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Corruzione propria: sulla configurabilità del reato nei confronti di un parlamentare

Corruzione

Cassazione penale sez. VI, 02/07/2018, n.40347

Non è configurabile il reato di corruzione propria, di cui all'art. 319 c.p., nei confronti di un membro del Parlamento che riceva un'indebita utilità in relazione all'esercizio della sua funzione, in quanto l'attività del parlamentare non è soggetta a sindacato, essendo prevista dagli artt. 67 e 68 Cost. l'assenza del vincolo di mandato e l'immunità nei voti espressi, con la conseguenza che non è possibile valutare la condotta in termini di contrarietà o conformità ai doveri di ufficio. (In motivazione, la Corte ha precisato che la condotta del parlamentare non è neppure valutabile sotto i profili dell'imparzialità e del buon andamento, trattandosi di principi che valgono per la sola attività amministrativa in senso stretto).

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 20/4/2017 la Corte di appello di Napoli, in parziale riforma di quella del Tribunale di Napoli in data 8/7/2015, ha prosciolto - per la sopravvenuta estinzione dovuta a prescrizione - B.S. e L.V. dal reato di cui agli artt. 321 e 319 c.p. in relazione alla dazione di complessivi Euro 3.000.000,00 al Sen. D.G.S., volta a costituire un mandato imperativo contrario ai doveri di ufficio, in funzione di voti contrari alle proposte della maggioranza di governo, ma ha confermato le statuizioni in favore della costituita parte civile Senato della Repubblica e a carico degli imputati e del responsabile civile Movimento Politico Forza Italia. 2. Ha proposto ricorso il B. tramite i suoi difensori. 2.1. Con il primo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento all'art. 125 c.p.p., comma 3, art. 111 Cost.. Rileva in particolare che la Corte territoriale aveva fatto ricorso a motivazione "per relationem", semplicemente richiamando per ampi stralci la sentenza di primo grado e asserendo apoditticamente di condividerne le valutazioni ma senza confrontarsi puntualmente con gli argomenti esposti negli articolati motivi di appello, che sono stati a tal fine per intero allegati. 2.2. Con il secondo motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 521,533 e 177 c.p.p.. La Corte aveva respinto la censura relativa al difetto di correlazione tra contestazione e sentenza, ritenendo che oggetto dell'imputazione fosse la violazione del divieto di mandato imperativo tutelata dall'art. 67 Cost. e dunque una generica violazione della libertà del parlamentare, mentre la contestazione concerneva un comportamento circoscritto e circostanziato, riferito alle manifestazioni di voto contrarie alle proposte della maggioranza di governo, e faceva anche riferimento a talune votazioni. Ciò si ricollegava del resto all'ordinanza con cui il G.I.P. aveva in origine respinto la richiesta di giudizio immediato, prospettando la necessità di una specificazione dei comportamenti concreti addebitati all'ex-Senatore, onde verificare se avesse assicurato un beneficio al privato a seguito del compenso ricevuto anzichè avvantaggiato il partito o il proprio interesse personale all'acquisizione di maggiore credibilità politica. Osserva ancora il ricorrente che non avrebbe potuto farsi riferimento all'esercizio del diritto di difesa, che avrebbe dovuto comunque commisurarsi al comportamento oggetto di contestazione. 2.3. Con il terzo motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla sussistenza nel parlamentare della qualità di pubblico ufficiale, alla sussistenza del delitto di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio e del delitto di corruzione per l'esercizio delle funzioni di cui all'art. 318 c.p., alla sussistenza delle garanzie costituzionali di cui agli artt. 54,67 e 68 Cost., alla carenza di giurisdizione penale, all'applicazione dell'art. 129 c.p.p., comma 2. La Corte erroneamente aveva ravvisato il delitto di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio, dando rilievo alla messa a disposizione da parte del Sen. D.G. della propria funzione pubblica in favore del B. in cambio di vantaggio patrimoniale. Aveva in particolare osservato che un atto, pur discrezionale, non è libero da parametri di riferimento ed è contrario se il pubblico ufficiale non persegue l'interesse concreto per cui il potere è stato conferito, ma opera la scelta del suo comportamento in modo da assicurare l'interesse del privato corruttore, a causa del compenso ricevuto, in modo che l'atto trovi il suo fondamento in tale interesse. Ma nel caso di un senatore della Repubblica avrebbe dovuto prendersi atto che non vi è alcun criterio di riferimento dell'attività parlamentare, che possa consentire di formulare un giudizio di contrarietà ai doveri di ufficio, a fronte della libertà dei fini e della mancanza di un vincolo o mandato imperativo, ai sensi degli artt. 67 e 68 Cost.. Peraltro la Corte contraddittoriamente aveva da un lato esteso l'oggetto della contestazione fino alla messa a disposizione e all'asservimento della funzione parlamentare e dall'altro posto a fondamento della scelta del Senatore ragioni di diversa natura, prospettando il perseguimento di un vantaggio economico come profilo determinante. Ma in realtà la Corte aveva sottoposto l'autonomia e l'indipendenza dell'attività parlamentare ai parametri di valutazione enucleati con riguardo all'attività amministrativa, trascurando il dato costituzionale dell'insindacabile libertà di deputati e senatori in ossequio a quanto stabilito dagli artt. 67 e 68 Cost. e dai regolamenti parlamentari. A ben guardare, la pur necessaria verifica dell'atto avrebbe finito per imporre un inammissibile sindacato sull'atto parlamentare, fermo restando che sono sottratti al controllo sia il contenuto sia le ragioni dell'atto steso. Di qui il vano tentativo della Corte di svincolare la condotta contestata dal singolo atto e di far riferimento alla messa a disposizione del D.G., in violazione del divieto di mandato imperativo ex art. 67 Cost. e dell'obbligo di adempiere con disciplina e onore le funzioni pubbliche ex art. 54 Cost., peraltro senza vagliare il tema della configurabilità semmai dell'ipotesi di cui all'art. 318 c.p., come riformulato dalla L. n. 190 del 2012 e non applicabile ai fatti anteriori, e senza soffermarsi sulle censure formulate in ordine alla valenza attribuibile all'art. 54 Cost.. Rileva inoltre il ricorrente che la Corte aveva omesso di valutare correttamente il tema della qualità di pubblico ufficiale in capo al parlamentare, a fronte di una pluralità di ipotesi e di attività che non possono dirsi riconducibili all'art. 357 c.p., non essendo consentito prospettare una figura di pubblico ufficiale in servizio permanente. Osserva che il parlamentare può svolgere funzioni legislative ma anche di altro genere, di natura amministrativa o giudiziaria, e che inoltre può compiere attività che non possono dirsi riconducibili alla veste di pubblico ufficiale, come nel caso del voto per l'elezione di giudici costituzionali, fermo restando che vi sono funzioni che non possono ricomprendersi nell'area di applicabilità del codice penale, in quanto riferibili a funzioni proprie insindacabili, anche in ragione della fonte normativa che le prevede, come il regolamento del Senato. Segnala che la Corte non si era confrontata neanche con la natura complessa della funzione legislativa e con il valore da attribuirsi sotto il profilo penalistico al singolo voto, conseguendone che il D.G. avrebbe in realtà asservito la sua funzione per un solo frammento prodromico al perfezionamento dell'iter legislativo. Del resto nel capo di imputazione si faceva riferimento non alla generica messa a disposizione bensì al voto, in particolare a voti di fiducia, insuscettibili di essere posti a fondamento di una corruzione propria, in quanto non espressione di voto legislativo, salve le interconnessioni con il diverso tema dell'illecito finanziamento. In ogni caso non era stata individuata alcuna attività che potesse far ritenere sussistente una messa a disposizione di una funzione parlamentare tipica, essendo stata omessa la verifica degli atti compiuti dal parlamentare nell'esercizio delle funzioni insindacabili e di quelli conoscibili dall'autorità giudiziaria. La carente motivazione aveva condotto la Corte a non ravvisare il sostanziale mutamento della qualificazione giuridica, in rapporto ai novellati artt. 318 e 320 c.p., e a non trarre da ciò le dovute conseguenze. In realtà avevano formato oggetto della contestazione comportamenti da ritenersi insindacabili ai sensi dell'art. 68 Cost. e la Corte aveva cercato di eludere tale aspetto, pur dando conto di quell'insindacabilità, ma facendo leva sulla strumentalizzazione della funzione, a prescindere da singoli atti parlamentari, e in particolare dando rilievo alla rinuncia da parte del parlamentare alla libertà ed autonomia, al suo agire con dignità e probità nell'interesse della nazione e non in quello particolaristico del privato. Ma in tal modo si sarebbe dovuto indagare sui motivi delle convinzioni ideologiche del D.G. per valutare in concreto la libertà di scelta, ciò che sarebbe stato tuttavia impossibile, stante l'immunità desumibile dagli artt. 67,68 e 96 Cost.. Peraltro le dichiarazioni del D.G., che aveva rivendicato la propria indipendenza, si ponevano in contrasto con gli assunti della Corte, incorsa sul punto in un travisamento del fatto. Si sarebbe dovuto dunque pronunciare sentenza di assoluzione, giacchè la contrarietà dell'atto ai doveri è elemento costitutivo e d'altro canto non è ravvisabile condotta corruttiva nel fatto che il pubblico ufficiale sia pagato per fare ciò che avrebbe comunque fatto. Peraltro l'assunto della configurabilità di atti contrari ai doveri di ufficio si poneva in contrasto con le garanzie stabilite dagli artt. 67 e 68 Cost.. Richiama a tal fine casi analoghi di ipotesi corruttive, esaminati dalla Giunta della Camera di appartenenza, come il caso Felici o come quello riguardante l'on. Po.Ci., conclusosi con il giudizio di insindacabilità della condotta. Ma accanto alla giustizia "domestica" il ricorrente richiama anche gli insegnamenti della Corte costituzionale, facendo riferimento alle sentenze n. 81 del 1975 e n. 379 del 1996, rimarcando la netta delimitazione tra comportamenti dei membri delle Camere insindacabili e comportamenti che non sono sottratti al diritto comune e rilevando come il riferimento fatto nella sentenza 379 del 1996 alla corruzione dipenda pur sempre dal tipo di atto. Fa quindi riferimento alla sentenza n. 4 del 1983 delle Sezioni unite penali della Corte di cassazione, segnalando la mancanza di distinzione tra momento dell'espressione del voto e momento formativo della volontà e alla sentenza del 2/3/2006 delle Sezioni unite civili, che esprimono analoghi concetti in ordine alla non perseguibilità in caso di atti compiuti nell'esercizio indipendente delle proprie attribuzioni e distinguono gli atti parlamentari dai voti, che sono in realtà l'oggetto del capo di imputazione ascritto agli imputati. Rileva il ricorrente che tali principi in ordine alla non interferenza dell'autorità giudiziaria devono essere valutati alla luce della L. n. 140 del 2003, art. 3, che individua le attività e le funzioni ricomprese nel mandato parlamentare. Nè varrebbe il riferimento a più recente giurisprudenza relativa alla configurabilità dell'ipotesi di cui all'art. 318 c.p. risultante dalle modifiche introdotte dalla L. n. 190 del 2012. All'insindacabilità deve aggiungersi l'ulteriore aspetto riguardante la distorta interpretazione dell'art. 67 Cost., in ordine al quale la Corte ha fornito una motivazione contraddittoria, distinguendo il caso di imposizione di mandato imperativo da quello in cui non vi sia stata imposizione ma consapevole adesione ad un mandato non per ragione di libera scelta ma in conseguenza del mercimonio. In ogni caso l'impostazione seguita dalla Corte imporrebbe l'impossibile verifica dei moti dell'animo del D.G.. Richiama il ricorrente giurisprudenza della Corte costituzionale in ordine al valore attribuibile all'art. 67 Cost. e segnala il già richiamato provvedimento del G.I.P. del Tribunale di Napoli, con cui era stata respinta la richiesta di giudizio immediato, nonchè la richiesta di archiviazione della Procura di Roma relativa ad altre asserite ipotesi di profferte del B. a parlamentari. Conclude sul punto chiedendo che sia riconosciuto il difetto di giurisdizione del giudice penale e che comunque la sentenza sia annullata senza rinvio per l'evidenza delle ragioni di assoluzione con annullamento anche delle statuizioni civili. In alternativa chiede che sia sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 357 c.p. per violazione degli artt. 64,67,68,70,72,94 e 96 Cost.. 2.4. Con il quarto motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla sussistenza dell'ipotesi di cui all'art. 319-quater c.p.. Sviluppa a tal fine argomenti volti a prospettare la condotta induttiva del D.G., nel quadro di una serie di ricostruzioni alternative proposte con l'atto di appello: in particolare valorizza il fatto che il D.G. era politico di centro-destra, che aveva approfittato della propria posizione politica, per costringere B. a concludere un accordo federativo con il suo partito, sottolineando che non vi erano certezze sull'accordo corruttivo e non vi era prova dell'atto contrario ai doveri di ufficio, mentre era stata posta in luce la scarsa fiducia reciproca dell'uno verso l'altro contraente. 2.5. Con il quinto motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla sussistenza di un finanziamento illecito ai partiti. Al riguardo rileva che l'ipotesi accusatoria era stata declinata indebitamente nei termini di una messa a disposizione, tale da escludere la configurabilità di un illecito finanziamento, essendo state in tal modo contraddette l'imputazione e le risultanze probatorie, suffragate dalle dichiarazioni di numerosi testi e dalla documentazione attestante gli accordi politici intercorsi. Del resto la Corte aveva disatteso la tesi difensiva, seguendo l'impostazione del Tribunale, nonostante il riconosciuto errore compiuto da quest'ultimo in ordine alla collocazione temporale del primo bonifico rispetto alla data dell'accordo federativo. Nè avrebbe potuto darsi rilievo alla lettera del D.G. del 6/6/2007, diversamente giustificabile, mentre avrebbe dovuto farsi riferimento agli argomenti sviluppati nel provvedimento del G.I.P. del Tribunale di Napoli, emesso in risposta alla richiesta di decreto di giudizio immediato, con il quale era stata segnalata la necessità di verificare il comportamento del D.G., onde comprendere se potesse dirsi in concreto violato il dovere di imparzialità, ciò che avrebbe dovuto ritenersi dubbio a fronte di quanto dichiarato dallo stesso D.G. circa la propria indipendenza e il perseguimento di un proprio disegno, mentre non si sarebbe potuto escludere che il versamento in nero di due milioni di Euro costituisse finanziamento illecito ai partiti. Rileva il ricorrente che sulla base di tali elementi avrebbe dovuto pronunciarsi sentenza di proscioglimento con ampia formula, fermo restando che il riferimento al versamento della somma in nero, anteriore al marzo 2008, avrebbe comportato la retrodatazione del reato anche ai fini del termine di prescrizione, a quel punto maturata prima della sentenza del Tribunale, con la conseguenza che avrebbero dovuto revocarsi anche le statuizioni civili. 2.6. Con il sesto motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 125,192,546 e 533 c.p.p. sul tema della credibilità soggettiva e dell'attendibilità intrinseca di D.G.. La Corte aveva motivato "per relationem", omettendo di valutare la genesi della collaborazione del D.G., la richiesta di aiuto economico a B., l'insussistenza del patto corruttivo e l'autonomia rivendicata dal D.G.. La Corte non solo aveva indebitamente e illogicamente individuato nell'esercizio del diritto di difesa dell'imputato la prova della veridicità delle dichiarazioni dell'accusatore ma aveva omesso di trarre le debite conclusioni dal riconoscimento di talune contraddizioni e falsità e dal fatto che il D.G. avesse ammesso la vicenda relativa alle pressanti richieste di denaro fatte a B.. Inoltre la Corte aveva omesso di considerare il momento in cui il D.G. aveva patteggiato la pena, dopo il rigetto della richiesta di giudizio immediato, in una fase in cui aveva necessità di proteggersi dai processi in corso. Del resto l'istruttoria aveva posto in luce l'inattendibilità del D.G., che aveva comunque dato conto della sua indipendenza, dichiarandosi obbligato solo in occasione dei voti di fiducia. Inoltre la Corte aveva omesso di valutare la ricostruzione del consulente della difesa in ordine alla storia economica del D.G., il cui racconto aveva solo la finalità di giustificare versamenti in contanti che lo preoccupavano. Le sue dichiarazioni avrebbero dovuto dunque considerarsi strumentali al perseguimento di specifici vantaggi sul piano processuale, mentre evidente avrebbe dovuto reputarsi l'insussistenza del fatto, in quanto D.G. era organico al centro-destra e il versamento della somma non avrebbe potuto considerarsi il prezzo o la ragione dei voti espressi o del contegno politico tenuto. D'altro canto la Corte aveva omesso di valutare rigorosamente l'attendibilità di chi aveva comunque palesato un comportamento moralmente deprecabile, dando specificamente conto dei motivi per cui dovesse escludersi che la narrazione fosse stata piegata a vantaggio dello stesso dichiarante. 2.7. Con il settimo motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione con travisamento della prova in relazione agli atti del processo indicati. In particolare la Corte, nel confermare gli assunti del primo Giudice, aveva reputato irrilevanti alcune criticità poste in luce, quando in realtà avrebbe dovuto darsi rilievo alle risultanze delle agende di B., al patto federativo e all'accordo integrativo tra Forza Italia e il Movimento politico italiani nel mondo, all'acquisizione della sentenza n. 24 del 2015 della Corte di Conti, alla deposizione del consulente di parte dott. Ga., ciò che non era avvenuto con conseguente erroneità e contraddittorietà della motivazione. 2.8. Con l'ottavo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione sulla sussistenza dell'elemento psicologico in capo a B.. La Corte si era limitata a formule di stile, a fronte di quanto dedotto in ordine alla convinzione del ricorrente di agire quale parlamentare, nell'interesse della nazione, di agire nell'ambito di accordi politici e di confidare nel fatto che i precedenti giurisprudenziali erano nel senso di escludere che la condotta contestata potesse integrare reato. Nè avrebbe potuto rilevare il sopravvenire di un diverso orientamento alla luce delle modifiche introdotte dalla L. n. 190 del 2012, non applicabili nel caso in esame, fermo restando che il mutamento della giurisprudenza avrebbe dovuto essere vagliato sotto il profilo della mancanza del dolo anche alla luce di quanto più volte affermato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo in relazione alle esigenze sottese all'art. 7 C.E.D.U.. 2.9. Con il nono motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione sulle statuizioni civili. La Corte, senza specifica argomentazione, ma limitandosi a richiamare la sentenza di primo grado, aveva rilevato che il danno derivava dalla consapevolezza collettiva che la condotta di un membro era stata oggetto di mercimonio e che la funzione ricoperta era stata stravolta per fini utilitaristici. Ma non era stata raggiunta alcuna prova che il D.G. avesse agito per fini diversi dall'interesse della nazione e che il prestigio del Senato avesse subito un danno. Avrebbe dovuto anche considerarsi che il Consiglio di Presidenza era contrario alla costituzione di parte civile e nessun altro parlamentare aveva ritenuto di rivolgersi all'autorità giudiziaria, essendosi opinato che la vicenda rientrasse nelle dinamiche parlamentari. Non si trattava invero solo di un problema di prova sulla quantificazione ma di verifica della stessa sussistenza del danno da reato, che era in concreto mancata. 2.10. Con il decimo motivo deduce violazione degli artt. 42,178 e 179 c.p.p. e vizio di motivazione in ordine al rigetto dell'eccezione di nullità della sentenza di primo grado, derivante da incapacità del collegio, presieduto da giudice astenuto. La Corte aveva apoditticamente rilevato l'infondatezza dell'eccezione, sul rilievo della revoca dell'ordinanza dell'11/2/2014, seguita dalla notifica di tale revoca e del decreto che dispone il giudizio ai sensi dell'art. 157 c.p.p., comma 8-bis, a mani dei difensori presenti, senza considerare che l'ordinanza impugnata avrebbe dovuto reputarsi affetta da nullità assoluta e non revocabile tramite un atto successivo. 2.11. Con l'undicesimo motivo denuncia violazione degli artt. 8,16 e 178 c.p.p. e vizio di motivazione in ordine al rigetto dell'eccezione di incompetenza territoriale. L'imputazione e il primo giudice avevano ricostruito la vicenda come una successione di patti corruttivi e di dazioni, cui avrebbe dovuto correlarsi la configurabilità di più reati unificati sotto il vincolo della continuazione. In alternativa, costruendo la vicenda con un unico fatto con due attività in progressione, avrebbe dovuto considerarsi il reato come permanente. In entrambi i casi si sarebbe dovuto ritenere competente il Tribunale di Roma dove era avvenuto il patto, erano seguiti i primi pagamenti e da dove erano stati erogati i bonifici sui conti del D.G., facendosi riferimento al primo tra reati di pari gravità o all'inizio della permanenza. 2.12. Con il dodicesimo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 125 e 507 c.p.p., con riguardo all'assunzione di nuovi mezzi di prova. La Corte aveva apoditticamente respinto la richiesta di integrazione probatoria, in realtà necessaria per la ricostruzione del fatto storico e per la valutazione dell'attendibilità del D.G., a fronte di contraddizioni e divergenze venute in evidenza rispetto alla ricostruzione offerta dal dichiarante. In particolare avrebbero dovuto ricostruirsi i flussi economici gestiti da D.G. attraverso il movimento politico e attraverso le altre società a lui riferibili mediante l'acquisizione di documentazione bancaria relativa a tutti i conti correnti italiani ed esteri del D.G. e attraverso l'esame della contabilità delle società del predetto, al fine di valutare le disponibilità economiche del Senatore e la provenienza della provvista di denaro che, secondo il dichiarante, derivava dal B. nell'ambito del patto corruttivo. Inoltre indebitamente era stata respinta la richiesta di acquisizione della documentazione contabile esaminata dalla Corte dei Conti, che aveva pronunciato condanna nei confronti di L. e D.G. in favore della Presidenza del Consiglio dei Ministri per la somma di Euro 23.879.502,00. In tale quadro la Corte aveva disatteso l'obbligo di disporre la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nei casi in cui l'ammissione della prova sia stata irragionevolmente negata dal primo Giudice. 2.13. Con il tredicesimo motivo deduce violazione degli artt. 76 c.p.p. e segg. e vizio di motivazione in ordine alla conferma dell'ammissione del Senato della Repubblica come parte civile. Ripropone l'assunto del difetto di legittimatio ad processum, derivante dal fatto che la costituzione di parte civile era avvenuta sulla base di iniziativa del Presidente del Senato, nonostante il dissenso del Comitato di Presidenza e senza la votazione di una delibera da parte dell'assemblea, dovendosi invece aver riguardo a quanto avviene in occasione di azioni o resistenze nei giudizi costituzionali per conflitti di attribuzione. Inoltre il tipo di interessi coinvolto, riguardante la lesione del buon funzionamento dell'amministrazione pubblica avrebbe implicato la legittimazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ma in realtà il punto centrale continuava ad essere rappresentato dalla rilevanza penale di un comportamento accaduto all'interno del Senato, rispetto al quale avrebbe dovuto pronunciarsi il Senato stesso, istituendo una commissione o illustrando la questione in aula, ciò che non era avvenuto nonostante l'esposizione mediatica della vicenda. La costituzione di parte civile dunque non tutelava il Senato ma monetizzava la libertà del mandato parlamentare, che tuttavia non tollerava un'indagine penale. 2.14. Con il quattordicesimo motivo denuncia violazione dell'art. 68 Cost. e L. n. 140 del 2003, art. 3, art. 178 c.p.p. per difetto di giurisdizione e vizio di motivazione in ordine al mancato rilievo dell'insindacabilità della condotta contestata al ricorrente e alla mancata trasmissione degli atti alla Camera dei Deputati. La Corte, richiamando le precedenti valutazioni, aveva rilevato che B. era da intendersi come il privato corruttore, spettando semmai le garanzie al D.G.. Ma in realtà l'imputazione inquadrava la vicenda nell'ambito dell'attività parlamentare di B. e in relazione al ruolo apicale svolto dal predetto nella compagine del centro-destra. Inoltre, stando all'ipotesi accusatoria, avrebbe dovuto rilevarsi che B. aveva sostituito la propria volontà a quella del D.G., esercitando per suo tramite il voto. E peraltro, quand'anche fosse stata ritenuta infondata, la questione avrebbe imposto il previo invio alla Camera dei Deputati per la valutazione sull'insindacabilità, come rilevato in caso analogo dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 149 del 2007. Di qui il disconoscimento delle funzioni attribuite alla Camera dei Deputati, con conseguente violazione dell'obbligo di leale collaborazione che deve contrassegnare il rapporto tra poteri dello Stato. La violazione della L. n. 140 del 2003, art. 3 era tale da comportare una nullità ex art. 178 c.p.p., comma 1, lett. a), rilevante fin dall'udienza preliminare, essendo stato indebitamente valutato il difetto di interesse di B. ad attivare il giudizio di insindacabilità, ritenuto comunque ininfluente rispetto alla sua posizione. Ma in realtà il ricorrente aveva uno specifico interesse sia con riguardo alla propria condotta sia con riferimento a quella del D.G., in quanto la valutazione di insindacabilità o meno di quest'ultimo avrebbe avuto ricadute sulla posizione di B.: se in effetti oggetto dell'accordo era il voto di D.G. con frazionamento dei pagamenti per condizionarlo di volta in volta, non avrebbe potuto configurarsi responsabilità di D.G. e dunque neanche il concorso del ricorrente. 