Il dolo specifico nel reato di omessa dichiarazione IVA: non basta la qualifica formale di amministratore di diritto (Cass. Pen. n. 36474/2019)
- Avvocato Del Giudice
- 15 apr
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La sentenza n. 36474/2019 della terza sezione penale della Corte di Cassazione si occupa, in maniera analitica e approfondita, dei presupposti soggettivi del reato di omessa dichiarazione ai sensi dell'art. 5 del D.lgs. n. 74/2000, ponendo l'accento sulla necessità della prova del dolo specifico anche in capo all'amministratore di diritto, ove questi non sia stato il gestore effettivo della società.
Fatto
L'imputato C., amministratore di diritto di una società operante nel commercio di autovetture, veniva condannato in primo e secondo grado per i reati di omessa dichiarazione IVA (anni 2010 e 2011) e di occultamento o distruzione di documenti contabili. La Corte d'appello di Brescia riteneva che l'imputato, pur formalmente prestanome, dovesse ritenersi responsabile per i reati contestati, anche alla luce della consapevolezza derivante dall'assunzione della carica.
Decisione
La Corte di Cassazione ha accolto parzialmente il ricorso dell'imputato, annullando la sentenza impugnata limitatamente al reato di omessa dichiarazione IVA e rinviando per nuovo giudizio alla Corte d'appello di Brescia. Ha invece rigettato il ricorso per quanto concerne il reato di occultamento o distruzione di documenti contabili, confermando la responsabilità penale dell'imputato.
Principio di diritto
Secondo la Suprema Corte, la mera assunzione della carica di amministratore di diritto non è sufficiente, in assenza di ulteriori elementi, a dimostrare il dolo specifico richiesto dall'art. 5 D.lgs. n. 74/2000. Il dolo specifico, in quanto intenzione deliberata di evadere le imposte, richiede un quid pluris rispetto al dolo generico e deve essere provato con rigore.
La responsabilità del prestanome può essere fondata sul concorso omissivo ex art. 40 cpv c.p. e art. 2392 c.c., ma a condizione che sussista anche l'elemento soggettivo del dolo specifico, che non può dirsi automaticamente provato dalla semplice accettazione della carica sociale.
Sentenza integrale
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza 11.07.2016, la Corte d'appello di Brescia confermava la sentenza 29.01.2016 del tribunale di Brescia, appellata dal C., che lo aveva condannato alla pena di 1 anno e 6 mesi di reclusione, con il concorso di attenuanti generiche e ritenuta la continuazione tra i reati ascritti, oltre alle pene accessorie di legge, perchè ritenuto colpevole dei reati di omessa dichiarazione IVA relativa ai periodo di imposta 2010 e 2011, con imposta evasa superiore alla soglia di punibilità nonchè di occultamento o distruzione di documenti contabili relativamente ai predetti periodi di imposta, in relazione a fatto accertato in data (OMISSIS), data di redazione del PVC.
2. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia, iscritto all'Albo speciale previsto dall'art. 613 c.p.p., articolando due motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Deduce, con il primo motivo, violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 5 e 10.
In sintesi, anzitutto, in relazione al reato di omessa dichiarazione IVA, si censura la sentenza per aver riconosciuto l'imputato colpevole, quale amministratore di diritto della società, per il solo fatto di aver accettato la carica di amministratore, anche se con il ruolo di prestanome, ignorando gli obblighi connessi a tale qualifica. Quanto sopra, sostiene il ricorrente, non sarebbe sufficiente a fornire la dimostrazione dell'esistenza del dolo specifico, essendo dunque illogico che l'assunzione della carica e l'ignoranza colpevole degli obblighi derivanti abbia insito l'intento criminoso normativamente richiesto, potendone al più derivarne una responsabilità per colpa. L'affermazione della Corte d'appello contrasterebbe del resto con la giurisprudenza di legittimità, che richiede venga provata la consapevolezza in capo all'amministratore di diritto dei fini delittuosi perseguiti dall'amministratore di fatto. A ciò va aggiunto che detta carica vene assunta dall'imputato su richiesta di tale G., vero deus ex machina della società, senza che il ricorrente avesse mai compreso le reali responsabilità derivanti dalla carica rivestita nè di comprendere la necessità di verificare eventuali irregolarità nella gestione della società da parte del G., di cui si fidava e riceveva sempre rassicurazioni sull'andamento societario.
