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Corruzione propria: l'atto oggetto del mercimonio deve rientrare nella sfera di competenza o di influenza dell'ufficio cui appartiene il soggetto corrotto

Corruzione

Cassazione penale sez. VI, 08/06/2023, n.1245

In tema di corruzione propria, l'atto oggetto del mercimonio deve rientrare nella sfera di competenza o di influenza dell'ufficio cui appartiene il soggetto corrotto, di modo che in relazione ad esso egli possa esercitare una qualche forma di ingerenza, sia pur di mero fatto.

Corruzione sistematica: messa a libro paga del funzionario pubblico come corruzione impropria

Corruzione: lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi integra il reato di cui all'art. 318 c.p.

Corruzione propria: non è determinante che il fatto contrario ai doveri d'ufficio sia ricompreso nell'ambito delle specifiche mansioni del pubblico ufficiale

Corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio: condannato rappresentante farmaceutico che aveva corrisposto denaro ad un primario ospedaliero

Corruzione propria: sulla configurabilità del reato nei confronti di un parlamentare

Corruzione: non rileva il solo fatto che l'attività del pubblico ufficiale presenti margini più o meno ampi di discrezionalità

Corruzione in atti giudiziari: configurazione se il denaro è stato ricevuto per atto già compiuto

Corruzione: il compimento dell'atto da parte del pubblico ufficiale non fa parte della struttura del reato e non assume rilievo per la determinazione del momento consumativo

Corruzione propria: non occorre individuare esattamente l'atto contrario ai doveri d'ufficio

Corruzione: sulla applicabilità della confisca obbligatoria di cui all'art. 2641 c.c.

Corruzione propria: quando rileva lo stabile asservimento del pubblico ufficiale

Corruzione impropria: il nuovo art. 318 c.p. copre l'area della vendita della funzione in quelle situazioni in cui non sia noto il finalismo del suo mercimonio

