offesa.


2.1. Giova ricordare che il bene giuridico tutelato dall'art. 595 c.p. è l'onore di ciascuna persona, nel suo riflesso in termini di valutazione sociale (la reputazione, intesa quale patrimonio di stima, di fiducia, di credito accumulato dal singolo nella società e, in particolare, nell'ambiente in cui quotidianamente vive e opera), e l'evento è costituito dalla comunicazione e dalla correlata percezione o percepibilità, da parte di almeno due consociati, di un segno parola, disegno) lesivo, che sia diretto, non in astratto, ma concretamente, a incidere sulla reputazione di uno specifico cittadino (Sez. 5 n. 5654 del 19/10/2012; Sez. 5 n. 34178 del 10/02/2015, Rv. 264982). Si tratta di evento, non fisico, ma, psicologico, consistente nella percezione sensoriale e intellettiva, da parte di terzi, dell'espressione offensiva (Sez. 5 n. 47175 del 04/07/2013, Rv. 257704).


2.2. Al fine di segnare il discrimen tra le due fattispecie, deve rimarcarsi che l'elemento di distinzione fra i reati di ingiuria e di diffamazione è costituito dal fatto che, nell'ingiuria, la comunicazione (verbale o scritta) è rivolta all'offeso, la cui presenza, infatti, è elemento costitutivo del reato, anche nell'ipotesi aggravata di cui all'art. 594 c.p., comma 4 mentre, la diffamazione è caratterizzata dalla comunicazione con persone diverse dall'offeso, il quale non è presente al compimento dell'atto lesivo della sua reputazione. (Sez. 5 n. 36095 del 03/10/2006, rv. 235483) e non è posto in condizioni di interloquire direttamente con l'offensore (Sez. 5 - n. 10313 del 17/01/2019 Rv. 276502).


Ed è proprio nell'assenza, che pone il soggetto passivo nella impossibilità di replicare immediatamente all'offesa, che si è ravvisata la ratio della maggiore gravità della diffamazione, rispetto all'ingiuria, mentre il concetto di "presenza" implica necessariamente la presenza fisica, in unità di tempo e di luogo, di offeso e spettatori o almeno una situazione ad essa sostanzialmente equiparabile, realizzata con l'ausilio dei moderni sistemi tecnologici (si pensi ad esempio alla call conference, all'audioconferenza o alla videoconferenza).


Chiarisce meglio la questione, quell'orientamento di questa Corte secondo cui, nei delitti contro l'onore, quando l'offesa sia arrecata a mezzo di uno scritto e sia indirizzata all'interessato e a terzi estranei, non si esclude il concorso tra le due fattispecie, nel caso in cui la concreta vicenda comprenda elementi costitutivi delle due distinte norme incriminatrici. Si è affermato, già in una risalente pronuncia, che "nell'ipotesi di diffamazione a mezzo di lettera indirizzata a più persone, concorre il reato di ingiuria, qualora la missiva venga inviata anche alla parte offesa" (Cass. 7 luglio 1983 n. 2498; conf. Cass. 4 febbraio 2002 n. 12160). In tale orientamento, l'argomentazione in ordine alla specificità degli elementi caratterizzanti i due reati (presenza o meno della persona offesa) sicchè la diffamazione escluderebbe l'ingiuria - viene superata proprio nel caso in cui l'offesa è arrecata a mezzo di uno scritto, in virtù della equiparazione, operata dall'art. 594 c.p., comma 2, della "presenza" della persona offesa alla "comunicazione" con scritto "diretto" (cioè "indirizzato") alla stessa. Anche la diffamazione avviene con "comunicazione" che può assumere forma orale (in presenza di terzi ed in assenza della p.o.) o scritta, purchè rivolta a persone diverse dalla p.o. Se, pertanto, la comunicazione orale implica necessariamente presenza o assenza della persona offesa, sicchè la diffamazione non può coesistere - in tale caso - con l'ingiuria, è configurabile, invece, il concorso dei due reati proprio allorchè l'offesa sia indirizzata al terzo estraneo e anche alla persona interessata, con altra modalità di comunicazione, diversa da quella orale. La circostanza che lo scritto offensivo venga "indirizzato" sia alla persona offesa che a terzi, realizza, infatti, una duplicità di azioni, coincidenti quanto all'offesa in sè, ma difformi nell'elemento caratterizzante, sicchè, deve parlarsi non di concorso formale bensì, reale, sempre che lo scritto possa - quanto alla diffamazione - essere concretamente letto da più di una persona estranea.


