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Corruzione per l'esercizio della funzione: l'asservimento all'interesse privato non deve necessariamente essersi protratto nel tempo

Corruzione

Cassazione penale sez. VI, 09/11/2021, n.15138

La corruzione per l'esercizio della funzione ha natura di reato di pericolo che sanziona la presa in carico, da parte del pubblico funzionario, di un interesse privato dietro una dazione o promessa indebita, senza che sia necessaria l'individuazione del compimento di uno specifico atto d' ufficio e non richiedendosi necessariamente che l'asservimento dell'agente all'interesse privato si sia protratto nel tempo.

Corruzione sistematica: messa a libro paga del funzionario pubblico come corruzione impropria

Corruzione: lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi integra il reato di cui all'art. 318 c.p.

Corruzione propria: non è determinante che il fatto contrario ai doveri d'ufficio sia ricompreso nell'ambito delle specifiche mansioni del pubblico ufficiale

Corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio: condannato rappresentante farmaceutico che aveva corrisposto denaro ad un primario ospedaliero

Corruzione propria: sulla configurabilità del reato nei confronti di un parlamentare

Corruzione: non rileva il solo fatto che l'attività del pubblico ufficiale presenti margini più o meno ampi di discrezionalità

Corruzione in atti giudiziari: configurazione se il denaro è stato ricevuto per atto già compiuto

Corruzione: il compimento dell'atto da parte del pubblico ufficiale non fa parte della struttura del reato e non assume rilievo per la determinazione del momento consumativo

Corruzione propria: non occorre individuare esattamente l'atto contrario ai doveri d'ufficio

Corruzione: sulla applicabilità della confisca obbligatoria di cui all'art. 2641 c.c.

Corruzione propria: quando rileva lo stabile asservimento del pubblico ufficiale

Corruzione impropria: il nuovo art. 318 c.p. copre l'area della vendita della funzione in quelle situazioni in cui non sia noto il finalismo del suo mercimonio