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Milano, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato non diversi procedere nei confronti di Ca.Ma. in ordine ai reati contestati ai capi D-G-H-S per essersi estinti per prescrizione e ha confermato la sentenza con cui: Ca.Ma., nella qualità di rappresentante legale della Se., è stata condannata per i reati contestati ai capi A) (associazione per delinquere finalizzata a commettere reati contro la Pubblica Amministrazione e, in particolare, turbative d'asta e corruzioni), corruzione propria (capi E-F escluse, quanto a quest'ultimo reato le vicende relative a B, S, ISI e Techint, I- K-L- P-Q-R ), turbata libertà degli incanti (capo J), abuso d'ufficio (capo M); -Na.Gi. e Al.Gi. , nelle rispettive qualità di soggetto a cui era riconducibile- insieme alla Ca.Ma.- la El. e di pubblico ufficiale, dirigente di Odontoiatria presso la clinica odontoiatrica dell'Ospedale Policlinico di Milano e in concorso con la stessa Ca.Ma., per il reato di corruzione propria (capo I per la sentenza- capo J per il decreto di giudizio imemdiato); - Ga.St., in concorso con Ca.Ma., del reato di abuso d'ufficio, così riqualificata l'originaria imputazione di corruzione, limitatamente alla omissione della segnalazione dei rilievi relativi alle forniture di materiale all'Azienda Ospedaliera (capo L) della sentenza - capo M) decreto). 2. Ha proposto ricorso per cassazione Al.Gi. articolando dieci motivi. Vi è una premessa ricostruttiva del processo e della imputazione con cui si evidenzia che ad Al.Gi. si contesta, quale referente del reparto protesi mobili della Clinica odontoiatrica dell'ospedale IRCCS, di avere favorito la società El., ponendosi a servizio di Ca.Ma., in cambio di un contratto di prestazioni lavorative e delle conseguenti retribuzioni per la di lui compagna Ba.El., giudicata separatamente. Si assume che l'addebito ruoterebbe attorno alla valenza e alla esecuzione di un Accordo Quadro per la fornitura di materiale odontoiatrico rispetto al quale l'imputato sarebbe stato tuttavia estraneo e che, diversamente dagli assunti accusatori, individuava espressamente a quale fornitore ciascun reparto dovesse indirizzare, di volta in volta, i propri ordini. 2.1. Con il primo motivo si deduce violazione di legge processuale quanto al mancato accoglimento della questione di incompetenza territoriale del Tribunale di Monza, rigettata dalla Corte di appello sul presupposto della impossibilità per il Tribunale di svolgere, sulla base dei documenti allegati dalla difesa alla memoria espositiva, un sub procedimento incidentale volto a verificare tempi e luoghi della contestata permanenza del reato e della relativa cessazione. La Corte di appello, si afferma, avrebbe erroneamente considerato detti documenti come nuova produzione laddove, invece, si sarebbe trattato di una mera riallegazione di documenti già presenti nel fascicolo delle indagini preliminari e che, dunque, non inficiavano il perimetro dello "stato degli atti" sulle questioni preliminari su cui il Tribunale era stato chiamato a decidere; la Corte invece avrebbe fatto riferimento come perimetro cognitivo per delibare l'eccezione agli atti presenti al fascicolo per il dibattimento e avrebbe erroneamente ritenuto che gli elementi riguardanti le caratteristiche del rapporto di lavoro, proposto alla moglie dell'imputato a titolo di corrispettivo per il compimento degli atti contrari ai doveri d'ufficio, fossero emersi solo nel corso della istruttoria dibattimentale. La Corte avrebbe cioè erroneamente ritenuto che, al momento in cui il Tribunale fu chiamato a decidere, non fossero presenti elementi, nemmeno indiziari, che consentissero di individuare il giudice naturale competente in quello del luogo in era avvenuta l'ultima dazione oggetto del patto corruttivo, cioè I. Sostiene invece l'imputato che in realtà quei documenti fossero presenti nel fascicolo per le indagini preliminari e quindi utilizzabili dal Tribunale ai fini della decisione delle questioni preliminari. Nel merito, si osserva che, in ragione della struttura della imputazione, il momento consumativo della corruzione coinciderebbe con il ricevimento da parte del pubblico ufficiale del denaro e della utilità e non sarebbe dunque decisiva, ai fini della individuazione della competenza territoriale, l'indicazione - in calce alla contestazione- come locus commissi delieti della città di A, in cui, secondo la prospettazione d'accusa, sarebbe stato invece concluso il patto illecito. Se così fosse stato, l'imputazione, nella descrizione del fatto, si sarebbe dovuta arrestare alla indicazione del luogo in cui sarebbe stato raggiunto l'accordo corruttivo e non specificare i profili attuativi dello stesso; la stessa Corte di appello, in un altro passaggio della motivazione, avrebbe individuato il momento consumativo del reato nel luogo i cui avvenivano i versamenti dei compensi delle prestazioni professionali in favore di Ba.El. e avrebbe ritenuto incerto il tempo e il luogo in cui sarebbe stato concluso l'accordo corruttivo. Dunque giudice competente sarebbe, a dire dell'imputato, il Tribunale di Bologna. 2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla sussistenza dell'elemento oggettivo del reato di corruzione propria. La Corte avrebbe compiuto ed esaurito il proprio sforzo motivazionale nel richiamo alla sentenza di primo grado, sul presupposto che i motivi di appello fossero meramente riproduttivi delle tesi già sottoposte al vaglio del Tribunale, aggiungendo solo considerazioni generiche in tema di configurabilità del reato di corruzione propria in presenza di attività discrezionale. Si tratterebbe di una motivazione viziata e di una errata applicazione della legge penale. Quanto al profilo del vizio motivazionale si sostiene che la motivazione sarebbe silente quanto a profili costitutivi del reato, quali la prova dell'accordo corruttivo, il nesso tra le due prestazioni, l'atto contrario ai doveri d'ufficio che, nella specie, sarebbe stato compiuto dal pubblico ufficiale, e che la Corte si sarebbe soffermata solo sulla peculiarità della utilità conseguita dal pubblico ufficiale senza neppure considerare che si tratterebbe di compensi erogati a fronte di prestazioni effettivamente compiute. Una motivazione corroborata dal riferimento alla sentenza di applicazione di pena emessa nei riguardi di Ba.El. che, tuttavia, si aggiunge, non potrebbe assurgere ad argomento di prova nei riguardi dell'imputato che ha prescelto il rito ordinario; una prova del fatto corruttivo derivante dalla somma algebrica tra utilità e sentenza di patteggiamento, in cui, tuttavia, la Corte ha omesso di argomentare sugli elementi costitutivi del patto, del suo oggetto, della causale e della corrispettività delle prestazioni. 2.3. Con il terzo motivo si lamenta vizio di motivazione quanto al giudizio di responsabilità, fondato sul valore probatorio incondizionato delle conversazioni intercettate tra Al.Gi. e Na.Gi., tra il primo e Ba.El., tra Na.Gi. e Ca.Ma.. Una prova, secondo la Corte di appello, indiziaria della quale tuttavia non sarebbe stato spiegato ed esplicitato il procedimento logico previsto dall'art. 192 cod. proc. pen. 2.4. Con il quarto motivo si deduce vizio di motivazione e violazione di legge in relazione al reato di corruzione con riguardo all'attività discrezionale del pubblico ufficiale. La Corte avrebbe richiamato l'indirizzo giurisprudenziale secondo cui, ai fini della configurabilità del reato in esame, occorre avere riguardo non solo alla legittimità formale dell'atto, ma anche al percorso che conduce alla adozione dello stesso, nel senso che il reato sussisterebbe anche quando si raggiunga la prova dell'asservimento dei pubblici poteri all'interesse prestabilito privatistico, con rinuncia a priori alla imparziale comparazione degli interessi in gioco. Assume invece il ricorrente che la sentenza sarebbe contraddittoria e illogica per avere, da una parte, la Corte affermato che Al.Gi. esercitasse la sue funzioni entro una cornice contrattuale predeterminata, ma, dall'altra, che l'imputato avesse un margine di discrezionalità nella scelta del fornitore e che sarebbe stata esercitata per favorire le società di Ca.Ma., che, tramite Na.Gi., avrebbe esercitato pressioni per ottenere il maggior numero possibile di commesse. Detta inferenza sarebbe stata fatta discendere dalla deposizione del prof. Gi., direttore esecutivo della clinica, secondo cui sarebbe stato possibile fare degli "aggiustamenti" rispetto agli ordini. Si tratterebbe di una deposizione (di cui si allega il testo) travisata; secondo Gi. esisteva un meccanismo automatico di tollerabilità del rispetto delle percentuali prefissate di fatturato di base dei fornitori, ma detto meccanismo non atteneva affatto al potere discrezionale dei medici nella individuazione del fornitore - perché la scelta della ditta avveniva secondo le indicazioni dello stesso Gi. - quanto, piuttosto, ad un meccanismo di controllo informatico, che prevedeva un sistema automatico di compensazione, al quale Al.Gi. era estraneo e che non aveva registrato anomalie. La sentenza avrebbe inoltre pretermesso di valutare altre deposizioni di medici (Gr., Be.