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Bancarotta semplice: punibile la mancata tempestiva richiesta di dichiarazione di fallimento se dovuta a colpa grave

Bancarotta semplice

Cassazione penale sez. V, 12/03/2018, n.18108

Nel reato di bancarotta semplice, la mancata tempestiva richiesta di dichiarazione di fallimento da parte dell'amministratore (anche di fatto) della società è punibile se dovuta a colpa grave che può essere desunta, non sulla base del mero ritardo nella richiesta di fallimento, ma. in concreto, da una provata e consapevole omissione.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Milano con sentenza del 28/11/2016-12/1/2017, relativamente alla posizione dell'imputato D.A., ha confermato la sentenza del Tribunale di Lodi del 4/12/2014, da lui appellata. D.A., in qualità di amministratore della s.r.l. (OMISSIS) (dichiarata fallita il 18/3/2010 dal Tribunale di Lodi) e in particolare di amministratore unico dal 31/8/2007 al 28/5/2008, di membro del Consiglio di amministrazione dal 28/5/2008 al 18/11/2009, di liquidatore dal 18/11/2009 e di amministratore di fatto dalla costituzione della società sino al fallimento, era stato ritenuto responsabile dei reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale ex L. Fall., art. 110, art. 216, comma 1, n. 1 e art. 223, con riferimento alla vendita a prezzo vile di beni e attrezzature della società e alla distrazione del corrispettivo versato quale canone di locazione della villa di (OMISSIS) in uso esclusivo alla famiglia D. (capo A), nonchè di bancarotta semplice ex L. Fall., art. 217, comma 1, n. 4, per aver aggravato il dissesto della società, astenendosi dal richiedere la dichiarazione di fallimento (capo B), con recidiva reiterata specifica ex art. 9 c.p., commi 1 e 4. 2. Ha proposto ricorso l'avv. Andrea Bianchi, difensore di fiducia dell'imputato, svolgendo quattro motivi. 2.1. Con il primo motivo proposto ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il ricorrente lamenta mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in punto insussistenza del reato di bancarotta semplice di cui alla lettera B) della rubrica per carenza di prova dell'elemento psicologico della colpa grave. Il ricorrente sostiene che la gravità della colpa era necessaria anche nell'ipotesi di cui alla L. Fall., art. 217, comma 1, n. 4, che attiene alla mancata richiesta di dichiarazione di fallimento, e lamenta la carenza di motivazione sul punto, che non poteva essere presunta nei fatti oggetto di imputazione, e l'omessa valutazione di tutti gli elementi forniti dalla difesa, ben compendiati cronologicamente, per descrivere gli sforzi attuati dall'imputato per tenere in vita la società e ripianarne i debiti. La Corte territoriale aveva attribuito rilievo a indici oggettivi di insolvenza della società, senza valutare la percepibilità esteriore della loro insorgenza, rilevante invece dal punto di vista soggettivo, ai fini del necessario requisito psicologico della colpa grave dell'agente. 2.2. Con il secondo motivo proposto ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il ricorrente lamenta mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in punto insussistenza del reato di bancarotta distrattiva relativa al canone di locazione della villa di (OMISSIS), di cui alla lett. A), della rubrica, per inidoneità delle condotte a porre in pericolo il bene protetto dalla norma incriminatrice. L'addebitata distrazione era irrilevante ai fini della formazione del dissesto che aveva portato al fallimento; il contratto era stato stipulato nel momento di massima espansione produttiva della società; la Corte territoriale aveva ritenuto irrilevante la consapevolezza che il fatto distrattivo potesse, all'epoca della sua realizzazione, arrecare danno ceto creditorio al momento del fallimento, assumendo apoditticamente l'irrilevanza della scarsa incidenza della supposta distrazione sulla formazione del dissesto. La dazione in benefit dell'unità locata era stata compensata con equivalente trattenimento in busta. La sentenza impugnata assumeva il difetto di prova del riconoscimento della disponibilità dell'abitazione a titolo di benefit, basandosi solo irregolarità tributarie e fiscali; il fatto che il benefit non fosse stato tassato e non fosse stato espressamente approvato dall'assemblea non equivaleva a negare radicalmente la sua esistenza. 