Quanto, poi, al reato di occultamento/distruzione dei documenti contabili, si censura parimenti l'affermazione di responsabilità in assenza del dolo specifico normativamente richiesto. I giudici di appello sarebbero pervenuti ad affermare la responsabilità del ricorrente valorizzando due elementi, anzitutto il ritiro della documentazione contabile presso il commercialista e, in secondo luogo, la consegna della documentazione stessa agli organi inquirenti. Detti elementi sarebbero tuttavia inidonei per la difesa a dimostrare la responsabilità dell'imputato, trattandosi di accadimenti occasionali. La prova del dolo specifico, in particolare, sarebbe stata raggiunta sulla scorta di due passaggi argomentativi che tradiscono però un travisamento probatorio, non trovando riscontro nessuno dei due negli atti del processo. Il primo, costituito da presunti contatti avvenuti tra l'imputato e il G., durante i quali l'imputato avrebbe maturato la volontà di condividere l'intento criminoso perseguito dall'amministratore di fatto, affermazione frutto di mera presunzione. Il secondo, laddove si presume il possesso della contabilità sulla base dei suddetti contatti tra l'imputato ed il G.. Si sostiene dunque che il comportamento dell'imputato al fine di recupero della documentazione e, pur ammettendo che fossero avvenuti, i contatti con il G. sarebbero comunque elementi soggetti a libera interpretazione, ponendosi in collisione con la natura specifica del dolo normativamente richiesto.
2.2. Deduce, con il secondo motivo, vizio di motivazione in relazione alla valutazione della commisurazione della pena.
Si censura la sentenza impugnata laddove, pur riconoscendo le attenuanti generiche, avrebbe omesso di considerare, nel valutare la congruità della pena base fissata dal primo giudice, gli elementi valorizzati per riconoscere le attenuanti generiche, peraltro discostandosi notevolmente dal minimo edittale previsto per l'art. 10 citato, ritenuto reato più grave, valutazione dunque errata anche per ciò che concerne le pene accessorie.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è fondato quanto al primo motivo, limitatamente al delitto di omessa dichiarazione.
4. Ed invero, la motivazione della sentenza pare censurabile con particolare riferimento alla questione relativa alla sussistenza del dolo specifico nel reato di omessa dichiarazione Iva.
Quanto al reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, la Corte d'appello dato per certo il ruolo del G. quale amministratore di fatto della società, formalmente amministrata dall'imputato C., individua la responsabilità del medesimo per aver consapevolmente assunto la qualifica di amministratore di diritto, come risultante dall'atto di costituzione della società e dalle sue stesse dichiarazioni. Aggiunge, poi, quanto al contenuto degli obblighi e doveri incombenti sull'amministratore di SRL, che è ben possibile che l'imputato non ne avesse adeguata conoscenza, tuttavia l'ignoranza di tali doveri ed obblighi, per la Corte d'appello, tra cui quello di presentare la dichiarazione IVA annuale, si risolverebbe nell'ignoranza del precetto, di cui alla fattispecie incriminatrice sub a), con la conseguenza, per la Corte territoriale, che anche a voler affermare che l'imputato non fosse pienamente consapevole degli obblighi connessi alla qualifica di amministratore, purtuttavia si tratterebbe di colpevole ignoranza sulla legge penale, dunque irrilevante, tanto più, si aggiunge, che egli avrebbe potuto prendere informazioni e controllare che almeno i principali obblighi tributari fossero stati adempiuti, evidenziandosi quindi come la sua ignoranza fosse in realtà una volontaria estraneità rispetto ai doveri connessi alla carica assunta.
Con specifico riferimento alla sussistenza dell'elemento soggettivo del reato sub art. 5, la Corte d'appello sostiene come non vi sia dubbio che l'omessa presentazione delle dichiarazioni IVA fosse finalizzata al mancato versamento della relativa imposta. Giunge a tale conclusione, in particolare, asserendo che l'imputato era pienamente consapevole di essere il legale rappresentante di una società commerciale che operava nel settore del commercio auto, attività soggetta ad IVA e con funzione di sostituto di imposta, essendo del tutto chiaro che l'omessa presentazione della dichiarazione IVA avrebbe comportato l'omesso versamento dell'IVA incassata dall'acquirente finale.