- anche queste in parte allegate), confermative di quelle di @8Gi, secondo cui non vi era discrezionalità nell'operato dei medici quanto alla scelta del fornitore. La Corte si sarebbe limitata a recepire la sentenza di primo grado collegando sul piano probatorio l'aumento del volume di forniture e di fatturato di El. - ritenuto rivelatore della condotta favoritrice dell'imputato e quindi dell'asservimento della funzione - con le remunerazioni accordate alla Ba.El. Una ragionamento viziato quanto alla prova del nesso tra utilità e atto da compiere, della causale dell'atto, dell'accettazione da parte del pubblico ufficiale della utilità, considerato che la stessa Ba.El. aveva un precedente rapporto di collaborazione con la Se.; sarebbe errato anche l'assunto della Corte secondo cui sarebbero infondate le affermazioni difensive per le quali l'assunzione della donna non sarebbe derivante dal ruolo del compagno, cioè dell'odierno ricorrente, e il richiamo compiuto all'art. 41 cod. pen. 2.5. Con il quinto motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla mancata riqualificazione del fatto nel reato di corruzione per l'esercizio della funzione. L'assunto della Corte è che nel paradigma della corruzione propria sarebbero riconducibili tutti i casi in cui il patto abbia ad oggetto atti discrezionali e il pubblico ufficiale rinunci alla valutazione comparativa degli interessi in gioco al fine di giungere ad un esito predeterminato e ciò anche quando questo risulti coincidere ex post con quello pubblico e salva l'ipotesi di atto identico a quello che sarebbe stato adottato in caso di corretto adempimento delle funzioni. Un affermazione smentita da quanto in precedenza evidenziato in ordine all'assenza di discrezionalità in capo all'imputato; né, diversamente da quanto affermato dalla Corte, sarebbe stato indicato l'atto contrario a doveri d'ufficio compiuto dal ricorrente. Pur volendo ritenere che l'imputato godesse di margini di discrezionalità nella sua attività, nondimeno il fatto dovrebbe essere ricondotto, anche secondo la più recente giurisprudenza di questa Sezione, al paradigma dell'art. 318 cod. pen. 2.6. Con il sesto motivo si assume che nella specie sarebbe applicabile la disciplina previgente alla modifica normativa compiuta con la legge n. 69 del 27 maggio 2015 che prevedeva come pena quella da quattro a otto anni di reclusione. Si sostiene che la condotta dell'imputato sarebbe cessata prima del maggio del 2015 e che il segmento di condotta successivo sarebbe fuori dalla c.d. sfera di influenza dell'imputato; in tal senso si invocano i principi affermati dalle Sezioni unite n. 40986 del 19/07/2018, relativi alla differenza tra il momento perfezionativo e consumativo del reato e alla individuazione del tempus commissi delieti ai fini della successione della legge penale nel tempo. 2.7. Con il settimo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'art. 323-bis cod. pen. La Corte di appello non avrebbe valutato il fatto nella sua globalità, ma avrebbe valorizzato solo il vulnus recato alla immagine della Pubblica amministrazione e alla sanità pubblica, omettendo di fare riferimento ai parametri specifici previsti dall'art. 133 cod. pen. 2.8. Con l'ottavo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento della circostanza attenuante del danno di speciale tenuità, negata senza alcuna valutazione in concreto. 2.9. Con il nono motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta ammissibilità dell'appello proposto dalla parte civile Ordine provinciale dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Milano (OMCeOMI), attesa la assenza di specificità dei motivi. Il Tribunale aveva rigettato la domanda risarcitoria sul presupposto che nella specie non fosse stato provato il danno all'immagine e che fosse stato ritenuto un danno in re ipsa; l'atto di appello proposto sarebbe stato, a dire del ricorrente, generico e avrebbe di fatto riguardato solo la legittimazione alla costituzione della parte civile. 2.10. Con il decimo motivo si lamenta vizio di motivazione con riguardo alle statuizioni civili; il tema attiene alla condanna generica in favore dell'Ordine dei medici disposta dalla Corte di appello, in riforma della sentenza di primo grado sul punto. Nel caso di specie il danno non sarebbe conseguenza del reato ma della pubblicazione di notizie di stampa con conseguente danni all'immagine che, peraltro, non sarebbero stati prodotti e che comunque non riguarderebbero il ricorrente. 3. Ha proposto ricorso per cassazione Na.Gi. e sono stati articolati cinque motivi. 3.1. Con il primo si deduce violazione di legge processuale in ordine alla questione di nullità relativa alla richiesta e al decreto di giudizio immediato. Si evidenzia in punto di fatto che: -il 5.5.2016 il Pubblico Ministero presso il Tribunale di Monza chiese al Giudice per le indagini preliminari di emettere il decreto di giudizio immediato rappresentando tra le fonti di prova l'avvenuta acquisizione dei verbali di interrogatorio e trasmettendo il fascicolo "contenente la notizia di reato, la documentazione relativa alle indagini espletate, i verbali degli atti eventualmente compiuti davanti al GIP"; - il 9.5.2016 il Giudice per le indagini preliminari emise il decreto di giudizio immediato fissando come prima udienza davanti al Tribunale quella del 14.7.2016; - nel decreto, notificato il 10.5.2016, era contenuto l'avviso che gli atti compiuti durante le indagini preliminari erano stati depositati e che l'imputato avrebbe potuto chiedere, entro il termine del 25.5.2016, il giudizio abbreviato ovvero l'applicazione della pena; - il 6 luglio 2017 era decorso il termine per il deposito delle liste testimoniali; - nel pomeriggio dell'08/07/2016 il Pubblico Ministero aveva notificato un nuovo avviso di deposito di ulteriore documentazione relativa non solo all'attività integrativa di indagine compiuta ai sensi dell'art. 430 cod. proc. pen., ma anche ai verbali di interrogatorio resi da numerosi soggetti - tutti indicati nel ricorso- e compiuti tra il 22.2.2016 e il 24.2.2016, quindi precedenti l'esercizio dell'azione penale; - nello stesso avviso era specificato come quei verbali fossero riferibili all'interrogatorio di garanzia "a suo tempo non depositati all'atto della richiesta di giudizio immediato e non oggetto di copia su supporto informatico" (così il ricorso). Dunque, si sostiene, una serie di atti che non erano stati sottoposti al Giudice per l'esercizio delle sue prerogative quanto alla emissione del decreto di giudizio immediato, e non depositati nei termini previsti per l'esercizio dei diritti difensivi, comprensivi anche delle eventuali scelte e richieste ai sensi dell'art. 458 cod. proc. pen. Una questione di nullità della richiesta e del giudizio immediato dedotta davanti al Tribunale in cui si evidenzia come, in analogia con il comma 2 dell'art 416 cod. proc. pen., il comma 2 dell'art. 454 cod. proc. pen. imponga al pubblico ministero di trasmettere al giudice l'intero fascicolo delle indagini preliminari. Secondo il ricorrente nella specie sarebbe stato violato l'art. 178, lett. b - c), cod. proc. pen., e, in particolare, il diritto dell'imputato di poter fare affidamento sulla conoscenza completa degli atti ai fini delle proprie scelte processuali, con riguardo al potere di chiedere riti alternativi, di predisporre le liste testimoniali, di svolgere indagini difensive. Il Tribunale avrebbe rigettato l'eccezione ritenendo non essere causa di nullità del decreto che dispone il giudizio immediato l'incompletezza degli atti trasmessi dal Pubblico Ministero al Giudice per le indagini preliminari a corredo della relativa richiesta, né la loro tardiva trasmissione (così il ricorso); una interpretazione, si argomenta, incostituzionale perché in contrasto con gli artt. 3-24-111 Cost. Il Tribunale, nel rigettare la questione, avrebbe peraltro erroneamente ritenuto che l'omissione avrebbe riguardato solo la copia cartacea degli interrogatori di garanzia, atteso che, invece, dall'indice degli atti trasmessi sarebbe risultato essere state depositate, prima della richiesta di giudizio immediato, le trascrizioni integrali, unitamente ai CD contenenti le registrazioni degli interrogatori. Secondo l'imputato