2.3. Con il terzo motivo proposto ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il ricorrente lamenta mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in punto insussistenza del reato di bancarotta fraudolenta distrattiva di cui alla lettera A) della rubrica, relativamente all'addebito di vendita a prezzo vile di beni della società fallita. La Corte territoriale aveva riproposto, senza alcuna adeguata motivazione delle fonti del proprio convincimento, l'assunto, costituente petizione di principio, privo di concreti riferimenti a perizie, prezzi e listini, che nel periodo trascorso fra le due transazioni di acquisto e di rivendita dei beni non era possibile che gli stessi si fossero svalutati del cinquanta per cento del loro valore (da Euro 67.000 a e 25.000) senza che le registrazioni contabili dessero conto della svalutazione, così ravvisando un deprezzamento innaturale non legato ad obsolescenza. 2.4. Con il quarto motivo proposto ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), il ricorrente lamenta mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in punto congruità della pena, e violazione di legge per inosservanza o errata applicazione dell'art. 133 c.p.. La Corte di appello, a tal proposito, aveva indicato quali indici di gravità del reato l'entità dei fatti distrattivi, la misura complessiva del passivo e il ruolo primario assunto dell'imputato nella gestione della società fallita. Il primo indice era illogico e contraddittorio, stante la modesta entità dei fatti distrattivi addebitati. Il secondo indice era del tutto estraneo al giudizio di colpevolezza dell'imputato, riguardando un fatto storico totalmente estraneo alla struttura del reato imputato. Era mancata poi la considerazione del comportamento processuale dell'imputato che aveva riconosciuto il proprio ruolo direttivo della società. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in punto insussistenza del reato di bancarotta semplice di cui alla lettera B) della rubrica per carenza di prova dell'elemento psicologico della colpa grave. La Corte territoriale avrebbe attribuito rilievo a indici oggettivi di insolvenza della società, senza valutare la percepibilità esteriore della loro insorgenza, rilevante invece dal punto di vista soggettivo, ai fini del necessario requisito psicologico della colpa grave dell'agente. 1.1. Il ricorrente sostiene, in punto di diritto, che la gravità della colpa era necessaria anche nell'ipotesi di cui alla L. Fall., art. 217, comma 1, n. 4. Secondo tale norma è punito con la reclusione da sei mesi a due anni, se è dichiarato fallito, l'imprenditore, che, fuori dai casi preveduti nella L. Fall., art. 216, ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa. La tesi sostenuta dal ricorrente è perfettamente in linea con la giurisprudenza di questa Corte, che in effetti afferma che l'omissione della tempestiva richiesta di dichiarazione del proprio fallimento, causa di aggravamento del dissesto, deve essere sorretta dal coefficiente psicologico della colpa grave, che non è presunta ex lege (Sez. 5, n. 38077 del 15/07/2015, Preatoni, Rv. 264743; Sez. 5, n. 43414 del 25/09/2013, Pg in proc. Zille e altri, Rv. 257533). 1.2. La fattispecie incriminatrice contestata è descritta dalla L. Fall., art. 217, comma 1, n. 4, nella condotta dell'imprenditore che "ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa". Il delitto di bancarotta semplice da mancata tempestiva richiesta di fallimento mira ad evitare che l'esercizio continuato dell'impresa, anche a fronte di una situazione di obiettiva impossibilità di far fronte alle proprie obbligazioni, possa prolungare lo stato di perdita. Si è discusso se il requisito della colpa grave si riferisca solo alla altre condotte identificate oggettivamente dalla loro causalità orientata all'aggravamento del dissesto, ovvero se esso connoti in realtà l'intero complesso dei fatti riconducibili alla previsione incriminatrice in esame, investendo pertanto anche la condotta di omessa o ritardata richiesta di fallimento. La questione è evidentemente innescata dalla presenza nella norma dell'attributo "altra", che qualifica il grado della colpa (grave) immediatamente dopo la descrizione della condotta appena indicata. Ciò può astrattamente significare, come si è sostenuto, che il legislatore abbia considerato come intrinsecamente ed inderogabilmente grave la colpa di chi ometta di richiedere tempestivamente il proprio fallimento, ponendo tale comportamento quale parametro del livello di colpa da ricercarsi invece di volta in volta nelle diverse condotte contestate alla stregua della stessa incriminazione; ma può significare altresì, come pure è stato prospettato, che, in