2.15. Con il quindicesimo motivo deduce violazione dell'art. 111 Cost., art. 6 C.E.D.U., art. 238-bis c.p.p. e vizio di motivazione in ordine all'acquisizione delle sentenze di primo e di secondo grado pronunciate nel giudizio abbreviato a carico di L. e Pi. con dichiarazione di utilizzabilità a carico del ricorrente delle intercettazioni coinvolgenti il predetto, richiamate nelle due sentenze, unitamente alle due lettere di cui ai verbali di sequestro del 15/12/2011 nei confronti di V. e di Pi., pur in assenza di preventiva autorizzazione ad acta. La Corte aveva respinto le doglianze difensive, riportandosi alle valutazioni del primo Giudice e rilevando che B. aveva omesso per sua scelta di partecipare al separato giudizio nel quale rivestiva la qualità di persona offesa. In realtà si era trattato di giudizio abbreviato e il ricorrente non avrebbe potuto intervenire sollecitando il contraddittorio o deducendo l'inutilizzabilità di atti nei suoi confronti. La lesione del contraddittorio non avrebbe potuto dirsi sanata dal contraddittorio differito sul contenuto delle sentenze o considerando le stesse alla stregua di documenti. A tal fine il ricorrente richiama arresti della Corte europea dei diritti dell'uomo in ordine alla necessità di evitare che una sentenza pronunciata in procedimento in cui il soggetto non riveste qualità di imputato ma che presenta un legame con il procedimento pendente contro di lui possa implicare una valutazione anticipata in merito alla di lui colpevolezza. Richiama altresì il ricorrente i principi desumibili dalla sentenza Dan contro Moldavia al fine di sottolineare l'esigenza del contraddittorio, escludendo la possibilità di una valutazione meramente cartolare. Nella sentenza nei confronti di L. e Pi. erano riportati passaggi di informazioni rese in fase di indagini nonchè stralci di dichiarazioni rese dagli imputati. Si trattava di atti di indagine mai messi a disposizione della difesa del ricorrente, surrettiziamente veicolati tra gli atti del dibattimento, consentendo al Giudice di procedere a valutazione di dichiarazioni cartolari, senza concreta possibilità di interlocuzione. Inoltre la Corte aveva omesso di valutare i principi desumibili dalla sentenza n. 29 del 2009 della Corte costituzionale che con riguardo all'art. 238-bis c.p.p. aveva sottolineato la necessità di tener conto del tipo di procedimento in cui la sentenza acquisita era stata pronunciata, nonchè del contraddittorio in esso svoltosi. Erano da aggiungersi ulteriori criticità segnalate, come la trascrizione di una conversazione tra B. e L., intervenuta quando il ricorrente ricopriva la veste di parlamentare, che era stata valutata senza la previa autorizzazione della Camera, e come la trascrizione di due lettere indirizzate a B., parimenti valutate in assenza di previa autorizzazione, solo in forza del rilievo che le stesse non erano state concretamente recapitate. Peraltro le lettere erano anonime e non erano stati chiariti i dubbi circa la tecnica di reperimento delle stesse, essendo stati solo in un secondo momento prodotti dal P.M. un verbale di sequestro e una consulenza tecnica, senza che peraltro alcun avviso fosse stato dato ai difensori, che non avevano potuto partecipare all'operazione di estrapolazione dai supporti informatici onde verificare la correttezza della stessa. Si trattava di atti irripetibili ed alcune operazioni non si sarebbero potute compiere sulle copie forensi eseguite. Mancavano informazioni indispensabili per individuare la provenienza dei files non potendosi con certezza attribuire la paternità delle missive. La Corte si era limitata a dare atto dell'irrevocabilità della separata sentenza, rilevando che le acquisite sentenze fornivano il principale riscontro alle dichiarazioni del D.G.. Ma la mancanza di contraddittorio non avrebbe potuto essere surrogata da asseriti riscontri acquisiti nel dibattimento, ferma restando l'inevitabile forza di persuasione del giudicato. In ogni caso avrebbe dovuto considerarsi che le dichiarazioni riportate nelle sentenze irrevocabili avrebbero dovuto assoggettarsi al regime di utilizzabilità previsto dall'art. 238 c.p.p., comma 2-bis. Il ricorrente chiede dunque l'annullamento della sentenza e delle ordinanze impugnate con declaratoria di inutilizzabilità degli atti acquisiti, sollevandosi in subordine questione di legittimità costituzionale dell'art. 238-bis c.p.p., per contrasto con l'art. 111 Cost. e art. 6 C.E.D.U.. 3. Ha presentato ricorso il responsabile civile Movimento Politico Forza Italia. 3.1. Con il primo motivo denuncia esercizio di potestà riservata ad organi legislativi, violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'art. 68 Cost., L. n. 140 del 2003, art. 3,artt. 319 e 321 c.p., in quanto la Corte, anche nel respingere un motivo di appello, aveva violato l'art. 68 Cost., omettendo di rimettere essa stessa gli atti ai competenti rami del Parlamento per il giudizio di sindacabilità, e aveva reso una motivazione non rispettosa di quanto prescritto dall'art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e). Contesta il ricorrente la mera apparenza della motivazione della Corte che non aveva preso specifica e motivata posizione in ordine alla qualificazione dell'immunità sancita dall'art. 68 Cost.. Rileva che era stata prospettata al riguardo una vera e propria incapacità penale del parlamentare tale da rendere giuridicamente irrilevante il fatto inerente al voto espresso, soluzione propugnata da parte della dottrina e da preferirsi rispetto a quelle volte a porre l'accento su una mera causa di non punibilità o causa di giustificazione. In ogni caso il tenore letterale della norma costituzionale, che fa riferimento all'impossibilità di chiamare il parlamentare a rispondere, avrebbe dovuto indurre a concludere nel senso della non ravvisabilità di un fatto penalmente rilevante, tale da escludere anche la punibilità di eventuali concorrenti, come nel caso di specie il B.. Del resto dagli artt. 67 e 68 Cost. avrebbe dovuto desumersi che l'immunità sottrae il parlamentare a qualsiasi possibilità di interferenza da parte del potere giurisdizionale, impedendo il sindacato sull'esercizio del voto e sulle motivazioni che abbiano determinato il parlamentare ad agire in un determinato modo. La Corte si era limitata a configurare l'immunità come causa soggettiva di esclusione della punibilità, prospettando che l'estraneo che abbia istigato il parlamentare possa rispondere di corruzione, anche se il parlamentare vada esente da pena, ma omettendo qualsivoglia approfondimento del tema. Quanto all'assunto che fosse configurabile la violazione del divieto di mandato imperativo, secondo cui il parlamentare non può vincolare l'esercizio del voto e deve esprimerlo secondo coscienza, era stato sottolineato che il divieto di sindacato non si limita alla sola analisi del voto, ma si estende anche agli atti precedenti e collegati, posto che la verifica delle motivazioni si risolve in sindacato sul contenuto del voto stesso. Si era osservato inoltre che il divieto di mandato imperativo non ha come destinatario il parlamentare ma costituisce per esso una garanzia, al fine di dissuadere dal tentativo di porre vincoli, fermo restando che il parlamentare può votare come crede e impegnarsi secondo quanto gli possa essere richiesto. Porre il divieto di mandato a fondamento dell'ipotesi accusatoria finiva per stravolgere il senso della garanzia. Ma anche in questo caso la Corte aveva eluso il tema. Aggiunge il ricorrente che un tentativo di individuare la conformità o meno di un atto ai doveri del suo ufficio dovrebbe misurarsi con la riforma dell'art. 318 c.p., comportando l'insindacabilità dell'atto che questo non possa essere ricondotto alla nuova fattispecie, entrata in vigore in epoca successiva. 3.2. Con il secondo e con il terzo motivo, trattati congiuntamente, deduce violazione degli artt. 8 e 23 c.p.p. e art. 111 Cost. e art. 319 c.p., e vizio di motivazione con riguardo al rigetto dell'eccezione di incompetenza territoriale, nonchè violazione di legge e vizio di motivazione in ordine all'individuazione del momento consumativo ai fini del termine di prescrizione del reato. Sottolinea che la Corte aveva omesso di dar conto degli argomenti anche di rilievo sistematico, prospettati a fondamento della dedotta incompetenza territoriale, essendosi segnalata l'inadeguatezza dell'orientamento che fa leva sulla progressione tra promessa e dazione, dando rilievo a quest'ultima. Peraltro in base alla stessa impostazione accusatoria avrebbe dovuto aversi riguardo a plurime pattuizioni, culminate nella stipula del Patto federativo e dell'accordo integrativo, che avrebbe dato luogo ad un autonomo reato, con conseguente configurabilità di più reati e riferibilità della competenza al luogo di consumazione del primo. In alternativa avrebbe dovuto farsi riferimento alla disciplina del reato permanente dando rilievo al luogo in cui la consumazione era iniziata. D'altro canto la Corte aveva omesso di considerare che l'utilità era stata acquisita dal D.G. in concomitanza con la stipula del Patto federativo: le somme che il D.G. aveva ricevuto da Forza Italia facevano seguito alla conclusione di quella pattuizione, fermo restando che la stessa sentenza impugnata aveva dato conto dell'interesse del D.G. alla stipula come garanzia verso i suoi creditori. Di qui l'individuazione del momento consumativo, tale da retrodatare l'epoca della consumazione e dar ritenere decorso il termine di prescrizione in epoca anteriore alla sentenza di primo grado. 3.3. Con il quarto motivo denuncia violazione degli artt. 516,518,519,521,522 e 546 c.p.p. e vizio di motivazione in relazione al rigetto della dedotta eccezione di nullità per difetto di correlazione tra fatto contestato e sentenza. Mentre nell'imputazione il fatto era incentrato sulla veste di B. quale leader del centro-destra e sulla contrarietà ai doveri d'ufficio riguardante la manifestazione del voto del D.G., le sentenze di merito avevano invece posto a fondamento della condanna un fatto diverso, nel quale B. assumeva veste di privato corruttore e in cui oggetto di mercimonio era la costituzione in capo al D.G. di un mandato imperativo, così allontanando il fuoco dell'imputazione dalla manifestazione del voto, riconosciuta come insindacabile, ma oscurando le ragioni politiche sottese al patto, cioè l'intendimento di contrastare fino alla caduta il governo P.. La decisione aveva finito per alterare gli elementi della condotta, modificando soprattutto quelli di natura psicologica. Non avrebbe potuto rilevare la possibilità di esercizio del diritto di difesa, fermo restando che il P.M. non aveva comunque modificato l'imputazione. L'errore metodologico dei Giudici di merito risultava evidente, considerando l'intento di impedire che gli atti fossero trasmessi al ramo del Parlamento per il profilo di insindacabilità e peraltro essendosi omesso di valutare che l'insindacabilità riguarda anche le ragioni che abbiano determinato il parlamentare a votare in un certo modo. Una vistosa discordanza si registrava in relazione a quanto disposto in sede di statuizioni civili, allorchè era stato rilevato che le condotte tenute avevano inciso sul corretto svolgimento dell'attività deliberativa e che l'accordo illecito aveva condotto all'espressione di un voto non libero e a uno stravolgimento delle funzioni e degli scopi della Commissione Difesa. 3.4. Con il quinto motivo denuncia violazione dell'art. 521 c.p.p., L. n. 195 del 1974, art. 7,L. n. 659 del 1981, art. 4. artt. 319 e 318 c.p. e art. 546 c.p.p. e vizio di motivazione, in relazione al rigetto della richiesta di qualificazione del fatto come corruzione per l'esercizio delle funzioni o come finanziamento illecito o ancora come concussione per induzione. Nell'atto di appello era stato prospettato che il fatto avrebbe potuto diversamente qualificarsi. Relativamente alla concussione la Corte aveva escluso la posizione di soggezione di B. e negato che fosse stato il D.G. ad assumere l'iniziativa, quando in realtà avrebbe potuto desumersi il contrario dagli atti all'uopo richiamati, attestanti il travisamento della prova, dovendosi distinguere tra il momento in cui B. si era complimentato con D.G. da quello in cui quest'ultimo aveva chiesto denaro. Relativamente all'ipotesi del finanziamento illecito, la Corte aveva fornito una motivazione contraddittoria, da un lato dando atto della prospettazione da parte di B. di qualunque sacrificio pur di riportare il D.G. nel centro-destra, dal quale proveniva, e dall'altro negando successivamente quella causale del finanziamento, che avrebbe dovuto essere in realtà diversamente interpretato e qualificato. Richiama a tal fine il ricorrente il passo delle dichiarazioni del D.G. in cui costui aveva affermato che nella sua accezione il profilo corruttivo che lo riguardava non era ravvisabile nell'essere passato con B. ma nell'aver condotto la "guerriglia" contro il governo P., per dimostrare che, se passaggio di denaro vi era stato, esso avrebbe dovuto essere diversamente inteso. Peraltro il fatto avrebbe potuto ricondursi anche alla nuova fattispecie di cui all'art. 318 c.p. ma con tutte le conseguenze rilevanti ai sensi dell'art. 2 c.p.. 3.5. Con il sesto motivo deduce violazione dell'art. 357 c.p. e vizio di motivazione sulla qualità di pubblico ufficiale rivestita da D.G.. Rileva che non avrebbe potuto ravvisarsi la veste di pubblico ufficiale, poichè il parlamentare è tale solo quando svolge l'attività legislativa e non in relazione allo svolgimento di un'altra delle sue numerose attività. In relazione a ciò era stata data dimostrazione che D.G. si era impegnato a contrastare il governo P. non votando contro l'orientamento del Governo su taluna delle leggi ma impegnandosi in quei campi in cui poteva venire in discussione la sopravvivenza del Governo. La Corte era giunta ad affermare che l'attività del parlamentare si risolve in attività legislativa, ma era da rimarcare che l'art. 357 c.p. non faceva riferimento all'attività di parlamentare bensì a quella legislativa, la quale ha ad oggetto la formazione delle leggi e non comprende le altre attività. 3.6. Con il settimo e l'ottavo motivo, trattati congiuntamente, deduce violazione di legge in relazione agli artt. 238 e 238-bis c.p.p., art. 111 Cost, e vizio di motivazione in ordine all'acquisizione e utilizzazione di sentenze pronunciate in separato giudizio abbreviato e violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'art. 191 c.p.p. con riguardo all'utilizzazione delle lettere Pi. e V., nel presupposto che l'illiceità originaria fosse stata sanata dalla sentenza pronunciata nel giudizio abbreviato. Riproduce gli argomenti esposti nell'atto di appello, sostenendo che la Corte aveva omesso di valutarli, semplicemente richiamando le valutazioni del Tribunale. Osserva che non avrebbero potuto acquisirsi e utilizzarsi sentenze pronunciate con giudizio abbreviato nei confronti di soggetto che, come B., non aveva partecipato a quel giudizio, nulla rilevando che egli rivestisse la qualità di persona offesa. In ogni caso le separate sentenze avrebbero potuto valutarsi solo con riguardo ai fatti in esse accertati mentre le prove avrebbero dovuto utilizzarsi nei limiti di quanto previsto dall'art. 238 c.p.p. non potendo mutare il regime di utilizzabilità. Ciò avrebbe dovuto valere per le dichiarazioni. In tale ambito avrebbe dovuto farsi riferimento in particolare alle lettere rinvenute in possesso di V. e Pi., che contenevano dichiarazioni attribuite a L., anche se costui aveva smentito di essere l'autore della seconda: in ogni caso la Corte avrebbe dovuto porsi il problema dell'utilizzabilità delle lettere, solo perchè trasfuse nelle sentenze irrevocabili, dopo che il Tribunale aveva respinto la richiesta di acquisizione delle stesse. La valorizzazione delle lettere nel giudizio ad quem, dopo che il Tribunale non aveva ammesso tale prova, perchè priva dei requisiti di legalità richiesti, non avrebbe potuto pregiudicare la posizione di chi non aveva rinunciato al contraddittorio, rendendo invece utilizzabili prove contenute nel fascicolo delle indagini preliminari. In concreto era rimasta irrisolta la domanda se possano essere acquisite come prove atti che nel processo ordinario non possono legittimamente fare ingresso, quando gli stessi siano oggetto di valutazione in giudizio celebrato con rito abbreviato, cui l'imputato del giudizio ordinario non abbia partecipato. La Corte aveva eluso il tema della trasmigrazione delle prove e non si era posta le questioni inerenti all'utilizzabilità del materiale introdotto con le forme censurate. In tal modo era rimasto sullo sfondo anche il tema dei rapporti tra D.G., la C.I.A. e i Servizi italiani, su cui si erano soffermati alcuni testi. 3.7. Con il nono motivo deduce violazione di legge in relazione agli artt. 192 e 546 c.p.p. e vizio di motivazione con riguardo alla valutazione sulla credibilità e attendibilità di D.G.. La Corte aveva condiviso la valutazione del Tribunale, sebbene fossero stati posti in luce elementi tali da attestare l'inattendibilità del dichiarante e in assenza di un effettivo esame critico. Il giudizio sulla personalità del D.G. era stato nella sostanza negativo ma i giudici di merito avevano contraddittoriamente rilevato che ciò non aveva influito sul contenuto delle dichiarazioni rese, in tal modo sovvertendo un metodo ampiamente consolidato, e non consentendo di comprendere sino a quando lo stato soggettivo potesse influire sulla verità del racconto. Inoltre si era superata la crisi intrinseca della soggettività del D.G. affermandosi che il racconto era riscontrato. Non era stato spiegato come i riferimenti all'enfasi e alla considerazione del proprio ruolo non si fossero riverberati sul racconto. Avrebbe dovuto dirsi assorbita su tali basi anche la questione del travisamento della prova, in cui era incorsa la Corte in ordine alle numerose circostanze riferite dal dichiarante, risultate smentite dall'istruttoria dibattimentale, come da analisi contenuta nell'atto di appello che viene sul punto ritrascritto. Proprio il confronto con l'atto d'appello era idoneo a suffragare l'omessa motivazione, oltre che la contraddittoria e travisata ricostruzione. Accedendo all'assunto della Corte secondo cui le dichiarazioni del D.G. avrebbero dovuto valutarsi nel loro complesso, risulta con evidenza il vizio insito nell'aver preso in considerazione singole specifiche incongruità lamentate dalla difesa, di cui era stata data una verosimile giustificazione, quando non era stato colto il quadro complessivo della coerenza dichiarativa del D.G.. Viene inoltre ribadita la censura in ordine alla valutazione dei riscontri esterni. 3.8. Con il decimo motivo denuncia violazione di legge in relazione agli artt. 319 e 321 c.p., artt. 533 e 546 c.p.p. e vizio di motivazione in ordine alla sussunzione del fatto nella fattispecie di cui all'art. 319 c.p. e al rispetto alla regola dell'oltre ogni ragionevole dubbio. La Corte solo in piccola parte aveva risposto ai rilievi formulati nell'atto di appello in ordine alla possibilità di trarre fondamento ai fini dell'ipotesi accusatoria dalle dichiarazioni del D.G.. In ogni caso la Corte aveva finito per travisare la prova. Si era ritenuto che il patto corruttivo avesse avuto ad oggetto la messa a disposizione dello status di parlamentare con rinuncia alla libertà e indipendenza, mentre in realtà dalle stesse deposizioni del D.G. era emerso in sostanza che l'utilità non era stata pattuita per tale messa a disposizione e che tra i due momenti non vi era stato il necessario nesso di causalità. Nel riportare ampi stralci dell'appello e delle dichiarazioni del D.G. il ricorrente sottolinea che il fatto era stato travisato in quanto il D.G. non aveva dichiarato che la somma gli era stata corrisposta per asservire la funzione ma per quella che il predetto aveva definito la guerriglia contro il Governo P., traente origine dal di lui convincimento ideologico, cosicchè semmai la dazione era stata la conseguenza del passaggio e non viceversa. Si era determinato uno scollamento tra quanto risultava dalle prove e quanto accertato dalle due sentenze, fermo restando che ciò implicava anche che dovessero ritenersi falsi numerosi testimoni, senza illustrazione delle relative ragioni. Il vizio di motivazione poteva cogliersi non solo per il difetto argomentativo e ricostruttivo, riguardante le dichiarazioni del D.G., ma anche per la svalutazione di ogni prova proposta dalla difesa, senza che ne fossero indicate le ragioni. Del resto il finanziamento originato dalla stipula del Patto federativo era stato il risultato di numerosi incontri e di una lunga trattativa, ciò che impediva di collocarlo nello schema prospettato nella sentenza, non essendo comprensibili altrimenti le ragioni di quella trattativa e della richiesta da parte di D.G. di una somma assai maggiore. 3.9. Con l'undicesimo e dodicesimo motivo, trattati congiuntamente, deduce esercizio di potestà riservata agli organi legislativi, violazione dell'art. 68 Cost. e L. n. 140 del 2003, art. 3 e vizio di motivazione in ordine alle statuizioni civili, nonchè violazione degli artt. 74, 76, 78, con riguardo alla legittimatio ad processum del Senato, allo ius postulandi dell'Avvocatura dello Stato, alla causa petendi nell'iniziale domanda risarcitoria. Segnala come la motivazione con cui era stato ravvisato un danno subito dal Senato implicasse un riferimento allo svolgimento dell'attività deliberativa e all'espressione di un voto non libero, ciò che tuttavia comportava una valutazione delle condotte del parlamentare e dei lavori del Senato in contrasto con l'assunto di partenza della non ravvisabilità di una forzatura dell'immunità di cui all'art. 68 Cost. nel presupposto che oggetto di valutazione fosse l'asservimento della funzione parlamentare. Richiama a sostegno della censura la motivazione sul punto utilizzata dal Tribunale, che viene trascritta. Deduce inoltre che il Senato avrebbe potuto legittimamente costituirsi parte civile solo in forza di una decisione dell'Assemblea e che d'altro canto era assente la procura del Presidente del Senato o del Presidente del Consiglio dei Ministri ai fini della costituzione dell'Avvocatura dello Stato, dovendosi aver riguardo alla L. 3 del 1991, art. 1 secondo cui la costituzione di parte civile dello Stato nei procedimenti penali deve essere autorizzata dal Presidente del Consiglio dei Ministri. Diritto CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Cominciando dal decimo motivo del ricorso B., se ne rileva la manifesta infondatezza. E' stato infatti chiarito dal Tribunale che l'ordinanza dell'11/2/2014, assunta da Collegio, di cui era stata accolta la dichiarazione di astensione, con conseguente assegnazione del processo ad altra sezione, era stata revocata dal nuovo Collegio, con rinvio del processo a data successiva, accompagnata da rinnovo della notifica e successiva dichiarazione di contumacia dell'imputato. In tale prospettiva il contraddittorio risulta essersi definitivamente e regolarmente costituito dinanzi al nuovo Collegio proprio in virtù del rinvio e del rinnovo della notifica da esso disposti, alla presenza dei difensori di fiducia, senza alcuna residua incidenza dell'originario intervento dell'altro Collegio e dell'incapacità di quest'ultimo. 2. Infondati risultano altresì l'undicesimo motivo del ricorso B. nonchè il secondo e il terzo motivo, trattati congiuntamente, del ricorso del responsabile civile. 2.1. E' stata prospettata dalle difese l'incompetenza territoriale del Tribunale di Napoli sul rilievo che sarebbero stati configurabili plurimi patti corruttivi e che la competenza avrebbe dovuto correlarsi al primo dei reati in continuazione, consumato in (OMISSIS), dovendosi comunque, anche nel caso di un unico reato, aver riguardo al luogo in cui la consumazione era iniziata, secondo la regola prevista in materia di reato permanente. 2.2. Relativamente al reato di corruzione costituisce ormai ius receptum il principio secondo cui lo stesso "si perfeziona alternativamente con l'accettazione della promessa ovvero con la dazione - ricezione dell'utilità, e tuttavia, ove alla promessa faccia seguito la dazione - ricezione, è solo in tale ultimo momento che, approfondendosi l'offesa tipica, il reato viene a consumazione" (Cass. Sez. U. n. 15208 del 25/2/2010, Mills, rv. 246583; in senso analogo Cass. Sez. 6, n. 4105, del 1/12/2016, dep. nel 2017, Ferroni, rv. 269501). D'altro canto è stato rilevato che la configurabilità di uno o di plurimi reati dipende dalle pattuizioni, non assumendo rilievo nè gli atti da compiere nè le dazioni, ove le stesse siano riconducibili alla medesima fonte (Cass. Sez. 6, n. 33435 del 4/5/2006, Battistella, rv. 234358). 2.4. In tale prospettiva si rileva che l'imputazione faceva leva su un'unitaria pattuizione, in forza della quale il B. si era impegnato a corrispondere all'ex-Senatore D.G. la somma complessiva di euro 3.000.000,00, in parte "in nero" e in parte attraverso la forma simulata del contributo al movimento politico. I Giudici di merito hanno d'altro canto rilevato, sulla base degli atti disponibili nel momento in cui la questione era stata proposta - ferma restando comunque l'irrilevanza di sopravvenienze istruttorie e l'inammissibilità di argomentazioni ulteriori (Cass. Sez. 2, n. 4876 del 30/11/2016, dep. nel 2017, Sacco, rv. 269212; Cass. Sez. 2, n. 1415 del 13/12/2013, dep. nel 2014, Chiodi, rv. 258149; Cass. Sez. 6, n. 33435 del 4/5/2006, Battistella, rv. 234348)- che avrebbe dovuto effettivamente ravvisarsi un'unica pattuizione, a fronte della quale si erano susseguite plurime dazioni, fino all'ultima eseguita il 31/3/2008 a mezzo bonifico su conto corrente riferibile al D.G. presso un istituto bancario napoletano. 