si tratterrebbe di un fatto non decisivo tenuto conto che nel secondo avviso, quello deH'8.7.2016, si era in realtà esplicitato come quei verbali di interrogatorio non fossero stati a suo tempo depositati all'atto della richiesta di giudizio immediato. La Corte di appello, a cui la questione era stata riproposta, avrebbe a sua volta erroneamente ritenuto che, in ragione del principio di tassatività, non vi sarebbe nullità del decreto di giudizio immediato nel caso di incompleta o tardiva trasmissione degli atti. Si chiede in subordine di sollevare questione di legittimità costituzionale 3.2. Con il secondo motivo si deduce l'incompetenza territoriale del Tribunale di Monza. Secondo il ricorrente i reati, per come contestati, avrebbero dovuto determinare l'individuazione del Tribunale di Milano come giudice naturale competente in ragione del delitto di cui al capo P) (si tratta di un fatto corruttivo attribuito a Ca.Ma. nei riguardi di Ce.An.) che, in quanto più grave, avrebbe attratto la competenza territoriale per connessione per tutti gli altri; con riguardo a tale reato, si aggiunge, la percezione illecita delle utilità da parte di Ce.An. sarebbe avvenuta a Milano. Il reato di cui al capo P) risulta contestato formalmente nel modo seguente: "in luogo indeterminato dal 2010 in permanenza attuale". Il Tribunale avrebbe rigettato l'eccezione sul presupposto che la difesa non avesse fornito elementi sufficienti per ritenere la competenza nel territorio milanese senza tuttavia considerare come in realtà fosse stato documentato che: a) la somma di denaro oggetto della dazione illecita fosse stata corrisposta e documentata con fatture emesse nei confronti della De. dalla società Centro Pediagnostico di terapia medica Sas, dalla Ce. e dallo stesso Ce.An.; b) le società in questione avessero sede a Milano e Ce.An risiedesse a Milano; c) lo stesso Pubblico Ministero avesse indicato nel parallelo processo celebrato con il rito ordinario, che il reato in questione fosse stato consumato a Milano. La Corte di appello avrebbe enunciato correttamente il principio relativo al duplice schema con cui il reato di corruzione può strutturarsi (accordo ovvero accordo seguito da dazione ), ma di esso avrebbe fatto un'errata applicazione, ritenendo di dover fare riferimento al luogo in cui era stato raggiunto l'accordo corruttivo, senza tuttavia considerare il dato letterale della imputazione, chiaro nel fare riferimento alla dazione del denaro e quindi, per le ragioni indicate, a Milano. 3.3. Con il terzo motivo si deduce violazione di legge processuale e vizio di motivazione; il tema attiene alla utilizzabilità delle intercettazioni compiute (tutte indicate per rit nel ricorso) per violazione dell'art. 268, comma 3, cod. proc. pen. In esecuzione del decreto di autorizzazione alla captazione del 21.2.2014 il Pubblico Ministero aveva disposto che le operazioni fossero eseguite per mezzo degli impianti installati presso la sala ascolto della Procura del Tribunale di Monza con facoltà di ascolto tramite remotizzazione presso gli uffici della Polizia giudiziaria delegata. L'attività di captazione sarebbe stata invece compiuta con modalità di remotizzazione presso gli uffici del Comando Provinciale dei Carabinieri di Milano mediante l'uso dell'apparecchiatura del sistema Mito, cioè di un sistema specificatamente creato per essere utilizzato nelle sale di ascolto delle Procure, che, tuttavia, offriva anche la possibilità di eseguire le attività di captazione in siti remoti rispetto ai locali uffici giudiziari, previa autorizzazione del giudice, così consentendo agli operatori di lavorare nelle sedi istituzionali proprie. Nel caso di specie, l'esecuzione dell'attività di intercettazione sarebbe stata compiuta con il sistema indicato, mediante remotizzazione presso gli uffici dei carabinieri e non presso la Procura; si tratta di una circostanza che riceverebbe conferma testuale da tutti i verbali di inizio e di fine intercettazione e non vi sarebbe nessun atto comprovante la insufficienza o l'inidoneità degli impianti installati presso la Procura della Repubblica: dunque, intercettazioni inutilizzabili. Il Tribunale di Monza e la Corte di appello avrebbero rigettato la questione di inutilizzabilità dando irritualmente credito alle dichiarazioni del maresciallo Bo., chiamato a deporre sulla correttezza dell'attività investigativa, e alla documentazione prodotta dal Pubblico Ministero all'udienza del 1.12.2016 secondo cui "le utenze telefoniche utilizzate per le registrazioni avevano tutte il prefisso 039, cioè quello della citta di Monza" (così il ricorso che richiama la sentenza), per cui dunque l'attività di intercettazione non potè essere svolta a Milano. Deduce il difensore che ciò che avrebbe dovuto essere provato è che la captazione fosse stata svolta presso la Procura di Monza, non essendo sufficiente fare riferimento al prefisso 039 corrispondente a migliaia di utenze. 3.4. Con il quarto motivo si lamenta vizio di motivazione quanto al giudizio di responsabilità (capo I). Viene ripresa e valorizzata la deposizione di Gi., di cui si è detto, e altre deposizioni; i temi sono sostanzialmente quelli già indicati allorquando è stato esaminato il ricorso proposto nell'interesse di Al.Gi. A fronte di articolati motivi, la Corte si sarebbe limitata sostanzialmente a recepire la decisione del Tribunale. 3.5. Con il quinto motivo si deduce violazione di legge; si tratta di un motivo sostanzialmente sovrapponibile al sesto motivo presentato nell'interesse di Al.Gi. e relativo alla individuazione del momento consumativo del reato e dunque della cornice edittale applicabile. L'ottenimento del contratto da parte di Ba.El. sarebbe al più del settembre del 2014 ed anche ove si volesse fare riferimento al momento in cui la prestazione del pubblico ufficiale sarebbe stata posta in essere non vi sarebbe nessun atto rilevante oltre la data della modifica normativa del 2015. Sarebbe inoltre errata l'affermazione della Corte secondo cui si dovrebbe fare riferimento alla ricezione dell'ultima dazione in favore della Ba.El. e quindi al gennaio- febbraio 2016, atteso che si dovrebbe fare riferimento al momento della assunzione (gennaio 2015) e non a quella della ricezione dello stipendio. 4. Ha proposto ricorso per cassazione Ca.Ma.articolando sedici motivi. 4.1. Con il primo si deduce violazione di legge processuale prevista a pena di nullità e vizio di motivazione. Il tema attiene alla violazione del principio di correlazione della sentenza quanto ai capi di imputazione H), I), J), L), M), N) del decreto di giudizio immediato; si deduce altresì la nullità della sentenza per carenza assoluta di motivazione quanto alla pronuncia di non doversi procedere per il Capo G). In particolare, l'imputata non sarebbe mai stata imputata per il Capo G) e, quanto al capo I), non sarebbe stato dichiarato non doversi procedere per essersi il reato estinto per prescrizione. La Corte, così come in parte il Tribunale, avrebbe erroneamente trasposto nel dispositivo della sentenza i capi di imputazione originariamente contestati: il capo H sarebbe indicato come capo G, il capo I come capo H, il capo J come capo I, il capo K come capo J, il capo L come capo K, il capo M come capo L, il capo N come capo M. L'errore sarebbe stato già rilevato con l'impugnazione e il rinvio contenuto nel dispositivo della sentenza alle imputazioni di cui al decreto di giudizio immediato rivelerebbe la nullità della sentenza ai sensi degli artt. 521-522 cod. proc. pen. per difetto di correlazione tra le imputazioni cui il dispositivo rinvia e la stessa sentenza. Si deduce inoltre, quanto al capo I) (corruzione impropria di 14Ma.Pi.) violazione di legge per non essere stata dichiarata la estinzione del reato per prescrizione. Il reato, si argomenta, sarebbe contestato come commesso "in A nel mese di settembre 2014" e dalla sentenza del Tribunale (pag. 216 e ss. e 219) emergerebbe chiaramente che l'ultima delle pretese utilità corrisposte - la promessa di assunzione della moglie di Ma.Pi.- sarebbe avvenuta proprio a settembre 2014. Dunque, considerando i 41 giorni di sospensione del termine di prescrizione, il reato si sarebbe prescritto nell'aprile del 2022. Ciò detto, la ricorrente chiarisce di proporre ricorso facendo riferimento ai capi di imputazione così come indicati nel decreto di giudizio immediato. 