quanto coefficiente psicologico comune a tutte le condotte riconducibili alla norma in esame, la colpa grave debba essere accertata anche nell'ipotesi della ritardata istanza di fallimento. Il punto in discussione non è quindi, a ben guardare, se la colpa grave sia elemento psicologico che caratterizza l'intera fattispecie incriminatrice; conclusione sulla quale le opinioni riportate finiscono per concordare; il quesito è se la gravità della colpa debba o meno ritenersi presunta laddove il fallimento non sia tempestivamente richiesto dall'imprenditore in stato di insolvenza. Orbene, la soluzione affermativa di una siffatta presunzione pare, per un verso, priva di ragionevolezza, e per altro non è l'unica autorizzata dal testo normativo. Per il primo aspetto, non è difficile comprendere come il ritardo nell'adozione della, senza dubbio grave, decisione dell'imprenditore di richiedere il proprio fallimento possa essere ricollegato a una vasta gamma di dinamiche gestionali, che svaria dall'estremo dell'assoluta noncuranza per gli effetti del possibile aggravamento del dissesto a quello dell'opinabile valutazione sull'efficacia di mezzi ritenuti idonei a procurare nuove risorse. L'eterogeneità di queste situazioni rende improponibile una loro automatica sussunzione nella più intensa dimensione della colpa. Il dato oggettivo del ritardo nella dichiarazione di fallimento, in altre parole, è ancora troppo generico perchè dallo stesso possa farsi derivare una presunzione assoluta di colpa grave, dipendendo tale carattere dalle scelte che lo hanno determinato. Per il secondo profilo, il fatto che la norma qualifichi nel segno della "altra grave colpa" le condotte diverse da quella di ritardato fallimento non implica necessariamente che quest'ultima sia intesa da legislatore come manifestazione tipica di colpa grave. E' infatti possibile una lettura che sottintende tale condotta come punibile in quanto in concreto connotata da colpa grave, al pari di altri comportamenti non tipizzati altrimenti che per la loro efficienza causale rispetto all'aggravamento del dissesto; sicchè, in altri termini, la tardiva richiesta di fallimento assume la consistenza di un'omissione penalmente rilevante ove oggetto di una scelta caratterizzata da colpa di livello grave. Questa opzione interpretativa, non incorrendo nei difetti di ragionevolezza rilevabili nella tesi per la quale la gravità della colpa sarebbe assolutamente presunta nell'ipotesi in esame, deve pertanto essere privilegiata laddove, per quanto appena detto, non incompatibile con il dato letterale. Nè la stessa contrasta con l'orientamento, anche recentemente ribadito da questa Corte, per il quale la norma incriminatrice non richiede comportamenti ulteriori che concorrano con la mancata richiesta di fallimento ed il conseguente aggravamento del dissesto, anche solo per effetto del mero proseguimento dell'attività di impresa (Sez. 5, n. 13318 del 14/02/2013, Viale, Rv. 254986). Oggetto di punizione è l'aggravamento del dissesto dipendente dal semplice ritardo nell'instaurare la concorsualità, non essendo richiesti ulteriori comportamenti concorrenti (Sez. 5, n. 28609 del 21/04/2017, Andriollo, Rv. 270874). Non si vuol sostenere infatti che ulteriori comportamenti siano necessari, ma si assume semplicemente che la scelta di ritardare la dichiarazione di fallimento in proprio deve essere, in sè stessa, determinata da un atteggiamento gravemente colposo. 1.3. Tuttavia nel caso di specie, la Corte territoriale, lungi dal far discendere la sussistenza di colpa grave a carico dell'imputato dalla mera circostanza del ritardato deposito della domanda di fallimento, ha dato compiuta prova degli elementi da cui desumere la piena conoscenza da parte dell'imputato dello stato di decozione in cui versava l'impresa; elementi da cui si evince come Antonino D. ha potuto adeguatamente rappresentarsi preventivamente che la sua scelta di ritardare la presentazione dell'istanza di dichiarazione di fallimento ben poteva determinare un aggravamento del dissesto. Il principio sopra ricordato è stato rispettato e la Corte ha puntualmente motivato, alle pagine 10-11 della sentenza impugnata, in ordine alla gravità della colpa che aveva sorretto psicologicamente l'azione dei D.A.. 1.4. La Corte milanese ha dapprima ricordato le dichiarazioni del curatore fallimentare, che evidenziavano la sussistenza di un andamento negativo della società sin dal 2005 e la difficoltà a fronteggiare le sue obbligazioni da diverso tempo prima del 2008, la