2.3. Fatta tale premessa, e in tal senso corretta, sotto il profilo giuridico, la sentenza impugnata, deve, tuttavia, escludersi che la condotta incriminata abbia prodotto un'offesa all'onore e alla reputazione. Sicchè non è ravvisabile nè l'ingiuria nè la diffamazione.


Quella inoltrata dal ricorrente ai predetti destinatari, è una missiva con la quale sono state formulate legittime contestazioni all'operato di un organo della procedura fallimentare da parte di un creditore che si riteneva danneggiato dalle scelte dell'amministratore giudiziario; rimostranza formulata, peraltro, attraverso l'utilizzo di un linguaggio corretto e contenuto. L'espressione utilizzata dal ricorrente - ovvero che il pubblico ufficiale "sta mettendo in ginocchio degli imprenditori onesti e-sa aiutando degli imprenditori con un curriculum di tutto riguardo quanto a evasione fiscale e truffe", - costituisce la piena, quanto congrua, enunciazione,della situazione di fatto dal punto di vista dell'esponente, che si intendeva riferire a soggetti posti in posizione sovraordinata, per giustificare la propria doglianza in ordine alle modalità con cui era stata compiuta l'attività contestata, e rappresentare la lesione che, dal così censurato modus operandi, era derivata agli interessi patrimoniali delle aziende escluse dalla distribuzione dell'attivo fallimentare; nè, dagli elementi acquisiti, era possibile escludere che quanto rappresentato nella comunicazione oggetto della imputazione rispondesse a verità. (Sez. 5, n. 9634 del 13/01/2010, Rv. 246890) Sez. 5; Sez. 5 n. 27616 del 11/02/2019 Rv. 276771).


Deve, cioè, affermarsi che non costituisce diffamazione la esposizione di una legittima doglianza rispetto ad una situazione ritenuta ingiustamente lesiva di diritti o prerogative, (mancata ammissione al passivo fallimentare), laddove si tratti, come nel caso di specie, di una del tutto consentita interlocuzione con soggetti istituzionali, coinvolti nell'ambito di un contesto naturalmente "conflittuale", quale è quello proprio di una procedura fallimentare. In tale ambito, la missiva del soggetto che si vede sottratta la possibilità di far valere il proprio credito dinanzi agli organi del fallimento ha avuto il chiaro obiettivo, attraverso la rappresentazione della propria versione dei fatti, di sollecitare l'intervento delle autorità competenti per favorire l'ampliamento del novero dei soggetti ammessi a beneficiare della par condicio creditorum, nell'ottica della maggiore equità distributiva. Mentre le espressioni utilizzate, pur evidenziando le personali doglianze dell'esponente, non trasmodano in alcun modo in aggressioni gratuite della altrui reputazione, essendo, invece, esclusivamente preordinate al ripristino di una situazione ritenuta compromettente per i propri interessi economici (Sez. 5, n. 23579 del 17/02/2014 Rv. 260213).


Correttamente, dunque, il giudice gravato ha assolto l'imputato con formula pienamente liberatoria, stante l'insussistenza del fatto contestato, mancando l'offensività della condotta.


3. Al rigetto del ricorso segue per legge la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.


P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.


Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2020.


Depositato in Cancelleria il 24 aprile 2020

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