4.2. Con il secondo motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto al capo K (riportato in sentenza come capo J). Si tratta della turbativa d'asta relativa alla gara indetta dall'Azienda ospedaliera di Desio e Vimercate il 29.4.2015; si contesta all'imputata, in concorso con altri (Ca. Ri.), di aver disposto nel bando di gara una serie di previsioni e di comportamenti - quelli indicati nella imputazione - finalizzati a dissuadere e a rendere di fatto impossibile la partecipazione ad aziende diverse dalla Se., cioè a quella riferibile alla ricorrente. A fronte di specifici motivi di appello, la motivazione sarebbe viziata quanto alla valutazione delle singole condotte collusive - tutte esaminate nel ricorso -concretamente tenute dai soggetti che avrebbero concertato il bando di gara e di come dette condotte abbiano inciso sul turbamento della gara, cioè sull'evento del reato. 4.3. Con il terzo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al giudizio di responsabilità per i fatti corruttivi di cui ai capi E), F), J), L), N), P)f Q) S) del decreto di giudizio immediato Il tema attiene alla prova del patto illecito, del suo contenuto, della sua composizione soggettiva; la sentenza su tali decisivi profili sarebbe viziata essendosi la Corte limitata ad asserzioni generiche, ignare della necessità di individuare il nesso di causa degli atti contrari. 3.4. Con il quarto motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al giudizio di responsabilità per i fatti di corruzione propria indicati. Il tema innanzitutto attiene ai rapporti tra corruzione propria e corruzione per l'esercizio della funzione con particolare riguardo all'attività discrezionale della Pubblica amministrazione. La Corte avrebbe richiamato il principio- in più occasioni affermato - secondo cui vi sarebbe corruzione propria in tutti i casi in cui l'attività della Pubblica amministrazione si traduca in atti legittimi, discrezionali e non rigorosamente predeterminati finalizzati a privilegiare l'interesse del privato. Si tratterebbe, secondo la ricorrente, di un indirizzo giurisprudenziale superato; in tal senso si richiamano i principi di alcune sentenze di questa Sezione e si sostiene che la c.d. presa in carico dell'interesse del privato da parte del pubblico funzionario dietro una dazione o una promessa indebita non sarebbe sufficiente per far ritenere il fatto riconducibile alla fattispecie di corruzione propria che, invece, richiede il compiuto accertamento dell'oggetto del patto e della contrarietà dell'atto ai doveri dell'ufficio. Sarebbe in particolare viziata l'affermazione secondo cui la dazione del privato inquinerebbe comunque l'agire del pubblico funzionario sicché, anche in presenza di un esercizio legittimo dell'attività discrezionale, sarebbe sempre sussistente il reato di corruzione propria; ai fini del reato in questione sarebbe invece necessario accertare la condotta abusiva del pubblico agente, cioè la condotta che sia esterna rispetto al confine della legalità formale, violativa delle regole che presiedono l'agire amministrativo Dunque un vizio relativo alla corretta qualificazione dei fatti e una non corretta applicazione della legge penale. 3.5. Con il quinto motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al fatto corruttivo contestato al capo L (riportato in sentenza al capo K) relativo alla corruzione di Go.An., cioè del responsabile della esecuzione del contratto di appalto tra l'Azienda Ospedaliera di Desio e Vimercate e la Se. Go.An. avrebbe indebitamente favorito gli interessi della Ca.Ma., legale rappresentante della Se., attraverso il compimento di una serie di atti contrari ai doveri di ufficio - indicati nella imputazione - e ricevendo in cambio il prestito di una autovettura Smart. Assume l'imputata che la sentenza impugnata sarebbe viziata nella parte in cui la Corte avrebbe ritenuto provato l'accordo corruttivo e il sinallagma tra le due prestazioni dalla quasi contestualità tra il compimento delle stesse e dall'essere rimasto il prestito dell'autovettura privo di una spiegazione alternativa. Sostiene la ricorrente che la prova sarebbe stata fatta derivare da un unico elemento indiziante, quella della indicata coincidenza temporale, che, tuttavia, al più circoscriverebbe l'oggetto del patto al solo atto asseritamente contrario relativo alla informazione da parte di Go.An. della prossima indizione della gara d'appalto e non anche agli altri segmenti di condotta contestati, che si collocherebbero in diversi contesti temporali. La Corte, relativamente al segmento rispetto al quale ha individuato un nesso causale tra le due prestazioni, avrebbe tuttavia omesso di valutare il requisito della proporzione tra le due prestazioni corrispettive, atteso che, invece, avrebbe dovuto spiegare perché, a fronte di condotte del pubblico agente volte a garantire interessi patrimoniali di ingentissimo valore, sarebbe stata eseguita dal privato corruttore una prestazione dal valore di circa 4.500 euro; dunque, si aggiunge, a maggior ragione sarebbe stato necessario spiegare la valenza probatoria della contestualità temporale delle due prestazioni per far discendere la prova della esistenza del patto illecito. Né sarebbe stato spiegato perché l'informazione del tutto generica riguardante la prossima indizione della gara sarebbe violativa di regole di condotta della Pubblica Amministrazione, essendosi limitata la Corte a fare riferimento alla violazione del dovere di imparzialità. Si tratterebbe di un ragionamento viziato che dovrebbe condurre, in assenza della violazione di una regola specifica dell'agire amministrativo, a ricondurre il fatto nella fattispecie di cui all'art. 318 cod. pen. Quanto alle altre condotte attribuite a Go.An.: a) la Corte non avrebbe motivato alcunché in ordine alla predisposizione del tariffario, nonostante i profili evidenziati nell'atto di appello con cui si era evidenziato come la revisione delle tariffe fosse conseguente ad un impulso della Azienda Ospedaliera e non ad iniziative della imputata e che non era vietata una interlocuzione con l'interessata; b) quanto al sistema del raddoppio del numero di impianti indicato nelle ricette rispetto a quello indicato dagli odontoiatri nelle cartelle cliniche, la Corte avrebbe di nuovo richiamato solo la violazione del dovere di imparzialità senza confrontarsi con i motivi di impugnazione; c) quanto alla omessa segnalazione di Go.An. all'azienda ospedaliera della esistenza del meccanismo del c.d. raddoppio del numero di impianti, non vi sarebbe prova che Go.An. sapesse della esistenza di detto meccanismo. 3.6. Con il sesto motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al capo N) del decreto - corrispondente al capo M) della intestazione della sentenza, relativo alla corruzione propria di Ro.An., incaricata di pubblico servizio in qualità di coordinatore infermieristico per i centri odontoiatrici dell'Azienda ospedaliera di Desio e Vimercate, la quale, a fronte di una serie di atti e comportamenti indicati nella imputazione, avrebbe ricevuto in cambio l'assunzione del figlio presso la Se.. Assume la ricorrente che sarebbe errata l'affermazione della Corte secondo cui l'atto contrario ai doveri di ufficio sarebbe costituito dal fatto che, in occasione di un controllo sindacale e in occasione di un controllo del Nucleo operativo di controllo (NOC) dell'Azienza, Ro.An. si sarebbe comportata come fosse una dipendente di Se.: dunque, una illegittima riconduzione dell'asservimento agli atti contrari. Il fatto, si argomenta, dovrebbe essere ricondotto all'art. 318 cod. pen., tenuto conto che a Ro.An., a differenza di Go.An., non sarebbe contestata nemmeno l'omessa denuncia delle irregolarità nel sistema delle c.d. ricette rosse; si aggiunge che, ove pure i fatti fossero ricondotti alla corruzione per l'esercizio della funzione, nondimeno non vi sarebbe prova del patto illecito. La conversazione valorizzata dalla Corte, datata 2.4.2015, sarebbe successiva di quasi due anni rispetto alla data di assunzione del figlio di Ro.An. del 11.4.2013 e i rapporti tra Ro.An. e l'indagata sarebbero caratterizzati da amicizia a vicinanza emotiva. 