2.5. Su tali basi correttamente è stata ritenuta la competenza territoriale del Tribunale di Napoli, dovendosi aver riguardo all'unica pattuizione e dunque all'unicità del reato e alla relativa progressione criminosa, alla cui stregua a quella pattuizione erano seguite plurime dazioni, riconducibili alla medesima fonte, con conseguente definitivo perfezionamento del reato nel momento e nel luogo dell'ultima dazione. 2.6. Le deduzioni difensive non sono idonee a disarticolare il ragionamento dei Giudici di merito, sia perchè dal capo di imputazione non è dato cogliere il presupposto della pluralità delle pattuizioni sia perchè comunque è stato in concreto osservato che il sopravvenuto patto federativo e il connesso accordo integrativo non avrebbero potuto valutarsi come pattuizione ulteriore, costituendo invece espressione dell'unico originario accordo, involgente l'intera quantificazione della somma. Inoltre sotto il profilo giuridico l'eccezione difensiva si risolve nell'assertiva contestazione di un consolidato arresto giurisprudenziale e risulta inidonea a contrapporre una diversa e condivisibile ricostruzione dogmatica del delitto di corruzione, ferma restando la manifesta infondatezza della prospettata applicabilità, in subordine, della norma dettata in materia di reato permanente, ipotesi ontologicamente diversa da quella della consecutio, che dà luogo alla progressione tra promessa e dazione. 3. Risulta inammissibile, perchè genericamente formulato, il primo motivo del ricorso B.. 3.1. Si adduce che la Corte di appello avrebbe fatto indebito e acritico ricorso alla motivazione per relationem, in tal modo sottraendosi all'obbligo di motivare specificamente in ordine alle doglianze formulate in sede di appello. 3.2. Deve però osservarsi che di per sè il richiamo della motivazione del primo Giudice è pienamente legittimo, a supporto di conclusioni condivise, tanto più quando i relativi argomenti, tra l'altro specificamente trascritti, vengano qualificati come idonei a superare deduzioni difensive, già formulate e semplicemente riprodotte e delle quali si sia tenuto conto. D'altro canto, se è vero che la Corte territoriale ha l'obbligo di esaminare specifiche doglianze sollevate nell'atto di appello (Cass. Sez. 3, n. 27416 del 1/4/2014, M., rv. 259666), deve nondimeno ritenersi che la relativa censura in sede di legittimità non possa limitarsi a prospettare l'omesso esame, ma debba includere la puntuale indicazione, rispetto a quanto dedotto nell'atto di appello, degli argomenti trascurati o non valutati, in quanto idonei a sovvertire le conclusioni avversate, essendo a tal fine insufficiente il generico richiamo o l'allegazione dell'atto di appello, così rimesso alla diretta valutazione della Corte di cassazione (sul punto si richiama Cass. Sez. 3, n. 35964 del 4/11/2014, dep. nel 2015, B., rv. 264879). Va a conferma di ciò rimarcato che una risposta alle censure sollevate può evincersi anche implicitamente o indirettamente dal complesso della motivazione, senza che sia necessario lo specifico riferimento a ogni argomento utilizzato nell'atto di appello (Cass. Sez. 4, n. 1149 del 24/10/2005, Mirabilia, rv. 233187). 3.3. In tale prospettiva, pur essendo necessario un rapporto dialettico tra motivi di appello e sentenza di secondo grado (Cass. Sez. 5, n. 52619 del 5/10/2016, Unterholzner, rv. 268859), deve tuttavia ritenersi che gravi sullo stesso ricorrente l'onere di dedurre concretamente la sua mancanza sulla base di indicazioni specifiche. 3.4. Deve aggiungersi che nel caso di specie la Corte, anche quando si è avvalsa della motivazione del primo Giudice, all'uopo riportata, ha comunque dato conto delle deduzioni difensive che quella motivazione era idonea a superare, aggiungendo inoltre proprie osservazioni a conferma dell'analisi condivisa. Ciò avvalora il giudizio di genericità del motivo di ricorso, formulato in termini generali ed assertivi, senza specifica indicazione delle deduzioni, almeno in teoria idonee a confutare le conclusioni del primo Giudice, di cui sarebbe stato omesso il concreto esame. 4. A questo punto, sul piano logico-argomentativo, appare preferibile esaminare i temi inerenti alla ricostruzione del fatto, oggetto di deduzioni incentrate su vizi della motivazione e su violazioni di legge, solo all'esito di tale verifica potendosi procedere all'esame dei temi di carattere formale e giuridico, concernenti da un lato il contenuto della contestazione e dall'altro, sotto gli svariati profili prospettati, la qualificazione giuridica del fatto. Si procederà dunque ad esaminare il sesto, il settimo, il dodicesimo e il quindicesimo motivo del ricorso B. ed il settimo, l'ottavo, il nono e il decimo motivo del ricorso del responsabile civile. 5. Deve al riguardo osservarsi che i Giudici di merito hanno proceduto alla ricostruzione della vicenda sulla base di plurimi elementi probatori, ma in primo luogo sulla base delle dichiarazioni rese da D.G.S.. 5.1. Quest'ultimo, per quanto è stato segnalato sia dal Tribunale sia dalla Corte, aveva originariamente chiesto di essere sentito dal P.M. ed era stato poi più volte escusso nella fase delle indagini preliminari, allorchè aveva assunto la veste di imputato in procedimento connesso, avuto riguardo alla prospettata qualificazione del fatto come corruzione. In particolare il D.G., in base alla sua narrazione dei fatti, era stato individuato, nella sua veste di Senatore, come il pubblico ufficiale che aveva stretto con un privato corruttore, indicato nel B., avvalsosi anche dell'intermediazione di L.V., il pactum sceleris oggetto della verifica processuale. Successivamente il D.G. aveva definito la sua posizione con sentenza emessa ai sensi dell'art. 444 c.p.p., divenuta irrevocabile. Corrispondentemente il predetto nella fase del dibattimento, celebrato nei confronti del B. e del L., è stato escusso in qualità di teste assistito ai sensi dell'art. 197-bis c.p.p.. 5.2. A fronte di ciò i Giudici di merito hanno valutato il tema della credibilità del dichiarante e dell'attendibilità del narrato, avente il contenuto di una chiamata in correità, verificando inoltre i riscontri idonei a suffragare tale attendibilità, secondo quanto richiesto dall'art. 197-bis c.p.p., comma 6, e art. 192 c.p.p., comma 3. Deve in proposito rilevarsi che la valutazione della chiamata in correità o in reità in effetti presuppone tendenzialmente il rispetto della metodologia a "tre tempi", per cui deve considerarsi: la credibilità soggettiva del dichiarante in relazione alla sua personalità, alle sue condizioni socio-economiche, al suo passato, ai rapporti con il chiamato, alla genesi delle ragioni che hanno indotto il dichiarante all'accusa nei confronti del chiamato; l'attendibilità intrinseca del narrato, in base ai criteri di coerenza, precisione, costanza e spontaneità; la conferma ab extrinseco della dichiarazione, attraverso la verifica di elementi di riscontro (Cass. Sez. U. n. 1653 del 21/10/1992, dep. nel 1993, Marino, rv. 192465). Peraltro è stato osservato che il canone epistemologico sotteso a tale metodologia non postula che la sequenza sia rigorosamente rigida, nel senso che il percorso valutativo dei vari passaggi non deve muoversi lungo linee separate, cosicchè la credibilità soggettiva e l'attendibilità intrinseca ben possono essere valutate unitariamente, potendosi superare eventuali riserve sull'attendibilità del narrato attraverso il vaglio della relativa valenza probatoria alla luce di tutti gli elementi di informazione acquisiti (in tal senso specificamente Cass. Sez. U. n. 20804 del 29/11/2012, dep. nel 2013, Aquilina, rv. 255145). Deve aggiungersi, per ragioni di completezza, che, seguendo le indicazioni fornite dalla Corte costituzionale (cfr. Corte cost. n. 265 del 2004), in tema di valutazione di attendibilità, l'obbligo di dire la verità gravante sul teste assistito, accrescendo il grado di affidabilità della fonte, può essere valorizzato dal giudice nella valutazione dei riscontri esterni, consentendo di ritenere sufficienti riscontri di peso comparativamente minore rispetto a quelli richiesti nel caso di valutazione delle dichiarazioni rese dall'imputato in procedimento connesso ai sensi dell'art. 210 c.p.p. (Cass. Sez. 6, n. 13844 del 2/12/2016, dep. nel 2017, Aracu, rv. 270368). 5.3. Orbene, la Corte ha recepito e motivatamente fatto propria l'impostazione valutativa del Tribunale, rilevando come, nonostante alcuni rilievi di ordine personologico e nonostante alcune criticità, le dichiarazioni del D.G. dovessero reputarsi nel loro nucleo essenziale connotate da credibilità. Ed invero il tema è stato ampiamente esaminato dal Tribunale che gli ha dedicato numerose e tutt'altro che elusive pagine (cfr. pagg. da 11 in poi), nelle quali ha posto in luce da un lato le connotazioni personologiche del D.G., manifestatesi nelle modalità e nell'enfasi del racconto, ma dall'altro anche le ragioni per cui i tratti essenziali del narrato, funzionale alla ricostruzione della vicenda corruttiva, avrebbero dovuto reputarsi attendibili e capaci di resistere alle svariate censure difensive. E' stata in tal modo delineata la figura di un esponente politico spregiudicato, capace di attirare consenso al punto da farsi eleggere nelle file del centro-sinistra, nonostante un passato che lo legava al centro-destra, e comunque effettivamente inserito nelle vicende narrate, in contatto con i suoi protagonisti e in grado di interloquire con essi con le modalità da lui specificamente indicate. In tale prospettiva è stato sottolineato come, al di là del carattere enfatico di taluni passi del suo complesso racconto, spesso dispersosi in rivoli secondari, il contenuto fondamentale di esso sia sempre rimasto aderente ad un filo conduttore nitidamente indicato, costituente il vero fulcro delle dichiarazioni e il vero oggetto della relativa valutazione. Così in particolare è stato dato conto della genesi dei rapporti con B. e del loro sviluppo, culminato dapprima nel patto corruttivo su cui si incentra l'imputazione e poi nella concreta attuazione di esso, con l'intervento necessario del L.. D'altro canto il Tribunale non si è sottratto alla necessità di dar conto dei profili di maggiore criticità, a cominciare dal radicale cambio di rotta tra le dichiarazioni a suo tempo rese dal D.G. nel 2007, allorchè, tenendo testa agli organi inquirenti e vantandosene, a suo dire, anche con B., aveva negato qualsivoglia pattuizione illecita, e quelle con le quali invece, a partire dal dicembre 2012, il D.G. aveva rivelato le intese intercorse con B., aventi ad oggetto la promessa e poi la dazione in più soluzioni della complessiva somma di Euro 3.000.000,00 in funzione dell'erosione della maggioranza, di per sè fragilissima, di cui al Senato poteva disporre dopo le elezioni del 2006 il Governo P.. In particolare il Tribunale ha sottolineato come la diametrale divergenza non avrebbe potuto costituire segnale di inaffidabilità, avuto riguardo al ben diverso quadro dell'epoca, nella quale le prime dichiarazioni erano state rese, a fronte della decisione di rivelare i fatti, presa a distanza di anni e poi coerentemente mantenuta nel corso dell'intero procedimento e in occasione di numerosi interrogatori, allorchè il D.G. ha spiegato come le prime dichiarazioni dovessero reputarsi false o reticenti. E' stato inoltre sottolineato come il D.G., mentre si manifestavano in misura crescente le sue difficoltà di ordine finanziario per l'imponenza dei debiti da lui in varia guisa contratti, e mentre si facevano più stringenti le indagini anche a suo carico per fatti di riciclaggio, connessi al suo non limpido agire, avesse tentato di procurarsi una buonuscita, giungendo a fare pressione sul B., anche attraverso la rappresentazione di qualcosa che avrebbe avuto da raccontare agli inquirenti. Al di là della qualificazione di tale condotta, il Tribunale ha tuttavia non illogicamente rilevato che l'utilizzo dell'indicato strumento di pressione non valeva ad attestare la falsità delle accuse poi formulate, ma al contrario ben poteva implicarne piuttosto la veridicità. Ed ancora il Tribunale ha rilevato come non potesse darsi rilievo al procedimento pendente a carico del D.G. e ai connessi rischi cui il predetto era esposto, al fine di dimostrare che le accuse formulate dal D.G. avessero costituito lo strumento da lui utilizzato per ingraziarsi gli inquirenti: in ogni caso il Tribunale ha anche rilevato che tale intendimento non implicava la formulazione di false accuse, dovendosi piuttosto ritenere che, ove realmente il D.G. avesse perseguito lo scopo di allontanare il rischio di più serie iniziative giudiziarie a suo carico, avrebbe dovuto comunque fornire un racconto idoneo a reggere alla verifica. 5.4. Tale analisi è stata pienamente recepita dalla Corte che ha ricostruito la genesi della collaborazione del D.G., a fronte delle diverse dichiarazioni da lui in precedenza rese, esaminato il tema del profilo utilitaristico della confessione e rilevato, proprio alla stregua di quanto nitidamente osservato anche dal Tribunale, che a fronte dell'ingente consistenza dei flussi di denaro (per ammissione dell'ex-Senatore provenienti anche da persone "di mezzo alla via", cioè appartenenti ad ambienti della criminalità), transitati a vario titolo sui suoi conti, esaminati dagli inquirenti e dal consulente del P.M., solo in parte gli stessi avrebbero potuto trovare una spiegazione nelle dazioni "in nero" procurate al D.G. dal L. su incarico del B. in attuazione del patto illecito, circostanza tale da non rendere plausibile un mero intendimento strumentale di difesa. D'altro canto la Corte ha esaminato l'ulteriore tema dell'epoca dei versamenti "in nero", ricevuti dal D.G. tramite L., ancora una volta richiamando l'analisi del Tribunale e rilevando come a fronte delle prime dichiarazioni del predetto, nelle quali era stato sottolineato che i pagamenti sarebbero stati effettuati nell'arco di pochi mesi nel 2007, il D.G. avesse poi fornito dichiarazioni più precise e documentate, avvalendosi anche del ricordo della sua segretaria G.P., che con lui gestiva anche i suoi conti correnti. In particolare va rimarcato come nella richiamata motivazione del Tribunale siano esposti argomenti non illogicamente valorizzati, per dar conto del fatto che il D.G., nelle prime dichiarazioni, si fosse effettivamente confuso, prima di ricostruire in modo più meditato l'epoca delle dazioni, a cominciare dalla prima, collocata nel luglio del 2006, con la conferma riveniente dalla citata G.. Sul punto infatti il Tribunale ha rilevato come fin dall'inizio il D.G. avesse fatto riferimento ad una data significativa riguardante il figlio della G., che poi costei aveva documentatamente riferito all'acquisto di una vettura da parte di suo figlio, ragione per la quale ella lo aveva accompagnato a (OMISSIS), dove il D.G. le aveva consegnato il plico contenente il denaro. 5.5. In tale quadro i Giudici di merito hanno proceduto alla ricostruzione del patto illecito, rilevando come il narrato del D.G. dovesse ritenersi a tal fine attendibile. E' stato dunque sottolineato come il D.G. avesse una prima volta incontrato il B. su richiesta di quest'ultimo all'indomani delle elezioni, nelle quali il D.G. aveva riportato un risultato lusinghiero, e come nella circostanza il B. avesse espresso il desiderio di un ritorno a casa del D.G., per il quale sarebbe stato disposto ad ogni tipo di sacrificio politico ed economico; come successivamente si fosse presentata al disinvolto D.G. l'occasione di farsi eleggere Presidente della Commissione difesa del Senato con i voti del centro-destra, evento cui era seguito un secondo incontro con il compiaciuto B.; come infine, con l'intermediazione del L., che, essendo persona certamente vicina al B., gli aveva prospettato la possibilità che quest'ultimo risolvesse il problema dei debiti che lo affliggevano, si fosse nuovamente presentato nel mese di giugno del 2006 al cospetto di B., che gli aveva chiesto a quanto ammontassero i suoi debiti, sentendosi fare la cifra di euro 3.000.000,00, che l'odierno imputato gli aveva a quel punto promesso, pur non definendo sul momento le relative modalità, rimesse all'intermediario L.. Il tutto nella prospettiva di un'azione volta a far cadere in ambito parlamentare il Governo P.. 5.6. Si tornerà ampiamente sul tema della qualificazione giuridica di tale pattuizione, ma deve per intanto rimarcarsi come i Giudici di merito l'abbiano sussunta nella fattispecie della corruzione propria, dando rilievo non tanto al passaggio del D.G. da uno schieramento all'altro, ma invece alla costituzione di un mandato imperativo, implicante, secondo quanto rilevato dalla Corte territoriale, la messa a disposizione del privato corruttore delle funzioni parlamentari del Senatore. Gli stessi Giudici di merito hanno inoltre dato conto del fatto che l'implicazione delle funzioni parlamentari fosse stata confermata dalla stessa previsione di plurime dazioni, tali da assicurare la concreta attuazione dell'accordo, e dal fatto che il D.G., quando i pagamenti non avvenivano alle date previste, si mostrasse recalcitrante a condividere le indicazioni di voto del centro-destra. 6. A fronte di tale analisi, le deduzioni difensive formulate nel sesto e nel settimo motivo del ricorso B. nonchè nel nono e decimo motivo del ricorso del responsabile civile sono infondate e in parte inammissibili. 6.1. La Corte, come si è avuto modo di rilevare, ha infatti valutato i temi cruciali, correlati ai profili di criticità delle dichiarazioni del D.G., ed ha non illogicamente rilevato che nè le enfatizzazioni del dichiarante nè gli ulteriori aspetti messi in luce dalle difese fossero idonei a scalfire le ampiamente motivate conclusioni del Tribunale. D'altro canto il sesto motivo del ricorso B. si risolve in gran parte in un'assertiva contestazione delle valutazioni della Corte, di cui non sono posti in luce specifici profili di illogicità, a fronte di quanto già nitidamente osservato dal Tribunale. Ciò vale in particolare per talune contraddizioni o imprecisioni del D.G. e per il rilievo attribuito alle pressanti richieste di denaro da costui rivolte al B. prima di rendere le dichiarazioni confessorie, nonchè per il preteso carattere utilitaristico della collaborazione. L'assunto dell'insussistenza del patto corruttivo, salva la sua effettiva qualificazione, costituisce inoltre deduzione che involge la valutazione del merito, collocandosi al di fuori dei limiti dello scrutinio di legittimità nella parte in cui sollecita un'alternativa lettura del materiale probatorio. Non corrisponde poi al vero che la Corte abbia fondato il proprio giudizio sull'esercizio del diritto dell'imputato al silenzio, dovendosi per contro rilevare come, all'unisono con il Tribunale, la Corte abbia sottolineato che era mancata la diretta rappresentazione da parte dell'imputato, odierno ricorrente, di una sua ricostruzione del fatto, tale da poter essere idoneamente contrapposta a quella dell'accusatore, fermo restando peraltro che il silenzio dell'imputato, se in partenza costituisce un dato processualmente neutro, può nondimeno assumere anche un più significativo rilievo, in misura direttamente proporzionale alla solidità degli elementi di accusa, che in ipotesi risultino privi di idonea spiegazione (sul punto può richiamarsi la ben nota sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, 8/2/1996, Murray contro Regno Unito, che esprime un principio contestato da parte della dottrina italiana, ma certamente suscettibile in taluni casi di adeguata valorizzazione). Non viene spiegato il rilievo dirimente che dovrebbe attribuirsi al dato rappresentato dall'intervenuta sentenza di patteggiamento del D.G., dopo il rigetto della richiesta di giudizio immediato, sentenza che in realtà è valsa sul piano strutturale ad accrescere la forza probatoria delle dichiarazioni del predetto e comunque ha fatto seguito all'originario vaglio delle dichiarazioni rese dal D.G. in fase di indagini, poi coerentemente confermate dal predetto al dibattimento, secondo quanto osservato dai Giudici di merito. Assertivi risultano anche i rilievi incentrati sull'autonomia rivendicata dal D.G. e sulla appartenenza di quest'ultimo al centro-destra: si tratta di elementi che di per sè non valgono ad insinuare smagliature logiche nella ricostruzione dei Giudici di merito, peraltro basata sul racconto dello stesso D.G., che ha spiegato la genesi e lo sviluppo del patto avente ad oggetto la dazione di una cospicua somma di denaro, correlata allo svolgimento delle funzioni parlamentari del predetto, dedotte in quell'unitario contesto nel patto descritto, a prescindere dal prospettato comune sentire. Del tutto inconferente risulta il riferimento al comportamento moralmente deprecabile del D.G., essendo stato correttamente rilevato dai Giudici di merito come una chiamata in correità presupponga comunque il coinvolgimento in un'azione in varia guisa deplorevole, non potendo dunque da ciò automaticamente discendere alcun giudizio di valore in ordine all'attendibilità di dichiarazioni accusatorie. 6.2. Va poi più in generale osservato che è "inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che censura l'erronea applicazione dell'art. 192 c.p.p., comma 3 quando è fondato su argomentazioni che si pongono in confronto diretto con il materiale probatorio, e non, invece, sulla denuncia di uno dei vizi logici tassativamente previsti dall'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), riguardanti la motivazione del giudice di merito in ordine alla ricostruzione del fatto" (Cass. Sez. 6, n. 43963 del 30/9/2013, Basile, rv. 258153). Ciò vale per le doglianze esposte nel sesto e nel settimo motivo del ricorso B. nonchè nel nono e nel decimo motivo del responsabile civile, che nel dedurre profili di omessa motivazione ovvero di travisamento della prova, funzionali al giudizio sull'attendibilità, in realtà si fondano sulla diretta evocazione del materiale probatorio, del quale si sollecita l'attribuzione di un significato conforme agli auspici difensivi. Va infatti sottolineato che i Giudici di merito hanno inteso formulare un giudizio di attendibilità del D.G. fondato sul complesso della sua narrazione, ma con specifico rapporto al nucleo centrale della chiamata in correità, reputando non conferenti in tale prospettiva i molteplici aspetti di contorno, sui quali si è diffuso soprattutto il responsabile civile, richiamando a tal fine, ma vanamente, l'atto di appello. D'altro canto non è stata ignorata la storia economica del D.G., ma è stato rilevato come l'analisi della documentazione disponibile e delle relazioni del consulente del P.M. avesse consentito di ritenere plausibile il racconto del D.G. in relazione alla progressiva acquisizione di somme in contanti, senza che fossero emersi elementi tali da contrastare in modo dirimente gli assunti accusatori, a fronte del dato certo costituito dai cospicui flussi di denaro in entrata, di diversa e talvolta non definita provenienza, e dai rilevanti debiti progressivamente maturati dal D.G.. In ogni caso è stato sottolineato dai Giudici di merito come tale aspetto non valesse a legittimare l'assunto del carattere meramente strumentale delle dichiarazioni accusatorie rese dal D.G.. 6.3. Analoghe considerazioni devono ripetersi per il riferimento fatto nel settimo motivo del ricorso B. alle criticità poste in luce, alle agende di B., al patto federativo e all'accordo integrativo concluso dal D.G. con il Movimento Forza Italia, oltre che alla deposizione del consulente Ga. e all'acquisizione di una sentenza della Corte dei Conti. Si tratta di elementi che avrebbero dovuto sovvertire il giudizio di merito in ordine all'attendibilità del D.G. e che in realtà non sono idonei a vulnerare sotto il profilo della completezza e della logicità la motivazione della sentenza impugnata, anche in rapporto a quella del primo Giudice, nella parti in cui è stato sottolineato il carattere non decisivo delle criticità, la compatibilità del racconto con l'esame dei conti correnti e della situazione finanziaria del D.G., la sostanziale irrilevanza ai fini della ricostruzione della vicenda del sopravvenuto patto federativo e dell'accordo integrativo, non illogicamente inseriti all'interno della cornice delineata dall'originaria pattuizione intercorsa tra il D.G. e il B., quale forma di attuazione dello stesso, secondo quanto desumibile, per i Giudici di merito, anche dalla lettera inviata dal D.G. al B. nel giugno 2007, nella quale il primo aveva chiesto al secondo che venissero onorati i patti, ciò che era stato espresso con il ricorso alla formula "quanto abbiamo concordato", implicante il coinvolgimento in quegli accordi dello stesso B., sebbene a rigore il predetto dovesse considerarsi estraneo alla loro conclusione, coinvolgente il partito e chi per esso operava. 