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1.La Corte di appello di Roma ha rideterminato in anni due di reclusione la pena inflitta a M.R. e ne ha confermato il giudizio di colpevolezza per il delitto di cui all'art. 318 c.p., commesso in Roma il 26 giugno 2013. Secondo la contestazione, l'imputato, in qualità di pubblico ufficiale derivatagli dagli incarichi di Direttore della Direzione Regionale Organizzazione, Personale, Demanio e Patrimonio della Regione Lazio (dal 28 giugno 2011 al 9 aprile 2013); Direttore del Dipartimento partecipazioni e controllo Gruppo Roma Capitale (dal 9 maggio 2013 al 31 ottobre 2013); Direttore dell'Ufficio di scopo del Comune di Roma denominato definizione del modello e degli strumenti di cooperazione con le associazioni dei consumatori (nel periodo 11 novembre 2013/11 febbraio 2014), aveva ricevuto indebitamente, per l'esercizio dei poteri e delle funzioni inerenti agli incarichi indicati, utilità economiche dall'immobiliarista S.S. consistite nella messa a disposizione della somma di denaro pari a 367.850,72 impiegata per l'acquisto di un immobile in Roma (sito in (OMISSIS) e intestato alla moglie del M., P.C.) a mezzo della consegna di assegni circolari che risultavano emessi dalla Cassa Lombarda su richiesta dello S. e tratti sul conto corrente di questi. La sentenza impugnata ha, altresì, confermato la confisca - qualificata come confisca diretta quale profitto del reato - dell'immobile di (OMISSIS) e del relativo garage e la condanna al risarcimento dei danni nei confronti dell'associazione "ASIA USB", l'associazione sindacale senza scopo di lucro che raggruppa le strutture sindacali degli inquilini con la finalità di tutelarne i diritti, sull'assunto che l'immobile oggetto di compravendita dovesse essere destinato, invece, ad housing sociale, danno liquidato nell'importo di Euro 30.000,00 e nei confronti delle associazioni "(OMISSIS)", "(OMISSIS)" e "(OMISSIS)", associazioni che hanno agito a tutela del danno cagionato alla credibilità delle istituzioni, compromesso dalla condotta dell'imputato, danno liquidato, rispettivamente, nell'importo di Euro 100.000,00, Euro 30.000,00 e Euro 38.900,00. 2. Con i motivi di ricorso, di seguito sintetizzati ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p. nei limiti strettamente indispensabili ai fini della motivazione il ricorrente denuncia: 2.1 violazione di legge (artt. 125,266,270,271,526 e 546 c.p.p.) per la utilizzazione di intercettazioni telefoniche - anche se non espressamente indicate in sentenza, le intercettazioni oggetto dei R.I.T. 2552 progressivi nn. 15635 e 15830 - captati nell'ambito di diverso procedimento (R.G.N. R. 57837/2014) iscritto a carico di tale V.M. per il reato di tentata estorsione in danno di S.S.. Si tratta di procedimento diverso e non sussiste legame forte o sostanziale tra il reato oggetto di indagine nel procedimento in cui le captazioni sono state acquisite e i fatti oggetto del presente procedimento, connessione richiesta dalla nota sentenza Cavallo. Su questi aspetti, chiariti dalla deposizione del maggiore Z.A. nel corso della deposizione resa in primo grado, la Corte di appello, benché investita della questione con memoria prodotta all'udienza del 26 aprile 2021, non si è pronunciata. Il vizio non era oggetto della deduzione con i motivi di appello depositati prima della decisione delle Sezioni Unite e, pertanto, anche se integranti motivo nuovo, la Corte di merito era tenuta a pronunciarsi perché non si trattava di motivi inammissibili perché tardivi; 2.2 violazione di legge (artt. 125,468,495,546 e 603 c.p.p., in relazione all'art. 606 c.p.p., lett. c), d) ed e) per avere la sentenza impugnata ritenuto irrilevante la deposizione di P.C., moglie di M.R. e confermato l'ordinanza con la quale il Tribunale di Roma ne aveva revocato l'ammissione come teste. La difesa dell'imputato aveva insistito, già in primo grado, sulla necessità di sentire la teste sia sui rapporti che legavano la famiglia M. alla famiglia S., che sulla genesi del prestito per l'acquisto dell'abitazione di (OMISSIS) e sull'"assoluta signoria della stessa sull'immobile". La motivazione della Corte è illogica poiché la liceità/illiceità del rapporto M. - S. - riconducibile giustappunto ad un prestito e non ad un regalo - non poteva che dipendere anche dalle dichiarazioni della teste, quale reale beneficiaria del prestito e che, dopo l'acquisto, aveva messo in vendita l'immobile. Si tratta di circostanze che "scardinano" il nucleo essenziale della motivazione della sentenza impugnata e della condanna che, invece afferma essere ininfluente la dichiarazione della P.; 2.3 violazione dell'art. 6 CEDU, art. 111 Cost., artt. 468,495,546 e 603 c.p.p., in relazione all'art. 606 c.p.p., lett. c), d) ed e) per avere la sentenza impugnata, in violazione di legge e vizio di motivazione ritenuto esente da censura la motivazione dell'ordinanza del 9 luglio 2018 con la quale il Tribunale di Roma aveva revocato la escussione dei testi V.G. e Ma.Sa., indotti quale prova contraria rispetto alle dichiarazioni del teste Sa.Pa., escusso ai sensi dell'art. 507 c.p.p.. La Corte ha ritenuto che le circostanze sulle quali i testi avrebbero dovuto essere escussi compiutamente riportate nella sentenza impugnata- erano sovrapponibili a quelle della teste C., segretaria del M., ma le conclusioni della Corte denotano un evidente "travisamento" sull'oggetto delle deposizioni dei testi, con conseguente erroneo inquadramento della questione processuale e violazione del diritto di difesa. Infatti mentre la teste C. era stata escussa in merito alle richieste del Sa. di un incontro con il M. per un interpello che aveva avuto luogo nel 2016, richieste poi rigettate dal M., i due testi avrebbero dovuto essere escussi, il Ma. sulle competenze del Sa., che esulavano da quella di poter assumere determinazioni in merito a canoni di locazione, il V. sulla insussistenza di un interesse del M. di avvalersi del Sa. come componente del suo staff. In sintesi, le deposizioni del V. e del Ma. erano rilevanti per fare emergere le contraddizioni della deposizione del Sa. su diversi temi (le sue competenze; i suoi rapporti con M.). La Corte avrebbe dovuto adottare una valutazione "rafforzata" sulla superfluità di tali testi vieppiù dopo che era stata espunta dalle deposizioni "favorevoli" al M. quella della C., ritenuta inattendibile in quanto stretta collaboratrice e amica dell'imputato; 2.4 violazione dell'art. 111 Cost., artt. 468,495,546 e 603 c.p.p., in relazione all'art. 606 c.p.p., lett. c), d) ed e) per avere la sentenza impugnata, in violazione di legge e vizio di motivazione, affermato la responsabilità dell'imputato ritenendo sussistente l'elemento materiale del delitto di corruzione per l'esercizio della funzione. Con riguardo al primo degli indicatori (l'operazione di acquisto/permuta di via (OMISSIS)/via (OMISSIS)) la Corte di appello ha correttamente impostato il tema della valutazione degli indizi (che, ex se devono essere gravi, precisi...e concordanti) ed ha riconosciuto la estraneità alla vicenda dell'acquisto dell'immobile di via (OMISSIS) dal perimetro dell'imputazione. Cionondimeno ha valorizzato (pagg. 12) la vicenda del tutto legittima dell'operazione indicandola come "di per se emblematica dell'esistenza di un rapporto nel quale un soggetto, lo S. "eroga" e il M. "percepisce", cioè una situazione vantaggiosa per il percipiente che sarà replicata nella vicenda dell'immobile di (OMISSIS)" e, quindi, pur affermando la irrilevanza di tali rapporti li ha valorizzati quale prova dell'accordo criminoso M.- S.. La valutazione compiuta dalla Corte di merito è incorsa nel vizio di omessa motivazione non avendo esaminato i motivi di appello sulla liceità dell'operazione poiché M. aveva corrisposto alla società venditrice il prezzo corrispondente al valore di mercato, come comprovato dalla precisa ricostruzione degli aspetti economici dell'operazione. Ulteriori vizi di illogicità concernono la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui esclude che la ragione della dazione degli assegni dallo S. possa essere rivenuta nella "generosità dello S." perché non risulta impegnato in altre attività filantropiche: la conclusione della Corte di merito è inficiata dal mancato esame del contenuto delle testimonianze rese da persone che avevano ricevuto consistenti aiuti economici dello S., quali Daniele Di Prospero, che aveva ricevuto dallo S. 400.000 Euro per far fronte a proprie difficoltà economiche; Ma.Al., che aveva servito lo S. al ristorante per alcuni anni e per il quale questi aveva acquistato ad un'asta la casa di abitazione consentendogli di abitarvi senza pagare il fitto; S.C. sull'aiuto ricevuto in occasione di problemi di salute del marito; L.G., su aiuti corrisposti a vedove e, in particolare, alla vedova del B., già suo dipendente; e dal figlio dello S., A., che ha indicato gli aiuti del padre prestati in favore di varie persone. Inoltre la Corte di merito ha escluso la esistenza di rapporti di amicizia o parentela tra il M. e lo S. obliterando sia il dato della generosità dello S. che il rapporto di amicizia, ancorché non profonda, tra i due. Anche a questo riguardo la Corte ha omesso dichiarazioni dalle quali risultavano i rapporti di frequentazione (partecipazioni comuni a board aziendali di S.A. e dell'imputato; la "raccomandazione" di A. al padre in occasione dell'acquisto dell'immobile di via (OMISSIS); la partecipazione di S. e S.A. al matrimonio del M.). La Corte è incorsa in un errore prospettico perché se avesse valorizzato tali rapporti non avrebbe potuto ignorare l'esistenza di una valida ipotesi alternativa a quella dell'accordo corruttivo. La sentenza impugnata aderisce alla ricostruzione accusatoria valorizzando il dictum di S. nel corso dell'interrogatorio di garanzia (questi soldi li davo perché mi piaceva avere un amico. Se gli dicevi no, non ti do una lira, questo era nemico per me. lo ho un sacco di roba, se vogliono ti fanno male. Un sacco di roba progetti al Comune) ma da questi ritrattata (stavo sotto pressione) e che, comunque, corrisponde ad un suo foro interiore, ad una sua aspettativa e che nulla dice sull'accordo. La Corte ha, infine, trascurato ulteriori elementi quali l'avvenuta restituzione del prestito; le deposizioni del teste Pa. e Ma. sulla immediata messa in vendita dell'immobile di (OMISSIS) e la loro conoscenza che era stato acquistato con un prestito; la richiesta del prestito a Barclays, istruita ma poi rigettata per il venire meno delle condizioni di garanzia avendo l'imputato subito una diminuzione di stipendio; l'offerta in garanzia dell'immobile di via (OMISSIS), rifiutata dallo S.; la regolarità dell'operazione di acquisto dell'immobile dal sindacato (OMISSIS); l'assenza dal giugno 2013 al dicembre 2016 di qualsiasi atto, ingerenza o raccomandazione del M. a favore dello S.. L'operazione interpretativa della Corte di merito ha finito con lo svilire, dietro il richiamo alla natura del delitto di cui all'art. 318 c.p. quale reato di pericolo che non presuppone la individuazione di uno o più atti contrari ai doveri di ufficio, la rilevanza degli elementi strutturali del reato, che non coprono la intrinseca inidoneità degli elementi acquisiti, e del loro contrario, a dimostrare la esistenza dell'accordo. Parimenti erronea la valutazione della Corte sul tema delle cariche ricoperte dal M. e gli interessi economici dello S.. La sentenza impugnata condivide l'affermazione della sentenza di primo grado secondo la quale, una volta esclusa la esistenza di un rapporto di amicizia tra le parti, la relazione fra loro si configurava come una relazione di natura esclusivamente affaristica. Una conclusione che non tiene in conto le ipotesi intermedie (il rapporto di