5. Si tratta di argomentazioni rispetto alle quali le doglianze difensive colgono indubbiamente nel segno.
Ed invero, non può anzitutto condividersi in diritto l'affermazione secondo cui la responsabilità dell'amministratore di diritto discenda dall'aver egli consapevolmente assunto la qualifica di legale rappresentante, come risultante dall'atto di costituzione della società e dalle sue stesse dichiarazioni. Limitando l'indagine alla responsabilità dell'amministratore di fatto nei reati omissivi propri formalmente imputabili al prestanome, come nel caso di specie, deve rilevarsi che il vero soggetto qualificato non è il prestanome, ma colui il quale effettivamente gestisce la società perchè solo lui è in condizione di compiere l'azione dovuta, mentre l'estraneo è il prestanome, a quest'ultimo una corresponsabilità può essere imputata solo in base alla posizione di garanzia di cui all'art. 2392 c.c., in forza della quale l'amministratore deve conservare il patrimonio sociale ed impedire che si verifichino danni per la società e per i terzi. Nelle occasioni in cui questa Corte si è occupata di reati, anche omissivi, commessi in nome e per conto della società, ha individuato nell'amministratore di fatto il soggetto attivo del reato e nel prestanome il concorrente per non avere impedito l'evento che in base alla norma citata aveva il dovere di impedire. Proprio perchè il più delle volte il prestanome non ha alcun potere d'ingerenza nella gestione della società per addebitargli il concorso, questa Corte ha fatto ricorso alla figura del dolo eventuale. Si è sostenuto cioè che il prestanome accettando la carica ha anche accettato i rischi connessi a tale carica (cfr. Cass. 26 gennaio 2006, n. 7208; Cass. 6 aprile 2006, n. 22919, Cass. 26 novembre 1999, Dragomir, Rv 215199). Deve tuttavia discutersi se ed entro quali limiti la mera assunzione della carica può giustificare l'affermazione di responsabilità anche del prestanome, nel senso che al prestanome/amministratore di diritto, il fatto può essere addebitato, a titolo di concorso con l'amministratore di fatto, a norma dell'art. 2392 c.c. e art. 40 cpv. c.p., a condizione che ricorra l'elemento soggettivo proprio del singolo reato (v., per tutte: Sez. 3, n. 38780 del 14/05/2015 - dep. 24/09/2015, Biffi, Rv. 264971). Occorre, dunque, che il giudice di merito individui, al di là della mera assunzione della carica di amministratore di diritto, ulteriori elementi che corroborino, sotto il profilo soggettivo, la sussistenza del dolo specifico normativamente richiesto ai fini della perseguibilità penale della sua condotta.
6. Nè, si osserva, a superare l'impasse, è sufficiente il mero richiamo che l'ignoranza dei doveri ed obblighi incombenti sull'amministratore di diritto, tra cui quello di presentare la dichiarazione IVA annuale, si risolverebbe nell'ignoranza del precetto, di cui alla fattispecie incriminatrice sub a), divenendo irrilevante ai fini dell'affermazione di responsabilità. Se è ben vero, infatti, che la coscienza dell'antigiuridicità o dell'antisocialità della condotta non è una componente del dolo, per la cui sussistenza è necessario soltanto che l'agente abbia la coscienza e volontà di commettere una determinata azione, è altrettanto vero, tuttavia, che, in materia di reati tributari - e, segnatamente, con riferimento al reato di omessa dichiarazione fiscale - per quanto concerne l'elemento soggettivo del reato, valgono i principi generali posti dagli artt. 42 e 43 c.p., per cui - attesa la natura di reato a dolo specifico (Sez. 3, n. 18936 del 19/01/2016 - dep. 06/05/2016, Vece, Rv. 267022) - ai fini della punibilità dell'autore del reato, nella specie l'amministratore di diritto/prestanome, non è sufficiente il dolo generico, e cioè la coscienza e la volontà del comportamento e la previsione dell'evento da parte dell'agente quale conseguenza della sua azione od omissione, ma si richiede invece il dolo specifico di evasione che, in quanto integrato dalla deliberata ed esclusiva intenzione di sottrarsi al pagamento delle imposte nella piena consapevolezza della illiceità del fine e del mezzo, esprime un disvalore ulteriore che, proprio perchè tale, necessità di rigorosa prova, che non può essere affidata alla semplice, quanto irrilevante, affermazione fondata sul precetto della inescusabilità dell'ignoranza della legge penale contenuto nel citato art. 5 c.p..