6.4. Non corrisponde al vero quanto dedotto nel nono motivo del ricorso del responsabile civile in ordine all'erroneo percorso compiuto dal Tribunale e dalla Corte per formulare il giudizio di attendibilità. In realtà è stata ampiamente valutata la concreta credibilità del personaggio e l'attendibilità del narrato, che è stata poi messa a confronto con plurimi riscontri, peraltro nel quadro di un giudizio sincronico, basato sul complesso delle risultanze acquisite, alla luce di quanto ritenuto legittimo dagli arresti giurisprudenziali in precedenza richiamati. Neppure può dirsi che il Tribunale e la Corte abbiano inteso formulare ai fini in esame un giudizio personologico negativo, essendo stato invece posto in luce come i tratti debordanti della personalità del dichiarante non avessero influito sulla sostanza di quanto dichiarato, pur emendato da talune enfatizzazioni, non coinvolgenti il nucleo essenziale delle accuse. E' poi inammissibile, come anticipato, l'insistito riferimento, suffragato dal richiamo di ampi stralci dell'atto di appello, a pretese smentite che le dichiarazioni su più punti avrebbero ricevuto. Si tratta di deduzione segnata per intero dallo stigma dell'inammissibilità, secondo quanto osservato in ordine al confronto con il materiale probatorio: ed invero la Corte ha indicato gli elementi sulla cui base all'unisono col Tribunale ha formulato il proprio giudizio di attendibilità del dichiarante. Inoltre le smentite delle dichiarazioni del D.G. sono prospettate in parte solo assertivamente ed in parte sulla base di riferimenti frammentari ad elementi probatori acquisiti, che non consentono in alcun modo di valutare neppure profili di travisamento della prova, fermo restando che in gran parte dei casi i Giudici di merito hanno fornito in ordine ai vari temi risposte dirette o implicite, ad esempio rimarcando la scarsa rilevanza di episodi coinvolgenti interessi strategici e rapporti internazionali, nei quali si era registrata la massima cautela dei dichiaranti, ovvero segnalando l'inaffidabilità di dichiarazioni rese da taluni soggetti (si considerino, fra l'altro, i giudizi formulati dal Tribunale sul conto del Ve. e i rilievi riguardanti l'inattendibilità o la non decisività di alcuni passaggi delle dichiarazioni dei testi M. e S.). Sta di fatto che tale genere di doglianza pretende di sovvertire il giudizio di merito, facendo leva su aspetti collaterali, reputati in realtà non decisivi, a fronte di una complessiva valutazione di attendibilità del dichiarante. In tale prospettiva risulta infondato l'assunto difensivo secondo cui la Corte avrebbe contraddittoriamente segnalato di voler dare rilievo alla valutazione del narrato nel suo complesso, omettendo di cogliere proprio il quadro complessivo della coerenza dichiarativa: in realtà, in termini opposti, la Corte ha non illogicamente rilevato la mancanza di elementi idonei a vulnerare l'attendibilità del dichiarante, valutata nel suo complesso, in funzione del nucleo essenziale della chiamata. 6.5. Con più specifico riguardo al decimo motivo del ricorso del responsabile civile, va rimarcato come, al di là dei profili di qualificazione, sui quali si tornerà, non sono stati posti in luce elementi dai quali possa desumersi il radicale travisamento della prova, costituita dalle dichiarazioni del D.G., in merito all'oggetto della pattuizione. Ed invero al di là del richiamo di vari passaggi di quelle dichiarazioni, devono ritenersi meramente assertive e comunque inconferenti le conclusioni prospettate dal ricorrente in ordine al fatto che le dazioni sarebbero state la conseguenza del passaggio del D.G. allo schieramento di centro-destra, ispirato dalla sua vocazione politica, dovendosi escludere l'ipotesi inversa. E' sufficiente al riguardo rimarcare che i Giudici di merito hanno reputato del tutto irrilevante a fini ricostruttivi il passaggio del D.G. da uno schieramento all'altro o la concreta verifica dei suoi convincimenti politici, avendo invece rilevato la stretta correlazione tra le dazioni promesse e l'esercizio delle funzioni parlamentari, a tal fine prospettando la creazione di un illecito mandato imperativo, comportante asservimento e messa e disposizione, qualificata come illecita in quanto discendente dal mercimonio. In tale quadro ben si comprende che la Corte abbia valorizzato proprio la dichiarazione del D.G., invocata dal ricorrente in senso opposto, nella quale l'ex-Senatore aveva sottolineato che la corruzione si annidava essenzialmente nella guerriglia da lui scatenata contro il Governo P., implicante un'azione svolta nell'esercizio delle funzioni parlamentari, anche quale Presidente della Commissione Difesa. A tal fine i Giudici di merito hanno fornito un quadro probatorio coerente, spiegando le ragioni per cui non fossero decisive testimonianze volte ad accreditare l'autonomia del patto federativo e non potessero dirsi dirimenti le fasi nelle quali si era sviluppata la trattativa funzionale alla definizione di quel patto, a fronte dell'originaria inclusione nell'accordo della previsione di erogazioni ufficialmente risultanti, peraltro modulate, secondo i suggerimenti del L., in modo da non far risultare dazioni eccedenti rispetto a quelle corrisposte da Forza Italia alla galassia dei piccoli partiti alleati, fermo restando che il D.G. aveva interesse, come rileva la sentenza impugnata, ad incrementare le erogazioni "in chiaro", in modo da rassicurare i propri debitori e gli istituti bancari e da disporre, se del caso, di documenti utilizzabili in sede giudiziaria, per pretendere i pagamenti promessi. 7. La ricostruzione dei Giudici di merito, come anticipato, non si è fondata solo sulle dichiarazioni del D.G., che peraltro sono state indicate come il dato essenziale, idoneo a ricondurre ad unità i singoli tasselli, ma anche su una pluralità di elementi acquisiti, tra i quali possono annoverarsi le dichiarazioni della G., segretaria del D.G., e quelle di C. in merito ai pagamenti "in nero", le dichiarazioni di coloro che hanno contribuito a dar conto di tentativi fatti da esponenti del centro-destra per convincere parlamentari del centro-sinistra a passare nello schieramento opposto, anche con la lusinga di promesse di tipo economico, e soprattutto la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata in separato procedimento nei confronti di L.V. per il delitto di tentata estorsione in danno del B.. 7.1. Le censure formulate con riferimento alle acquisizioni testimoniali sono state inserite nel quadro della più generale critica rivolta alla ricostruzione operata dai Giudici di merito, soprattutto in funzione di asserite smentite che le dichiarazioni del D.G. avrebbero ricevuto da altre fonti probatorie e in rapporto all'inadeguatezza degli elementi invocati a conferma. Ma in realtà su tali punti si è già rilevato come l'analisi dei Giudici di merito si sottragga alle doglianze in varia guisa formulate dai ricorrenti, posto che, secondo la puntuale ricostruzione effettuata, la teste G. ha effettivamente riscontrato con precisione gli assunti del D.G. in merito alla consegna all'(OMISSIS) di un involucro contenente denaro contante da trasferire a (OMISSIS) e da utilizzare in relazione alle situazioni in sofferenza, denaro poi effettivamente versato almeno in parte, e il C. ha a sua volta dato conto della consegna in (OMISSIS) da parte del D.G. di denaro contante da trasferire a (OMISSIS). 7.2. Inoltre i Giudici di merito hanno sottolineato come al di là del fatto che non siano venuti in evidenza ulteriori procedimenti, aventi ad oggetto analoghe trame corruttive, tuttavia le dichiarazioni di coloro che avevano segnalato gli indebiti approcci di esponenti del centro-destra si prefigurassero come più credibili di quelle di coloro che avevano negato condotte consimili, fermo restando che relativamente a due casi la vicenda era stata oggetto in Parlamento di denuncia politica da parte della Senatrice F.. 8. Va peraltro rimarcato che l'elemento effettivamente più rilevante, utilizzato dai Giudici di merito, è costituito dalle lettere V. e Pi., di cui si dà puntualmente conto nelle sentenze di merito (G.I.P. del Tribunale di Napoli in data 4/3/2013; Corte di appello di Napoli in data 6/11/2013), pronunciate nel processo definito con la condanna del L., divenuta irrevocabile in data 1/7/2014, per il delitto di tentata estorsione, e acquisite ai sensi dell'art. 238-bis c.p.p.. 8.1. Tali lettere, soprattutto quella c.d. Pi., sono state valorizzate al fine di attestare che il L. mostrava di essere a conoscenza di fatti disonorevoli o addirittura illeciti, coinvolgenti il B., tra i quali quello di aver "comprato" e pagato il D.G., e intendeva rivolgere al B. richieste di denaro. 8.2. I motivi di ricorso al riguardo formulati dai ricorrenti ripropongono temi che hanno formato oggetto di analisi da parte dei Giudici di merito, ma che devono essere in questa sede nuovamente valutati sotto il profilo giuridico. Va in primo luogo rilevato che le sentenze acquisite sono state utilizzate non tanto per attestare in questa sede la responsabilità del L. in ordine alla tentata estorsione a lui nella separata sede contestata, quanto invece per dar conto specificamente dell'accertamento di un fatto esterno al processo, costituito dall'esistenza, dal contenuto e dalla provenienza delle due lettere. Essendo pacifico che le lettere, rinvenute rispettivamente nella disponibilità del V. e del Pi., incaricati semmai di recapitarle, non sono mai materialmente entrate nella sfera di disponibilità del B., cui non sono state neppure inviate, è stata correttamente esclusa l'operatività delle garanzie procedimentali di cui all'art. 68 Cost. e di cui alla Legge attuativa n. 140 del 2003, riguardanti la corrispondenza del parlamentare, tema che in questa sede è stato solo assertivamente riproposto (pag.106 del ricorso B.), ma senza specifico approfondimento argomentativo, fermo restando che nel presente processo è stato dato rilievo in concreto al significato attribuibile allo specifico fatto di aver concepito e predisposto le missive. 8.2. D'altro canto risulta generico e irrilevante il motivo di ricorso concernente l'utilizzazione di una conversazione. telefonica riguardante il B., che sarebbe stata valutata in assenza almeno della specifica autorizzazione ex post della Camera dei Deputati: è agevole rilevare che in questa sede, al di là di quanto acquisito nel separato processo, i Giudici di merito non hanno in alcun modo direttamente utilizzato e fatto riferimento a fini probatori a conversazioni telefoniche del B., oggetto di attività captativa, dovendosi nel contempo osservare che nel motivo di ricorso del B. solo assertivamente e senza alcuna specifica illustrazione è stato prospettato il rilievo dirimente che la menzionata conversazione avrebbe se del caso avuto. 8.3. Per il resto deve osservarsi che è stata contestata la stessa acquisibilità delle sentenze pronunciate nel separato procedimento, oltre che l'acquisibilità delle due lettere. 8.4. Sotto il primo profilo va tuttavia rimarcato che gli argomenti difensivi risultano infondati. L'acquisizione di sentenze irrevocabili, funzionale alla prova del fatto in esse accertato, è consentita dall'art. 238-bis c.p.p., senza che possa farsi distinzione tra sentenza pronunciata all'esito di giudizio ordinario ovvero di giudizio abbreviato. Tale principio costituisce invero ius receptum (sul punto, fra l'altro, Cass. Sez. 1, n. 50706, 5/6/2014, Macrì, rv. 261480), fermo restando che dubbi, in prima battuta, avrebbero potuto semmai nutrirsi in ordine alla capacità delle sentenze di patteggiamento di fondare un accertamento di fatto, tema relativamente al quale si è tuttavia consolidato analogo orientamento ai fini della concreta acquisibilità ex art. 238-bis c.p.p. (sul punto Cass. Sez. 5, n. 12344 del 5/12/2017, dep. nel 2018, Nicho Casas, rv. 272665; Cass. Sez. 5, n. 7723 del 12/11/2014, dep. nel 2015, Mazzola, rv. 264058). Va in particolare rilevato che l'acquisizione non vale ad introdurre sic et simpliciter nel processo ad quem materiale probatorio ad esso esterno, ma a dar conto della valutazione di sintesi compiuta nel separato processo in ordine all'accertamento di un fatto, non necessariamente concernente l'oggetto dell'imputazione, ma comunque esterno al processo (sul punto Cass. Sez. 6, n. 1269 del 4/12/2003, dep. nel 2004, Brambilla, rv. 229996). L'ammissibilità della separata sentenza divenuta irrevocabile non dà luogo a profili rilevanti sul piano del rispetto delle garanzie difensive, pur lette alla luce degli insegnamenti della Corte di Strasburgo. Va infatti rimarcato che l'efficacia del separato accertamento deve essere inverata nel processo ad quem sulla base degli elementi di conferma in esso acquisiti nel pieno rispetto del contraddittorio, secondo quanto previsto dallo stesso art. 238-bis c.p.p., che a tal fine richiama l'art. 187 c.p.p., e l'art. 192 c.p.p., comma 3, per sottolineare la necessità dell'acquisizione di riscontri idonei a suffragare quel separato accertamento. Tale acquisizione assume una valenza epistemologica ed assicura comunque la pienezza del diritto di difesa, giacchè la parte interessata è in tal modo coinvolta nella fase di concreta verifica del dato probatorio, quand'anche rimasta estranea al primo, separato accertamento effettuato nel processo a quo. Va anzi rimarcato come, a ben guardare, sotto il profilo delle garanzie non si rinvengano differenze tra un processo celebrato con rito abbreviato e un processo celebrato con rito ordinario cui l'imputato del processo ad quem sia comunque rimasto estraneo. La differenza può semmai cogliersi proprio sul piano epistemologico, in quanto risulti che nel separato procedimento vi sia stata una fase di assunzione di prove in contraddittorio e non vi sia stata la mera trasformazione degli elementi acquisiti in fase di indagine in elementi probatori, secondo la fisiologia dei riti speciali. In ogni caso il tema ha formato già oggetto di analisi da parte della Corte costituzionale che con sentenza n. 29 del 2009, nel respingere la questione di legittimità costituzionale per contrasto con l'art. 111 Cost., ha sottolineato che "in relazione alla specifica natura della sentenza irrevocabile, il principio del contraddittorio trova il suo naturale momento di esplicazione non nell'atto dell'acquisizione - nel quale, del resto, non sarebbe ipotizzabile alcun contraddittorio, se non in ordine all'an dell'acquisizione - ma in quello successivo della valutazione e utilizzazione. Una volta che la sentenza è acquisita, le parti rimangono libere di indirizzare la critica che si andrà a svolgere, in contraddittorio, in funzione delle rispettive esigenze. Nel corso del dibattito, ai fini della valutazione e utilizzazione in questione, non si potrà non tenere conto del tipo di procedimento (ordinario, abbreviato, con accettazione della pena) in cui la sentenza acquisita è stata pronunciata e, quindi, anche del contraddittorio in esso svoltosi". Non si tratta di soluzione aperta, ma di nitida esclusione di profili di illegittimità costituzionale correlati all'esigenza di assicurare la pienezza del contraddittorio. Piuttosto il monito della Corte costituzionale circa la necessità di tener conto del tipo di procedimento in cui la sentenza è stata pronunciata comporta che nel processo ad quem la ricerca della conferma del separato accertamento debba essere corrispondentemente più pregnante in rapporto all'entità del deficit di contraddittorio nell'assunzione della prova, che abbia caratterizzato, pur legittimamente, il processo a quo, ciò in funzione di un giudizio che rifletta la possibilità dell'imputato di fornire un adeguato contributo anche di tipo critico. D'altro canto non possono condurre, nè in astratto nè in concreto, a conclusioni dissimili gli arresti invocati della Corte di Strasburgo (Corte E.D,U., 27/2/2014, Karaman contro Germania, ma anche 19/5/2005, Diamantides contro Grecia), che hanno preso in considerazione il tema non omogeneo della presunzione di innocenza di cui all'art. 6, par. 2, Convenzione E.D.U., a fronte del rischio di invadente pregiudizio discendente da separato giudicato. Il problema potrebbe teoricamente porsi nel caso in cui venisse in rilievo la medesima regiudicanda in separati processi a carico di imputati diversi o nel caso in cui comunque in un giudizio a carico di un terzo siano formulate pregnanti valutazioni di colpevolezza a carico dell'imputato nel processo ad quem, ciò che però non è in alcun modo ravvisabile nel caso di specie, in cui l'imputato B. era chiamato a rispondere di corruzione in concorso con L., mentre nel separato processo il L. era chiamato a rispondere del ben diverso reato di tentata estorsione nei confronti del B., senza che in quest'ultimo processo venisse in rilievo il concreto e specifico riscontro delle condotte corruttive in questa sede oggetto di imputazione. Va aggiunto che in conformità con un rilievo difensivo il Tribunale aveva avuto modo specificamente di sottolineare come il giudizio sulla tentata estorsione non implicasse in alcun modo la penale responsabilità del B. per la corruzione del D.G. a lui contestata, nel presupposto della necessaria veridicità, fra l'altro, dei contenuti della lettera Pi.. 8.4. Se dunque non ricorrono ostacoli alla concreta acquisizione ed utilizzazione delle due separate sentenze acquisite ex art. 238-bis, c.p.p., evidentemente da valutarsi all'unisono, in funzione dell'unico omogeneo accertamento da esse desumibile, deve nel contempo reputarsi inidonea a vulnerare le conclusioni formulate nella sentenza impugnata la censura incentrata sul valore che la Corte territoriale avrebbe attribuito alla veste di persona offesa del B. nel separato processo: la possibilità di acquisizione e di utilizzazione della separata sentenza infatti non dipende specificamente da tale veste, solo occasionalmente ricorrente e tale da qualificare la relazione esistente tra i due processi, impregiudicate peraltro le facoltà riconosciute alla persona offesa nella fase sia del procedimento sia del processo, pur non disponendo essa della facoltà di opporsi all'ammissione del giudizio abbreviato. 8.5. E' inoltre manifestamente infondata e peraltro meramente volta a riprodurre gli argomenti già vagliati dalla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell'art. 238-bis c.p.p. per contrasto con l'art. 111 Cost. e art. 6 C.E.D.U., in quanto la norma indicata non postula la violazione del contraddittorio ma al contrario ne assicura in modo duttile il pieno rispetto. 8.6. D'altro canto deve rimarcarsi, a corredo degli argomenti già esposti e in linea con quanto osservato dalla Corte costituzionale, che l'acquisizione della sentenza ai fini dell'accertamento del fatto non incide sul regime di utilizzabilità delle dichiarazioni, che resta quello dell'utilizzabilità in diverso procedimento contemplato dall'art. 238 c.p.p. (Cass. Sez. 6, n. 41766 del 13/6/2017, Laporta, rv. 271096; Cass. Sez. 4, n. 12175 del 3/11/2016, dep. nel 2017, Bordogna, rv. 270384), conseguendone la vigenza della regola di esclusione di cui all'art. 238 c.p.p., comma 2-bis, posta specificamente a salvaguardia nel contraddittorio, evidentemente ai fini dell'acquisizione di elementi di conferma dell'accertamento compiuto nel separato procedimento. E' di tutta evidenza a tale stregua l'inconferenza dei rilievi difensivi con i quali si è cercato di invocare i principi esposti nella sentenza della Corte di Strasburgo del 5/7/2011, Dan contro Moldavia, non venendo in considerazione una mera rivalutazione cartolare di elementi probatori ma una diversa articolata valutazione, corroborata dal pieno esercizio del diritto di difesa e della facoltà di critica da parte dell'imputato, nella fase di assunzione di nuove prove, salva comunque l'acquisizione di quelle non dichiarative, correlate ad elementi di natura documentale o ad atti irripetibili. 8.7. Se tutto ciò corrobora a fortiori il giudizio di manifesta infondatezza della prospettata questione di legittimità costituzionale, va altresì rigettata ogni deduzione volta a prospettare la non acquisibilità delle due lettere, più volte menzionate in precedenza. Va infatti osservato che le stesse, contrariamente a quanto dedotto nel ricorso del responsabile civile, non costituiscono prova dichiarativa, la quale può ravvisarsi solo in presenza di dichiarazioni rese all'interno del procedimento o del processo o comunque specificamente in funzione di esso. In questo caso invece le due lettere, risultano essere state redatte in ambito extraprocessuale, in quanto aventi la funzione di esternare al soggetto al quale erano teoricamente destinate, cioè al B., il quadro delle consapevolezze e degli intendimenti di chi le aveva redatte o comunque fatte redigere, soggetto individuato nel L.. Non può del resto dirsi che in questa sede i Giudici di merito abbiano fatto riferimento a prove dichiarative diverse da quelle direttamente assunte nel corso del giudizio. E' dunque del tutto fuori luogo prospettare l'applicabilità di una regola di esclusione, in particolare riconducibile all'art. 238 c.p.p., comma 2-bis, discendente dalla mancata partecipazione del B. al separato processo. Va aggiunto che il Tribunale, come risulta dalla sentenza di primo grado, aveva originariamente respinto la richiesta di acquisizione delle due lettere, osservando che era stata chiesta la produzione delle annotazioni di P.G. relative ai due files sequestrati a V. e a Pi., con allegate le stampe delle due missive, ma senza che fossero state chiarite le modalità di rinvenimento, tali da renderne apprezzabile la valenza probatoria. Peraltro il Tribunale aveva anche dato conto della successiva produzione di atti di indagine relativi al sequestro e all'acquisizione dei files da parte della P.G. e alla fine aveva ritenuto superata ogni questione dal passaggio in giudicato della separata sentenza di condanna, che riportava per intero il contenuto delle due lettere e illustrava le vicende investigative che avevano condotto alla loro acquisizione. In tale prospettiva risultano manifestamente infondati anche i rilievi esposti nei motivi di ricorso del responsabile civile, nei quali si deduce la contraddittorietà tra l'originario rigetto dell'istanza di acquisizione e la successiva utilizzazione delle due lettere, dovendosi escludere che le stesse siano prive nel presente processo dei necessari requisiti di legalità della prova. 8.8. E nella stessa prospettiva va sottolineato che l'utilizzazione delle due lettere non dipendeva dalla celebrazione del giudizio con rito abbreviato, essendone all'evidenza consentita l'utilizzazione anche nell'ambito del giudizio ordinario, previa verifica da parte dei Giudici di merito, anche alla luce di quanto sul punto osservato nella separata sentenza, all'uopo acquisita, delle circostanze e dei presupposti del sequestro dell'hard disk e della successiva estrapolazione del file. 8.9. Sul punto deve anche rilevarsi, a fronte di quanto dedotto nel quindicesimo motivo del ricorso B., che i Giudici di merito hanno dato una risposta precisa al tema fondamentale della provenienza delle due lettere, ma soprattutto di quella dal contenuto più rilevante, rinvenuta nel computer in possesso del Pi.. In particolare essi hanno proceduto alla disamina di una pluralità di elementi di conferma del separato accertamento, con il quale lo stesso è stato inverato nell'ambito del presente giudizio, nel rispetto del contraddittorio. A tal fine i Giudici di merito hanno proceduto alla verifica del contenuto del documento e lo hanno sottoposto ad attenta analisi alla luce di molteplici acquisizioni probatorie. Tra queste devono fra l'altro annoverarsi (sentenza del Tribunale a pagg. 43 segg.) l'escussione del Capitano d.g. sulle indagini che avevano condotto a monitorare il L. e il Pi., sui riscontri al contenuto della lettera Pi., che contiene numerosi riferimenti a persone in contatto col L. e a fatti coinvolgenti il predetto, nonchè a vicende comunque reali, le dichiarazioni dell'Avv. Fr., ma anche e soprattutto, come rilevato dalla Corte territoriale, le dichiarazioni rese nel corso del dibattimento dallo stesso Pi., che ha confermato, secondo quanto osservato nella sentenza impugnata (pag. 83), la provenienza della lettera dal L., che gli aveva poi spedito una mail, perchè egli facesse pervenire la missiva ad un Senatore, che tuttavia si era rifiutato di inviarla al B.. 8.10. La complessa analisi compiuta dal Tribunale, involgente anche profili di prova logica, e l'approfondimento operato dalla Corte territoriale alla luce di tutti gli elementi acquisiti nel giudizio valgono a dar conto di come l'accertamento compiuto nel separato giudizio e trasfuso nella sentenza acquisita, abbia trovato plurime conferme agli effetti dell'art. 187 c.p.p., e art. 192 c.p.p., comma 3, secondo quanto richiesto dall'art. 238-bis c.p.p.. In particolare va rimarcato come tali elementi costituiscano il risultato dell'assunzione di prove in contraddittorio, tale da aver consentito non solo la valutazione critica della parte interessata ma, prima ancora, la diretta partecipazione dell'imputato alla loro formazione. Prove destinate a sovrapporsi all'accertamento a quo ed a riprodurne per intero i contenuti, per la parte di interesse nel presente giudizio. 8.11. A fronte di ciò risultano generici gli ulteriori rilievi difensivi sviluppati nel quindicesimo motivo del ricorso B., volti a denunciare la mancata considerazione da parte della Corte delle indicazioni contenute nella sentenza n. 29 del 2009 della Corte costituzionale, nonchè a segnalare il carattere anonimo delle due lettere e ad adombrare dubbi in ordine alla tecnica di reperimento delle stesse. Si tratta di censure che non si confrontano in alcun modo nè con l'originario accertamento compiuto nella sentenza acquisita nè con le prove valorizzate ai fini della conferma, tutte assunte nella pienezza del contraddittorio, a cominciare dall'assunzione del Pi.. D'altro canto risultano generiche ed assertive, ma anche manifestamente infondate le deduzioni relative al fatto che non fossero stati dati avvisi ai difensori ai fini dell'estrapolazione dai supporti informatici, che si trattasse di atti irripetibili e che alcune operazioni non si potessero compiere sulle copie forensi eseguite. Si confonde in realtà il riferimento al contraddittorio, che nel separato procedimento avrebbe potuto coinvolgere i soggetti in quella sede indagati, rispetto a quello necessario ai fini della conferma in questa sede dell'accertamento contenuto nella separata sentenza; si deduce in modo generico il tema dell'irripetibilità degli atti, senza che vengano formulate deduzioni precise in ordine ad eventuali obblighi informativi se del caso omessi in questa sede e senza che venga esaminato il diverso tema dell'acquisizione ed utilizzazione di atti irripetibili agli effetti dell'art. 238 c.p.p., comma 3; si prospettano operazioni non più consentite ma non se ne illustra la concreta rilevanza rispetto a quanto in questa sede accertato sulla base di prove assunte in contraddittorio. Se poi la finalità della prospettazione di tali doglianze è da correlare a quanto esposto nel ricorso del responsabile civile a proposito dei sospetti rivenienti dai rapporti del D.G. con la C.I.A. e i Servizi segreti italiani, non può che ribadirsi l'assoluta genericità delle censure, che, come peraltro già sottolineato dai Giudici di merito, non si correlano sul punto ad alcun elemento specifico, tale da suffragare lo scenario della surrettizia costruzione di tipo complottistico. 