amicizia con il figlio dello S., in particolare). Ma il vizio di motivazione, che si risolve in quello di violazione di legge, è quello di essersi limitati ad una mera correlazione cariche del M., interessi dello S. prescindendo dalla verifica della correlazione tra gli interessi dello S. e le funzioni concretamente svolte dal M. tenendo conto delle rispettive cornici temporali: il rischio, concentrando l'attenzione solo sulla natura di pericolo del reato di cui all'art. 318 c.p., è quello della dematerializzazione della fattispecie. La difesa analizza a questo riguardo le cariche ricoperte dal M. evidenziando: quanto a quella di Direttore della Direzione Regionale Organizzazione, Personale, Demanio e Patrimonio della Regione Lazio (dal 28 giugno 2011 al 9 aprile 2013) che il Gruppo S. non aveva rapporti negoziali con l'ente regionale; quanto all'incarico di Direttore del Dipartimento partecipazioni e controllo Gruppo (OMISSIS) (dal 9 maggio 2013 al 31 ottobre 2013) che si trattava di incarico in cui non esercitava funzioni di amministrazione attiva ma di controllo ex post sulle società in house del Comune e di un incarico ricoperto in regime di prorogatio, in concomitanza con le elezioni; quanto all'incarico di Direttore dell'Ufficio di scopo del Comune di Roma, denominato definizione del modello e degli strumenti di cooperazione con le associazioni dei consumatori (nel periodo 11 novembre 2013/11 febbraio 2014), che si trattava di un incarico estraneo al settore di interesse dello S.. La Corte di appello, valorizzando le dichiarazioni dello S. sulla qualità del M. (che si trattava di una personalità) non ha adeguatamente motivato la rilevanza di tale percezione dello S. rispetto al tema dell'accordo corruttivo ed ha passato in rassegna gli interessi del Gruppo S. nel settore immobiliare (il progetto "(OMISSIS)", "(OMISSIS)" "(OMISSIS)", "(OMISSIS)", i rapporti con la società Milano 90 s.r.l.) che, però, risultavano conclusi e stipulati nel periodo in cui l'imputato non rivestiva alcuna carica presso il Comune (quanto ai progetti "(OMISSIS)", "(OMISSIS)" e locazioni e del progetto (OMISSIS), al quale la società del lo S. aveva rinunciato) ed estranei, per il periodo temporale fulcro di interesse, al periodo dei descritti incarichi (i progetti "(OMISSIS)", "(OMISSIS)" e locazioni) dell'imputato. La Corte di appello aveva, inoltre, valorizzato le dichiarazioni del Sa. trascurando che questi aveva riferito fatti che non rientravano in un periodo non coperto dalla contestazione - in particolare l'incontro sollecitatogli dal M. con lo S. del maggio 2010 - e perché, comunque, provenivano da un teste non attendibile ed erano smentite quanto all'oggetto (le fatture di poche migliaia di Euro che questi ricordava) poiché lo S. non aveva alcun rapporto con il Comune di Roma per la locazione di appartamenti per fare fronte ad emergenza abitativa né erano state rinvenute fatture dell'importo indicato dal Sa. evidenziando che, al termine del periodo di impegno del M. presso l'ufficio comunale, erano rimasti inevasi crediti dell'imprenditore per oltre seicentomila Euro e non aveva disposto la liquidazione delle competenze per gli affitti correnti. Le sollecitazioni spot al Sa. erano smentite dalle modalità di liquidazione dei fitti, per blocchi. Quanto alla "messa a disposizione del M." (emergente dal contenuto della conversazione con la L.) la difesa ha evidenziato che la Corte fornisce una motivazione apparente (al di là delle disquisizioni lessicali... la vicenda è stata chiaramente ricostruita attraverso le intercettazioni telefoniche) e sulla circostanza, comprovata dalla escussione del verbalizzante, secondo la quale la "messa a disposizione" costituiva espressione ricorrente nelle conversazioni del M. (ne sono state rilevate ben 18). Soprattutto, la Corte non ha verificato se tale generica frase indirizzata alla L. si collochi nel solco della altre. Non siamo in presenza di un mero problema di linguaggio ma di una spiegazione alternativa del linguaggio, viceversa valorizzato con argomentazioni apparenti che non si confrontano con il senso proprio della frase. Anche l'ulteriore argomento della Corte - che ha valorizzato il contenuto della conversazione L.- S. in cui la L. suggerisce allo S. di non prendere in considerazione la richiesta del M., ormai in difficoltà - è stata letta a chiusura della sussistenza di un rapporto corruttivo in cui non si comprende perché S. si tirasse indietro. La motivazione della sentenza impugnata è illogica e offre una lettura parcellizzata degli elementi raccolti di cui non viene offerta una lettura "convergente" con riferimento agli elementi strutturali del reato di corruzione che, quale figura di reato a concorso necessario, richiede la prova dell'accordo e la individuazione dell'oggetto e della causa di tale accordo al di fuori del quale si pongono (e sono sanzionate solo sul piano disciplinare) solleciti di regalie o altre utilità non accompagnate da alcun collegamento causale con il comportamento dell'agente pubblico e quella invece causalmente collegata all'accordo con l'extraneus. La mera utilità del prestito erogato non è sufficiente ad integrare la prova dell'accordo che è evanescente e affidata alle parole dello S., ma si tratta di un'affermazione inconcludente al descritto fine dimostrativo risolvendosi in un timore dello S.. Nessuna prova dell'accordo (una confessione; una traccia scritta; il compimento di atti favorevoli o l'ingerenza verso le funzioni nel momento successivo alla dazione). La sentenza impugnata non ha esaminato le censure difensive a tal riguardo appiattendosi sulle argomentazioni, non concludenti, della sentenza di primo grado; 2.5 violazione degli artt. 43 e 318 c.p. per la ritenuta sussistenza dell'elemento psicologico del reato di corruzione rimasto totalmente inesplorato e che appare indicare un'inammissibile ricorso alla figura del dolus in re ipsa. La fattispecie incriminatrice richiede, invece, la prova che il soggetto intraneo abbia accettato la dazione avendo come presupposto psicologico l'asservimento della propria funzione, dolo che andrebbe escluso quando il privato abbia agito per captare la benevolenza del pubblico ufficiale ma questi abbia ritenuto la dazione corrisposta per motivi di amicizia. Sul punto è apodittico, rispetto all'imputato, l'argomento che si evince dalle dichiarazioni dello S.; 2.6 violazione degli artt. 125, 546 e 579 in relazione all'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e) per la confermata confisca dell'immobile avendo ritenuto la P. mera intestataria dell'immobile. Si tratta di affermazione che discende dall'erronea valutazione nella quale è incorso il giudice di appello di ritenere irrilevante la deposizione della P. che, invece, avrebbe dovuto riferire in ordine alla intestazione dell'immobile ed alle dinamiche, precedenti e successive all'acquisto. La Corte ha anche omesso la valutazione del teste Pa. (che dalla P. aveva ricevuto il mandato per la vendita dell'immobile); 2.7 vizio di violazione di legge in punto di conferma delle statuizioni civili in favore di (OMISSIS) USB, (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS). A fronte del motivo di appello sul "quantum" liquidato la Corte ha richiamato il criterio equitativo seguito dal Tribunale che, invece, nulla aveva argomentato sul punto. Si tratta, per quest'ultimo, di motivo proposto con separata dichiarazione di impugnazione. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. La sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché il reato è estinto per intervenuta prescrizione e con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Roma, limitatamente alle statuizioni concernenti la responsabilità civile e la confisca dell'immobile di (OMISSIS). 2. Va bene premettere, riservando al prosieguo l'analisi dei singoli punti della decisione, che i motivi di ricorso proposti dall'imputato non si connotano in termini di manifesta infondatezza e che, anzi, il Collegio ritiene fondato il primo motivo di ricorso, relativo alla inutilizzabilità delle conversazioni aventi progressivo nn. 15635 e 15830 R.I.T. 2552 che la sentenza impugnata e quella di primo grado hanno valorizzato quale elemento di prova della responsabilità dell'imputato nella ricostruzione della messa a disposizione del pubblico ufficiale verso l'immobiliarista S.S.. In presenza di ricorso non manifestamente infondato entra immediatamente in gioco la valutazione della intervenuta prescrizione del reato e, a seguire, quella della incidenza di tale pronuncia sulle statuizioni civili e sulla confisca tenuto conto delle regole di giudizio che disciplinano il presupposto della valutazione della responsabilità penale ai fini della pronuncia di prescrizione del reato e di quello che regola la sopravvivenza delle statuizioni civilistiche e della confisca e lo standard (probatorio e di motivazione) applicabile in tal caso. 2.1 Pacifica, ad avviso del Collegio, è la intervenuta prescrizione del reato, commesso il (OMISSIS) con la conseguenza che il termine massimo di prescrizione, maturato il 26 dicembre 2020, per effetto della sospensione del corso della prescrizione, come di seguito precisata, è decorso alla data del 15 agosto 2021. E' necessario, in proposito, rilevare quanto segue. Il ricorso dell'imputato, attraverso i due atti di impugnazione tempestivamente depositati dai difensori in data 24 e 29 settembre 2021, è pervenuto presso la Corte di Cassazione il 30 settembre 2021 ed è stato fissato per la trattazione, con l'abbreviazione dei termini per le notifiche, per l'odierna udienza dal momento che la data di prescrizione del reato era indicata al 15 novembre 2021, compresa la sospensione COVID dichiarata dalla Corte di appello. Il tema della prescrizione del reato era stato affrontato dinanzi alla Corte di appello tanto è vero che il Procuratore generale, all'udienza del 26 aprile 2021, aveva concluso nel senso di dichiarare la intervenuta prescrizione del reato. Dopo le conclusioni rassegnate alla stessa udienza dalle parti civili la Corte di appello aveva rinviato la discussione all'udienza del 31 maggio 2021, ore 11:30, dando atto "della necessità di concedere alla difesa congruo termine per la discussione e tenuto conto che il processo è già prescritto". Con memoria del 18 maggio 2021, la parte civile USB aveva segnalato un errore nel computo della prescrizione rilevando che era applicabile sia la sospensione della prescrizione causa COVID, per giorni 64, che le sospensioni per effetto del rinvio, per legittimo impedimento dell'imputato S. intervenute in primo grado. Rilevava, in particolare, che l'udienza del 20 ottobre 2017 era stata rinviata al 5 dicembre 2017 e che, a tale udienza, proposta nuova istanza di rinvio per impedimento, il Tribunale aveva conferito incarico di perizia per l'accertamento delle condizioni di salute dello S., rinviando la trattazione all'udienza del 9 gennaio 2018. Anche a tale udienza, preso atto del legittimo impedimento e sospesi i termini di prescrizione, si era proceduto al rinvio all'udienza del 13 aprile 2018 e, da questa udienza, al 9 luglio 2018, senza che la difesa del M. si fosse mai opposta al rinvio per legittimo impedimento del coimputato. In conseguenza di tali precisazioni il Procuratore generale aveva rivisto le proprie conclusioni dinanzi alla Corte di appello chiedendo la conferma della sentenza. Premesso che nella scheda di trasmissione degli atti dal Tribunale alla Corte di appello si dava atto che il corso della prescrizione era stato sospeso per un giorno (dal 26 al 27 maggio 2017, per astensione avvocati) e dal 5 dicembre 2017 al 9 luglio 2018 per impedimento di S., il Collegio ha disposto la integrale acquisizione del fascicolo processuale. Dagli atti acquisiti è risultato che