cronica situazione debitoria nei confronti dell'Erario e degli Enti previdenziali e il progressivo aumento dei debiti insoluti nei confronti dei fornitori, già a partire dal 2006. Quindi, i Giudici milanesi hanno conferito rilievo allo specifico ruolo preminente nella società rivestito dall'imputato, alla ristrettezza della compagine societaria, alla consistenza dell'esposizione debitoria, sempre crescente, e soprattutto agli avvertimenti inequivocabili da lui ricevuti dal commercialista rag. S., già nel 2007, che aveva segnalato la situazione "fuori controllo "della società, ricevendo in cambio l'invito a occuparsi solo delle sue competenze, salvo poi procedere al cambio del professionista "scomodo". Sono stati quindi ritenuti del tutto irrilevanti i ritardi di (OMISSIS) e del rag. M. nel segnalare il dissesto solo nel 2009, sia perchè l'imprenditore non può scaricare sui propri consulenti le personali responsabilità gestorie, sia, anche e soprattutto, perchè l'imputato era già stato puntualmente avvisato e consigliato e, con atteggiamento giudicato gravemente colpevole, aveva scelto di allontanare l'improvvida " C.". La ratio decidendi non è attinta dal motivo, che difetta quindi di pertinenza e specificità e si rivela pertanto inammissibile. 2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in punto insussistenza del reato di bancarotta distrattiva relativa al canone di locazione della villa di (OMISSIS), di cui alla lettera A), della rubrica per inidoneità delle condotte a porre in pericolo il bene protetto dalla norma incriminatrice. 2.1. Secondo il ricorrente la distrazione in questione era irrilevante ai fini della formazione del dissesto che aveva portato al fallimento; il contratto di locazione, infatti, era stato stipulato nel momento di massima espansione produttiva della società; la Corte territoriale aveva ritenuto irrilevante la consapevolezza che il fatto distrattivo potesse nel momento di realizzazione arrecare danno al ceto creditorio al momento del fallimento, assumendo apoditticamente l'irrilevanza della scarsa incidenza della supposta distrazione sulla formazione del dissesto. L'affermazione della Corte territoriale ("E' infatti irrilevante la consapevolezza che il fatto distrattivo possa, nel momento in cui viene posto in essere, arrecare danno al ceto creditorio al momento del fallimento") si presta a essere equivocata, quasi a implicare una rilevanza meramente oggettiva del fatto distrattivo. E tuttavia il ricorrente con le sue argomentazioni, peraltro sommamente generiche, sembra voler evocare i principi di diritto affermati nella sentenza di questa Sezione, n. 47102 del 2012 - c.d. "Corvetta", che, esprimendo una tesi rimasta del tutto isolata nel panorama giurisprudenziale di legittimità, che, partendo dalla corretta qualificazione della dichiarazione di fallimento quale elemento essenziale del reato, pervenne ad affermare che la stessa debba porsi in rapporto causale con la condotta dell'agente ed essere, altresì, sorretta dall'elemento soggettivo del dolo. Tali conclusioni non possono essere accolte. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, in tema di elemento soggettivo del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale è sufficiente la consapevole volontà di imprimere al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (ex plurimis: Sez. 5, n. 33268 del 08/04/2015, Bellocchi, Rv. 26435401; Sez. 5, n. 51715 del 05/11/2014, Rebuffo, Rv. 26173901; Sez. 5, n. 35093 del 04/06/2014, P.G. in proc. Sistro, Rv. 26144601; Sez. 5, n. 40981 del 15/05/2014, Giumelli, Rv. 26136701). Infatti con il reato di bancarotta fraudolenta, propria e impropria, la legge punisce "l'imprenditore che ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato" e non già l'imprenditore che ha cagionato il fallimento; si intende infatti reprimere la condotta distrattiva per la sua pericolosità per la tutela del bene giuridico protetto, anche prima dell'intervento del giudice che emette la sentenza di fallimento, a tutela degli interessi della massa dei creditori pregiudicati dall'ingiustificato depauperamento della funzione di garanzia del patrimonio dell'imprenditore o della società. Pertanto la condotta peculiare e connotativa del reato, di mera condotta e di pericolo, di bancarotta fraudolenta patrimoniale è costituita da quei comportamenti descritti nella norma, idonei a porre in pericolo gli interessi dei creditori. In definitiva, quindi, l'elemento soggettivo del reato va colto nella consapevole volontà di imprimere al patrimonio