9. E' inammissibile il dodicesimo motivo del ricorso B., nel quale si deduce il tema dell'integrazione probatoria. Ed invero viene prospettata in modo generico e meramente esplorativo la necessità di approfondire i flussi economici riferibili al D.G., non indicandosi in che modo si sarebbe potuto con certezza giungere a nuove fonti di conoscenza ai fini di un più proficuo accertamento, oltre quello già lungamente effettuato dalla P.G. e dal consulente del P.M., e solo assertivamente deducendosi la necessità dell'indagine ai fini di una più rigorosa valutazione dell'attendibilità del dichiarante. Parimenti generica e assertiva risulta la deduzione incentrata sull'acquisizione della documentazione esaminata dalla Corte dei Conti, per giungere alla condanna del L. e del D.G. al pagamento di una cospicua somma. In concreto dunque non si segnalano effettive lacune probatorie, che le integrazioni prospettate avrebbero potuto realmente colmare, non ricorrendo per contro il presupposto della negazione del diritto alla prova e risultando generico l'assunto dell'irragionevolezza del diniego opposto dalla Corte territoriale all'invocata integrazione. 10. Il quarto motivo del ricorso B. e parte del quinto motivo del ricorso del responsabile civile, incentrati sulla configurabilità del delitto di cui all'art. 319-quater c.p., introdotto dalla L. n. 190 del 2012, sono inammissibili. La prospettazione è interamente fondata su una alternativa valutazione degli elementi probatori, tendente ad accreditare l'assunzione dell'iniziativa da parte del D.G. e lo sfruttamento da parte del predetto di una condizione di soggezione del B., ciò che si colloca ben al di fuori dello scrutinio di legittimità. Va infatti osservato che i Giudici di merito hanno concordemente rilevato come l'intesa tra B. e D.G. si fosse progressivamente perfezionata, muovendo dall'interessamento del B. per il "ritorno a casa" del D.G. - per il quale egli si era dichiarato disposto a compiere qualunque sacrificio economico e politico -, passando attraverso l'opera di intermediazione del L., suffragata anche dalle risultanze della lettera Pi., culminando infine nella richiesta rivolta dal B. al D.G. di conoscere l'entità dei suoi debiti, cui era seguita la promessa delle plurime erogazioni per un importo complessivo di Euro 3.000.000,00. Inoltre è stato rilevato come il B., all'indomani delle elezioni del 2006, che avevano visto la vittoria di un soffio del centro-sinistra, pur avendo perduto la maggioranza parlamentare, fosse pur sempre il leader dello schieramento di centro-destra e non si trovasse specificamente in una situazione di soggezione rispetto al D.G.. A fronte di ciò il tentativo del ricorrente di prospettare una alternativa ricostruzione non può trovare ingresso in questa sede, vanamente essendo stato fatto riferimento ad una pretesa iniziativa del D.G., smentita dai Giudici di merito sul piano probatorio, fermo restando che l'iniziativa del pubblico ufficiale, seppur non decisiva, può assumere rilievo sintomatico di una condotta induttiva, ma la sua mancanza vale ad escluderla. Ed invero, in conformità con consolidati arresti della giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. U. n. 12228 del 24/10/2013, dep. nel 2014, Maldera, rv. 258474), è stato escluso che fosse ravvisabile nel caso di specie una prevaricazione abusiva dell'ex-Senatore, volta ad indurre il B., in condizione di soggezione, alla dazione o alla promessa indebita, essendo invece configurabile un accordo fondato sulla par condicio contractualis, incentrato sull'incontro libero e consapevole delle volontà. Del resto è stato sottolineato come il B. avesse di mira un'azione volta a far cadere il Governo P., erodendone la maggioranza, e il D.G. perseguisse nel contempo l'intento di mettere in sicurezza i suoi conti, afflitti da una consolidata situazione debitoria. Del tutto irrilevanti sono stati reputati gli avvenimenti del 2012, caratterizzati dal tentativo del D.G. di ottenere una buonuscita dal B., giacchè, a prescindere dalla qualificazione di tale vicenda, la stessa si collocava comunque all'esterno del patto concluso nel 2006. Ma altrettanto inconferenti sono stati - non illogicamente - considerati anche i riferimenti fatti dal D.G. alle reciproche diffidenze e alla sua accorta tattica, volta a far comprendere al suo interlocutore che avrebbe dovuto provvedere a mano a mano alle dazioni promesse. A questo riguardo infatti va rimarcato come, secondo la ricostruzione dei Giudici di merito, la tattica usata dal D.G. fosse da inquadrare nell'originaria e paritaria pattuizione e non fosse svincolata da essa, incentrata sulla promessa da parte del B. di dazioni di ammontare complessivo non inferiore ad Euro 3.000.000,00, non potendo valere a connotarla ab origine in termini induttivi. Il motivo di ricorso risulta dunque inammissibile, in quanto non individua specifici vizi nel ragionamento della Corte, che d'altro canto può dirsi giuridicamente corretto. 11. Sono infondati il secondo motivo del ricorso B. e il terzo motivo del ricorso del responsabile civile. 11.1. Viene in entrambi dedotta la nullità derivante dal difetto di correlazione tra contestazione e sentenza. In particolare si deduce che il Tribunale avrebbe immutato il fatto, fondando la condanna sull'assunzione da parte del B. della veste di privato corruttore e sull'individuazione del mercimonio nella violazione del divieto di mandato imperativo ai sensi dell'art. 67 Cost. e in una generica violazione della libertà del parlamentare, a fronte di una contestazione incentrata su un comportamento circoscritto e circostanziato, che prendeva in considerazione il B. quale leader del centro-destra e correlava la contrarietà ai doveri di ufficio alle manifestazioni di voto contrarie alle proposte della maggioranza di governo e a talune specifiche votazioni. 11.2. L'analisi del tema dovrà essere di seguito ripresa in sede di esatta qualificazione del fatto, ma per intanto va rimarcato come secondo la logica della contestazione l'ipotesi di corruzione propria muovesse dal riferimento al D.G. come pubblico ufficiale corrotto e al B. come corruttore, pur nella veste di leader dello schieramento di centro-destra, di per sè non implicante alcun riferimento ad una qualità pubblicistica, e dall'individuazione del patto, nel quale era da un lato dedotta la promessa e la successiva erogazione della somma complessiva di Euro 3.000,000,00 e dall'altro la costituzione di un illecito mandato imperativo contrario al libero esercizio del voto, previsto dall'art. 67 Cost., e in tal senso contrario ai doveri di ufficio, destinato a sfociare in manifestazioni di voto contrarie alle proposte della maggioranza di governo, con l'esemplificativa indicazione di taluna di quelle manifestazioni di voto. 11.3. A fronte di ciò il Tribunale ha fondato la condanna sull'attribuzione al D.G. della veste di pubblico ufficiale corrotto, in quanto Senatore nell'esercizio delle relative funzioni, e al B., interessato a sovvertire la maggioranza parlamentare, uscita dalle elezioni, della veste di privato corruttore, nonchè sulla stipula di un patto in cui in cambio della promessa e dell'erogazione della somma era dedotta la costituzione del mandato imperativo, asseritamente contrastante con l'art. 67 Cost. e tale da rendere configurabile la contrarietà ai doveri di ufficio dell'esercizio della funzione del D.G., unitamente all'ulteriore violazione dell'obbligo di svolgere le funzioni con disciplina e onore di cui all'art. 54 Cost., a prescindere dal mero fatto del passaggio da uno schieramento all'altro e a prescindere dallo specifico vaglio delle singole manifestazioni di voto. In senso sostanzialmente conforme a tale impostazione la Corte territoriale ha ritenuto che il patto, costituente un illecito mandato imperativo, implicasse il mercimonio e la messa a disposizione della funzione - a prescindere dall'analisi specifica di ciascuna manifestazione di voto -, in quanto tale da limitare l'autonomia e la libertà del parlamentare. 11.4. Alla luce di tale verifica è agevole rilevare come nella sostanza la condanna si sia fondata non su profili diversi o ulteriori rispetto a quelli oggetto di contestazione bensì su una delimitazione del suo ambito, implicante il riferimento all'esercizio delle funzioni, in concreto svolte, ma non anche lo specifico sindacato su ciascuna manifestazione di voto, nel presupposto del carattere assorbente dell'illecito mandato imperativo assunto, di per sè tale da proiettare ab origine i suoi effetti in termini di contrarietà ai doveri, a prescindere dal loro specifico riscontro in singole manifestazioni. Vuol dirsi cioè che fin dall'inizio la centralità dell'imputazione era da individuarsi nel profilo della contrarietà ai doveri, segnata dalla violazione del divieto di mandato imperativo, essendo peraltro inconferente il riferimento al B. come leader del centro-destra, da reputarsi in linea con l'attribuita veste di privato corruttore. In tale prospettiva non è stato in alcun modo immutato il nucleo centrale del fatto, da valutarsi ai fini del concreto esercizio del diritto di difesa, comunque implicante la disamina sul piano probatorio e critico dell'esistenza e della natura del patto e di fatto esplicatosi attraverso l'ampia attività difensiva a tutto campo, di cui hanno dato conto i giudici di merito, sul versante della concreta ricostruzione della vicenda e dell'analisi selettiva delle possibili qualificazioni di essa, nel presupposto del contestato profilo di contrarietà ai doveri, comunque originariamente individuato nella violazione del dovere di libertà ed autonomia, che deve assistere il parlamentare nel compimento di qualunque atto inerente alle funzioni. Non può dirsi del resto che il fatto assunto a fondamento della condanna implicasse l'immutazione della sua connotazione psicologica, venendo comunque in rilievo la stipula di un patto, funzionale alla costituzione di un rapporto sinallagmatico tra dazioni promesse ed erogate ed esercizio delle funzioni di Senatore da parte del D.G., esercizio da intendersi segnato in partenza e in prospettiva dal vincolo discendente da quel patto. 11.5. Va in tale ottica sottolineato che "l'immutazione del fatto di rilievo, ai fini della eventuale applicabilità della norma dell'art. 521 c.p.p., è solo quella che modifica radicalmente la struttura della contestazione, in quanto sostituisce il fatto tipico, il nesso di causalità e l'elemento psicologico del reato, e, per conseguenza di essa, l'azione realizzata risulta completamente diversa da quella contestata, al punto da essere incompatibile con le difese apprestate dall'imputato per discolparsene" (Cass. Sez. 1, n. 6302 del 14/4/1999, Iacovone, rv. 213459). D'altro canto "il principio di correlazione tra contestazione e sentenza è funzionale alla salvaguardia del diritto di difesa dell'imputato; ne consegue che la violazione di tale principio è ravvisabile quando il fatto ritenuto nella decisione si trova, rispetto al fatto contestato, in rapporto di eterogeneità, ovvero quando il capo d'imputazione non contiene l'indicazione degli elementi costitutivi del reato ritenuto in sentenza, nè consente di ricavarli in via induttiva" (Cass. Sez. 6, n. 10140 del 18/2/2015, Bossi, rv. 262802). A tal fine non può comunque sottacersi che "il precetto dell'art. 521 c.p.p., comma 1, che enuncia il principio della correlazione tra accusa e sentenza va inteso non in senso "meccanicistico formale", ma in funzione della finalità cui è ispirato, quella cioè della tutela del diritto di difesa. Ne consegue che la verifica dell'osservanza di detto principio non può esaurirsi in un mero confronto letterale tra imputazione e sentenza, occorrendo che ogni indagine in proposito venga condotta attraverso l'accertamento della possibilità per l'imputato di difendersi in relazione a tutte le circostanze del fatto" (Cass. Sez. 6, n. 618 del 8/11/1995, dep. nel 1996, Pagnozzi, rv. 203371). Nella medesima linea è stato rilevato che il potere di "attribuire al fatto una diversa qualificazione giuridica, rispetto a quella formulata nell'imputazione, sempre che non risulti in concreto pregiudicato il diritto di difesa, deve essere interpretato nel rigoroso rispetto delle esigenze del pieno contraddittorio, in applicazione del principio costituzionale del giusto processo. Pertanto, tale potere va escluso nei casi in cui tra il fatto-reato contestato e quello di cui l'imputato è stato ritenuto responsabile vi sia un rapporto di piena ed irriducibile alterità, senza una matrice di condotta unitaria" (Cass. Sez. 3, n. 13151 del 2/2/2005, Vignola, rv. 231829). In particolare è stato osservato come non possa ravvisarsi difetto di correlazione allorchè la condanna si fondi su una qualificazione derivante dall'esclusione di alcuni degli elementi oggetto di contestazione (Cass. Sez. 3, n. 7705 del 10/1/2018, Innocenti, rv. 272461; Cass. Sez. 2, n. 46256 del 17/1072013, Deodato, rv. 257445). In conclusione può dirsi che deve aversi riguardo all'intera contestazione, intesa in senso sostanziale, da porsi in relazione con le concrete possibilità di esercizio del diritto di difesa su tutti gli elementi da cui discende il riconoscimento della penale responsabilità, correlabili comunque al tema essenziale oggetto dell'imputazione: in tale prospettiva deve ribadirsi che non è ravvisabile nel caso di specie alcuna immutazione, giacchè la contestazione di per sè era idonea ad assicurare la pienezza dell'esercizio del diritto di difesa in rapporto a tutti gli elementi poi in concreto valorizzati nella sentenza di condanna, in linea con il nucleo della condotta che era stata addebitata. A prescindere da quanto si rileverà in prosieguo, deve ritenersi inconferente, ai fini del tema dedotto nei motivi di ricorso richiamati, che la soluzione proposta dai Giudici di merito fosse o meno ispirata dall'intento di escludere la necessità del sindacato sui singoli atti del parlamentare, dovendosi rilevare come tale soluzione non debordasse dai limiti segnati dall'originaria contestazione. 12. Si tratta di procedere ora all'esame dei temi cruciali, che formano oggetto del terzo articolato motivo del ricorso B. e del primo e del sesto motivo del ricorso del responsabile civile. Viene infatti contestata la qualità di pubblico ufficiale dell'ex-Senatore, viene invocata l'immunità di cui all'art. 68 Cost. per farne discendere l'insindacabilità dell'esercizio delle funzioni di parlamentare, viene contestata la rilevanza dei principi desumibili dagli artt. 54 e 67 Cost. e più in generale viene contestata la configurabilità del delitto di corruzione, soprattutto nella forma della corruzione propria. Si tratta di temi che hanno formato oggetto di approfondimento negli atti difensivi, che non sono stati elusi dai Giudici di merito e che saranno ripercorsi in questa sede, con la consapevolezza che il caso in esame, benchè non costituisca un unicum nell'esperienza giurisprudenziale e non implichi addirittura un "cimento dell'armonia e dell'invenzione", tuttavia fornisce l'occasione per verificare se e in che modo l'esercizio delle funzioni parlamentari sia compatibile con la configurabilità del delitto di corruzione. 13. Orbene, in primo luogo occorre stabilire se lo statuto dei reati contro la pubblica amministrazione sia radicalmente incompatibile con le funzioni parlamentari. 13.1. Al quesito deve darsi con certezza risposta negativa, in quanto, al contrario, dall'art. 357 c.p. già sul piano letterale si desume che è specificamente prevista la riferibilità dei reati contro la pubblica amministrazione a coloro che svolgono funzioni legislative, qualificati di per sè come pubblici ufficiali. Si tratta di elemento che consente di dare ai fini penali alla nozione di pubblica amministrazione un significato più ampio di quello discendente dal mero riferimento all'esercizio di attività amministrativa in senso stretto, dovendosi aver più in generale riguardo all'apparato cui è attribuito lo svolgimento delle funzioni volte ad assicurare la realizzazione di interessi presi in considerazione da norme di diritto pubblico di vario rango. 13.2. Si tratta però ora di verificare in che misura debba essere inteso il riferimento fatto dall'art. 357 c.p. alla funzione legislativa. La norma citata nella formulazione introdotta dalla L. n. 86 del 1990, poi ulteriormente modificata dalla L. n. 181 del 1992, fa riferimento a coloro i quali svolgono una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. Più specificamente poi la nozione di funzione amministrativa si connota per il fatto di essere disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi. D'altro canto l'art. 358 c.p. disciplina l'ipotesi dell'incaricato di un pubblico servizio, nozione che parimenti concorre alla definizione dello statuto dei reati contro la pubblica amministrazione: è previsto al riguardo che costituisca pubblico servizio l'attività disciplinata nelle forme della pubblica funzione ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest'ultima, con esclusione dello svolgimento di mansioni di ordine o di prestazioni di opera materiale. 13.3. Valutando il sistema discendente da tali norme sembra dirimente il rilievo che si sia inteso correlare la veste di pubblico ufficiale allo svolgimento di una pubblica funzione e che questa sia stata intesa nel senso più ampio, così da riflettere la classica tripartizione delle funzioni primarie, inquadrate nel vigente sistema costituzionale. Si intende cioè affermare che il riferimento alle funzioni legislative sia parimenti da inquadrare nell'alveo più generale della pubblica funzione e dunque da correlare non alla mera partecipazione, nelle forme tipiche, disciplinate dalla Costituzione e dai regolamenti parlamentari, al procedimento di formazione delle leggi, ma più in generale allo svolgimento di quelle funzioni che spettano a chi assume la veste di parlamentare, che possono esercitarsi, sempre nel rispetto dei regolamenti e delle disposizioni di legge, sul versante delle funzioni di indirizzo politico, di ispezione e controllo, di impulso e garanzia. Ed invero si tratta in generale di funzioni contrassegnate dal crisma dell'esercizio della sovranità, volte, sotto tale profilo, ad esplicare in modo omogeneo il mandato parlamentare. Conferma tale conclusione il rilievo che ogni attività parlamentare è comunque disciplinata da norme di diritto pubblico, ma non è riducibile all'espletamento di mansioni d'ordine o di prestazione d'opera materiale. Ciò significa che la disciplina della nozione di pubblico servizio, destinata a rimanere sullo sfondo, non è comunque compatibile con lo svolgimento di funzioni parlamentari, proprio perchè ontologicamente dissimili da ciò che non attinge neppure al rango di pubblica funzione amministrativa. Va peraltro rilevato che le varie funzioni parlamentari, anche quando non riferite al procedimento di formazione delle leggi, ineriscono comunque alla manifestazione di una volontà che è del Parlamento o comunque di ciascuna Camera, come nel caso della nomina del Presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali o dei componenti del Consiglio superiore della magistratura o come nel caso del voto di fiducia. Escludere tale attività dalla sfera delle funzioni legislative, contemplate dall'art. 357 c.p. comporterebbe la loro diversa classificazione all'interno degli altri tipi di funzione, ma con la strutturale difficoltà di dar conto del fatto che si tratta di attività che esprimono la sovranità del Parlamento e che non possono in alcun modo ridursi ad un mero pubblico servizio. Non può del resto sottacersi che nel caso dell'attività delle commissioni parlamentari di inchiesta è stato autorevolmente affermato che le funzioni delle stesse, pur non inerendo direttamente al procedimento di formazione delle leggi, costituiscono nondimeno espressione della sfera di controllo esercitabile dalle Camere, eventualmente anche in forma congiunta, in vista dell'esercizio del potere legislativo e quale forma di esso, dovendosi dunque da un lato ritenere che esse siano espressione di sovranità delle assemblee legislative e dall'altro che non possano ricondursi all'esercizio di funzioni giudiziarie (in tal senso cfr. Cass. Sez. U. n. 4 del 12/3/1983, dep. nel 1984, Savina, rv. 162719-161727). Ciò dunque impone di intendere la nozione di esercenti funzioni legislative in senso ampio, non sulla base di un'interpretazione destinata a colmare lacune ma alla luce di un inquadramento, anche costituzionalmente coerente, delle funzioni, nei termini in cui le stesse trovano risconto nella disciplina dettata dai regolamenti parlamentari o quale risultato dell'esercizio del potere legislativo. Si tratta di conclusione del tutto conforme a quella espressa in un precedente, assai significativo arresto, che si avrà occasione di richiamare di nuovo (Cass. Sez. 6, n. 36769 del 6/6/2017, Volontè, rv. 270439), nel quale solo in termini dialettici è stata in motivazione prospettata la qualificazione delle attività parlamentari, diverse da quelle correlate alla funzione legislativa, almeno come pubblico servizio, ivi essendosi in realtà concluso nel senso dell'equiparazione delle attività che trovano riscontro nei regolamenti parlamentari, ai fini della qualificazione del soggetto come pubblico ufficiale. Pare dunque possibile ribadire che il parlamentare riveste la qualifica di pubblico ufficiale nello svolgimento sia dell'attività legislativa in senso stretto, sia delle attività parlamentari tipiche (disciplinate dai regolamenti della Camera di appartenenza o direttamente dalla legge) connesse all'attività legislativa o da essa, direttamente o indirettamente, discendenti. 13.4. E' stato a ciò contrapposto dalle difese che una nozione ampia di pubblico ufficiale in servizio permanente sarebbe incompatibile proprio con le prerogative di sovranità e di autonomia che trovano espressione nell'insindacabilità dei voti e delle opinioni del parlamentare, sancita dall'art. 68 Cost., e più in generale nell'autonomia delle Camere dal sindacato di poteri diversi. Ma in realtà si tratta di prospettazione che, se certamente meritevole del massimo approfondimento sul versante dell'individuazione della concreta sfera di operatività degli artt. 67 e 68 Cost., non sembra in alcun modo rilevante ai fini della qualificazione ora in esame. In primo luogo deve escludersi che il parlamentare sia come tale pubblico ufficiale in servizio permanente effettivo, occorrendo invece che venga in evidenza l'esercizio delle funzioni. In secondo luogo deve osservarsi che la sfera di ciò che è o meno sindacabile non ha alcuna attinenza con la qualificazione del parlamentare. E' sufficiente al riguardo rilevare che proprio le funzioni legislative, cui fa riferimento l'art. 357 c.p., sono quelle in massimo grado investite dall'immunità di cui all'art. 68 Cost., giacchè le stesse si svolgono mediante la manifestazione di voti e di opinioni. Ciò significa che l'interpretazione dell'art. 357 c.p. deve prescindere dall'art. 68 Cost. e dalla relativa sfera di insindacabilità, la quale ha riguardo, come si avrà modo di precisare, all'effettivo svolgimento della funzione, ma prescinde dall'astratta qualificabilità del soggetto come pubblico ufficiale. Corrispondentemente non possono rinvenirsi ostacoli, sulla base degli argomenti dedotti dalle difese, all'inquadramento omogeneo delle funzioni parlamentari, nei termini sopra indicati. 13.5. Sotto altro profilo è stato rilevato nei citati motivi di ricorso che la Corte territoriale avrebbe omesso di confrontarsi con la deduzione difensiva riguardante la natura complessa della funzione legislativa e con il valore attribuibile al singolo voto. Il tema -non deducibile come vizio di motivazione, inerendo ad una questione giuridica- assume invero astratta rilevanza ai fini della configurabilità del delitto di corruzione, ma non ai fini della qualificazione soggettiva, che prescinde dal fatto che venga in rilievo un'attività complessa, comunque coinvolgente l'esercizio, sia pur collegiale o frazionato, della pubblica funzione. 13.6. La questione di legittimità costituzionale dell'art. 357 c.p., per contrasto con gli artt. 64,67,68,70,72,94 e 96 Cost., risulta alla luce di quanto fin qui osservato, manifestamente infondata, non potendosi sovrapporre il tema dell'applicabilità dell'art. 357 c.p. a quello della configurabilità di determinati reati alla luce delle garanzie costituzionali del parlamentare, tema sul quale ampiamente si tornerà, e non assumendo rilievo ai fini della prospettata questione di costituzionalità la distinzione tra l'attività legislativa e le altre funzioni del parlamentare. 13.7. In conclusione, per quanto qui interessa, se può dirsi che il parlamentare nell'esercizio delle funzioni riveste la qualità di pubblico ufficiale, tanto più ciò valeva per il D.G., che, come rilevato dai Giudici di merito, rivestiva non solo la qualità di Senatore ma anche quella di Presidente della Commissione Giustizia ed era chiamato ad operare nelle due vesti. 