il fascicolo processuale era pervenuto in Corte di appello il 3 giugno 2019 e che l'udienza in appello era stata fissata, con decreto di citazione del 24 marzo 2021, al 26 aprile 2021 e, a questa udienza, differita al 31 maggio 2021. Sulla copertina del fascicolo di appello erano indicate altre date di fissazione del dibattimento, precisamente: "si fissi al 5 febbraio 2020 Roma 24/6/2019" poi sbarrata e "anzi si fissi per il 3 luglio 2019 (rectius è 2020), Roma 30/12/2019". Alcun decreto di citazione risulta mai spedito per tali udienze. Dai verbali del dibattimento di primo grado risulta che effettivamente, oltre al rinvio di un giorno per astensione degli avvocati, l'udienza del 20 ottobre 2017 era stata rinviata, in accoglimento della richiesta di rinvio per legittimo impedimento dell'imputato S., al 5 dicembre 2017; che l'udienza del 5 dicembre 2017 era stata trattata con conferimento dell'incarico di perizia - dopo una breve sospensione - per accertare le condizioni di salute dello S. e verificarne la compatibilità con la partecipare al dibattimento, con rinvio al g. 9 gennaio 2018; che all'udienza del 9 gennaio 2018 il Tribunale, sentiti i periti e ritenuto il legittimo impedimento dello S., aveva sospeso il dibattimento e dichiarato sospesa la prescrizione con rinvio al 13 aprile 2018. Tale udienza era stata rinviata, senza dichiarare la sospensione del termine di prescrizione, all'udienza del 9 luglio 2018, udienza in cui era stata disposta la separazione delle posizioni processuali. Risulta, inoltre, che all'udienza del 13 aprile 2018 era stata svolta attività processuale (con acquisizione di documentazione non sanitaria). Ritiene il Collegio che, a nulla rilevando la mancata dichiarazione di sospensione del corso della prescrizione alle udienze del 20 ottobre 2017 e del 5 dicembre 2017, stante la natura dichiarativa della relativa ordinanza, e tenuto conto delle ragioni di rinvio delle udienze del 13 aprile 2018, strettamente connesse alla verifica delle condizioni di salute dello S. che, come annotato a verbale, "entro pochi giorni avrebbe dovuto essere sottoposto a nuovi accertamenti sanitari, come dichiarato dai periti", deve ritenersi sospesa la decorrenza della prescrizione per una complessiva durata di mesi sette e giorni quattordici (compresa la sospensione di un giorno, per astensione dei difensori). Ne consegue che, rispetto alla data di commissione del fatto ((OMISSIS)), per effetto di tali sospensioni, il termine di prescrizione (rispetto a quello di prescrizione massima del 26 dicembre 2020) è venuto a scadenza il giorno 11 agosto 2021. Come noto la sospensione del corso della prescrizione si estende a tutti i coimputati del medesimo processo allorché costoro, ove non abbiano dato causa essi stessi al differimento, non si siano opposti al rinvio del dibattimento ovvero non abbiano sollecitato (se praticabile) l'eventuale separazione degli atti a ciascuno di essi riferibili (Sez. F, n. 49132 del 26/07/2013, De Seriis, Rv. 257649): per come si evince dai verbali di dibattimento mai l'imputato M., personalmente o attraverso i difensori, si è opposto alle richieste di rinvio del coimputato. Rileva, altresì, il Collegio, quanto alla sospensione dei processi, e sospensione dei termini processuali, disposta dai decreti che si sono succeduti a partire dall'8 marzo 2020 in correlazione con la pandemia da COVID-19, per la necessità di contenimento del p.lo di contagio, che nel presente procedimento la sospensione della prescrizione non ha potuto operare non essendo prevista alcuna attività processuale nel periodo intercorso tra l'8 marzo 2020 e il 11 maggio 2020. La prima udienza di trattazione (indicata al 5 febbraio 2020) era fissata, infatti, per un'udienza antecedente alle sospensioni intervenute per effetto del primo decreto Covid-19 (D.L. 8 marzo 2020, n. 11). Quanto all'udienza del 3 luglio 2020 questa avrebbe potuto essere regolarmente tenuta (peraltro in presenza ai sensi dell'art. 83, comma 12-bis del D.L. vigente fino al 25 giugno 2020) non verificandosi alcuna incidenza della sospensione dei termini processuali, fino all'11. maggio 2020, rispetto alle attività di notifica, a cura dell'ufficio, o all'esercizio di attività delle altre parti processuali. Questa Corte ha affermato che in tema di disciplina della prescrizione a seguito dell'emergenza pandemica da Covid-19, la sospensione del termine per complessivi sessantaquattro giorni, prevista dal D.L. 17 marzo 2020, n. 18, art. 83, comma 4, convertito con modificazioni dalla L. 24 aprile 2020, n. 27, si applica ai procedimenti la cui udienza sia stata fissata nel periodo compreso dal 9 marzo all'11 maggio 2020, nonché a quelli per i quali fosse prevista la decorrenza, nel predetto periodo, di un termine processuale ed ha escluso che la sospensione della prescrizione possa operare in maniera generalizzata, per tutti i procedimenti pendenti, in quanto la disciplina introdotta al D.L. n. 18 del 2020, art. 83, comma 4, presuppone che il procedimento abbia subito una effettiva stasi a causa delle misure adottate per arginare la pandemia (Sez. U, n. 5292 del 26/11/2020, dep. 2021, Sanna Rv. 280432). Il principio recato dalla sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte fa riferimento al giudizio di legittimità, cionondimeno si tratta di un principio di carattere generale che aggancia la sospensione del corso della prescrizione, salvandosi così dal rilievo di violazione del principio di legalità al quale sottostà anche la materia della prescrizione, alla regola generale dell'art. 159 c.p., secondo cui quando il procedimento o il processo è sospeso in applicazione di una particolare disposizione di legge, lo è anche il corso della prescrizione. Va aggiunto, per mera completezza, che, nel caso in cui si fosse tenuto conto della generalizzata sospensione COVID-19, per giorni sessantaquattro, la prescrizione del reato ascritto al M. sarebbe maturata il 15 ottobre 2021 e che la trattazione del ricorso giammai avrebbe potuto essere fissata, neppure con abbreviazione dei termini di comparizione, in tempo utile avuto riguardo non solo alla data di pervenienza degli atti in Corte di Cassazione ma alla data del (tempestivo) deposito dell'atto di impugnazione. 3.Passando all'esame dei motivi di ricorso, come anticipato, la intervenuta prescrizione del reato delinea un diverso perimetro di valutazione del giudice di legittimità. Infatti, la intervenuta prescrizione del reato impedisce, di norma, la prosecuzione del processo, determinando, in qualunque stato e grado essa si verifichi, l'obbligo dell'immediata declaratoria della causa di non punibilità ai sensi dell'art. 129 c.p.p.. E' pacifico, inoltre, che la formula di proscioglimento nel merito prevale sulla dichiarazione di improcedibilità per intervenuta prescrizione soltanto nel caso in cui sia rilevabile, con una mera attività ricognitiva, l'assoluta assenza della prova di colpevolezza a carico dell'imputato ovvero la prova positiva della sua innocenza, e non anche nel caso di mera contraddittorietà o insufficienza della prova che richiede un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze (Sez. 6, n. 10284 del 22/01/2014, Culicchia, Rv. 259445). Tale regola non può trovare applicazione quando il processo penale debba proseguire con riguardo a profili di accertamento funzionali all'adozione di pronunce che la legge demanda al giudice penale e che sono diverse, e ulteriori, rispetto alla cognizione sull'azione penale strettamente intesa, quali le statuizioni civili e quelle in materia di confisca, come di seguito precisato: rispetto a tali statuizioni va disposto l'annullamento con rinvio al giudice penale non essendo consentito e razionale il rinvio a due giudici di appello diversi (Sez. 6, n. 13844 del 02/12/2016, dep. 21/03/2017, Aracu, Rv. 270371) in presenza di vizio di motivazione della sentenza impugnata per apoditticità delle correlative affermazioni con riferimento sia alla misura del risarcimento del danno in favore delle parti civili costituite che delle deduzioni della difesa dell'imputato appellante in materia di confisca. In relazione a tali aspetti si impone, peraltro, alla Corte di Cassazione l'esame delle questioni processuali sollevate con il ricorso cioè il motivo sub 1, relativo alla inutilizzabilità delle conversazioni di cui ai progressivi 15635 e 15830; il motivo sub 2, relativo alla revoca dell'ordinanza di ammissione della deposizione della moglie del M., P.C.; il motivo sub 3, relativo alla revoca, con ordinanza dell'8 luglio 2018, della escussione dei testi Ma.Sa. e V.G. non senza avere illustrato le risultanze di prova che la sentenza impugnata e quella di primo grado hanno posto a fondamento del giudizio di colpevolezza, in termini convergenti ma non perfettamente sovrapponibili. 3.1 La sentenza del Tribunale di Roma ha illustrato gli elementi che valorizzano, in chiave dimostrativa, la colpevolezza del M. individuando degli "indicatori" - in tal senso si esprimono le sentenze ed i motivi di ricorsi - significativi della messa a disposizione del funzionario, in relazione agli incarichi dirigenziali di volta in volta rivestiti in enti pubblici regionali e capitolini, verso l'immobiliarista S.S.. E, in particolare: a. lo sconto accordato all'imputato dalla società venditrice "Progetto 90 s.r.l." del Gruppo S., rispetto al valore reale dell'immobile di via (OMISSIS) (una differenza del prezzo di vendita risultata pari a Euro 828.00,00 per M. ed Euro 1.204,320, per T.G.), differenza spiegabile, secondo il Tribunale, unicamente in chiave corruttiva; b. sempre in relazione a tale operazione, il mancato riferimento alla sottostante delegazione di pagamento (si trattava del conferimento dell'assegno ricevuto dallo S. quale acquirente di un immobile dell'imputato (via (OMISSIS)) e riconducibile, dunque, ad un'operazione di permuta; c. la dazione al M. dei due assegni impiegati per l'acquisto dell'appartamento di (OMISSIS) intestato alla moglie del M., P.C., che aveva esercitato il diritto di prelazione nell'acquisto dell'immobile dismesso da (OMISSIS) acquistandolo col denaro indebitamente ricevuto dal marito, pubblico funzionario corrotto nell'ambito del rapporto clientelare instaurato con l'immobiliarista corruttore; d. le cariche pubbliche e posizioni apicali del M. in occasione delle utilità economiche elargitegli da S.S., oltre che medio tempore, valevoli anch'esse a connotare i benefici economici ricevuti come "prezzo per mettere la rispettiva funzione al servizio del costruttore nell'immanenza di incarichi ed influenzare utili agli affari immobiliari del gruppo S.". Nella sentenza di primo grado è evidenziato che il 20 ottobre 2009 (data del preliminare di via (OMISSIS)) l'imputato era prossimo alla nomina a capo del Dipartimento del patrimonio e casa del Comune di Roma (intervenuta con ordinanza sindacale del 26 ottobre 2009); il 23 giugno 2010 (data del contratto definitivo) aveva appena rimesso tale incarico transitando alla RAI fino al 6 aprile 2011, dove proseguiva l'opera di ingerenza a beneficio delle pratiche del Gruppo S. (in tal senso il Tribunale aveva valorizzato le dichiarazioni rese da Sa.Pa.); il (OMISSIS) (in coincidenza con la emissione degli assegni per il pagamento dell'immobile di (OMISSIS)) l'imputato rivestiva l'incarico di direttore del Dipartimento Partecipazione e controllo Gruppo (OMISSIS) - Sviluppo Economico Locale di (OMISSIS)- provenendo dall'incarico già svolto presso la Regione Lazio; mentre alla data delle conversazioni intercettate con la L. (in cui l'imputato ribadiva la sua messa a disposizione) era appena stato chiamato a ricoprire il ruolo di vice capo di Gabinetto della Sindaca R.. Rispetto a tali frangenti temporali il Tribunale ha evidenziato che le convenzioni urbanistiche