3.7. Con il settimo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al fatto corruttivo di cui al capo Q) del decreto di giudizio immediato in cui si contesta all'imputata di aver corrotto Ca., direttore generale della Azienda ospedaliera di Desio e Vimercate, il quale, a fonte del compimento di una serie di atti contrari ai doveri d'ufficio- indicati nella imputazione - avrebbe ricevuto in cambio l'assunzione in Se. di Zi.Gi., dallo stesso segnalata. L'oggetto del patto illecito sarebbe costituito dal totale asservimento della funzione e i due atti contrari ai doveri d'ufficio sarebbero costituiti dalla turbativa d'asta di cui al capo K - di cui si è già detto- e- seppure non oggetto di contestazione formale-nell'aggiornamento del tariffario nel 2012 che, secondo la Corte, non rispondeva ad esigenze dell'Azienda ma a un interesse del privato; le nuove tariffe sarebbero state decise, secondo la Corte, nel corso di una riunione tra altri soggetti e Ca. avrebbe "preso atto" e quindi ratificato tali modifiche. Secondo l'imputata, sarebbe invece non provato l'assunto secondo cui la modifica del tariffario rispondeva esclusivamente ad un interesse del privato, essendo stato invece accertato che detto aumento fosse conforme all'interesse dell'ente perché foriero di maggiori introiti, circostanza, questa che troverebbe conferma in una serie di risultanze istruttorie. Si sottolinea, sotto altro profilo, come l'aumento delle tariffe sarebbe stato non anomalo ma possibile e legittimo; dunque non sarebbe chiaro perché sarebbe espressione del patto corruttivo la firma di Ca. sulla delibera legittima di approvazione del tariffario del 2.7.2012 Sul tema la sentenza sarebbe viziata. Quanto alla turbativa d'asta di cui al capo K), di cui si è detto, si ribadisce come sarebbe la stessa Corte di appello a ribadire la legittimità delle clausole inserite nel bando (vengono riprese le considerazioni già svolte); anche in questo caso la condotta attribuita sarebbe costituita dalla apposizione della firma da parte dell'imputato sulla delibera di indizione della gara, ma nulla sarebbe stato spiegato sulla prova della collusione e della partecipazione di Ca. nella predisposizione del bando. Anche in relazione al capo Q) mancherebbe inoltre la prova dell'accordo corruttivo, sulla quale pure la Corte era stata sollecitata, e del nesso tra le condotte contestate al pubblico ufficiale e l'assunzione di Zi.Gi. Il fatto ricostruito dai Giudici di merito sarebbe al più riconducibile all'art. 318 cod. pen. 3.8. Con l'ottavo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al giudizio di responsabilità per il fatto corruttivo contestato al capo R) in cui si contesta all'imputata di avere corrotto Isabella Ga., direttore amministrativo dell'Azienda Ospedaliera di Desio - Vimercate che, a fronte del compimento di una serie di atti di ufficio, avrebbe ricevuto come utilità un contratto di prestazione di opera intellettuale con una società comunque riconducibile alla Ca.Ma. Le considerazioni difensive sono sostanzialmente le stesse di cui si è già detto. Alla Ga. sarebbe contestato anche di aver firmato la delibera di indizione della gara e quella di approvazione dell'aggiornamento del tariffario; sarebbe tuttavia documentalmente provato che, diversamente dagli assunti della Corte, Ga. non partecipò alla riunione in cui si discusse con Ca.Ma. della modifica del tariffario. A Ga. è inoltre contestato di aver omesso di segnalare il sistema del raddoppio degli impianti, di cui si è detto, e sul punto si rinvia a quanto detto per Go.An. (capo L); né sarebbe stata provata la connessione causale tra le prestazioni. 3.9. Con il nono motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla turbativa d'asta di cui al capo D); si tratta di un reato dichiarato estinto per prescrizione ma per il quale sono state confermate le statuizioni civili. Del reato la Ca.Ma. risponde in concorso con Lo.Ma., appartenente allo staff del presidente della terza commissione della Regione Lombardia, e con Massimiliano Sa., responsabile di una determinata struttura dell'Azienda Ospedaliera. Lo.Ma. e Sa. avrebbero colluso con Ca.Ma.per ottenere un determinato contenuto del bando relativo alla gara poi aggiudicata alla Se.; Lo.Ma. avrebbe agito come tramite della Ca.Ma. con Or., responsabile unico del procedimento, che, tuttavia, non sarebbe stato parte dell'accordo corruttivo. Proprio l'assenza del patto corruttivo renderebbe instabile la sentenza; il Tribunale avrebbe ritenuto provata la collusione dalla esistenza di una serie di elementi non dimostrativi, perché sostanzialmente riguardanti solo la carriera professionale dello stesso Or.; nel senso della inesistenza della collusione deporrebbe, in particolare, la mancata inclusione nel bando della clausola a cui era interessata la Ca.Ma., cioè quella relativa alla inclusione nel lotto unico anche del laboratorio di B. Si aggiunge che, ove pure fossero state provate le collusioni, nondimeno non vi sarebbe prova del turbamento della gara, atteso che le stesse non avevano influito sul contenuto del bando. Considerazioni analoghe vengono compiute anche per la ipotizzata collusione tra Ca.Ma. e Sa. quanto al tariffario e alla condivisione della notizia inerente la data di pubblicazione del bando. 3.10. Con il decimo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al fatto corruttivo di cui al capo E), con il quale si contesta alla Ca.Ma. di aver corrotto Massimiliano Sa., dipendente dell'Azienda ospedaliera Istituti clinici di perfezionamento con funzioni di dirigente della struttura semplice denominata "gestione e controllo dei processi organizzativi"; a fronte di una serie di atti contrari ai doveri di ufficio, a Sa. sarebbe stata promessa dalla imputata l'assunzione della moglie. Assume la ricorrente che oggetto del patto sarebbe stato l'asservimento della funzione e dunque si reitera il tema della corretta qualificazione giuridica dei fatti; si ripropongono le stesse considerazioni svolte in precedenza per il tema del tariffario in relazione al quale le interlocuzioni con la Ca.Ma. non avrebbero avuto ad oggetto la congruità dei prezzi, quanto, piuttosto, questioni tecniche come l'accorpamento delle voci: si sarebbe trattato comunque di una interlocuzione lecita quella tra stazione appaltante e aggiudicatario. Non diversamente, quanto alla informazione anticipata della pubblicazione del bando, non vi sarebbe stato alcun turbamento della gara e nessuna offesa al pubblico interesse, e, quanto agli avvisi che Sa. avrebbe fornito alla Ca.Ma. in relazione ai controlli dell'Azienda ospedaliera sul service, la stessa Corte avrebbe escluso che ciò costituirebbe un atto contrario ai doveri di ufficio. Sotto altro profilo si deduce che anche in relazione al fatto corruttivo in esame la sentenza sarebbe viziata nella parte in cui ha ritenuto provati l'accordo corruttivo e il nesso tra le prestazione corrispettive. 3.11. Con l'undicesimo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al fatto corruttivo di cui al capo J (in sentenza capo I). Il fatto è quello contestato in concorso con Al.Gi. e Na.Gi. di cui si è detto Si ripropone il tema della esistenza di margini di discrezionalità in capo ad Al.Gi., di cui pure si è detto, quanto al potere di scelta del fornitore, alla percentuale di forniture gestite da El. rispetto alle altre imprese; si ripropone il tema della configurabilità della corruzione propria in caso di attività discrezionale del pubblico ufficiale. Anche l'assunto della Corte, fatto discendere dal contenuto di una conversazione dell'8.10.2014, secondo cui Al.Gi. avrebbe anticipato a Na.Gi. i prodotti extra listino che le ditte avrebbero potuto offrire, così favorendo El. a discapito della impresa concorrente, sarebbe viziato, atteso che dalla intercettazione sarebbe evincibile solo che Al.Gi. avesse preavvisato Na.Gi. che El. avrebbe dovuto preparare preventivi per la fornitura di alcuni prodotti extralistino ma non anche la trasmissione dell'elenco dei prodotti. Sarebbe viziata la tesi per cui ogni condivisione di informazioni- quale quella di una futura e potenziale richiesta di preventivo- sarebbe un atto contrario ai doveri d'ufficio perché violativa del dovere di imparzialità. Si ripropone il tema del nesso tra le prestazioni, dell'erroneo assunto secondo cui, in ragione della corruzione, vi sarebbe stato un aumento delle forniture da parte di El., della rilevanza della pregressa collaborazione della Ba.El. con la Se., circostanza, questa, che, in realtà, avrebbe dovuto essere esplorata sotto il profilo del ragionevole dubbio della esistenza della prova certa del nesso sinallagmatico tra le prestazioni. 