14. Vengono però ora in rilievo le questioni riguardanti la valenza dell'immunità prevista dall'art. 68 Cost., da valutarsi anche alla luce della L. n. 140 del 2003, che ha dato attuazione alla garanzia costituzionale. Peraltro tale analisi non può essere limitata a profili astratti ma deve immediatamente tendere a risolvere la questione dell'eventuale implicazione di un patto corruttivo nella sfera di insindacabilità garantita al parlamentare. Inoltre deve stabilirsi se accanto a quello dettato dall'art. 68 Cost. possano concorrere a definire il thema decidendum altri principi desumibili dal vigente assetto costituzionale. In realtà deve privilegiarsi proprio tale ultimo approccio, che consentirà di inquadrare meglio anche la valenza dell'immunità. 15. Si è già detto di come il sistema dei reati contro la pubblica amministrazione non debba essere riferito esclusivamente allo svolgimento dell'attività amministrativa in senso stretto. Peraltro non si tratta di affermazione generica, inidonea a produrre sviluppi argomentativi di ordine sistematico. 15.1. Va infatti rimarcato come il sistema penale si fondi sulla qualificata tutela di determinati beni. Gli stessi costituiscono un prius che tuttavia deve poter trovare espressione e riscontro nelle diverse fattispecie, che prendono frammentariamente in considerazione quel bene, delineando i tratti della sua offesa o messa in pericolo. E' ricorrente l'affermazione che il bene giuridico protetto dai reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione sia inserito nel contesto del principio dettato dall'art. 97 Cost., che fa riferimento all'imparzialità e al buon andamento (cfr. con riguardo al delitto di corruzione Cass. Sez. 6, n. 3091 del 25/8/1992, Ligresti, rv. 191784; cfr. con riguardo al delitto di concussione Cass. Sez. 6, n. 3194 del 3/9/1992, Furlan, 191972; cfr. in materia di peculato, Cass. Sez. U. n. 38691 del 25/6/2009, Caruso, rv. 244190). D'altro canto la sottesa rilevanza di tale categoria di bene protetto influisce anche sull'inquadramento del fatto, fornendo le linee guida per desumere l'eventuale configurabilità della corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio (si consideri ad esempio Cass., Sez. 6, n. 3945 del 15/2/1999, Di Pinto, rv. 213884). Ed invero il riferimento all'art. 97 Cost. discende dall'inserimento di tale norma nella sezione II del titolo III della Costituzione, dedicata proprio alla pubblica amministrazione. 15.2. Ma nella prospettiva più ampia della riferibilità dei reati contro la pubblica amministrazione a soggetti che rivestono la qualità di parlamentari ci si deve domandare se anche nei confronti di costoro possa sottendersi la tutela di beni analoghi, posto che la sfera dell'attività legislativa e di quella parlamentare, secondo quanto si è già rilevato, non può farsi coincidere con l'ambito dell'attività amministrativa in senso stretto. Si comprende dunque come il riferimento a nozioni come quella del buon andamento, dell'imparzialità, della correttezza debbano essere riviste e ricollocate in modo da poter essere se del caso riferite anche ad attività del parlamentare. 15.3. Senonchè tale analisi conduce immediatamente all'individuazione di problematiche di rilevanza costituzionale, che riguardano la sfera di operatività del parlamentare. Va in tale prospettiva rilevato come lo svolgimento di un'attività, all'interno dell'ordinamento, sia definito dai suoi limiti e, nel caso dell'esercizio di un potere, dall'indicazione della causa e delle finalità in vista del quale quel potere è attribuito. Tale delimitazione può discendere da principi di rango costituzionale o sovra-nazionale e dalla legge ordinaria. Nel caso dell'attività amministrativa in senso stretto è anzi la legge ordinaria che definisce contenuto e limiti di tale attività e dei poteri che ad essa ineriscono, nel quadro dell'assetto costituzionale. Il principio dettato dall'art. 97 Cost. in tale ottica presidia la disciplina dettata per lo svolgimento dell'attività, fissando le essenziali linee guida, che devono trovare riscontro nel concreto agire, come delineato dalla legge. 15.4. Si tratta di principio che, pur esprimendo istanze di carattere generale, non è in pari misura riferibile allo svolgimento dell'attività del parlamentare, sotto due diversi profili. In primo luogo va rimarcato come in base allo stesso assetto costituzionale tale attività risulti in linea di massima espressione di sovranità e sostanzialmente libera nei fini. Ciò significa che la discrezionalità di cui dispone il parlamentare non rinviene in linea di massima limiti esterni che trovino riscontro nella definizione di una disciplina diversa da quella dettata da principi di rango costituzionale. Su tali basi appare difficile rinvenire i presupposti per una piana estensione all'attività del parlamentare del principio del buon andamento e dell'imparzialità negli stessi termini in cui lo stesso è riferibile all'attività amministrativa. 15.5. Non conduce a diverse conclusioni il disposto dell'art. 67 Cost.. Tale norma, che tanto ha contribuito all'analisi dei Giudici di merito e delle parti processuali, stabilisce un diretto rapporto tra il parlamentare e la Nazione, con la conseguenza che ciascun parlamentare è liberamente interprete degli interessi che intende perseguire, per ciò stesso imputati alla Nazione, quale che ne sia la fonte di ispirazione. Rafforza tutto ciò il principio per cui il parlamentare opera senza vincolo di mandato. All'interno del sistema costituzionale, che pur prevede il contributo delle formazioni intermedie, quali veicoli di programmazione e di idealità, in cui ciascuno possa riconoscersi, si è inteso affermare dunque che il parlamentare non può essere compulsato ab extrinseco nelle sue determinazioni, che devono essere il frutto di una sua scelta, quale che ne sia l'origine e la finalità, non essendo dunque vietata la conclusione di intese e l'assunzione di impegni, in quanto costituenti il risultato di una opzione libera del parlamentare, senza che possano essere predisposti strumenti attuativi e di controllo, volti ad incidere sulla libertà di quella determinazione. Questo è dunque il contenuto essenziale della previsione della mancanza di vincolo di mandato. E' stato del resto rilevato dalla Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 14 del 1964) che "l'art. 67 Cost., collocato fra le norme che attengono all'ordinamento delle Camere e non fra quelle che disciplinano la formazione delle leggi, non spiega efficacia ai fini della validità delle deliberazioni; ma è rivolto ad assicurare la libertà dei membri del Parlamento. Il divieto del mandato imperativo importa che il parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito". In una successiva occasione la stessa Corte costituzionale ha su un astratto piano dialettico rilevato come l'imposizione di un voto di fiducia possa essere semmai "idonea, in astratto, a incidere sulle attribuzioni costituzionali dei membri del Parlamento, che rappresentano la Nazione senza vincolo di mandato (art. 67 Cost.)" (Corte Cost. n. 277 del 2017). Ciò che rileva è dunque il tentativo di rendere coercibile un eventuale impegno e non l'impegno in sè, ove frutto di adesione libera, nel quadro di intese inerenti allo svolgimento dell'attività. E' bensì vero che dal parlamentare si attende nel massimo grado la ponderazione attenta degli interessi della Nazione, cui è funzionale proprio la previsione della sua incoercibilità: ma ciò non implica che in concreto il parlamentare non possa essere ispirato da intendimenti della più diversa specie, tutti destinati a rimanere confinati nella sua libera coscienza. Si comprende dunque come secondo una parte della dottrina non possano operare nei confronti del parlamentare i principi di imparzialità e buon andamento, che sono legati allo svolgimento di attività amministrativa in senso stretto. 15.6. A tutto ciò deve aggiungersi, sotto un ulteriore profilo, che l'attività del parlamentare si inquadra nella sfera di autonomia di cui devono godere le Camere di appartenenza, cosicchè, ove si esaurisca nell'esercizio di poteri riconducibili all'assetto costituzionale, garantito da autonomia, essa non tollera l'intromissione di poteri esterni e la possibilità che la sua astratta sussunzione in categorie proprie del diritto comune possa risolversi in un vulnus alla sfera di prerogative riservata alle Camere cui il parlamentare appartiene. Deve in particolare osservarsi come le prerogative del parlamentare discendenti dal rispetto della sfera di autonomia delle Camere non si risolvano in un ingiustificato privilegio e in un vulnus al principio di uguaglianza, giacchè è proprio l'esercizio delle funzioni che si assumono libere a giustificare quella sfera di autonomia e il limite alla concreta operatività del diritto comune. Il principio ha trovato espressione in una fondamentale sentenza della Corte costituzionale, la quale ha tratteggiato le peculiari connotazioni dell'attività del parlamentare, valutata alla luce della qualificazione di essa riveniente dai regolamenti delle Camere. E' stato affermato che "il principio di eguaglianza non si spinge fino al punto di postulare l'attitudine della legge penale a penetrare in ogni ambito della vita parlamentare. Ad una visione onnipervasiva del diritto penale si oppone il principio della autonomia delle Camere e la correlativa garanzia della non interferenza della giurisdizione nell'attività delle istituzioni rappresentative. Lo statuto di garanzia delle assemblee parlamentari risulta infatti definito, e al tempo stesso delimitato quanto alla sua operatività, da un unitario e sistematico insieme di disposizioni costituzionali, fra le quali campeggiano gli artt. 64 e 72. Essi riservano ai regolamenti parlamentari, votati a maggioranza assoluta da ciascuna Camera, l'organizzazione interna e, rispettivamente, la disciplina del procedimento legislativo per la parte non direttamente regolata dalla Costituzione. In particolare, la formula di cui all'art. 64 Cost., comma 1 - come questa Corte ha già osservato - non riguarda soltanto l'autonomia normativa, ma si estende al momento applicativo delle norme regolamentari, include la scelta delle misure atte ad assicurarne l'osservanza e comporta, di necessità, la sottrazione a qualsiasi giurisdizione degli strumenti intesi a garantire il rispetto del diritto parlamentare (sentenza n. 129 del 1981). E', in ultima analisi, l'autonomia delle funzioni delle Camere il bene protetto, come dimostra del resto il regime dell'insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle funzioni parlamentari (art. 68 Cost., comma 1). Nella giurisprudenza della Corte questa sfera di libertà non si atteggia come privilegio di un ceto politico, nè solo come garanzia individuale dei membri delle Camere, ma anche come tutela della autonomia delle istituzioni parlamentari, orientata a sua volta alla protezione di un'area di libertà della rappresentanza politica. Non a caso la difesa di questa prerogativa parlamentare non è rimessa al solo interessato, ma appartiene alle Camere come attribuzione propria (sentenza n. 1150 del 1988)" (Corte Cost. n. 379 del 1996). Peraltro la Corte costituzionale (come si avrà modo di ribadire) ha tenuto a chiarire in tale pronuncia che il limite individuato è riferibile alle attività che si esauriscono nella sfera parlamentare e che non si traducono in condotte non interamente inerenti allo svolgimento delle funzioni o coinvolgenti beni estranei alla capacità di qualificazione da parte dei regolamenti. Da tale arresto sembra possibile desumere dunque che l'attività tipica non è soggetta a sindacato, cioè alla sfera di interferenza valutativa di poteri esterni, fermo restando che il contenuto di tale attività non può essere in concreto sussunto in categorie del diritto comune ove la stessa si esaurisca nella sfera sua propria e che quella sussunzione non sia tuttavia preclusa ove vi siano margini per valutare aspetti esterni sia nella connotazione strutturale della condotta sia nei suoi riflessi, coinvolgenti beni riconoscibili e nella disponibilità di terzi. A ben guardare tutto ciò significa dunque che l'attività del parlamentare è in sè libera e si sottrae a classificazioni, a meno che le stesse discendano dallo stesso assetto costituzionale o da fonti di rango non inferiore ovvero colgano profili esterni allo svolgimento di quell'attività. 15.7. Va del resto chiarito che l'attività del parlamentare può concorrere ad esiti incostituzionali, che tuttavia non sono suscettibili di classificazione secondo il diritto comune, spettando alla sola Corte costituzionale di vagliarli nell'ambito suo proprio. Per contro, anche senza giungere ad ipotesi estreme, inerenti a crimini contro l'umanità ovvero a violazioni del segreto di Stato, riferibili allo svolgimento dell'attività parlamentare, non può escludersi che vi siano frammenti esterni all'attività, comunque soggetti a classificazione, ovvero che l'attività parlamentare sia di per sè definita da limiti esterni, che varranno ad assoggettarla in caso di violazione a sindacato secondo le regole del diritto comune. Proprio il caso dell'attività delle commissioni parlamentari di inchiesta ha consentito a questo riguardo di individuare la previsione di limiti esterni di rilievo costituzionale, costituiti dal rispetto (art. 82 Cost., comma 2) di poteri e limitazioni stabilite per l'autorità giudiziaria, la cui violazione sarebbe rilevante al punto da collocare l'attività delle commissioni, di per sè espressione di sovranità propria delle Camere, al di fuori dei canoni di autonomia e insindacabilità, tanto da poter essere valutata, quanto alle conseguenze e le connesse responsabilità, secondo le regole del diritto comune (Cass. Sez. U. n. 3 del 1983, dep. nel 1984, Savina, cit.). 16. L'esame fin qui condotto costituisce il presupposto per l'analisi dell'ulteriore, connesso tema dell'immunità contemplata dall'art. 68 Cost., che parimenti ha formato oggetto di vivace dibattito nel presente processo. 16.1. Va in effetti rimarcato, alla luce di quanto rilevato e di quanto desumibile dai principi esposti dalla sentenza n. 379 del 1996 della Corte costituzionale, come l'immunità costituisca lo strumento principe per assicurare l'autonomia e libertà delle Camere e come dunque essa, correlativamente, non possa considerarsi espressione di un privilegio spettante alla persona del parlamentare, ma lo strumento di cui il parlamentare si avvale nell'esercizio e nei limiti dell'esercizio delle relative funzioni, sul quale riposa la relativa ratio giustificativa. La circostanza che i membri del Parlamento non possano essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio delle funzioni si giustifica in effetti con l'esigenza di assicurare lo svolgimento delle alte funzioni al riparo dal condizionamento che altrimenti potrebbe discendere dall'ipotesi di sindacato esterno, il tutto peraltro in funzione dell'autonomia delle Camere (sul punto si rinvia anche a Corte Cost. n. 81 del 1975, che affronta il tema connesso dell'immunità riconosciuta dall'art. 122 Cost. in relazione alle attribuzioni dei Consigli Regionali). 16.2. Tale individuata ratio giustificativa è stata poi con costante indirizzo confermata dalla Corte costituzionale, anche al fine di definire i limiti dell'immunità, in relazione a manifestazioni suscettibili di più incerta classificazione. Dopo le sentenze n. 10 e n. 11 del 2000, la Corte costituzionale ha in effetti avuto modo di ribadire le proprie valutazioni anche a seguito dell'entrata in vigore della L. n. 140 del 2003, avente la funzione di dare più concreta attuazione al principio sancito dall'art. 68 Cost.. Il richiamo, ivi espresso, a varie tipologie di attività parlamentare si è accompagnato al riferimento ad attività non specificamente tipizzate, qualificate dalla connessione alla funzione di parlamentare, comunque espletata anche al di fuori del Parlamento. Da qui sono derivate le maggiori difficoltà, allorchè la Corte costituzionale si è trovata a valutare in sede di conflitti di attribuzione le delibere di insindacabilità adottate dalle Camere. Sta di fatto che i principi più volte affermati sono stati costantemente ribaditi, essendosi da un lato rilevato che la legge 140 del 2003 non si pone al di fuori dei limiti costituzionali nella misura in cui dà attuazione al principio espresso dall'art. 68 Cost., incentrato sullo stretto collegamento con le funzioni (Corte Cost. 120 del 2004) e dall'altro affermato che l'insindacabilità è "..una "qualità" che caratterizza, in sè e ovunque, la opinione espressa dal parlamentare, la quale, proprio per il fondamento costituzionale che la assiste, è necessariamente destinata ad operare, oggettivamente e soggettivamente, erga omnes" (sentenza n. 194 del 2011). In altri termini, dalla riscontrata sussistenza del nesso funzionale ad opera della deliberazione assembleare consegue, quale "deroga eccezionale (...) alla normale esplicazione della funzione giurisdizionale (sentenza n. 265 del 1997), l'insindacabilità di quell'opinione, quale che sia la sede in cui il parlamentare sia (o eventualmente sarà) chiamato a risponderne" (da ultimo Corte Cost. n. 59 del 2018). Nel segnalare come la legge ordinaria non possa creare ex novo prerogative a vantaggio del parlamentare, diverse ed ulteriori rispetto a quelle risultanti dal vigente assetto delineato dalla Costituzione, la Corte costituzionale (Corte cost. n. 262 del 2009) ha avuto modo di sottolineare che le immunità si inquadrano nel genus degli istituti diretti a tutelare lo svolgimento delle funzioni di organi costituzionali, sostanziandosi nella protezione di persone munite di status costituzionale, tale da sottrarle all'applicazione delle regole ordinarie: tali prerogative, che possono assumere diverse forme e denominazioni, sono comunque dirette a garantire l'esercizio della funzione derogando al regime giurisdizionale comune. 16.3. Su tali basi l'inquadramento giuridico dell'immunità non può prescindere dal più ampio percorso compiuto dalla Corte costituzionale al fine di delineare la sfera di autonomia delle Camere anche nella classificazione dell'attività del parlamentare, al di fuori delle categorie del diritto comune. Considerando che l'immunità riguarda non solo la sfera di operatività del diritto penale, ma più in generale concerne l'ambito della responsabilità, sia essa penale, civile o disciplinare, la classificazione dogmatica dell'istituto non risulta agevole. Appare infatti nel contempo arduo parlare da un lato in termini totalizzanti di incapacità penale, a fronte di un ambito comunque più esteso di irresponsabilità, e dall'altro in termini riduttivi di mera causa di non punibilità, riflettente il dato dell'esonero da sanzione penale. In realtà la nozione di incapacità penale, intesa quale incapacità di divenire centro di imputazione di situazioni giuridiche rilevanti nel sistema penale, non esprime adeguatamente il fenomeno delineato dalla Corte costituzionale, che inerisce all'esercizio delle funzioni e non coinvolge di per sè la persona del parlamentare, il quale può nondimeno essere soggetto a sindacato ove operi all'esterno di quelle funzioni o in violazione dei limiti ad esse inerenti. D'altronde la nozione di causa di non punibilità non coglie il complesso fenomeno che è alla base di tale non punibilità, non costituente mero esonero da pena, ma convergente risultato di due profili diversi, cioè, da un lato, l'agire con libertà dei fini e senza vincolo di mandato e, dall'altro, l'agire in un quadro costituzionale che non tollera la sua classificazione secondo le regole del diritto comune, ove non emergano frazioni esterne di quell'agire ovvero il coinvolgimento di beni ulteriori o di terzi. Ciò significa che la immunità costituisce in primo luogo il risultato di una causa di imperscrutabilità dell'attività del parlamentare, la quale solo ove posta in essere in violazione dei limiti ad essa propri, in quanto parimenti di rango costituzionale, ovvero tale da non esaurire in sè l'esercizio della funzione o da coinvolgere beni ulteriori, ad essa esterni, risulta classificabile secondo il diritto comune e dunque anche secondo il diritto penale. Alla resa dei conti l'effetto finale risulta quello dell'esonero da responsabilità. In tal senso può condividersi quanto costituisce il risultato di una lunga elaborazione della giurisprudenza di legittimità in sede civile (Cass. Civ. Sez. U. n. 5756 del 12/4/2012, rv. 622041/6220467-01; Cass. Civ., Sez. U. n. 153 del 18/3/1999, 524235-01) secondo cui l'immunità dà luogo ad una causa personale di esonero da responsabilità, ma con la precisazione che tale esonero ha alla sua origine l'esercizio di funzioni che sono intrinsecamente insindacabili e non classificabili, salvo il coinvolgimento di funzioni o beni ulteriori. 16.4. Sotto il profilo penale si registra in prevalenza l'affermazione che l'immunità dà luogo ad una causa di non punibilità (Cass. Sez. 5, n. 2384 del 26/1172019, dep. nel 2011, Napoli, rv. 249501; Cass. Sez. 5, n. 43090 del 19/9/2007, Vendola, rv. 238494; Cass. Sez. 5, n. 8742 del 21/4/1999, Sgarbi, rv. 214649), solo in un caso essendosi affermato che ricorrerebbe una causa di giustificazione (Cass. Sez. 5, n. 38944 del 27/10/2006, Boccassini, rv. 235332), incidente sull'illiceità del fatto. Va al riguardo osservato che l'insindacabilità della manifestazione di un voto o di un'opinione non implica l'esercizio di una facoltà legittima quanto agli effetti ma l'esercizio di una facoltà non valutabile, se non negli effetti esterni, secondo le regole del diritto comune. D'altro canto, quando vengano in rilievo diritti di terzi, si ripristina la facoltà di classificazione, salva la permanenza dell'immunità a vantaggio del parlamentare che si sia mantenuto nell'esercizio delle funzioni: ma ciò non significa che l'ordinamento debba tollerare necessariamente l'offesa di diritti o beni di spettanza di terzi, ove vengano in rilievo condotte che non esauriscono l'esercizio delle funzioni ma si collochino all'esterno di esse, in presenza della capacità classificatoria del diritto comune. Non è un caso che la problematica sia stata affrontata in materia di diffamazione, in relazione al contributo conoscitivo riveniente da attività editoriale o giornalistica, allorchè si è ritenuto che l'esercizio delle funzioni parlamentari non valga a rendere legittimo l'approfondimento della lesione derivante dal contributo esterno all'esercizio delle funzioni parlamentari, seppur ad esse connesso. In tal senso è venuto in rilievo il riferimento alla causa di non punibilità, che non impedisce di valutare il contenuto di illiceità insito nell'azione esterna all'esercizio delle funzioni parlamentari, le quali al di là della non punibilità del soggetto, non possono dirsi a priori immuni dal riscontro di offensività (anche se in concreto potrà talvolta operare l'ulteriore scriminante dell'esercizio del diritto di cronaca: sul punto si rinvia a quanto osservato da Cass. Sez. U. n. 37140 del 30/5/2001, Galiero, rv. 219651). Ciò consente di rilevare come l'esercizio della funzione sia sempre e comunque imperscrutabile e come la potenzialità classificatoria del diritto comune concerna quanto si collochi all'esterno di quell'esercizio. Nel contempo la concreta operatività dell'immunità potrà sottendere l'imperscrutabilità della condotta, non altrimenti classificabile, ovvero risolversi nella non punibilità, ove siano ravvisabili effetti classificabili, peraltro realizzati mediante il contributo di terzi. Ove poi venga in rilievo una condotta plurisoggettiva, che veda altresì il contributo del parlamentare, esterno all'esercizio della funzione, dovrà distinguersi tra imperscrutabilità del contenuto inerente a quell'esercizio e classificabilità residua della frazione di condotta esterna. A ben guardare non sarà mai predicabile di insindacabilità tale frazione esterna, ma solo il contenuto inerente all'esercizio della funzione, con la conseguenza che, ove tale frazione esterna possa dirsi integrare un fatto illecito, classificabile dal diritto comune, non potrà andare immune da pena il soggetto diverso dal parlamentare, ma neppure lo stesso parlamentare, pur in presenza dell'imperscrutabilità dell'esercizio della funzione. In questo caso dunque, a ben guardare, assume rilievo non tanto l'immunità in sè, quanto l'autonomia delle Camere, cui anche l'immunità va ricondotta, imponendo l'insindacabilità e la non classificabilità della condotta, che rientri nell'esercizio della funzione, ma non precludendo la classificazione e l'eventuale perseguibilità della frazione esterna, in primo luogo a carico del soggetto estraneo alle funzioni parlamentari. 17. Così inquadrato il tema, sotto l'angolo visuale del diritto costituzionale e delle sue ricadute sulla capacità di classificazione del diritto comune, e così risolte, anche implicitamente, le questioni su tali punti sollevate dai ricorrenti, si tratta di procedere alla verifica della configurabilità del delitto di corruzione sia in generale sia nel caso oggetto di contestazione in questa sede. 17.1. Il delitto di corruzione nella sua originaria formulazione puniva all'art. 318 c.p., comma 1 il pubblico ufficiale che riceveva o accettava la promessa, in denaro o in altra utilità, di retribuzione non dovuta, per compiere un atto dell'ufficio, e al comma secondo la condotta della ricezione della retribuzione per atto dell'ufficio già compiuto. Analoga previsione era riferita all'incaricato di pubblico servizio, ove avesse assunto la veste di pubblico impiegato. Il corruttore era punito ai sensi dell'art. 321, comma 1, nell'ipotesi di corruzione per atto dell'ufficio di cui all'art. 318, comma 1 cioè nel caso di corruzione antecedente. Inoltre l'art. 319 c.p. puniva la condotta del pubblico ufficiale che riceveva o accettava la promessa di denaro o di altra utilità per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto dell'ufficio ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio. L'art. 320 c.p. contemplava l'ipotesi dell'incaricato di pubblico servizio e l'art. 321 c.p. prevedeva la pena per il corruttore. La L. n. 190 del 2012, salvo l'aggravamento delle pene, ha parzialmente modificato tale disciplina con riferimento all'art. 318 c.p. e all'art. 320 c.p.. La prima norma ora contempla l'ipotesi dell'indebita ricezione o dell'accettazione della promessa di denaro o altra utilità da parte del pubblico ufficiale per l'esercizio delle funzioni, senza specifico riferimento ad un atto dell'ufficio e senza distinzione tra l'ipotesi di corruzione antecedente o successiva al compimento di atti, mentre l'art. 320 c.p. fa riferimento all'incaricato di pubblico servizio senza richiedere che rivesta qualità di pubblico impiegato. 