stipulate dalle società Gruppo S. con il Comune di Roma e il programma "(OMISSIS)" erano in corso di esecuzione o di completamento e che, alla data di stipula delle compravendite di via (OMISSIS) e (OMISSIS), i progetti erano in attesa dell'emanazione dei provvedimenti amministrativi, coincidenze che connotavano i rapporti tra il M. e l'innmobiliarista quale mera relazione affaristica. Analogamente a dirsi per le documentate lucrose locazioni, e servizi annessi, a favore della Regione Lazio e Comune di Roma e per l'utilità sottesa al contenuto della "intercessione" che M. aveva sollecitato - il dato è evincibile dalla conversazione intervenuta con L.G. - allo S. presso l'editore C.F.G., e che, osserva il Tribunale, costituiva l'ennesima richiesta di utilità da parte del M.. 3.2 In parte diversa, come anticipato, è la ricostruzione dei complessivi rapporti M./ S. sviluppata nella sentenza impugnata. Hanno rilevato i giudici di appello che la vicenda dell'acquisto dell'immobile di via (OMISSIS) (lo sconto del prezzo di acquisto dell'immobile e la connessa sottostante operazione di permuta e delegazione di pagamento) non costituivano oggetto di contestazione. Hanno, invece, confermato la precisione, gravità e concordanza dei rimanenti elementi indiziari. Il fulcro della valutazione della Corte (pagg. 18/19 della sentenza impugnata) è l'accertata consegna degli assegni di S.S. all'imputato e la loro certa utilizzazione per l'acquisto dell'immobile di (OMISSIS). Rileva il Collegio che si tratta un'operazione ricostruita nel dettaglio dalla Corte di merito e di un'operazione materiale di per sé non controversa essendone, invece, molto controverse, nella chiave di lettura dell'Accusa, condivisa dalle sentenze di merito, la causale e i motivi contestati, invece, dalla difesa sull'assunto che si è trattato di "un mero prestito" o di un atto di liberalità erogato dall'imprenditore al M. a titolo di amicizia. La Corte di merito ha escluso l'opzione interpretativa proposta dalla difesa ed ha valorizzato la inesistenza di un rapporto di amicizia tra M. e lo S. (il rapporto c'era semmai con il figlio dello S., non con questi); ha escluso che tale dazione potesse essere interpretata come un gesto di generosità e, l'ha, quindi, interpretata come un do ut des, la vendita della funzione pubblicistica del M. a favore dell'immobiliarista. Una condotta di reato che, sussunta in una fattispecie quale quella di cui all'art. 318 c.p. che si connota come reato di pericolo, secondo l'opzione ermeneutica dei giudici di merito, rende superflua - perché estranea agli elementi costitutivi del reato - la ricerca di un atto contrario ai doveri di ufficio ed impegna viceversa l'interprete nella individuazione delle utilità che il M. poteva rendere all'imprenditore e che sono state, in effetti, rese. E tale ricostruzione, in termini sostanzialmente riconducibili a quella del Tribunale, la Corte di appello ha poi diffusamente esaminato trattando il tema della "messa a disposizione del M.". A questo fine (cfr. pag. 25 della sentenza impugnata), la Corte ha valorizzato il contenuto della conversazione telefonica, intervenuta tra l'imputato e la segretaria di S.S., L.G., nel corso della quale il M. sollecitava un intervento dell'immobiliarista su C.F.G., editore delle testate giornalistiche che, proprio in quei giorni, si interessavano del M. - a ragione di una sua controversa nomina presso il Comune di Roma e nel corso della quale il ricorrente aveva utilizzato l'espressione gergale "sono a disposizione", intesa dai giudici della Corte di appello, in un duplice senso cioè a disposizione di C., per raccontare la propria versione dei fatti, e - per quel che qui rileva- a disposizione di S.. Si tratta di un'espressione di cui è molto controverso il senso, mutuato, secondo il ricorrente, dal mondo della Guardia di Finanza (da cui l'imputato proveniva), e analizzata diffusamente dalla difesa anche nel quarto motivo di ricorso ma affatto significativa, proprio perché di uso gergale e reiterato da parte dell'imputato, dell'accezione che le sentenze di merito le hanno riconosciuto. Il contenuto della conversazione veniva, poi, riferito dalla L. allo S., suggerendo a questi di non dare corso alla richiesta del M.. La rilevanza, nella motivazione della sentenza impugnata di tale elemento di prova impone dunque l'esame del primo motivo di ricorso che, come anticipato, è fondato. 4.Va premesso che la questione di inutilizzabilità sollevata con il ricorso (e, per vero contenuta anche in una memoria inviata alla Corte di merito in data 26 aprile 2021) è diversa da quella sollevata in primo grado, relativa al difetto di motivazione del decreto autorizzativo delle operazioni di intercettazione. La questione, a prescindere dall'aspetto che attiene al mancato esame della questione posta in appello con la memoria, è deducibile in sede di legittimità agli effetti dell'art. 191 c.p.p., art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) e art. 609 c.p.p. (si richiama sul punto Sez. 6, n. 22808 del 17/7/2020, Salamò, Rv.279566, con riferimento alla deduzione dell'inutilizzabilità di intercettazioni per difetto di motivazione dei decreti autorizzativi), non senza trascurare che il ricorrente ha indicato con precisione i decreti oggetto della denuncia e le risultanze documentali che ne sono a fondamento (sul punto Sez. U. n. 39061 del 16/7/2009, De Iorio, Rv. 244329; Sez. 6, n. 18187 del 14/12/2017, Nunziato, Rv. 273007). E' stato, in particolare, invocato dal ricorrente il principio affermato dalle Sezioni unite applicabile nel caso in esame, non operando, ratione temporis, la modifica dell'art. 270 c.p.p. introdotta dal D.L. 30 dicembre 2019, n. 161, convertito con modificazioni dalla L. 28 febbraio 2020, n. 7 - secondo cui "il divieto di cui all'art. 270 c.p.p. di utilizzazione dei risultati delle captazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le stesse siano state autorizzate - salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza - non opera con riferimento agli esiti relativi ai soli reati che risultino connessi, ex art. 12 c.p.p., a quelli in relazione ai quali l'autorizzazione era stata "ab origine" disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dall'art. 266 c.p.p. " (Sez. U. n. 51 del 28/11/2019, dep. 2020, Cavallo, Rv. 277395). Deve convenirsi con la difesa sulla necessità di applicare il principio affermato dalle Sezioni unite, in presenza di reato - quello di cui all'art. 318 c.p. - che non comporta l'arresto in flagranza non potendo, viceversa, convenirsi con la prospettazione del Procuratore generale secondo la quale l'intercettazione in parola costituisce "corpo di reato", nozione, questa, univocamente riconducibile solo a quelle conversazioni che integrino ed esauriscano la condotta criminosa (Sez. U, n. 32697 del 26/06/2014, Floris, Rv. 259776). Il principio affermato dalle Sezioni unite muove dall'inviolabilità della libertà e segretezza delle comunicazioni, soggette a limitazioni solo sulla base di provvedimento motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge (art. 15 Cost.) e costituisce il precipitato delle risalenti sentenze della Corte Costituzionale (in particolare Corte Cost. sent. n. 34 del 1973; n 366 del 1991 e n. 63 del 1994) che hanno, con chiarezza e precisione, declinato le caratteristiche e il contenuto di valore del diritto alla libertà e segretezza delle comunicazioni ed alla loro inviolabilità e ne hanno esaminato il rapporto con l'interesse, ritenuto costituzionalmente rilevante, alla repressione dei reati e, quindi, ritenuto ragionevole il bilanciamento tra valori realizzato attraverso la previsione con l'art. 270 c.p.p., comma 1, ma affermando, con nettezza, sia la centralità del provvedimento di autorizzazione del giudice che la necessità che l'utilizzazione in giudizio come elementi di prova delle informazioni raccolte attraverso le intercettazioni legittimamente disposti nell'ambito di un processo, deve essere circoscritta alle informazioni strettamente rilevanti al processo stesso. L'art. 270 c.p.p. realizza l'attuazione, in sede legislativa, del bilanciamento di due valori costituzionali tra loro contrastanti: il diritto dei singoli individui alla libertà e alla segretezza delle loro comunicazioni e l'interesse pubblico a reprimere reati e a perseguire in giudizio coloro che delinquono e solo al cospetto di reati particolarmente gravi: ed è questo il solo caso in cui il primo cede al secondo. Con forza, la Corte Costituzionale (sent. 366 del 1991) ha affermato, altresì, che, a fronte della intrusività del mezzo, le restrizioni alla libertà e segretezza della comunicazioni conseguenti alle intercettazioni telefoniche sono sottoposte a condizioni di validità particolarmente rigorose, commisurate alla natura indubbiamente eccezionale dei limiti apponibili ad un diritto personale di carattere inviolabile, aggiungendo che "l'atto dell'autorità giudiziaria con il quale vengono autorizzate le intercettazioni telefoniche deve essere puntualmente motivato o per usare altra espressione deve avere una adeguata e specifica motivazione quanto alla utilizzazione in giudizio come elementi di prova delle informazioni raccolte con le intercettazioni legittimamente disposte nell'ambito del processo deve essere circoscritta alle informazione strettamente rilevanti nel processo stesso". Non ha mancato il giudice delle leggi di sottolineare che "l'art. 15 Cost. - oltre a garantire la "segretezza" della comunicazione e, quindi, il diritto di ciascun individuo di escludere ogni altro soggetto diverso dal destinatario della conoscenza della comunicazione-tutela pure la "libertà" della comunicazione: libertà che risulterebbe pregiudicata, gravemente scoraggiata o, comunque, turbata ove la sua garanzia non comportasse il divieto di divulgazione o di utilizzazione successiva delle notizie di cui si e venuti a conoscenza a seguito di una legittima autorizzazione di intercettazioni al fine dell'accertamento in giudizio di determinati reati: di qui consegue che l'utilizzazione come prova in altro procedimento trasformerebbe l'intervento del giudice richiesto dall'art. 15 Cost. in un'inammissibile autorizzazione in bianco, con conseguente lesione della "sfera privata" legata alla garanzia della libertà di comunicazione e al connesso diritto di riservatezza incombente su tutti coloro che ne siano venuti a conoscenza per motivi di ufficio. Ed è dalla tutela della libertà di comunicazione che deriva, in via di principio, ed è vietata l'utilizzabilità dei risultati di intercettazioni validamente disposte nell'ambito di un determinato giudizio come elementi di prova in processi diversi, per il semplice fatto che, ove così non fosse, si vanificherebbe l'esigenza più volte affermata che l'atto giudiziale di autorizzazione delle intercettazioni debba essere puntualmente motivato nei sensi e nei modi precedentemente chiariti". Componendo un contrasto interpretativo, manifestatosi nella giurisprudenza di legittimità, le Sezioni unite hanno ritenuto che la nozione di diverso procedimento di cui al citato art. 270 c.p.p. dovesse essere intesa in senso non meramente formale, bensì in senso sostanziale e correlata dunque alla sussistenza o meno di un nesso sostanziale intercorrente tra i reati, sul presupposto che solo in presenza della connessione ex art. 12 c.p.p. anche un reato diverso da quello per il quale era stata autorizzata l'operazione di captazione avrebbe potuto dirsi riconducibile al medesimo fondamento e dunque assorbito nella area di copertura fornita dal provvedimento autorizzativo, purché, a sua volta, tale da legittimare le intercettazioni ai sensi dell'art. 266 c.p.p., diversamente dovendosi valutare la sussistenza dei presupposti di cui all'art. 270 c.p.p. per ritenere