sociale una destinazione diversa rispetto alle finalità dell'impresa e di compiere atti suscettibili di arrecare danno ai creditori. Di qui la definizione del dolo generico del reato in termini di consapevolezza e volontà di determinare, con il proprio comportamento distrattivo o dissipativo, un "pericolo di danno per i creditori" non essendo sufficiente la sola consapevolezza e volontà del fatto distrattivo. Non è quindi necessario che il fuoco della volontà investa anche lo stato di insolvenza e il dissesto economico dell'impresa, essendo sufficiente la consapevolezza che la condotta distrattiva mette a rischio la garanzia patrimoniale apprestata a favore dei creditori (Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli e altro, Rv. 266805). Questa Sezione, in un più recente arresto, ha proposto una diversa costruzione della qualificazione giuridica della sentenza dichiarativa di fallimento, in tema di bancarotta fraudolenta prefallimentare, considerata come evento estraneo all'offesa tipica e alla sfera di volizione dell'agente, e pertanto costituente una condizione obiettiva di punibilità, che circoscrive l'area di illiceità penale alle sole ipotesi nelle quali, alle condotte del debitore, di per sè offensive degli interessi dei creditori, segua la dichiarazione di fallimento, di per sè sottratta delle condizioni obiettive di punibilità alla regola della rimproverabilità ex art. 27 Cost., comma 1, (Sez. 5, n. 13910 del 08/02/2017, Santoro, Rv. 269388). In altre recenti e successive pronunce il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale prefallimentare è stato piuttosto bconfigurato come un reato di pericolo concreto, in cui l'atto di depauperamento deve risultare idoneo ad esporre a pericolo l'entità del patrimonio della società in relazione alla massa dei creditori e deve permanere tale fino all'epoca che precede l'apertura della procedura fallimentare (Sez. 5, n. 17819 del 24/03/2017, Palitta, Rv. 269562; Sez. 5, n. 50081 del 14/09/2017, Zazzini, Rv. 271437). E tuttavia, secondo entrambe le più recenti ricostruzioni, resta comunque escluso che ai fini dell'elemento psicologico del reato la volontà dell'agente debba investire lo stato di insolvenza e il dissesto economico dell'impresa ed è sufficiente la consapevolezza che la condotta distrattiva mette a rischio la garanzia patrimoniale apprestata a favore dei creditori. Nella fattispecie, le somme relative ai canoni di locazione sono state sottratte dal patrimonio della società e dalla loro funzione di garanzia dei creditori e devolute alla soddisfazione di interessi personali dei soci, del tutto estranee all'attività di impresa, con l'evidente esposizione a pericolo concreto degli interessi del ceto creditorio. 2.2. Il ricorrente assume che la dazione in benefit dell'unità locata era stata compensata con equivalente trattenimento in busta paga, con affermazione autoreferenziale e apodittica, priva del benchè minimo riferimento a precise evidenze probatorie in ipotesi trascurate dal Giudice del merito. Tra l'altro, quest'affermazione si pone in contrasto insanabile con la rivendicata natura di benefit aziendale dell'attribuzione, che presuppone evidentemente la concessione di un beneficio gratuito accessorio in natura, collaterale alla remunerazione pecuniaria e che tuttavia rinviene la sua causa giuridica nel rapporto intercorrente con la società. 2.3. Il ricorrente aggiunge che la sentenza impugnata assumeva il difetto di prova del riconoscimento della disponibilità dell'abitazione a titolo di benefit, basandosi solo sulle irregolarità tributarie e fiscali e obietta che il fatto che il benefit non fosse stato tassato e non fosse stato espressamente approvato dall'assemblea non equivaleva a negare radicalmente la sua esistenza. La censura non coglie il segno: la Corte territoriale ha ritenuto che non vi fosse alcuna prova della concessione del beneficio, dando rilievo anche al fatto che mancava qualsiasi deliberazione assembleare in proposito, ex art. 2389 c.c., e per soprammercato che non risultava neppure l'appropriato trattamento fiscale del beneficio in natura, come previsto dalla legge tributaria. Non è stata quindi affermata la valenza distrattiva di un benefit irregolare, ma è stata invece rilevata la mancata prova dell'esistenza di un benefit a supporto della distrazione pecuniaria del corrispettivo del canone locativo de quo. 3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in punto insussistenza del reato di bancarotta fraudolenta distrattiva di cui alla lettera A) della