7. Sotto tale profilo, pertanto, appare frutto di errore di diritto e, nel contempo, di approssimativa argomentazione logica, l'affermazione secondo cui non vi è dubbio che l'omessa presentazione delle dichiarazioni IVA fosse finalizzata al mancato versamento della relativa imposta, affermazione basata sulla considerazione per la quale, essendo l'imputato pienamente consapevole di essere il legale rappresentante di una società commerciale che operava nel settore del commercio auto, attività soggetta ad IVA e con funzione di sostituto di imposta, sarebbe stato del tutto chiaro che l'omessa presentazione della dichiarazione IVA avrebbe comportato l'omesso versamento dell'IVA incassata dall'acquirente finale.
Trattasi, infatti, di affermazione che dà per provato un elemento che invece risulta non adeguatamente riscontrato in atti, atteso che, come già anticipato, la circostanza di essere il legale rappresentante della società, se di regola normalmente esclude che l'imprenditore possa difendersi evocando il disposto dell'art. 5 c.p. (Sez. 3, n. 35694 del 05/04/2011 - dep. 03/10/2011, Pavanati, Rv. 251225), è tuttavia altrettanto indubbio che tale circostanza è ex se insufficiente, in mancanza di ulteriori elementi, a ritenere provato il dolo specifico normativamente richiesto ai fini della perseguibilità penale del fatto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5.
8. L'impugnata sentenza deve, pertanto, essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Brescia, perchè ponga rimedio al deficit motivazionale sul punto, tenendo conto dei principi di diritto supra indicati.
9. A diverso approdo, diversamente, deve pervenirsi quanto all'affermazione di responsabilità relativa al delitto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10.
Ed invero, in relazione a tale delitto, gli elementi individuati dai giudici territoriali, per come ricostruita la vicenda in fatto ed argomentata la relativa responsabilità del reo, sono idonei a confortare il giudizio di responsabilità penale.
Si legge in particolare nella sentenza, quanto alla responsabilità dell'imputato per la condotta di occultamento o distruzione della contabilità, che: a) egli era conoscenza della attività commerciale della società, dato che egli stesso aveva riferito di aver svolto mansioni pur esecutive nell'azienda; b) che era stato l'imputato a comunicare nel giugno 2012 la cessazione dell'attività stessa; c) che era stato l'imputato a constatare direttamente che presso il commercialista B. non vi era alcuna documentazione relativa all'ultimo triennio; d) che l'imputato aveva avuto l'autonoma disponibilità di parte della contabilità relativa all'anno 2010, esibita ai funzionari doganali; d) che l'imputato non poteva essere ritenuto credibile quando aveva affermato di essere stato del tutto estraneo alla contabilità, dato che egli aveva consegnato ai funzionari doganali anche documentazione che non aveva ricevuto dal Biazzi; e) che, dunque, l'imputato era ben consapevole che la gestione di fatto fosse prerogativa del G., soggetto che non aveva formali responsabilità, avendo quindi il C. inteso assumere il rischio di dover rispondere degli illeciti materialmente compiuti dal G.; f) che si era trattato di un'assunzione di responsabilità non solo formale, ma accompagnata anche d auna consapevolezza della parzialità ed insufficienza della documentazione esibita agli uffici doganali.
10. Orbene, alla luce di tali argomenti, le doglianze difensive, articolate su un presunto, duplice, travisamento probatorio (il primo, costituito da presunti contatti avvenuti tra l'imputato e il G., durante i quali l'imputato avrebbe maturato la volontà di condividere l'intento criminoso perseguito dall'amministratore di fatto; il secondo, laddove si presume il possesso della contabilità sulla base dei suddetti contatti tra l'imputato ed il G.), non sono tuttavia idonee ad incidere sull'apparato logico - argomentativo della sentenza impugnata, determinandone il cedimento.
Ed invero, gli elementi valorizzati dalla Corte d'appello (tra cui quello, di assoluto rilievo in chiave di sussistenza dell'elemento soggettivo del reato, rappresentato dal fatto che egli aveva consegnato ai funzionari doganali anche documentazione che non aveva ricevuto dal commercialista B., ciò che comprova pertanto che egli avesse avuto la disponibilità dei documenti contabili della società successivi al ritiro dal commercialista di quelli relativi ad anni di imposta antecedenti a quelli in contestazione), complessivamente considerati, si mostrano univoci nel ritenere sussistente l'elemento soggettivo normativamente richiesto, soprattutto alla luce della pacifica giurisprudenza di questa Corte secondo cui in tema di reati tributari, l'accertamento del dolo specifico richiesto per la sussistenza del delitto di cui al D.Lgs. n. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10 (occultamento o distruzione di documenti contabili al fine di evasione) presuppone la prova della produzione di reddito e del volume di affari, che può desumersi, in base a norme di comune esperienza, dal fatto che l'agente sia titolare di un'attività commerciale (Sez. 3, n. 51836 del 03/10/2018 - dep. 16/11/2018, M, Rv. 274110).