utilizzabili gli esiti delle intercettazioni con riguardo a reati non avvinti da quel legame di natura sostanziale. In definitiva assume rilievo, in base a tale orientamento, l'individuazione del reato per il quale le intercettazioni sono state autorizzate e la verifica della sussistenza di un vincolo di natura sostanziale con ulteriori reati venuti in evidenza attraverso le operazioni di captazione. Deve peraltro sottolinearsi che il confronto deve essere stabilito non in relazione a reati di cui sia stata accertata l'effettiva sussistenza, ma in relazione al quadro indiziario posto a fondamento del decreto autorizzativo, in quanto anche i reati ulteriori possano ricondursi sul piano sostanziale a quel tipo di compendio, soggetto alle evoluzioni connesse allo sviluppo delle indagini e alle ulteriori acquisizioni probatorie. A tale stregua non è determinante il fatto che relativamente a reati per i quali erano state disposte operazioni di intercettazione siano stati di seguito emessi provvedimenti di stralcio o che addirittura sia intervenuta archiviazione, ove la trama della motivazione del decreto autorizzativo, che assume rilievo cruciale, potesse legittimare la configurabilità, sia pure ex post, di un vincolo sostanziale. Alla luce di tali linee guida, come si è detto, i rilievi della difesa sono fondati. Risulta invero che le operazioni di intercettazione telefonica (si tratta delle conversazioni oggetto dei R,I,T. R.I.T. 2552 progressivi nn. 15635 e 15830) erano state disposte nell'ambito del procedimento 57837/2014 RGN in cui si procedeva a carico di V.M. per il delitto di estorsione (art. 629 c.p.) in danno dello S., primo bersaglio delle operazioni, risultando accertato che in più occasioni i due si incontravano anche per consegne di somme di denaro. Le operazioni di intercettazione si erano, progressivamente "estese" alle ambientali nei luoghi in uso allo S. (sala riunioni e ufficio dell'imprenditore) e all'utenza cellulare della sua collaboratrice, L.G., a partire dal 22 aprile 2016. Tali operazioni venivano (tempestivamente) prorogate, sempre con riferimento all'ipotesi di reato di cui all'art. 629 c.p. fino a quando, in data 1 agosto 2016 (si è ormai ben oltre la data delle conversazioni in oggetto) nella richiesta del Pubblico ministero (e nel correlativo decreto del giudice in pari data) viene, altresì, indicato che si procede ad indagini anche per il reato di cui all'art. 318 c.p. in relazione, come risulta dalla motivazione della richiesta e del decreto del giudice, "alla corresponsione di tangenti a uomini politici per l'agevolazione di appalti". Infine, in occasione delle operazioni di proroga del 28 ottobre 2016, era stata, per la prima volta, sottoposta ad operazioni di intercettazione anche l'utenza del M., in relazione a quanto era venuto emergendo a suo carico, in particolare con le operazioni del precedente 15 settembre 2016. Rileva il Collegio che i provvedimenti di autorizzazione e di proroga - sia quelli relativi alla L., con la quale era intervenuta la conversazione con M.R. sia quelli relativi allo S. - al quale la L. aveva puntualmente riferito la telefonata del M., suggerendo al suo datore di lavoro di non farsi coinvolgere nella questione - richiamano quale indispensabile presupposto informative di polizia giudiziaria nelle quali vengono esaminate le risultanze delle indagini svolte in merito alle presunte estorsioni delle quali S. sarebbe stato vittima ad opera del V. e nel prosieguo non meglio identificati pagamenti dello S. in favore di uomini politici e richiamano - come si è indicato - il reato di estorsione (art. 629 c.p.) in danno dello S. e, nella fase finale, una presunta ipotesi di corruzione per l'esercizio della funzione in relazione a non meglio indicati uomini politici. Pacifico che il reato per cui si procede (art. 318 c.p.) non rientra fra quelli per i quali è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza (e per i quali non opera, come noto, il presupposto della necessità della connessione) deve escludersi, altresì, che tale reato sia connesso sul piano sostanziale a quelli per i quali le operazioni erano state autorizzate e prorogate, non essendo ravvisabile alcun nesso sostanziale tra i reati a fondamento delle intercettazioni e quello ascritto al M. e non solo per l'ovvia ragione che tale reato era già stato consumato anni prima ma per la ragione evidente che tale reato non è inquadrabile in un rapporto di connessione sostanziale (o forte) quale delineata dall'art. 12 c.p.p. con i reati per i quali le intercettazioni erano disposte, riconducibili a presunte estorsioni in danno dell'immobiliarista o a tangenti il cui pagamento questi avrebbe avuto in corso per agevolare non meglio individuati appalti. L'analisi dei fatti storici oggetto di investigazione con il mezzo delle intercettazioni, quali evincibili dalle informative e dalle dichiarazioni in dibattimento del funzionario di Polizia che seguiva le operazioni, e l'analisi del fatto oggetto dell'odierna vicenda non denota che si è in presenza di reati in continuazione o in ipotesi di reati unificabili in concorso formale ma rivela solo che, in occasione delle intercettazioni, era venuto alla luce il rapporto di conoscenza fra il M. e l'imprenditore e la richiesta di aiuto dell'odierno imputato - per contattare l'editore C. - e, nel prosieguo- si tratta delle intercettazioni del settembre 2016- la emersione delle preoccupazioni della L. sulla regolarità dell'operazione di via (OMISSIS) (risalente all'anno 2009, si noti) perché non venivano rinvenuti gli assegni che avrebbero dovuto regolare il pagamento tra lo S. e la società venditrice: non sussiste, dunque, alcuna connessione, di tali fatti con le condotte estorsive in danno dello S. o suoi contatti illeciti con uomini politici per propiziare appalti in corso. Non rileva, dunque, ad integrare la legittimità delle operazioni captative e la loro utilizzazione nel processo a carico del M., che il procedimento in esame sia nato, per operazione di stralcio, da quello nel quale erano state eseguite le intercettazioni perché l'esito della captazione non era connesso in senso forte ai fatti per i quali si procedeva alle operazioni di ascolto nel procedimento principale. Il rapporto fra procedimenti, di natura meramente formale, non rileva ai fini della connessione che va stabilita tra i fatti oggetto dei procedimenti, ai sensi dell'art. 12 c.p.p. (perché si è in presenza di reati commessi da più persone, in concorso tra loro; in presenza di continuazione fra reati o di reati commessi per eseguire o occultare altri) e, dunque, reati in relazione ai quali la regiudicanda oggetto di ciascuno viene, anche in parte, a coincidere con quella oggetto degli altri di modo potendo, così, escludersi che l'originario provvedimento autorizzatorio assuma la fisionomia di un'autorizzazione in bianco, vietata dai principi costituzionali innanzi richiamati. Dalle considerazioni svolte discende la inutilizzabilità delle conversazioni indicate nel procedimento a carico del M., inutilizzabilità nella quale sono assorbite le ulteriori deduzioni relative alle questioni interpretative connesse al contenuto della conversazione, precisate nel motivo di ricorso sub 4. Deve evidenziarsi altresì che nelle sentenze di merito, nella parte in cui viene ricostruito e analizzato il contenuto delle dichiarazioni di L.G. (sentita nel corso delle udienze del 22 e del 28 giugno 2018) non è contenuto alcune riferimento al contenuto della conversazione in esame. 5. Non possono, invece, trovare accoglimento il secondo e terzo motivo di ricorso. 5.1 In particolare, è manifestamente infondato il secondo motivo di ricorso che concerne la revoca dell'ordinanza con la quale era stata ammessa, in primo grado, la deposizione della teste P.C., moglie del M.. Le osservazioni svolte dalla Corte di appello (alle pagg. 8 e 9 della sentenza impugnata) a tale riguardo sono ineccepibili perché incentrate sulla valutazione della irrilevanza, ai fini della ricostruzione degli elementi strutturali del reato, delle dichiarazioni della P.. Secondo i giudici di appello, che hanno condiviso le conclusioni alle quali era pervenuto il Tribunale, la teste nulla avrebbe potuto riferire in merito alla genesi del prestito dello S. al M. e la cui richiesta ed elargizione sono passate (e non lo nega nessuno dei due protagonisti) personalmente tra il M. e lo S. che, peraltro, aveva escluso di avere mai ricevuto una dichiarazione di debito della P. (si tratta della dichiarazione rinvenuta in occasione della perquisizione eseguita in (OMISSIS)). E' pacifico, secondo la Corte di merito, che solo la P. poteva acquistare l'immobile (perché inquilina dello stabile di proprietà della Fondazione (OMISSIS)) usufruendo anche di un prezzo di favore e altrettanto pacifico, sulla scorta della ricostruzione sviluppata in sentenza, che era stato l'odierno ricorrente a chiedere dapprima il prestito in banca, in vista dell'acquisto, e poi, non essendo stato possibile perfezionare l'operazione di mutuo, il contributo allo S.. Rileva il Collegio che la struttura della contestazione, incentrata sulla natura del rapporto di do ut des tra l'imprenditore e M.R. - che è pacificamente l'autore della richiesta all'imprenditore - rende irrilevanti i dettagli, in tale frangente, del rapporto M.- P. o l'impegno della P. alla sollecita restituzione della somma, trattandosi di un impegno che non è mai stato portato a conoscenza dello S.. Ciò che rileva, dunque, secondo la corretta impostazione della sentenza impugnata ai fini della ritenuta irrilevanza della deposizione della P., e, quindi, della legittimità della revoca dell'ordinanza di ammissione della prova, è che la radice della elargizione rinvenga dal rapporto M.- S. (un potente imprenditore e un potente funzionario pubblico, secondo la sentenza impugnata) e non ridonda sulla natura di tale rapporto che la P. fosse o meno consapevole di tale "genesi", e che ne sia stata beneficiaria, ai fini del perfezionamento del contratto di compravendita e della utilizzazione della provvista ricevuta. 