3.12. Con il dodicesimo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al fatto corruttivo di cui al capo P), in cui si contesta all'imputata di avere corrotto, mediante la dazione di somme di denaro, Ce.An., dipendente dell'Azienda Ospedaliera di Garbagnate Milanese e di responsabile aziendale per l'attività odontoiatrica di Limbiate e Arese svolta in service dalla società De., riconducibile alla stessa Ca.Ma.; Ce.An. avrebbe compiuto una serie di atti contrari ai doveri d'ufficio, quali: a) la partecipazione alla commissione aggiudicatrice per la gara bandita dall'Azienda ospedaliera Fatebenefratelli di Milano - poi aggiudicata alla Se. - per il servizio di odontoiatria, rispetto al quale avrebbe avuto un dovere di astensione in ragione dei rapporti d'affari con Ca.Ma.; b) l'esercitare pressioni sul direttore generale dell'Azienda Ospedaliera, Ermenegildo Ma. affinchè fornisse l'assenso per l'apertura dell'ambulatorio di Bollate, affidato alla stessa De., consistenti tra l'altro nel rappresentare a M che Ca.Ma.era sostenuta da Ri., consigliere regionale e presidente della Commissione salute del Consiglio regionale della Lombardia. Assume la ricorrente che il tema del dovere di astensione sarebbe un argomento sul quale la Corte di appello sarebbe silente e il Tribunale si sarebbe limitato ad evocarlo. Quanto all'ulteriore atto contrario, relativo alle pressioni da parte di Cetta sul direttore generale dell'Azienda per l'apertura dell'ambulatorio di Bollate, il tema attiene al se l'atto rientrasse nelle competenze dell'ufficio di appartenenza del pubblico ufficiale infedele; in tal senso, richiamati i principi sull'argomento, si evidenzia come la Corte si sarebbe limitata ad affermare che Ce.An. rivestisse la qualifica di responsabile aziendale per l'attività odontoiatrica del territorio. Si sostiene invece che Ce.An.: a) era stato responsabile aziendale per l'attività odontoiatrica svolta presso gli ambulatori di Limbiate e Arese dal 2007 al 31.12.2013, quando si era dimesso per una contestazione disciplinare; b) che l'oggetto dell'incarico a Limbiate e Arese era quello di assicurare la omogeneità del Servizio erogato dall'assistenza specialistica affidato alla De., attraverso la programmazione, l'organizzazione, la formazione e la supervisione, sia clinica che terapeutica, svolta presso gli ambulatori di Limbiate e Arese"; c) Ce.An. non aveva ricevuto nessuna nomina di responsabile dell'attività odontoiatrica presso l'ambulatorio di Bollate per l'apertura del quale avrebbe compiuto pressioni. Non sarebbe quindi ipotizzabile una forma di influenza da parte di Ce.An. rispetto a sportelli ancora inesistenti, quale quello di Bollate. Dunque, diversamente dall'affermazione della Corte, Ce.An. non era responsabile aziendale per l'attività odontoiatrica del territorio; l'ambito di competenza era limitato al servizio erogato, cioè agli ambulatori di Limbiate e Arese, e non poteva influire sulla decisione di aprire un ambulatorio a Bollate, che richiedeva una procedura composita, che coinvolgeva più soggetti tra i quali il direttore generale dell'Azienda ospedaliera, Ma. Su tale decisivo profilo, la sentenza sarebbe viziata e la stessa Corte si sarebbe limitata ad affermare che Ce.An. avrebbe compiuto pressioni sul pubblico ufficiale competente. Dunque se Ce.An. non era competente e Ma. non sarebbe mai stato coinvolto nel fatto per cui si procede, nella specie "alcun intraneus sarebbe mai stato corrotto" (così il ricorso). Né sarebbe stato correttamente valutato che la stessa Ca.Ma. riferì a Ma. di non considerare Ce.An. La prova dell'accordo sarebbe stata fatta derivare dalla contestualità temporale tra le condotte di Cetta volte a favorire Ca.Ma. e i pagamenti disposti da questa a favore del primo, compiuti tra il 2010 e il 2015; si tratta di versamenti continuati anche dopo 31.12.2013, cioè dopo le dimissioni di Ce.An.; né sarebbero state collocate temporalmente le pressioni che Cetta avrebbe compiuto nell'interesse di Ca.Ma. 3.13. Con il tredicesimo motivo di deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al fatto corruttivo di cui al capo F), in cui si contesta a Ca.Ma. di aver corrotto Lo.Ma. eRi., questi nella qualità di Consigliere regionale e Presidente della III commissione permanente del Consiglio della Regione Lombardia, mentre il primo quale consulente e, più in generale, di appartenente allo staff presidenziale della Commissione sanità della Regione Lombardia. Lo.Ma. e Ri. avrebbero compiuto atti contrari ai doveri di ufficio, consistiti nell'utilizzo del loro ruolo politico e della loro posizione al fine di favorire Ca.Ma.; in cambio i due pubblici ufficiali infedeli avrebbero ricevuto denaro e utilità. L'imputata contesta, sotto un primo profilo, l'esistenza della qualifica soggettiva e il ruolo di intranei in capo a Lo.Ma. e Ri.; le sentenze di merito sarebbero tra loro asimmetriche in ordine ai ruoli, alle competenze, alle qualifiche formali da attribuire in concreto a Lo.Ma. e Ri. Quanto a Ri., si argomenta, questi, come consigliere regionale e presidente della commissione sanità - organo collegiale del consiglio- rivestiva una carica politica e proprio ciò avrebbe dovuto indurre la Corte a verificare se l'atto oggetto del patto corruttivo fosse, nel senso indicato dalla giurisprudenza, dell'ufficio; sul punto vi sarebbe omessa motivazione. Ri. non aveva poteri decisori e neppure un potere di intervento o gerarchico sui funzionari; la stessa Corte di appello avrebbe qualificato le condotte di Ri. come induzioni o pressioni, cioè come condotte dirette ad incidere sulle competenze di altri, cioè dei reali pubblici ufficiali. Ri. non sarebbe stato cioè il terminale della corruzione e quindi non l'intraneo del reato. Considerazioni analoghe sono compiute anche per Longo che già dal Tribunale era stato considerato come extraneus rispetto ad alcuni fatti corruttivi (ambulatorio Bollate-capo P); i giudici non avrebbero verificato quali fossero gli ambiti di competenza di Lo.Ma. rispetto agli incarichi assunti. In tale contesto vengono ripercorse le singole condotte attribuite ai pubblici ufficiali. 3.14. Con il quattordicesimo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al giudizio di responsabilità per il reato associativo tra Ca.Ma., 14Ma.Pi. (socio della Ca.Ma. nella società El.) Lo.Ma., Ri. (di cui si è detto), Bo.Si. (compagna convivente di Lo.Ma.) e Pa.Lo. (compagna convivente di Ri.) (Capo A). Assume la ricorrente che la prova dell'esistenza del sodalizio sarebbe stata fatta discendere: a) dalla partecipazione dei sodali ai reati fine di cui ai capi F) e D), cioè ad un reato di corruzione e, il solo Lo.Ma. con Ca.Ma., alla connessa turbativa d'asta di cui al capo D); b) dalla esistenza di rapporti costanti tra i soggetti indicati ed aventi ad oggetto le attività e i progetti della imprenditrice sin dal 2013; c) dalle modalità di retribuzione di Lo.Ma. e Ri., compiute con ingenti somme. In tale quadro di riferimento, argomenta l'imputata, la Corte avrebbe "appiattito" (così il ricorso) l'associazione per delinquere sulla corruzione senza motivare alcunché né con riguardo al programma criminoso indeterminato e neppure al vincolo permanente, considerato peraltro che una serie di vicende contestate, originariamente ritenute rivelatrici e confermatici del vincolo associativo, sono state successivamente ritenute non penalmente rilevanti. Né le ingenti somme corrisposte dall'imputata a Ri. e Lo.Ma. potrebbero assumere rilievo ai fini della prova del reato associativo perché, al più, costituirebbero il corrispettivo sinallagmatico interno agli accordi corruttivi. 3.15. Con il quindicesimo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'art. 323 bis cod. pen., che avrebbe potuto essere concessa anche d'ufficio; sul punto la motivazione sarebbe omessa, considerato che la difesa in sede di conclusioni aveva presentato una memoria volta a comprovare l'esistenza dei presupposti per il riconoscimento della circostanza. Al riguardo era stato valorizzato il comportamento dell'imputata che, prima dell'inizio del giudizio di primo grado, aveva depositato la somma di 300.000 euro, poi sottoposta a sequestro conservativo: un atto, dunque, a carattere collaborativo 3.16. Con il sedicesimo e ultimo motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto al riconoscimento del vincolo della continuazione tra i reati oggetto del processo e quelli- di bancarotta, di truffa e di reati fiscali- oggetto della sentenza di applicazione di pena n. 269/2020 emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Monza - divenuta irrevocabile il 18.9.2020-, negato sul presupposto che mancherebbe nella specie un nesso teleologico fra i fatti distrattivi di bancarotta oggetto del diverso procedimento e quelli per cui si procede. Si assume che la verifica della esistenza dell'identità del disegno criminoso non coinciderebbe con quella riguardante il nesso teleologico che, al più, sarebbe solo un sintomo del primo; anche il fine di arricchimento personale, valorizzato dalla Corte per escludere la continuazione, inteso come causale delle violazioni, in realtà potrebbe essere rivelatore della medesimezza del disegno criminoso. Lo stesso Giudice per le indagini preliminari, si aggiunge, aveva riconosciuto la natura di reati fine dei fatti di bancarotta. In tale contesto a pagg. 119 e 120 del ricorso sono indicati i plurimi elementi che rivelerebbero l'esistenza del medesimo disegno criminoso 5. Ha proposto ricorso per cassazione Ga.St. articolando cinque motivi. A Ga.St., come detto, era stato contestato il reato di corruzione propria; il fatto è stato poi riqualificato in abuso d'ufficio dal Tribunale avuto riguardo alla sola condotta omissiva di cui al terzo paragrafo del capo M). Ga.St., dipendente della Azienda Ospedaliera di Desio e Vimercati con funzioni di supervisore clinico del servizio di odontoiatria, avrebbe omesso di effettuare le dovute segnalazioni alla direzione dell'Azienda ospedaliera e alla Autorità giudiziaria, dopo aver avuto conoscenza di comportamenti fraudolenti tenuti nella gestione del service della Se., consistiti nel raddoppio sistematico - nelle ricette relative alla prestazioni rese a carico del servizio sanitario nazionale al fine dell'ottenimento del pagamento delle relative prestazioni-del numero di impianti indicati dagli odontoiatri nelle cartelle cliniche dei pazienti. 