11. Nel caso di specie, peraltro, risulta anche soddisfatta l'ulteriore condizione richiesta dalla giurisprudenza di questa Corte secondo cui, in tema di reati tributari, del delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili, di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10, risponde anche il mero amministratore di diritto, a titolo di concorso con l'amministratore di fatto per omesso impedimento dell'evento ex art. 40 cpv. c.p. e art. 2932 c.c., a condizione, tuttavia, che il prestanome abbia agito col fine specifico di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l'evasione fiscale di terzi (Sez. F, n. 42897 del 09/08/2018 - dep. 28/09/2018, C, Rv. 273939), atteso che proprio la consapevolezza da parte del C. della circostanza che il G. fosse l'amministratore di fatto dell'azienda e che questi avesse, per così dire, operato una "selezione" dei documenti contabili richiestigli dagli ufficiali doganali, guarda caso omettendo di consegnare quelli relativi ai periodi di imposta per i quali non erano state presentate le dichiarazioni fiscali, ben può essere considerato sufficiente a ritenere raggiunta la prova del dolo specifico normativamente richiesto.
Tale motivo di ricorso dev'essere, pertanto, respinto.
12. Manifestamente infondato è poi il motivo relativo al trattamento sanzionatorio. Ed invero, il Collegio ritiene di dover dare continuità ad un principio, già affermato da questa Corte, secondo cui tra la concessione o il diniego delle attenuanti generiche e la misura della pena non sussiste un rapporto di necessaria interdipendenza, atteso che le attenuanti generiche, operando, se concesse, sulla pena già determinata in concreto in base ai soli criteri dell'art. 133 c.p., presuppongono che tale misura, entro i limiti edittali, presenti ancora un margine di sproporzione in relazione agli elementi oggettivi e soggettivi caratterizzanti il caso concreto (in termini: Sez. 1, n. 4791 del 18/01/1980 - dep. 12/04/1980, D'Agostino, Rv. 144960).
Nella specie, poi, i giudici di appello hanno giustificato l'adeguatezza della pena rilevando che, rispetto alla pena base di 1 anno prevista per il reato sub b) in quanto più grave, non sarebbe stato possibile commisurarla in termini inferiori al predetto minimo per il reato satellite, considerato che si tratta di condotta che riguardava la documentazione contabile relativa a due anni, e comunque rilevandosi come la stessa pena base fosse stata fissata in termini ben prossimi al minimo (1 anno e 3 mesi di reclusione), assai lontani dal c.d. medio edittale. Trattasi, dunque, di motivazione del tutto immune dai vizi denunciati, soprattutto perchè rispettosa della giurisprudenza di questa Corte secondo cui in tema di determinazione della pena, nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all'art. 133 c.p. (Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015 - dep. 23/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283).
13. Quanto, infine, alla censura relativa alla quantificazione delle pene accessorie temporanee, la stessa non ha pregio, avendole infatti irrogate la Corte d'appello in misura corrispondente alla pena principale inflitta così dimostrando di aver fatto buon governo del principio secondo cui la durata delle pene accessorie temporanee previste dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 12, conseguenti alla condanna per reati tributari, deve essere dal giudice uniformata, ai sensi dell'art. 37 c.p., a quella della pena principale inflitta (Sez. 3, n. 8041 del 23/01/2018 - dep. 20/02/2018, P.G. in proc. Carlessi e altri, Rv. 272510).
14. L'impugnata sentenza dev'essere pertanto annullata, limitatamente al reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Brescia, per nuovo giudizio.
Il ricorso, invece, deve, nel resto, essere rigettato.
P.Q.M.
La Corte annulla la sentenza impugnata, limitatamente alla configurabilità del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra Sezione della Corte d'appello di Brescia.
Rigetta, nel resto, il ricorso.
Così deciso in Roma, nella sede della Suprema Corte di Cassazione, il 7 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 28 agosto 2019