5.2 Si rivelano infondati anche i rilievi difensivi svolti con il terzo motivo di ricorso, in relazione alla revoca, con ordinanza del 9 luglio 2018, dell'ordinanza di ammissione della prova dei testi, V.G. e Ma.Sa., indotti come prova contraria rispetto alle dichiarazioni di Sa.Pa.. Secondo la difesa del ricorrente, la Corte di merito ha travisato l'oggetto della deposizione dei testi e, conseguentemente, ha inquadrato erroneamente il tema processuale incorrendo, così, in una conclamata violazione del diritto di difesa dell'imputato. Sono in astratto condivisibili i principi enunciati dalla difesa, tratti dalla giurisprudenza di questa Corte, a stregua della quale deve essere garantito il diritto-dovere che le parti del processo hanno a provare i fatti che si riferiscono alla imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena oltre a quelli dai quali dipende la applicazione delle norme processuali (art. 187 c.p.p.), diritto che ben può essere oggetto di una interpretazione conforme al principio della "parità delle armi" che è sancito dall'art. 6, comma 3, lett. d) della CEDU, a sua volta ripreso anche dall'art. 111 Cost., comma 2, in tema di contraddittorio tra le parti (cfr. Sez. 5, n. 51522 del 30/9/2013, Abatelli, Rv. 257892). Tali affermazioni sono in linea con il principio sovranazionale del diritto dell'accusato ad ottenere non solo la citazione ma anche l'interrogatorio dei testimoni a discarico, a pari condizioni dei testimoni a carico e, il principio della parità della armi, implica, altresì, che a ciascuna delle parti debba essere consentita una ragionevole opportunità di presentare la sua posizione, incluse le prove, in condizione tale da non risultare collocata in sostanziale svantaggio rispetto al suo contraddittore. La giurisprudenza ha anche esaminato i requisiti dell'ordinanza di revoca della deposizione testimoniale e la nullità che deriva dalla revoca dell'ordinanza di ammissione di un teste della difesa non sorretta da adeguata motivazione che deve essere incentrata sulla superfluità della prova, giudizio, questo, che presuppone la corretta enucleazione del tema di prova. Si e', così, affermato che tale vizio ha natura di nullità non assoluta (non rientrando nel novero di quelle definibili come tali dall'art. 179 c.p.p.) ma relativa, secondo un'opzione, ovvero, al più intermedia. Secondo l'opzione dominante, cui il Collegio aderisce, detta nullità è di ordine generale a regime intermedio (Sez. 6, n. 53823 del 5/10/2017, D M., Rv. 271732; Sez. 2, n. 9761 del 10/2/2015, Rizzello, Rv. 263210; Sez. 5, n. 51522 del 30/9/2013, Abatelli, Rv. 257891, già citata; Sez. 5, n. 18351 del 17/2/2012, Biagini, Rv. 252680): alla luce della disciplina prevista dal codice di rito, pertanto, detta nullità deve essere immediatamente dedotta dalla parte presente, ai sensi dell'art. 182 c.p.p., comma 2, con la conseguenza che, in caso contrario, essa è sanata. Infatti, il disposto dell'art. 180 c.p.p., secondo cui la nullità di ordine generale verificatasi nel corso del giudizio è deducibile dalla parte, dopo la deliberazione della sentenza del grado successivo, trova un limite nella disposizione dell'art. 182 c.p.p., comma 2, che prevede una eccezione alla regola della deducibilità appena illustrata, con riferimento al caso in cui la parte assista al compimento dell'atto nullo e che prevede che la parte, se non può eccepire la nullità prima del compimento dell'atto stesso, deve farlo immediatamente dopo. Come anticipato, altro orientamento ritiene la nullità di natura relativa, evidenziandone, peraltro, il regime di deducibilità pur sempre ai sensi dell'art. 182 c.p.p., comma 2, (cfr. Sez. 5, n. 2511 del 24/11/2016, dep. 2017, Mignogna, Rv. 269050). Alla stregua delle risultanze processuali, alle quali il Collegio ha accesso avuto riguardo alla natura del vizio dedotto, deve rilevarsi che la denunciata nullità non è stata eccepita dalla parte al momento della revoca dell'ordinanza e deve, pertanto, ritenersi sanata con la conseguenza che non poteva essere dedotta nel prosieguo: si rivela, pertanto, del tutto superfluo indagare sulla corretta enucleazione del tema di prova, tema sul quale indulge il motivo di ricorso. Dal verbale di udienza del 9 luglio 2018 si evince che, a seguito dell'ammissione del teste Sa.Pa., indotto dal Pubblico ministero, la difesa dell'imputato aveva chiesto la escussione del teste Gabetti, immediatamente ammesso ed effettivamente escusso (cfr. verbale in atti) e che, dopo l'escussione del Sa., la difesa del M. aveva chiesto di sentire a prova contraria Ma.Sa. o in alternativa V.G. (a verbale è scritto D.G., ma si tratta di un evidente errore materiale) e C.M.A., segretaria del M.. Dopo il contraddittorio delle parti sul punto, il Tribunale aveva ammesso, a scelta della difesa, la testimonianza di Ma. o di D.G. (come sopra, da intendersi V.) nonché della C. che, presente in aula, veniva immediatamente escussa procedendosi poi a confronto con Sa.Pa.. In esito all'acquisizione di ulteriori atti, il Tribunale aveva ritenuto superflua la testimonianza di Ma. o di V. "apparendo esauriente la testimonianza molto circostanziata della C." e aveva disposto la revoca della "prova integrativa", senza che sia stata registrata opposizione o eccezione della difesa che aveva chiesto di produrre la copia di sentenza irrevocabile di un contenzioso del Sa. e i messaggi e la mail di V., documenti che venivano immediatamente acquisiti su accordo delle parti. All'esito il Tribunale aveva dichiarato chiusa l'istruttoria dibattimentale e rinviato l'udienza in prosieguo per la discussione. E', dunque, agevole rilevare, sulla base di tale ricostruzione, che non vi è stata alcuna immediata deduzione o eccezione della parte presente, ai sensi dell'art. 182 c.p.p., comma 2, della nullità oggi prospettata con la conseguenza che essa è stata sanata. Proprio alla luce di tale dato, la censura difensiva era stata tardivamente proposta in sede di appello era quindi inammissibile per intervenuta decadenza. Deve essere ribadito, altresì, per confortare ancor più la infondatezza del motivo di ricorso, che, qualora il giudice dichiari chiusa la fase istruttoria senza che sia stata assunta una prova in precedenza ammessa e le parti, corrispondendo al suo invito, procedano alla discussione senza nulla rilevare in ordine alla incompletezza dell'istruzione, la prova in questione deve ritenersi implicitamente revocata con l'acquiescenza delle parti medesime (ex multis, Sez. 5, n. 7108 del 14/12/2015, dep. 2016, Sgherri, Rv. 266076; Sez. 3, n. 29649 del 27/3/2018, Bulletti, Rv. 273590). 6.Ritiene il Collegio che i motivi di ricorso concernenti la valutazione del compendio indiziario, inquadrati nella prospettiva della intervenuta prescrizione del reato, non sono fondati. Va immediatamente rilevato che la sentenza impugnata ha "espunto" dalla ricostruzione dei rapporti M.- S. la vicenda della compravendita di via (OMISSIS). La sentenza effettivamente richiama la esistenza di un rapporto erogazione/percezione fra i due ma con la precisazione che si trattava di un rapporto in cui non erano emersi indizi di reato e che, in ultima analisi, ciò che rileva ai fini della vicenda oggetto di contestazione era l'accertamento delle ragioni del rapporto do ut des, sottostante all'operazione di (OMISSIS), rapporto che, per l'acquisto di via (OMISSIS), risalente al 2009/2010, non era emerso. Ricostruendo tale ultima operazione, la Corte di merito ha dato atto che non si trattava di un'operazione illecita e che la sottostante operazione sospetta - evidenziata nella sentenza di primo grado - aveva comportato un semplice sgravio fiscale (si trattava di una delegazione di terzo) e, conclusivamente, che non emergeva, né era stata contestata, una contropartita dell'operazione acquisto/vendita. Ritiene il Collegio che la corretta perimetrazione della condotta illecita dell'imputato, che costituisce la trama argomentativa della sentenza impugnata, non consente di ravvisare un errore di metodo ictu oculi evidente nell'analisi dei giudici di appello e men che mai di ritenere che, ai fini del giudizio di responsabilità, la Corte di appello abbia, indebitamente, valorizzato ciò che, in prima battuta, aveva espunto dal panorama indiziario: certamente era esistita una operazione di compravendita tra l'imputato e lo S. ma tale operazione non era oggetto di addebito perché nulla segnalava che vi fosse stata una parallela condotta di asservimento delle funzioni pubblicistiche del M. agli interessi dell'imprenditore. E', questo, a ben vedere il tema fondante dell'accusa rivolta al M. e incentrata su un inequivoco dato certo (che egli abbia chiesto e ricevuto la provvista impiegata per l'acquisto dell'immobile di (OMISSIS)) sollecitando in tale senso l'immobiliarista e che tale dazione fosse rivelatrice di un accordo nel quale sinallagmaticamente convergevano la dazione dello S. e l'esercizio di funzioni orientate a soddisfare le esigenze dell'imprenditore, da parte del M.. Ognuno di questi passaggi è contestato dalla difesa dell'imputato che oppone alla individuazione della causale valorizzata dai giudici del merito (lo scambio o do ut des) la generosità dello S., solito erogare ai soggetti più disparati notevoli o ingenti benefici economici; la irrilevanza, ai fini della sussistenza del reato, del fine recondito dello S., di conseguire utilità dal funzionario; la carenza di prova su utilità effettivamente elargite dal M. e, quindi, la inesistenza della prova di un qualsivoglia accordo tra le due parti. Secondo la tesi svolta nel ricorso, la Corte di merito, trascurando la lettura di tali elementi, è incorsa in un errore prospettico omettendo la valutazione di elementi che depongono per la esistenza di un'ipotesi alternativa a quella dell'accordo corruttivo. Come noto, neanche il principio dell'oltre ragionevole dubbio", introdotto nell'art. 533 c.p.p. dalla L. n. 46 del 2006, ha mutato la natura del sindacato della Corte di cassazione sulla motivazione della sentenza, che non può essere utilizzato per valorizzare e rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto, eventualmente emerse in sede di merito e segnalate dalla difesa, una volta che tale duplicità sia stata oggetto di attenta disamina da parte del giudice dell'appello, giacché la Corte è chiamata ad un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva per mezzo di una valutazione unitaria e globale dei singoli atti e dei motivi di ricorso su di essi imperniati, non potendo la sua valutazione sconfinare nel merito. (Sez. 2, n. 29480 del 07/02/2017, Cammarata, Rv. 270519). E', dunque, sulla base di queste coordinate che la Corte di Cassazione può rileggere le conclusioni del giudice del merito non senza rilevare che, nella dedotta prospettiva di assoluzione nel merito dell'imputato sarebbe necessaria una verifica sulla attendibilità delle dichiarazioni di S.S. e di Sa.Pa. e procedere ad un raffronto con altre evidenze probatorie, incompatibili con la pronuncia di cui all'art. 129 c.p.p., comma 2, tenuto conto che le argomentazioni della Corte di merito non si connotano in termini di manifesta illogicità nella parte in cui i giudici di appello hanno escluso la esistenza di un rapporto di amicizia fra l'imputato e S. - un rapporto esistente con il figlio dell'imprenditore ma non con questi - e di poter ricondurre alla generosità dell'imprenditore la messa a disposizione del funzionario pubblico della somma di Euro 367.850,72, impiegata per l'acquisto dell'immobile di (OMISSIS). A questo riguardo la Corte, pur dando atto della ritrattazione delle dichiarazioni rese al giudice per le indagini preliminari da parte dello S. e che M. potesse fare qualcosa per lui, ha rilevato che l'imprenditore, anche in dibattimento, aveva confermato una parte delle precedenti dichiarazioni ribadendo " M. sappiamo chi era, M. era una persona, a Roma si sapeva che era una personalità" e che tali dichiarazioni vanno messe in relazione con il volume di affari che S. aveva con il Comune. Sulla scorta di questi elementi, secondo la sentenza impugnata, doveva escludersi che il rapporto fra i due potesse essere letto come estrinsecazione fattiva di una semplice amicizia e come un gesto di generosità e che, invece, tale rapporto doveva essere letto come un semplice do ut des. Le dichiarazioni rese dallo S., anche in questa più ridotta versione (rispetto a quella resa al giudice per le indagini preliminari) sono state del tutto logicamente valorizzate dalla Corte di merito per "inquadrare", attraverso la diretta voce di uno dei protagonisti, il rapporto "personale" fra l'imprenditore e il funzionario pubblico, un rapporto affatto riconducibile e sovrapponibile ad un rapporto di amicizia idoneo a giustificare la generosa dazione e che, rispetto a donazioni e impegni economici dello S. a favore di vari beneficiari (si tratta delle persone pure indicate nel ricorso che rientravano però nella cerchia di amici, conoscenti e persone di servizio dell'imprenditore) giustifica, sul piano logico, le conclusioni della Corte di appello. Ne' rivela cadute logiche manifeste la conclusione della Corte di appello nella parte in cui ha escluso che appartenesse al foro interiore dello S. la finalità della dazione: una tale opzione è esclusa sulla base della dinamica dei rapporti intercorsi tra l'imputato e lo S. e dalla insussistenza di una alternativa valida causale alla dazione e corrispondente alla spiegazione che lo S. stesso ne ha dato. Del pari, senza evidenti