rubrica relativamente all'addebito di vendita a prezzo vile di beni della società fallita. Secondo il ricorrente, la Corte territoriale aveva riproposto, senza alcuna adeguata motivazione delle fonti del proprio convincimento, un assunto, costituente petizione di principio, privo di concreti riferimenti a perizie, prezzi e listini; ossia che nel periodo trascorso fra le due transazioni di acquisto e di rivendita dei beni non era possibile che gli stessi si fossero svalutati del cinquanta per cento del loro valore (da Euro 67.000 a Euro 25.000) senza che le registrazioni contabili dessero conto della svalutazione, così ravvisando un deprezzamento innaturale non legato ad obsolescenza. La Corte milanese ha dato rilievo nella propria valutazione ai rapporti fra le due società (perchè la cedente e retro-cessionaria Mediterranea s.r.l. faceva capo alla moglie dell'imputato, al figlio A. e all'altro figlio F., socio maggioritario ed era comunque amministrata dallo stesso D.A.); ha sottolineato l'assenza di una valida ragione economica giustificatrice dell'operazione, perchè la Mediterranea s.r.l. era una società immobiliare, inattiva e priva di dipendenti, carente di interesse alla retrocessione delle attrezzature; non ha solamente evidenziato la mancanza di giustificazione della pesante svalutazione del corrispettivo della transazione, ma ha posto altresì in risalto l'assenza di registrazioni contabili che dessero conto della consistente svalutazione dei beni. A fronte di tale valutazione, ampiamente motivata (pag.16 della sentenza impugnata), il ricorrente si limita a una contrapposizione di principio, senza rappresentare vizi della motivazione in termini di contraddittorietà o manifesta illogicità o travisamento di una specifica evidenza probatoria. 4. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in punto congruità della pena, e violazione di legge per inosservanza o errata applicazione dell'art. 133 c.p.. La Corte di appello a tal proposito aveva indicato quali indici di gravità del fatto l'entità dei fatti distrattivi, la misura complessiva del passivo e il ruolo primario assunto dell'imputato nella gestione della società fallita. Il primo indice sarebbe illogico e contraddittorio, stante la modesta entità dei fatti distrattivi addebitati; il secondo indice sarebbe del tutto estraneo al giudizio di colpevolezza dell'imputato, poichè riguardava un fatto storico totalmente estraneo alla struttura del reato imputato. Era mancata poi la considerazione del comportamento processuale dell'imputato che aveva riconosciuto il proprio ruolo direttivo della società. Le censure non colgono il segno. La Corte territoriale ha ampiamente motivato l'esercizio del proprio potere discrezionale, peraltro dispiegato al solo fine di giustificare il modesto superamento della soglia minima edittale (da tre anni a tre anni e sei mesi), in un contesto in cui le ricorrenti aggravanti della recidiva reiterata specifica e della pluralità dei fatti di bancarotta erano state bilanciate con le attenuanti generiche, così tenendosi positivamente conto anche del comportamento processuale leale dell'imputato. Tale motivo è inammissibile, in quanto mira ad ottenere dalla Corte di Cassazione una nuova valutazione sulla congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione. La graduazione della pena, infatti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, ai sensi degli artt. 132 e 133 c.p. (ex multis Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, Ferrario, Rv. 259142). Inoltre, sempre secondo giurisprudenza consolidata in tema di determinazione della pena, nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, come nel caso di specie, anche a non tener conto della diminuente per il rito, non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all'art. 133 c.p. (Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283). 5. Il ricorso va quindi dichiarato inammissibile; ne consegue la condanna del ricorrente ai sensi dell'art. 616 c.p.p. al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di Euro 2.000,00= in favore della Cassa delle ammende, così equitativamente determinata in relazione ai motivi di ricorso che inducono a ritenere il ricorrente in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. 13/6/2000 n.186). P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 2.000,00 a favore della Cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il 12 marzo 2018. Depositato in Cancelleria il 24 aprile 2018
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