17.2. Prima della L. n. 190 del 2012 dunque entrambe le fattispecie di corruzione, c.d. propria o impropria, contemplavano il riferimento ad atto dell'ufficio, che nell'ipotesi della corruzione propria avrebbe dovuto essere connotato da contrarietà ai doveri di ufficio del soggetto agente. Ed invero si era affermato che ai fini della differenziazione tra i due reati si sarebbe dovuto individuare quale attività agevolatrice l'agente avesse compiuto o avrebbe potuto compiere, per verificare se l'atto fosse o avrebbe potuto essere connotato dall'interesse privato o fosse l'unico corrispondente agli interessi pubblici (Cass. Sez. 6, n. 903 del 31/10/1997, dep. nel 1998, Gualco, rv. 210436). In analoga prospettiva si era rilevato che nella corruzione impropria l'atto in vista del quale l'accordo criminoso era stipulato, avrebbe dovuto essere conforme ai doveri del funzionario (Cass. Sez. 6, n. 5843 del 13/12/1989, Zampini, rv. 184110), ma, alla resa dei conti, era stato osservato che l'atto a tal fine rilevante era quello non meritevole di sanzioni, se non per il fatto della somma corrisposta dal privato (Cass. Sez. 6, n. 44787 del 25/9/2003, Centanni, rv. 226937). Peraltro non avrebbe potuto dirsi rilevante la deduzione nel patto di un unico atto o di plurimi atti, essendo rilevante invece che gli stessi fossero avvinti dall'unica pattuizione e dall'unitaria remunerazione (Cass. Sez. 6, n. 5913 del 25/1/1982, Albertini, rv. 154240). Il reato di corruzione antecedente prescindeva dall'effettivo compimento dell'atto, in funzione del quale era prevista la pattuizione (sul punto Cass. Sez. 6, n. 4920 del 7/12/1983, Palanca, rv. 16448). Si poneva altresì in tale quadro il problema dell'individuazione dell'atto, proprio al fine di stabilire se lo stesso fosse segnato dalla contrarietà ai doveri. Nella corruzione impropria di cui all'art. 318 c.p. si era dato rilievo al profilo retributivo e alla non manifesta sproporzione rispetto all'atto, che doveva connotare la dazione o la promessa (Cass. Sez. U. n. 2780 del 24/1/1996, Panigoni, rv. 203972), elementi tali da esigere almeno la determinabilità dell'atto o degli atti. In materia di corruzione propria, progressivamente, anche alla luce dell'impostazione sottesa alla definizione del caso Lockheed da parte della Corte costituzionale (sentenza 1/3/1979 nei confronti fra l'altro di T. e di Gu., chiamati a rispondere di corruzione propria per condotte tenute nella qualità di Ministri), si era affermato un orientamento in forza del quale piuttosto che la specifica individuazione di un atto avrebbe dovuto aversi riguardo all'individuazione del "genus" degli atti (Cass. Sez. 6, 9517 del 27/5/1998, Zorzi, rv. 212236), in quanto rientranti nella sfera delle competenze del pubblico ufficiale (sul punto, più di recente, Cass. Sez. F., n. 32779 del 13/8/2012, L., rv. 253487), con l'ulteriore conseguenza che si sarebbe dovuto aver riguardo al complessivo servizio reso, nel quadro dell'asservimento della funzione agli interessi del privato corruttore, quand'anche i singoli atti potessero dirsi corrispondenti ai requisiti di legge (Cass. Sez. 6, n. 10786 del 14/7/1998, Nottola, rv. 213054). Tale principio era poi stato specificamente valorizzato con riguardo all'attività discrezionale, di per sè non incompatibile con la configurabilità della corruzione impropria. Era stato dunque rilevato che costituiva corruzione propria la deduzione nel patto illecito della rinuncia del pubblico ufficiale all'effettivo esercizio della discrezionalità (Cass. Sez. 6, n. 26248 del 5/7/2006, Campanile, rv 234343) o della scelta del maggior beneficio per il privato (Cass. Sez. 6, n. 1319 del 28/11/1997, dep. nel 1998, Gilardino, rv. 210442). Quanto al rapporto tra corruzione propria e impropria si era rilevato che "la distinzione tra le fattispecie di cui agli artt. 318 e 319 c.p. risiede nel fatto che, nel primo caso, attraverso l'accordo corruttivo si realizza una violazione del principio di correttezza e del dovere di imparzialità del pubblico ufficiale, senza che però la parzialità si trasferisca sull'atto, mentre nel secondo caso la parzialità si rivela nell'atto segnandolo di connotazioni privatistiche, perchè formato nell'interesse (esclusivo o prevalente) del privato corruttore e rendendolo pertanto illecito e contrario ai doveri d'ufficio. Ed invero ciò che caratterizza la c.d. "corruzione propria" è l'asservimento della funzione per denaro agli interessi dei privati; ne consegue che la corrispondenza dell'atto ai requisiti di legge non esclude il predetto asservimento, con l'avvertenza che la violazione del dovere di imparzialità deve essere intesa come "inottemperanza non generica ma specifica", inerente al contenuto e alle modalità dell'atto da compiere; circostanza che ricorre in ogni modo quando, per l'indebita retribuzione, il pubblico ufficiale scelga tra una pluralità di determinazioni volitive quella che assicura il maggior beneficio al privato al solo fine di favorirlo, divenendo l'interesse privato il motivo dell'atto oltrechè del comportamento (Cass. Sez. 6, n. 3529 del 12/11/1998, dep. nel 1999, Sabatini, rv. 212566; Cass. Sez. 6, n. 7957 del 14/5/1997, Egidi, rv. 209755). 17.3. Tali principi hanno continuato a trovare spazio nella più recente giurisprudenza, fino alla modifica dell'art. 318 c.p., allorchè si è posto il problema di definire la linea di demarcazione tra la nuova ipotesi e quella di cui all'art. 319 c.p., ferma restando la non necessità dell'effettivo compimento di atti ai fini della configurabilità delle due ipotesi di reato, incentrate primariamente sul patto illecito. In primo luogo si è osservato che non si è determinata alcuna abolitio criminis, ma al contrario un'estensione della sfera della punibilità essendo stata configurata un'onnicomprensiva monetizzazione del munus publicum, sganciata dalla logica del formale sinallagma, idonea a superare le residue incertezze che il vecchio testo, pur sottoposto ad interpretazione estensiva, determinava in casi in cui non fosse agevole l'individuazione del comportamento pubblico oggetto del mercimonio (Cass. Sez. 6, n. 19189 del 11/1/2013, Abruzzese, rv. 255073; valgono sul punto anche i lucidi rilievi di Cass. Sez. 6, n. 39008 del 6/5/2016, Biagi, rv. 268089). Di seguito si è rilevato (Cass. Sez. 6, n. 49226 del 25/9/2014, Chisso, rv. 261352-261355) che è stato individuato un criterio che correla la punibilità all'esercizio delle funzioni e dei poteri, a prescindere dal fatto che questo assuma connotazione di legittimità o illegittimità e a prescindere dall'esistenza di un nesso tra la dazione e uno specifico atto dell'ufficio. Si è in particolare affermato che la nuova fattispecie ha esteso l'area della punibilità dall'ipotesi della retribuzione del singolo atto dell'ufficio a quella del mercimonio delle funzioni e dei poteri, salvo che sia dimostrato un preciso nesso tra dazione o promessa e il compimento di un determinato o determinabile atto contrario ai doveri dell'ufficio, ipotesi rientrante nell'alveo dell'art. 319 c.p.. In tale prospettiva nella nuova fattispecie dovrebbero farsi rientrare quelle della compravendita o del mercimonio della funzione o della messa a libro paga, che in precedenza erano ricondotte all'alveo dell'art. 319 c.p., salvo il riscontro tipizzante e specializzante del collegamento con atti contrari ai doveri di ufficio. Nel sistema così delineato l'art. 318 c.p. contempla un reato di pericolo, mentre l'art. 319 c.p. un reato di danno, implicante una più specifica offensività rispetto al bene protetto. Tale impostazione ha trovato riscontro in successive pronunce, nelle quali è stato osservato che lo stabile asservimento con episodi di atti sia contrari ai doveri di ufficio sia conformi ad essi dà luogo all'unico assorbente reato di cui all'art. 319 c.p. (Cass. Sez. 6, n. 40237 del 7/7/2016, Giangreco, rv. 267634). Inoltre si è avuto modo di ribadire che "configura il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio - e non il più lieve reato di corruzione per l'esercizio della funzione, di cui all'art. 318 cod. pen. - lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, che si traduca in atti, che, pur formalmente legittimi, in quanto discrezionali e non rigorosamente predeterminati, si conformano all'obiettivo di realizzare l'interesse del privato nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali" (Cass. Sez. 6, n. 46492 del 15/9/2017, Argenziano, rv. 271383; Cass. Sez. 6, n. 3606 del 20/10/2016, dep. nel 2017, Bonanno, rv. 269347). Riassumendo tale disamina, può affermarsi che l'ipotesi della corruzione propria, di cui all'art. 319 c.p., pur in presenza del mercimonio della funzione, discende comunque non dal mero riscontro di questa, ma dalla deduzione del perseguimento degli interessi del privato corruttore, attraverso atti contrari ai doveri di ufficio, connotati, pur a fronte di atti di natura discrezionale e formalmente legittimi, da quell'interesse. Per contro ricorre l'ipotesi di cui all'art. 318 c.p., in presenza della remunerazione del munus publicum, allorchè non sia specificamente individuata la categoria degli atti di riferimento ovvero quando non possa prospettarsi la deduzione della specifica violazione dei doveri di ufficio nel compimento degli atti inerenti all'esercizio della funzione. 17.4. Ma si è già rilevato come, alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza, non ricorra alcuna ipotesi di abolitio criminis, dovendosi dunque stabilire se e in che misura fatti pregressi siano se del caso riconducibili all'una o all'altra delle ipotesi di reato. A questo riguardo non può sottacersi che rispetto alla corruzione impropria antecedente, la deduzione di uno o più atti inerenti all'ufficio in cambio di un'indebita remunerazione continua ad essere penalmente rilevante, trattandosi di ipotesi idonea ad essere sussunta nella vigente corruzione per l'esercizio, non ulteriormente qualificato, delle funzioni. Del resto, pur occorrendo la correlazione sinallagmatica con atti dell'ufficio, non si esigeva l'effettivo compimento degli atti, fermo restando che la fattispecie previgente era destinata a sanzionare, come si è visto, la lesione di un bene non direttamente coinvolgente l'esercizio delle funzioni, cioè la violazione di un dovere esterno, che impone di non accettare una retribuzione da un privato, e non di un dovere interno che impone di rispettare le regole che presiedono all'emanazione dell'atto (Cass. Sez. 6, n. 10851 del 8/11/1996, Malossini, rv. 206225), ciò che alla resa dei conti non si discosta dall'impostazione che ravvisa nella nuova fattispecie di cui all'art. 318 c.p. un reato di pericolo, non coinvolgente direttamente la violazione del dovere interno inerente all'esercizio delle funzioni. A ben guardare dunque si sarebbe dovuto ravvisare il reato di cui all'art. 318 c.p. anche nel caso della deduzione di plurimi atti, in relazione ai quali non potesse, neppure in astratto, cogliersi il riflesso della connotazione privatistica che caratterizza la contrarietà ai doveri inerenti al concreto esercizio della funzione, ma solo la contrarietà a doveri esterni, inerenti alla correttezza del pubblico ufficiale e al dato puramente esteriore - potrebbe dirsi di immagine - della imparzialità. 18. Calando ora tale analisi nella concreta fattispecie in esame, deve rilevarsi come i Giudici di merito abbiano ricostruito l'ipotesi della corruzione propria antecedente, muovendo dal patto illecito e dall'assunto della violazione di un dovere primario, quello del divieto di mandato imperativo, dalla quale sarebbe derivato l'asservimento della funzione dell'ex-Senatore, a vantaggio del privato corruttore, a prescindere dalla specifica verifica di ciascun atto. Alla non necessità di quella verifica è stata invero correlata l'esclusione dell'operatività dell'insindacabilità sancita dall'art. 68 Cost., a fortiori ribadita con riguardo alla posizione del privato corruttore, cioè del B., a fronte dell'attribuzione all'immunità della natura di causa soggettiva di non punibilità. Si tratta di impostazione che, pur diligentemente articolata, risulta sotto svariati profili inaccoglibile sulla base della disamina condotta in precedenza. 18.1. Procedendo con ordine, si deve innanzi tutto rimarcare che il delitto di corruzione non è di per sè sottratto, sempre e comunque, alla capacità di qualificazione del diritto comune, quand'anche coinvolga un parlamentare. Va infatti rimarcato che, non essendo necessario il compimento effettivo dell'attività di ufficio, ben può rilevare la mera pattuizione, che, pur deducendo l'esercizio della funzione e lo svolgimento dell'attività, costituisce una frazione di condotta che si colloca all'esterno di esso. A conferma di ciò va rimarcato come la stessa Corte costituzionale nella fondamentale sentenza n. 379 del 1996, abbia rilevato che "nel sistema costituzionale, in conclusione, si delinea in maniera immediata e certa - salve le ipotesi di cui si dirà - il confine tra l'autonomia del Parlamento e il principio di legalità. Allorchè il comportamento di un componente di una Camera sia sussumibile, interamente e senza residui, sotto le norme del diritto parlamentare e si risolva in una violazione di queste, il principio di legalità ed i molteplici valori ad esso connessi, quali che siano le concorrenti qualificazioni che nell'ordinamento generale quello stesso comportamento riceva (illegittimità, illiceità, ecc.), sono destinati a cedere di fronte al principio di autonomia delle Camere e al preminente valore di libertà del Parlamento che quel principio sottende e che rivendica la piena autodeterminazione in ordine all'organizzazione interna e allo svolgimento dei lavori. Se viceversa un qualche aspetto di tale comportamento esuli dalla capacità classificatoria del regolamento parlamentare e non sia per intero sussumibile sotto la disciplina di questo (perchè coinvolga beni personali di altri membri delle Camere o beni che comunque appartengano a terzi), deve prevalere la "grande regola" dello Stato di diritto ed il conseguente regime giurisdizionale al quale sono normalmente sottoposti, nel nostro sistema costituzionale, tutti i beni giuridici e tutti i diritti (artt. 24,112 e 113 Cost.)". Proseguendo in tale analisi la Corte ha inoltre osservato che rispetto al caso esaminato, coinvolgente ipotesi di falso e di sostituzione di persona, derivanti dalla votazione in luogo di parlamentari assenti, non si sarebbe potuto rinvenire "alcun elemento o frammento della concreta fattispecie che coinvolga beni o diritti che si sottraggano all'esaustiva capacità classificatoria del regolamento parlamentare (come invece accadrebbe, ad esempio, in presenza di episodi di lesioni, minacce, furti ai danni di parlamentari, corruzione, ecc.)...". Conseguentemente può dirsi con l'avallo della Corte costituzionale che il delitto di corruzione è in astratto configurabile, pur quando coinvolga quale pubblico ufficiale un parlamentare. Tale rilievo non costituisce del resto affermazione isolata, trovando riscontro, sulle medesime basi, anche in altro, già citato, arresto giurisprudenziale (Cass. Sez. 6, n. 36769 del 6/6/2017, Volontè, rv. 270441). E' inoltre il caso di rilevare come l'art. 322-bis c.p. suggestivamente contempli l'ipotesi della corruzione dei membri del Parlamento europeo, risultando assai problematica, a tale stregua, l'esclusione radicale di tale ipotesi di reato con riguardo a membro del Parlamento italiano. 18.2. E tuttavia gli argomenti difensivi risultano idonei a contrastare l'assunto accusatorio sostenuto dai Giudici di merito in ordine alla configurabilità di una corruzione propria per atto contrario ai doveri di ufficio dell'ex-Senatore. Va sul punto osservato che nella citata sentenza n. 36769 del 2017, Volontè, riferita a vicenda occorsa nel vigore della disciplina sopravvenuta, è stato ritenuto ipotizzabile il delitto di cui all'art. 318 c.p., incentrato sulla deduzione nel patto illecito dell'esercizio della funzione, a prescindere dalla concreta sottoposizione a sindacato di uno specifico atto, secondo quanto desumibile dall'interpretazione della nuova norma alla luce della giurisprudenza anche in precedenza richiamata. Si tratta di conclusione che è qui condivisa e che va senz'altro ribadita. Ma nel caso che è in esame in questa sede, risalente ad epoca anteriore alla modifica introdotta dalla L. n. 190 del 2012, in tanto può ravvisarsi un reato, in quanto lo stesso sia riconducibile all'art. 318 o all'art. 319 c.p. nella previgente formulazione, salva ex post la sussunzione in una delle fattispecie ora vigenti e l'individuazione del trattamento più favorevole (ipotesi quest'ultima comunque non attuale, attesa la declaratoria di estinzione per prescrizione). 18.3. Orbene, deve in primo luogo escludersi che sia in concreto configurabile la fattispecie della corruzione propria. Il principale assunto della Corte, secondo cui sarebbe ravvisabile una messa a disposizione della discrezionalità del parlamentare, non si confronta in alcun modo con la sfera di libertà del parlamentare, ben diversa da quella di chi svolge attività amministrativa in senso stretto. Si è invero già rilevato come non sia ravvisabile, con riguardo allo svolgimento dell'attività tipica del parlamentare, un riferimento al bene del buon andamento e dell'imparzialità, giacchè si tratta di canoni che non sono correlabili ad alcun parametro di comparazione. Il parlamentare è libero, del resto, di esprimere nel modo che preferisce l'interesse della Nazione, quand'anche si risolva ad assecondare liberamente intendimenti altrui. In tal senso il riferimento all'art. 67 Cost. assume un significato opposto, in quanto contribuisce piuttosto a qualificare la sfera di autonomia insindacabile del parlamentare, funzionale all'autonomia e libertà delle Camere, impedendo di assoggettare lo svolgimento dell'attività a condizionamenti che non derivino da una libera opzione del singolo, in qualunque forma originatasi. Il divieto di mandato imperativo costituisce dunque una direttiva dell'ordinamento, volta a garantire la libertà del parlamentare, allo stesso modo in cui l'attività è di per sè soggetta solo alla capacità di qualificazione dei regolamenti ed è immune da interferenze esterne. Da ciò discende che eventuali intese non risultano strutturalmente riconoscibili in rapporto al concreto esercizio delle funzioni, in quanto le stesse non possono in alcun modo riflettersi in quell'esercizio, connotandolo in modo decisivo in termini di contrarietà ai doveri. Ciò vale non solo per il passaggio del parlamentare da uno schieramento all'altro, che è di per sè consentito proprio dalla mancanza di un vincolo di mandato, costituente dato strutturale che segna la piena autonomia del parlamentare, ma anche per ogni altro tipo di pattuizione nella quale sia dedotto l'esercizio delle funzioni, giacchè da tale pattuizione non potrà mai discendere la violazione di doveri specificamente e riconoscibilmente correlati a quell'esercizio. Si intende rimarcare come anche nei casi di mercimonio e asservimento delle funzioni, ritenuti idonei ad integrare il delitto di corruzione propria, la giurisprudenza abbia comunque fatto riferimento alla circostanza che la violazione dei doveri debba trasferirsi all'atto risultando attraverso di esso riconoscibile. Senonchè nel caso del parlamentare tale presupposto è in radice mancante per l'assenza di parametri di riferimento, cui si correla l'ulteriore dato, costituente peraltro mera espressione della libertà ed autonomia delle Camere, dell'insindacabilità dell'esercizio della funzione. In tale ottica gli artt. 67 e 68 Cost. devono essere intesi unitariamente, alla luce di quanto desumibile anche dagli artt. 64 e 72 Cost., delineando l'autonomia delle funzioni, che non sono soggette a qualificazione e sindacato esterni in relazione a quelle parti di condotta del parlamentare che si risolvano nel loro esercizio, quand'anche valutato in chiave prospettica. Non può condurre a diverse conclusioni un non recente arresto giurisprudenziale (Cass. Sez. 6, n. 21117 del 30/11/2005, dep. nel 2006, Castiglione, rv. 234495), con cui, ai fini della valutazione della legittimità di un sequestro probatorio e senza specifico approfondimento, è stato ravvisato il delitto di corruzione ex art. 319 c.p. a fronte dell'immunità di cui all'art. 122 Cost., prevista in favore dei consiglieri regionali, muovendosi dal richiamo della sentenza n. 432 del 1994 della Corte costituzionale, che deve peraltro valutarsi alla luce di tutte le altre fin qui richiamate, a cominciare da quella n. 379 del 1996. E neppure può indurre a diverse conclusioni quanto affermato in sede civile in ordine al legame funzionale tra opinioni espresse ed atti compiuti dal parlamentare ed esercizio indipendente della funzione, che verrebbe meno nel caso di accettazione di denaro o di altri beni materiali, che venga a condizionare atti parlamentari o di governo (Cass. Civ., Sez. U. n. 4582 del 2/3/2006, rv. 589181-01). Si tratta di assunto che non può avere rilievo decisivo ai fini della qualificazione di un fatto corruttivo, a fronte della sfera di libertà e autonomia, che preclude di per sè la classificazione di attività parlamentari, al di là della configurabilità o meno a carico del parlamentare di una responsabilità a vario titolo. Tutto ciò invero non significa che la condotta di corruzione sia assorbita per intero dall'autonomia della funzione o dall'operatività dell'immunità, in quanto, come detto, essa si colloca al di fuori dell'una e dell'altra: ma l'autonomia, di cui l'immunità è espressione, influisce sulla qualificazione del suo esercizio, precludendo la possibilità di conferirle una connotazione in termini di contrarietà ai doveri. Può dunque in via generale affermarsi che nei confronti del parlamentare non è mai configurabile il reato di corruzione propria (per atto contrario ai doveri di ufficio), antecedente e/o susseguente, previsto dall'art. 319 c.p., ostandovi il combinato disposto degli artt. 64,67 e 68 Cost.. 18.4. Al contrario la configurabilità e la punibilità della condotta di corruzione che coinvolga il parlamentare riposa sul divieto di remunerazione del munus publicum, che esprime il valore della correttezza, quale dovere esterno, e che trova riscontro per ogni soggetto investito di pubbliche funzioni anche nel dovere di svolgerle con onore e disciplina, ai sensi dell'art. 54 Cost.. Tale norma, che non possiede uno specifico valore precettivo e non conferisce un preciso contenuto, ove non diversamente risultante, all'esercizio delle funzioni, peraltro insindacabilmente libero, assume tuttavia un rilievo ab extrinseco, concorrendo a rafforzare la dignità della funzione, che non può tollerare una ingiustificata locupletazione o comunque l'acquisizione di un vantaggio non previsto, sinallagmaticamente correlato al pur insindacabile esercizio di essa (conduce a tale conclusione anche lo stesso fatto dell'introduzione a partire dalla L. n. 195 del 1974 di una disciplina limitativa del finanziamento della politica). E' tale bene, correlato ad un dovere esterno, che qualifica e giustifica la configurabilità della sanzione in relazione a condotte di corruzione del parlamentare. Su tali basi può configurarsi, peraltro sostanzialmente in linea con i rilievi di un'assai autorevole dottrina, il delitto di corruzione impropria. Va infatti sottolineato che relativamente al parlamentare non assume concreto significato il principio secondo cui ricorre la corruzione impropria "in relazione ad un atto adottato dal pubblico ufficiale nell'ambito di attività amministrativa discrezionale, soltanto qualora sia dimostrato che lo stesso atto sia stato determinato dall'esclusivo interesse della P.A. e che pertanto sarebbe stato comunque adottato con il medesimo contenuto e le stesse modalità anche indipendentemente dalla indebita retribuzione" (Cass. Sez. 6, n. 36083 del 9/7/2009, Mussoni, rv. 244258), in quanto nell'ipotesi del parlamentare la discrezionalità sottende una non confrontabile e comparabile libertà, che induce a formulare già in astratto un giudizio di non contrarietà, in assenza di limiti definiti, di pari rango costituzionale. D'altro canto viene in rilievo una condotta che non sarebbe suscettibile di sanzioni nè sotto il profilo penale nè sotto altro profilo, se non per la sua sinallagmatica correlazione con la indebita retribuzione (si richiama sul punto, ancora una volta, Cass. Sez. 6, n. 44787 del 25/9/2003, Centanni, rv. 226937, cit.). 