cadute logiche, la Corte ha anche argomentato l'ulteriore affermazione che le aspettative dello S. fossero non solo ben riposte ma che avessero trovato riscontro in specifiche iniziative dell'imputato. La sentenza impugnata ha esaminato a tal riguardo (cfr. pag. 22 e ss.) le dichiarazioni rese da Sa.Pa. che hanno "individuato alcune condotte nelle quali si è esplicitato, nel corso degli anni, l'interessamento del M. per le vicende dell'imprenditore S.....e, in particolare su un incontro, tra maggio e giugno 2010, con lo S., preceduto da una telefonata del M. che nel frattempo lavorava in RAI". Oggetto dell'incontro - che il Sa. non ricordava con esattezza, visto il tempo trascorso - era il pagamento di fitti arretrati per poche migliaia di Euro. Ricordava, inoltre che era stato proprio il M. a comunicargli il suo trasferimento presso altra unità, nonostante le richieste "spot" che durante il comando in Rai gli aveva rivolto, evidentemente non apprezzandone come fattivo l'interessamento del Sa. nelle occasioni in cui gli si era rivolto. Con riguardo alle dichiarazioni del Sa. - alla cui deposizione si giustappongono le osservazioni difensive sviluppate anche nel motivo sub 3 - la Corte di merito non ha trascurato di esaminare gli elementi che, secondo le osservazioni della difesa, ne minavano l'attendibilità, superate evidenziando il disinteresse del teste - rispetto alla affermazioni compiacenti di un'amica dell'imputato quale la teste C. - e la descrizione di un contesto ambientale - un diffuso malcostume e caos organizzativo degli uffici comunali - che ne escludevano qualsivoglia animosità verso il M.. Si tratta di affermazioni ineccepibili e in linea con le valutazioni che, sul punto dell'attendibilità, devono sorreggere la valutazione del giudice del merito a fronte di contrapposte versioni rese dai testi. Premesso che ai fini della integrazione del reato in esame è sufficiente il dolo generico, l'elemento psicologico del reato è configurabile in presenza della concreta dinamica del rapporto con lo S., della insussistenza di un rapporto di amicizia di tale intensità da giustificare la consegna di una somma così elevata e dalla correlazione, emersa anche dalle dichiarazioni del Sa., tra la dazione della somma e l'impegno del M. a favore dello S. dovendo escludersi che l'accettazione possa essere ricondotta ad una semplice leggerezza dell'agente. L'accertata dazione; le affermazioni dello S. e la ricostruzione del Sa. hanno, dunque, costituito la piattaforma indiziaria sulla quale la sentenza impugnata ha ricostruito sia gli interessi economici dell'imprenditore che la rilevanza per l'imprenditore delle cariche ricoperte, nel corso degli anni, dal M.. La Corte di merito ha affermato la natura di reato di p.lo del reato di cui all'art. 318 c.p. ponendosi nel solco della giurisprudenza di questa Corte che ne ha enucleato il tratto distintivo, rispetto al reato di cui all'art. 319 c.p., in quanto la corruzione per l'esercizio della funzione ha natura di reato di pericolo che sanziona la presa in carico, da parte del pubblico funzionario, di un interesse privato dietro una dazione o promessa indebita, senza che sia necessaria l'individuazione del compimento di uno specifico atto d' ufficio (Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019, dep. 2020, Bolla, Rv. 279555) e non richiedendosi necessariamente che l'asservimento dell'agente all'interesse privato si sia protratto nel tempo (Sez. 6, n. 33251 del 26/05/2021, Crocetta, Rv. 281844) La sentenza impugnata ha respinto anche il motivo di impugnazione relativo alla qualificazione giuridica del fatto come delitto di cui all'art. 346 c.p. escludendo (cfr. pag. 28) che la condotta potesse essere individuato come quella di un dispensatore di influenze trattandosi, viceversa, di competenze che rientravano nei suoi poteri funzionali. Si tratta a questo riguardo, una differenza ben scolpita nella giurisprudenza di questa Corte secondo la quale ai fini della configurabilità del delitto di cui all'art. 346 c.p. limitata a remunerare l'opera di mediazione compiuta da chi si attiva per promuovere un accordo corruttivo al quale resta estraneo (cfr. Sez. 6, n. 18125 cit.) e, quindi, anche per tali aspetti, le conclusioni dei giudici del merito non denunciano aporie immediatamente percepibili. Sulla scorta di tali considerazioni deve pervenirsi alla dichiarazione di prescrizione del reato poiché il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell'art. 129 c.p.p., comma 2, soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di "constatazione", ossia di percezione "ictu oculi", che a quello di "apprezzamento" e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244274). 7. Come noto, sono molto controversi i principi, di matrice giurisprudenziale, che regolano, in presenza di reato prescritto, lo statuto della confisca e che hanno trovato codificazione nella previsione di cui all'art. 578-bis c.p.p. - che si ritiene norma processuale di immediata applicazione secondo il principio "tempus regit actum" (Sez. 2, n. 19645 del 02/04/2021, Rv. 281421; Sez. 3, n. 8785 del 29/11/2019, Rv. 278256). La norma impone espressamente, ai fini della conferma o meno della confisca, un compiuto accertamento della penale responsabilità dell'imputato, secondo una regola che era già prevista in materia di statuizioni civili e che discende dalla necessità di non disperdere le risultanze di prova. Pacifica, in materia di statuizioni civili, l'affermazione che nel giudizio di impugnazione, il giudice, nel dichiarare estinto per prescrizione il reato per il quale è intervenuta condanna, deve decidere sull'impugnazione agli effetti delle disposizioni dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili, non essendo sufficiente, ai fini della conferma della condanna al risarcimento del danno, dare atto della insussistenza dei presupposti per l'applicazione dell'art. 129 c.p.p., comma 2. In tale caso, infatti, il giudice dell'impugnazione è tenuto ad esaminare la ricorrenza degli elementi che confermino il giudizio di responsabilità secondo lo standard probatorio di cui all'art. 533 c.p.p.. E' stato molto discusso l'ambito dell'art. 578-bis c.p.p. nel senso che ci si è interrogati sulla sua portata applicativa e se riferibile alle sole ipotesi di confisca obbligatoria o di confisca allargata o anche alle ipotesi recate da qualsiasi legge e, in particolare alla confisca prevista dall'art. 322-ter, che è poi il caso di interesse, norma di diritto sostanziale, questa, vigente quanto agli effetti della confisca alla data del fatto, e il cui riferimento è stato introdotto, nell'art. 578-bis cit., per effetto della L. n. 3 del 2019, art. 3, lett. f). Si è con precisione affermato - con riferimento alla lottizzazione abusiva - che la confisca di cui al D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 44, comma 2, può essere disposta anche in presenza di una causa estintiva del reato determinata dalla prescrizione, purché la sussistenza del fatto sia stata già accertata, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, nell'ambito di un giudizio che abbia assicurato il pieno contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati, fermo restando che, una volta intervenuta detta causa, il giudizio, in applicazione dell'art. 129 c.p.p., comma 1, non può proseguire al solo fine di compiere il predetto accertamento (Sez. U, n. 13539 del 30/01/2020, Perroni, Rv. 278870). Resta, fermo, peraltro, il principio certamente implicito anche in relazione all'applicazione dell'art. 578-bis c.p.p. (così come lo è sempre stato con riguardo alla parallela norma dell'art. 578 c.p.p.), secondo cui i poteri cognitivi della Corte - come detto tenuta ad esaminare la ricorrenza degli elementi che confermino il giudizio di responsabilità secondo lo standard probatorio di cui all'art. 533 c.p.p. - sono comunque vincolati alla fisiologia del giudizio di legittimità, sia in relazione alla impossibilità di operare valutazioni del fatto, sia in relazione alla natura devolutiva del giudizio, legato ai motivi di ricorso, salve le ipotesi di ordine eccezionale di cui all'art. 609 c.p.p., comma 2. La sentenza impugnata (cfr. pag. 29) ha confermato la confisca dell'immobile di (OMISSIS) quale "profitto del reato" sul presupposto che l'immobile in oggetto, assoggettato dunque a confisca diretta, è stato acquistato con i fondi erogati dallo S. al M. e che l'immobile è frutto dell'investimento ed impiego di tali somme. La Corte di merito ha ritenuto, altresì, che non operasse la clausola di salvaguardia di cui all'art. 322-ter c.p. risultando la signora P.C., moglie del M., mera intestataria dell'immobile. Ritiene il Collegio che si è in presenza di una motivazione ellittica, essendosi fatta discendere la "mera fittizia intestazione in capo alla P." dalla sua mancata comparizione a rendere dichiarazioni testimoniali nel processo e in assenza di valutazioni sulle specifiche deduzioni difensive, riportate al punto 2.6 dei motivi ma già contenute nei motivi di appello, che chiedevano di valutare iniziative della P., precedenti e successive all'acquisto quali, ad esempio, le dichiarazioni del teste Pa., che dalla P. aveva ricevuto il mandato per la vendita dell'immobile: si tratta di rilievi, incidenti sulla valenza dell'applicazione del disposto di cui all'art. 322-ter c.p., rispetto ai quali non si rinvengono, nella sentenza impugnata, valutazioni pertinenti e ancorate alla ricostruzione in fatto dell'operazione economica. Anche in tema di responsabilità civile, la Corte di appello ha confermato le statuizioni di risarcimento del danno sul rilievo che le acquisizioni probatorie incidono sulla prospettazione dei danni cagionati alla parte civile (OMISSIS) USB in quanto la condotta illecita dell'imputato ha determinato una evidente distorsione della finalità abitative poste a tutela degli inquilini beneficiari del regime di preferenza di cui aveva usufruito la P.. Si tratta, al riguardo, di motivazione del tutto carente a fronte delle deduzioni difensive sul punto della legittimità del regime di preferenza riconosciuto alla P., superata alla stregua delle modalità di acquisizione della provvista, modalità che, tuttavia, non incidono sulle condizioni di legittimazione della P. che erano state prospettate con i motivi di appello e che presuppongono una ricostruzione e valutazione in fatto preclusa in sede di legittimità. Quanto all'importo delle somme liquidate a titolo di risarcimento del danno in favore di (OMISSIS) USB, "(OMISSIS)", "(OMISSIS)" e "(OMISSIS)" la Corte di merito ha ritenuto accertato, attraverso la condotta illecita ascritta al M., un vulnus ai principi di rango costituzionale, dell'imparzialità, buon andamento e trasparenza dell'Amministrazione pubblica ma la motivazione, a fronte delle specifiche deduzioni sollevate con i motivi di appello, è carente sulle modalità di determinazione della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno morale (cfr. Sez. 6, n. 48461 del 28/11/2013, Fontana, Rv. 258170), determinazione che non può prescindere dalla individuazione, ed esposizione attraverso congrui riferimenti in fatto, dei parametri individuati e posti a base della liquidazione di importi di ragguardevole valore economico e che sono stati parametrati unicamente sulla illiceità della condotta dell'imputato. Per questi aspetti, dunque, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Roma. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata senza rinvio perché il reato è estinto per prescrizione e con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma limitatamente alla confisca e alle statuizioni civili. Così deciso in Roma, il 9 novembre 2021. Depositato in Cancelleria il 19 aprile 2022
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