18.5. A tal fine non può dirsi rilevante che non sia in concreto applicabile la nuova fattispecie delineata dall'art. 318 c.p., non contenente lo specifico riferimento ad un atto di ufficio. A fronte della sovrapponibilità sostanziale delle fattispecie in termini di continuità normativa, in presenza dei requisiti previsti dall'art. 318 c.p. nella formulazione previgente, deve rimarcarsi come la condotta punibile concerna la frazione esterna rispetto al concreto esercizio delle funzioni, le quali di per sè, prima che insindacabili, devono reputarsi imperscrutabili e, come tali, non sottoponibili ad alcun tipo di qualificazione secondo i parametri del diritto comune. Ciò comporta che la norma penale viene a colpire una situazione di esposizione a pericolo, incentrata sulla pattuizione in sè, che correla la promessa o l'erogazione del denaro al compimento di attività inerente alla funzione, pur contenutisticamente non classificabile e dunque non qualificabile come contraria ai doveri inerenti all'esercizio delle funzioni. Ne discende che la penale responsabilità non si fonda (ma ormai retrospettivamente occorrerebbe dire che non si fondava) su tale esercizio, quale che esso sia, ma sul dato oggettivo, comunque penalmente rilevante, del vincolo sinallagmatico dedotto nel patto, coinvolgente prospetticamente da un lato il denaro erogato o promesso e dall'altro il compimento di atti di ufficio, rientranti nell'esercizio delle funzioni, di per sè non classificabile, ma costituente causa della dazione o della promessa e tale da qualificare altresì la veste di pubblico ufficiale assunta dal parlamentare in sede di stipula del patto. Sulla base di tale impostazione non si determina alcuna indebita interferenza esterna sullo svolgimento delle funzioni, posto che non dipende da esse - di cui anzi si conferma l'insindacabilità, estesa fino all'atteggiamento interiore al momento di quello svolgimento - l'esposizione del parlamentare alla sanzione penale. Invero la frazione esterna della condotta, di per sè sufficiente a consentirne la qualificazione in termini di illecito penale, non può essere assorbita dall'immunità di cui all'art. 68 Cost., che è riferibile invece all'esercizio delle funzioni, fermo restando che in un caso siffatto giammai potrebbe fruire dell'immunità anche il concorrente del parlamentare, cioè il privato corruttore tanto più considerando che è semmai la promessa ad essere qualificata dalla finalizzazione all'attività (cfr. ad esempio Cass. 6, n. 1680 del 26/11/1998, dep. nel 1999, Barini, rv. 212718) -, trattandosi comunque di sfera non sottratta alla qualificazione giuridica secondo le regole del diritto comune e dunque tale da sfuggire alla sfera di autonomia e di libertà delle Camere, che l'immunità del parlamentare è volta specificamente a presidiare. E' il caso di rilevare sul punto come anche in una celebre vicenda del passato, sebbene la Camera avesse deliberato l'insindacabilità della condotta del parlamentare, fosse stata in concreto ritenuta configurabile l'ipotesi della corruzione impropria nei confronti del privato corruttore (si rinvia a Cass. Sez. 6, n. 159 del 29/1/1974, Borgognoni, rv. 127139). Può dunque concludersi che nei confronti del parlamentare è configurabile, ricorrendone i presupposti normativi e ferma restando l'insindacabilità delle espressioni proprie dell'attività funzionale del parlamentare, il reato di corruzione impropria. 19. Se dunque non è configurabile la corruzione propria, deve ritenersi che nel caso di specie il fatto, come accertato dai Giudici di merito, possa essere riqualificato come corruzione impropria ai sensi del previgente art. 318, comma 1, in relazione all'art. 321 c.p., fatto tuttora sussumibile anche nella fattispecie delineata dal novellato art. 318 c.p.. 19.1. Va infatti sottolineato come in base alla ricostruzione proposta nella sentenza impugnata, che mutua argomenti da quella di primo grado, nel giugno 2006 debba ritenersi avvenuta tra il B. e l'ex-Senatore, una pattuizione, propiziata anche dall'intervento del L., nella quale, a fronte della promessa e della successiva erogazione della complessiva somma di Euro 3.000.000,00, era stata dedotta l'attività parlamentare del D.G., intesa come pluralità di atti inerenti alla stessa, comprensiva dell'incarico, già assunto, di Presidente della Commissione Difesa, nel presupposto che la stessa concorresse nel suo concreto divenire a realizzare l'aspirazione del B. a far cadere il Governo P.. In tale pattuizione si annidava di per sè un vulnus all'immagine del parlamentare, essendo essa idonea ad inficiarne la correttezza e la dignità, a fronte dell'indebita retribuzione per tale via riconosciutagli. Evidentemente la pattuizione implicava la sua progressiva attuazione, con la consapevolezza delle parti di procedere rispettivamente alle erogazioni e al concreto svolgimento dell'attività di Senatore, cui le erogazioni erano correlate. In tale quadro dunque erano dedotti tutti gli atti dell'ufficio, compresi gli eventuali voti di fiducia. Ciò che comunque va rimarcato è che non possono in alcun modo prospettarsi, secondo quanto in precedenza osservato, profili di contrarietà ai doveri interni all'esercizio delle funzioni, ciò essendo precluso sia dalla strutturale sfera di autonomia e libertà delle Camere sia dall'immunità, destinata a presidiarla, di cui poteva godere l'ex-Senatore, riferita a voti e manifestazione di opinioni, peraltro strutturalmente non pregiudicate da vincolo di mandato. Ma quella frazione di condotta era comunque di per sè penalmente rilevante e sussumibile nella fattispecie sopra indicata, essendo del tutto inconferente il cambio di schieramento del D.G., che progressivamente era venuto anche alla luce. 19.2. D'altronde si è già avuto modo di rilevare come le parti avessero ben presente la deduzione specifica degli atti inerenti all'esercizio della funzione e non genericamente il ruolo politico dell'ex-Senatore, come attestato anche dall'atteggiamento del D.G., volto a richiamare l'attenzione del B. sulla necessità di onorare il patto attraverso la manifestazione di un disagio, menzionato anche dalla Senatrice F., in rapporto a singole fasi. Fermo restando che nessun atto del D.G. avrebbe potuto dirsi contrario ai doveri interni, riguardanti il suo ufficio, sta di fatto che la dinamica del patto implicava comunque una correlazione sinallagmatica, tale da poter essere sussunta nella fattispecie di cui all'art. 318 c.p., essendo peraltro certo il carattere di corruzione antecedente, avuto riguardo alla prospettiva avuta di mira dal B. al momento della pattuizione. 19.3. Va anche rilevato come alla luce di tale impostazione venga meno la concreta rilevanza di tutte le deduzioni difensive incentrate sulla corrispondenza dell'azione del D.G. al suo effettivo sentire politico, quale uomo del centro-destra, tornato nel suo schieramento dopo la fugace alleanza con il centro-sinistra. Deve infatti rimarcarsi come tale elemento sarebbe semmai idoneo a suffragare la configurabilità di un'adesione interiore dell'ex-Senatore alla posizione assunta in occasione della sua attività parlamentare, ma ciò non è in contrasto con la ravvisabilità della corruzione impropria, la quale sussiste anche quando il denaro o l'utilità siano erogate per indurre a fare ciò che dovrebbe comunque essere fatto, stante il diverso tipo di dovere, esterno alla funzione, per tale via violato dal soggetto qualificato. 19.4. Non assume alcun rilievo in tale quadro, come correttamente posto in luce dai Giudici di merito, neppure la successiva stipula del patto federativo e dell'accordo integrativo, certamente idonea a costituire l'apparenza di un'intesa politica, ma in realtà destinata a consentire una più agevole attuazione del patto originario, senza che possa al riguardo ravvisarsi una sorta di novazione, attesa la progressione dei pagamenti, tutti riferibili alla prima intesa. Sul punto peraltro si è già osservato come i Giudici di merito abbiano valutato non dirimenti le testimonianze raccolte al fine di dimostrare l'autonomia del patto federativo, tanto meno alla luce della lettera inviata dal D.G. al B. nel giugno del 2007. Per contro è stato rilevato lo specifico interesse del D.G. a farsi riconoscere pubblicamente somme maggiori, al fine di tranquillizzare i propri creditori e di procurarsi se del caso uno strumento per agire in giudizio. Non assume alcun concreto significato non solo in ordine alla configurabilità della veste di pubblico ufficiale ma neanche al fine della ravvisabilità del delitto di corruzione impropria la natura dell'attività parlamentare, in cui il singolo voto o la singola manifestazione di un'opinione si inserisce in una procedura complessa di cui diventa parte integrante. In realtà il tema risulta ancor meno rilevante nella prospettiva della corruzione impropria che fotografa il concreto esercizio dell'attività in rapporto all'originaria pattuizione. 20. Va a questo punto aggiunto che i motivi di ricorso menzionati all'esordio della lunga analisi (terzo del ricorso B.; primo e sesto del ricorso del responsabile civile), pur avendo contribuito in misura rilevante all'approfondimento del tema, non possono dirsi idonei a sovvertire l'esito del giudizio, risultando sotto tale riguardo infondati. Va del resto rilevato che le questioni sollevate dalle difese devono essere in gran parte dei casi ricondotte a profili giuridici, che i Giudici di merito hanno esaminato, in vista della conclusione proposta, non potendosi dedurre un vizio di motivazione in ordine alla mancata valutazione di specifici angoli visuali di rilievo giuridico (cfr. sul punto Cass. Sez. 1, n. 49237 del 22/9/2016, Emmanuele, rv. 271451), da ritenersi implicitamente superati dalle argomentazioni utilizzate per giungere alle conclusioni prospettate nelle due sentenze di merito. Deve dunque confermarsi il disposto proscioglimento per prescrizione, attesa l'identità dei relativi termini, non potendosi addivenire ad un proscioglimento più ampio ex art. 129 c.p.p.. 21. Devono parimenti respingersi le deduzioni difensive di cui al quattordicesimo motivo del ricorso B. e alle pertinenti argomentazioni contenute nel primo e nell'undicesimo motivo del ricorso del responsabile civile, incentrate sul mancato rispetto della procedura prevista dalla L. n. 140 del 2003 e dunque sulla mancata devoluzione del tema dell'insindacabilità alla Camera competente ai sensi dell'art. 3, comma 4, cioè nel caso in cui il giudice non intenda accogliere l'eccezione proposta da una delle parti. 21.1. In realtà si condivide l'assunto difensivo secondo cui la norma impone senz'altro la trasmissione degli atti alla Camera, ove la questione venga sollevata e il Giudice ritenga di non accogliere l'eccezione, ma a tal fine occorre che ricorrano i presupposti perchè il tema possa dirsi in concreto ammissibile. Nel caso di specie in realtà la questione è stata sollevata nell'interesse del B., all'epoca membro della Camera dei Deputati, mentre il tema dell'insindacabilità avrebbe potuto semmai concernere l'attività del Senatore D.G.. Va infatti rimarcato che non assume rilievo il fatto che il B. fosse l'esponente di vertice dello schieramento di centro-destra, giacchè di per sè ciò non comportava alcuna immunità al suo agire. Del resto non è ammissibile nè in punto di fatto, attesone il carattere assertivo, nè sotto il profilo giuridico-strutturale, la deduzione secondo cui il patto avrebbe comportato che la volontà del B. si esprimesse anche al Senato per il tramite del D.G.. E' agevole in realtà osservare come la sfera di libertà e di autonomia di ciascuna Camera comporti la salvaguardia della ontologica autonomia delle singole manifestazioni di voto da parte dei rispettivi membri, non essendo in alcun modo configurabile una sovrapposizione, che possa dirsi riconoscibile in questa o in altra sede. Su tali basi può dirsi dunque che il solo legittimato ad ottenere la "procedimentalizzazione" dell'eccezione avrebbe potuto essere il D.G., che al contrario aveva optato per l'applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p. con la conseguenza che la sua posizione era stata separata. 21.2. Va peraltro aggiunto che, in base alla pur erronea impostazione dei Giudici di merito, non era stato dato rilievo a singole manifestazioni di voto e al relativo sindacato, essendosi fondata la decisione sull'assunto della messa a disposizione, come tale implicante contrarietà a doveri, pur in assenza di una diretta verifica sul concreto esercizio della funzione. Deve inoltre rimarcarsi come in alcun modo, alla luce di quanto già affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 379 del 1996, possa prospettarsi un assorbimento della condotta nell'immunità, avuto riguardo alla frazione, esterna allo svolgimento dell'attività, che deve porsi alla base della sussunzione del fatto nell'ipotesi di corruzione. Ciò tanto più vale nel caso di riqualificazione del fatto come corruzione impropria, muovendosi dal presupposto non solo dell'assenza di sindacato sul voto, ma più incisivamente dell'imperscrutabilità dello stesso, con conseguente impossibilità di qualificazione in termini di contrarietà ai doveri d'ufficio, circostanza tale da escludere in radice che il parlamentare sia chiamato a rispondere del voto in quanto tale. Ed in ogni caso va rilevato come la configurabilità della penale rilevanza della frazione di condotta esterna alla manifestazione del voto, come tale classificabile secondo il diritto comune, priva di rilievo la questione dell'immunità nei confronti del concorrente del parlamentare, che giammai potrebbe a quel punto avvalersi dell'eventuale esonero dalla pena. Ed è ovviamente inconferente che il B. fosse a sua volta parlamentare, avendo egli nella vicenda agito come esponente politico e, nella sostanza, come privato corruttore. 22. Non sono fondate, alla luce della precedente analisi, le considerazioni difensive, di cui al quinto motivo del ricorso B. e al quinto motivo del ricorso del responsabile civile, in merito alla configurabilità di una fattispecie di illecito finanziamento. 22.1. Va invero osservato come la ritenuta configurabilità del delitto di corruzione esoneri da una specifica analisi del tema, posto che l'eventuale reato di illecito finanziamento avrebbe dato luogo ad un'ipotesi di concorso formale (sul punto, fra l'altro, Cass. Sez. 6, n. 3926 del 16/10/1998, Moscano, rv. 212995). 22.2. E' tuttavia opportuno chiarire che non ogni finanziamento, pur illecito, di cui possa beneficiare un politico, dà luogo al reato di corruzione. Ciò che a tal fine assume rilievo è la veste del beneficiario, rilevante solo quando possa dirsi dedotta la sua qualità di pubblico ufficiale. Va in effetti osservato che l'erogazione potrebbe essere fatta per sostenere un partito o un movimento, a prescindere dal diretto coinvolgimento nell'eventuale patto dell'attività inerente al ruolo pubblico ricoperto dal beneficiario, la quale potrebbe rimanere sullo sfondo senza dare luogo ad un immediato vincolo sinallagmatico. Costituisce invece corruzione il patto nel quale la promessa o l'erogazione siano correlati all'esercizio dell'attività del pubblico ufficiale, il quale intervenga nell'accordo proprio nella specifica contemplazione di tale veste. Si tratta alla resa dei conti di esaminare il tipo di accordo e l'oggetto di esso, potendosi peraltro riconoscere un significato sintomatico anche al tipo di utilità corrisposta e al soggetto che venga individuato come immediato destinatario. L'erogazione diretta di denaro o di altro tipo di tangibile beneficio al parlamentare ben può essere intesa come dedotta in un patto che coinvolga direttamente l'attività di quest'ultimo nella specifica veste, mentre un meno immediato significato corruttivo potrebbe assumere un'elargizione ad un movimento o l'offerta di somme, funzionale all'organizzazione di attività politica. Nel caso di specie peraltro il problema non può porsi, in quanto, come esattamente rilevato dai Giudici di merito, il B. tramite il L. aveva specificamente dedotto l'erogazione di somme "in nero" in favore del D.G., a fronte dei debiti personali di lui, di cui lo stesso D.G. aveva rivelato la consistenza, non assumendo carattere novativo la successiva stipula del patto federativo, implicante l'erogazione di somme "in chiaro", peraltro riconducibili all'unico originario patto corruttivo. 22.3. Devono infine richiamarsi gli argomenti già valorizzati per escludere la rilevanza dell'invito formulato dal B. al D.G. a ritornare a casa e la disponibilità in tal senso da costui palesata, ciò che da un lato non vale a legittimare una diversa ricostruzione del patto in concreto intervenuto e dall'altro si pone in linea con la concreta configurabilità di una corruzione impropria nei termini fin qui descritti. 23. Non ha fondamento l'ottavo motivo del ricorso B. in merito al coefficiente psicologico. 23.1. Va al riguardo osservato che la diversa qualificazione del fatto non influisce sulla configurabilità di tale coefficiente ed anzi vale a definirne la consistenza, in relazione alla concreta delimitazione della fattispecie, incentrata sul dato essenziale costituito dalla consapevole pattuizione, in cui era dedotta la promessa e la successiva, progressiva erogazione di una consistente somma di denaro, a fronte del concreto esercizio da parte del D.G. della sua attività di parlamentare, accompagnata dalla prospettiva nutrita dal B. di far cadere il Governo P., senza alcun riferimento a profili di contrarietà ai doveri interni inerenti all'esercizio delle funzioni dell'ex-Senatore. 23.2. Deve aggiungersi che non assume alcun concreto rilievo e risulta comunque aspecifica la deduzione difensiva incentrata sul preteso affidamento riposto dal B. sulla liceità della pattuizione, alla luce di pregresse esperienze giurisprudenziali. In realtà, al di là della peculiarità del caso di specie, va rimarcato come la giurisprudenza di legittimità, sia civile sia penale, non autorizzasse alcun rassicurante convincimento, a fronte di precedenti incentrati sulla configurabilità del delitto di corruzione impropria o addirittura di corruzione propria e a fronte di assunti volti ad escludere l'operatività della sfera di immunità. Ma soprattutto va sottolineato che i rilievi formulati nella sentenza n. 379 del 1996 non avrebbero consentito di escludere l'illiceità di condotte corruttive, coinvolgenti la frazione di condotta esterna all'esercizio delle funzioni di parlamentare. D'altro canto, a fronte di talune prese di posizione della c.d. giurisprudenza domestica delle Camere, non può non rimarcarsi come nel caso di specie venisse in considerazione la posizione del privato corruttore, rispetto al quale, come già osservato, era stata già specificamente configurata in sede penale la fattispecie della corruzione impropria. E neppure può sottacersi come perfino l'autorevole dottrina invocata dai ricorrenti, che pur aveva ispirato in talune circostanze la posizione delle Camere, fosse in realtà tutt'altro che contraria alla configurabilità della corruzione impropria, come peraltro già posto in luce in precedente occasione (si richiama ancora una volta al riguardo la nitida e completa analisi di Cass. Sez. 6, n. 36769 del 2017, Volontè). 24. La diversa qualificazione del fatto deve ritenersi pienamente consentita in questa sede. 24.1. E' stato del resto specificamente osservato in ipotesi analoghe come, a fronte di una contestazione di corruzione propria, non sia preclusa la possibilità di riqualificare il fatto come corruzione impropria, allorchè si conservi il nucleo essenziale del fatto contestato, la possibilità di riqualificazione possa dirsi prevedibile e non si sia determinato alcun vulnus ai diritti della difesa (Cass. Sez. 3 n. 1464 del 16/12/2016, dep. nel 2017, Orsi, rv. 269360). Nella medesima prospettiva è stato d'altro canto valorizzato il rapporto di continenza ravvisabile tra corruzione propria e corruzione impropria (Cass. Sez. 6, n. 6004 del 21/3/1996, Bruno, rv. 205070). 24.2. Va in particolare osservato che alla luce dei principi emergenti dalla nota vicenda Drassich (originata da Corte di Strasburgo, 11/11/2007, Drassich contro Italia) la diversa qualificazione del fatto da parte della Corte di cassazione presuppone il contraddittorio tra le parti (da ultimo Cass. Sez. 2, n. 37413 del 15/5/2013, Drassich, rv. 256653). Ma nel caso di specie lo stesso deve ritenersi ampiamente assicurato dal fatto che le parti hanno pienamente esercitato le proprie facoltà difensive ín termini di proposta di prove e di analisi critica dei profili di fatto e di diritto, hanno discusso sui profili inerenti alla qualificazione del fatto, prospettando in subordine l'ipotesi di riqualificazione come corruzione impropria, sia pur escludendo la possibilità di configurare la fattispecie delineata dal previgente art. 318 c.p., hanno al riguardo replicato in sede di conclusioni alla richiesta di riqualificazione proposta dal Procuratore generale. Deve comunque osservarsi che strutturalmente la ravvisata corruzione impropria antecedente fa salvo il nucleo essenziale della vicenda oggetto di contestazione, senza immutarne la consistenza ed anzi delimitando la portata del fatto sulla base di un effettivo rapporto di continenza, a fronte della radicale esclusione di profili di contrarietà ai doveri di ufficio. Inoltre non è dato evincere dalle deduzioni difensive elementi rimasti insondati, potenzialmente idonei ad incidere sul tema della qualificazione. Ed infine va sottolineato come quest'ultima comporti la ravvisabilità di un reato meno grave, dal quale non può discendere all'imputato alcun pregiudizio, fermo restando che comunque è stata già dichiarata l'estinzione del reato per intervenuta prescrizione. Tale esito, come già osservato, deve essere confermato in questa sede, sia pur alla luce della diversa qualificazione indicata, dovendosi altresì ribadire quale epoca di consumazione quella dell'ultimo pagamento, risalente al (OMISSIS) del 2008, ciò comportando che il termine di prescrizione, comunque identico nel caso di corruzione impropria, è maturato in epoca successiva alla sentenza di primo grado, circostanza rilevante ai fini della cognizione della domanda risarcitoria. 25. Relativamente alle statuizioni civili il nono e il tredicesimo motivo del ricorso B. e l'undicesimo e dodicesimo motivo, esposti congiuntamente, del ricorso del responsabile civile risultano parimenti infondati. 25.1. Vengono sostanzialmente reiterate deduzioni inerenti a profili di legittimazione formale e sostanziale e alla ravvisabilità di una lesione risarcibile in favore del Senato della Repubblica. 25.2. Sui profili formali non può che ribadirsi quanto già osservato dai Giudici di merito. Ed invero è incontestabile che l'art. 9 del regolamento del Senato contempli il potere di rappresentanza generale del Presidente del Senato. La rilevanza del regolamento va valutata non solo in relazione a quanto in esso espresso ma anche in relazione a quanto non diversamente disciplinato, con la conseguenza che non è dato ravvisare alcun elemento che dia fondamento all'eccezione difensiva, secondo cui la costituzione di parte civile del Senato avrebbe richiesto la previa delibera dell'Assemblea, a fronte del parere contrario formulato dal Comitato di Presidenza. Deve aggiungersi che la procedura seguita in occasione dei conflitti di attribuzione si fonda sulla natura delle relative questioni, coinvolgenti l'affermazione delle prerogative dell'intera Assemblea, con la conseguenza che ben si comprende il ricorso ad una previa delibera, destinata a riconoscere la consistenza di quelle prerogative, al cospetto di altri poteri confliggenti. Ma nel caso della costituzione di parte civile ben può il rappresentante generale del Senato, così come, corrispondentemente il Presidente della Camera in base ad analoga norma regolamentare, valutare la configurabilità dei presupposti per una domanda risarcitoria, che non si pone sul piano dei rapporti istituzionali. D'altro canto sempre sul piano della legittimazione in senso formale non sussisteva alcuna necessità del rilascio di procura all'Avvocatura dello Stato, chiamata istituzionalmente ad assumere la difesa nel caso di specie. Tutto ciò peraltro trova riscontro in un arresto della giurisprudenza di legittimità in sede civile (si richiama a tal fine Cass. Civ. Sez. U. n. 1667 del 23/3/1981, rv. 412342-01), secondo cui "nelle controversie con soggetti privati, ovvero con soggetti pubblici non riferibili allo Stato, la Camera dei deputati, in persona del suo Presidente, cui ne compete la rappresentanza generale (art. 8 del regolamento approvato il 18 febbraio 1971), è difesa in giudizio dall'Avvocatura dello stato, senza necessita di specifico mandato, ai sensi del R.D. 30 ottobre 1933 n 1611, art. 1"). 25.3. In ordine alla legittimazione in senso sostanziale è agevole rilevare la correttezza delle valutazioni dei Giudici di merito, posto che nel caso di specie non veniva in considerazione una lesione arrecata allo Stato, unitariamente inteso come Apparato, bensì una lesione subita da un organo costituzionale di rilievo primario e dotato a tal fine di autonomia, direttamente legittimato dunque a farla valere a fini risarcitori. 25.4. Quanto alla configurabilità dei presupposti per la condanna agli effetti civili, deve rimarcarsi che nonostante talune eccedenti affermazioni contenute nelle due sentenze di merito, spintesi ad un sindacato sulla concreta dinamica del voto, non può comunque contestarsi sul piano eziologico l'incidenza della condotta attribuita all'ex-Senatore e al privato corruttore -incentrata sull'illecita pattuizione implicante l'erogazione di un'indebita remunerazione- sull'immagine dell'Istituzione, all'interno della quale il D.G. svolgeva la sua funzione. Di certo in sede di concreta quantificazione dovrà prendersi in considerazione la riqualificazione del fatto operata in questa sede, tale da influire anche sulle conseguenze risarcitorie. Va peraltro osservato che risulta essere stata pronunciata solo una condanna generica, la quale, come tale, merita conferma, impregiudicata ogni valutazione ai fini della definizione del danno, rimessa alla separata sede civile. 26. In conclusione, previa riqualificazione del fatto come corruzione impropria ex art. 318 c.p.p., comma 1, e art. 321 c.p.p., i ricorsi devono essere rigettati, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Definito giuridicamente il fatto reato contestato al ricorrente come corruzione impropria antecedente ai sensi dell'art. 318 c.p., nel testo anteriore alla riforma operatane con L. n. 190 del 2012, rigetta i ricorsi e condanna í ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 2 luglio 2018. Depositato in Cancelleria il 11 settembre 2018
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