5.1. Con il primo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla ritenuta sussistenza della qualifica soggettiva di pubblico ufficiale. Sarebbe errata l'equiparazione da parte della Corte della qualifica di revisore clinico e quella di revisore interno anche delle cartelle cliniche, con potestà di pubblica verifica; Ga.St. non sarebbe stato titolare di poteri certificativi, atteso che l'esito dei suoi controlli serviva a legittimare anche all'esterno la procedura aziendale sanitaria (in tal senso si riporta una parte della motivazione della sentenza). Sostiene in particolare, l'imputato di non avere avuto alcun compito di natura amministrativo - contabile, aspetto, questo, che giustificherebbe il mancato controllo delle ricette e che le funzioni ad esso attribuire come clinico non avessero alcuna capacità di impegnare la Pubblica amministrazione. Ga.St. avrebbe stipulato una serie di contratti con la Pubblica Amministrazione il cui oggetto prevedeva solo un'attività di supervisione clinica in odontoiatria in ambito aziendale, atta a verificare la corretta applicazione delle linee guida, dei protocolli e delle procedure sanitarie aziendali (viene riportato il contenuto dell'oggetto dell'incarico stipulato nel 2010) Sarebbe dunque errata l'affermazione della Corte secondo cui la natura pubblica e amministrativa dell'attività dell'imputato deriverebbe dall'avere avuto questi il potere di "gestione dei contenziosi e di consulente peritale dell'azienda, nonché di referente con la scuola di specializzazione", trattandosi anche in questo caso di attività clinica. 5.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al giudizio di responsabilità. La sentenza sarebbe viziata nella parte in cui, richiamando il contenuto dei contratti che legavano l'imputato all'Azienda, ha ritenuto che il ricorrente avesse il compito di controllare la correttezza delle ricette emesse dai singoli medici rispetto alla effettiva prestazione compiuta nei riguardi del paziente: si tratterrebbe di un'affermazione sfornita di prova. L'Azienda Ospedaliera aveva una sua struttura - descritta nel capitolato speciale relativo alla gara - che prevedeva un soggetto responsabile della esecuzione dell'appalto, la dott.ssa Go.An., e un soggetto referente per ogni centro gestito, tra le cui mansioni era anche prevista quella di controllare la qualità della documentazione sanitaria e di vigilare sul rispetto delle procedure predisposte dall'azienda. Il supervisore clinico assolveva ad altre funzioni- che vengono riportate - e sarebbero state altre le figure che avevano compiti più strettamente di controllo anche delle cartelle cliniche con conseguente dovere di riferire. Né sarebbero state valutate correttamente le dichiarazioni rese dai testi Castiglione e Beretta che hanno confermato gli assunti difensivi, dichiarando che Ga.St. costituiva un loro punto di riferimento per la compilazione delle cartelle e per l'aspetto clinico, aspetti, questi, che non attenevano alla compilazione delle ricette relative all'attività svolta dall'odontoiatra. La Corte, inoltre, non avrebbe correttamente valutato le mail intercorse il 9.10.2015 tra Ga.St. e la sua "superiore" dott.ssa Go.An., che, come detto, era la responsabile per la esecuzione del contratto, da cui si evince che quando all'imputato, a seguito dell'intervento del NOC, fu attribuito dalla prima il compito di verificare la conformità delle cartelle cliniche alle ricette non solo si accorse che vi era stato un raddoppio nelle prescrizioni delle ricette, ma rappresentò l'impossibilità di farsi carico di tale compito che era normalmente ripartito tra sei persone (viene riprodotto il contenuto delle mail). 5.3. Con il terzo motivo si deduce violazione di legge quanto alla ritenuta sussistenza del dolo del reato, fatta discendere dalla conoscenza nel 2015 da parte dell'imputato del sistema di duplicazione delle prescrizioni sulla ricetta degli impianti eseguiti, quando all'imputato fu chiesto di eseguire un controllo "a tappeto dell'eventuale sistema" (così il ricorso). Sarebbe tuttavia provato che prima del 2015 non vi erano state segnalazioni di comportamenti anomali da parte di nessun coordinatore infermieristico e sul tema vi è una lunga ricostruzione volta dimostrare che Ga.St. venne a conoscenza del sistema dei raddoppi solo nel 2015 e che, su incarico della Go.An., provvide alle dovute verifiche Ciò giustificherebbe la mancata denuncia precedente. 5.4. Con il quarto motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla prescrizione del reato, maturata, a dire del ricorrente, prima della sentenza impugnata. Secondo la Corte il reato non si sarebbe estinto perché, trattandosi di un reato omissivo proprio, la permanenza sussisterebbe fino quando sarebbe rimasta la qualifica soggettiva e si sarebbe verificato l'evento. Si assume invece che il delitto di abuso d'ufficio sarebbe reato istantaneo e che nella fattispecie il termine di prescrizione sarebbe decorso dal 1 luglio 2014, cioè da quando, come si dirà, Ga.St. avrebbe "supposto" l'esistenza di un sistema illecito del raddoppio del numero di prescrizioni. 5.5. Con il quinto motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quando alla configurabilità del reato; il tema attiene alle modifiche apportate dal d.l. n. 76 del 16 luglio 2020 all'art. 323 cod. pen. e alla insussistenza nella specie di una norma di legge violata. Avrebbe errato la Corte nel fare riferimento all'art. 361 cod. pen. e alla posizione di garanzia assunta dal ricorrente; sostiene l'imputato che non solo non sarebbe stata contestata e accertata la violazione dell'art. 361 cod. pen. ma che la norma primaria a cui dovrebbe essere attribuito rilievo dovrebbe attenere al potere amministrativo esercitato dal pubblico ufficiale, cioè ad un dettato normativo specificamente previsto e, dunque, non potrebbe farsi riferimento ad una norma generica quale quella invocata. Diritto CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi proposti nell'interesse di Al.Gi. e di Na.Gi. sono infondati, mentre quello proposti da Ga.St.e da Ca.Ma.sono fondati nei limiti di cui si dirà. Sul piano del metodo è utile innanzitutto valutare i motivi con cui i ricorrenti hanno dedotto questioni processuali. Nel valutare detti motivi è utile segnalare come la Corte di Cassazione abbia in molteplici occasioni chiarito che non sono denunciabili, con il ricorso per cassazione, dei «vizi della motivazione nelle questioni di diritto affrontate dal giudice di merito in relazione alle argomentazioni giuridiche delle parti» (Sez. 5, n. 4173 del 22/02/1994, Marzola, Rv. 197993), in quanto o le medesime «sono fondate, e allora il fatto che il giudice le abbia disattese (motivatamente o meno) dà luogo al diverso motivo di censura costituito dalla violazione di legge, ovvero sono infondate, ed in tal caso il provvedimento con cui il giudice le abbia disattese non può dar luogo ad alcun vizio di legittimità della pronuncia giudiziale, avuto anche riguardo al disposto di cui all'art. 619 cod. proc. pen., che consente di correggere, ove necessario, la motivazione quando la decisione in diritto sia comunque corretta» (Sez. 1, n. 49237 del 22/09/2016, dep. 2017, Emanuele, Rv. 271451). Le questioni di diritto proposte, dunque, devono essere valutate al fine di verificare se i giudici di merito abbiano fatto corretta applicazione della legge. 2. Sulla questione di competenza territoriale dedotta con il primo motivo di ricorso da Al.Gi. 2.1. Si è già detto di come secondo l'imputato, in ragione della struttura della contestazione, il momento consumativo della corruzione contestata al capo J) del decreto di giudizio immediato coinciderebbe con il ricevimento di denaro e di utilità e non sarebbe dunque decisiva, ai fini della individuazione della competenza territoriale, l'indicazione in calce alla imputazione - come locus commissi delieti - della città di A, in cui, secondo la prospettazione d'accusa, sarebbe stato invece concluso il patto corruttivo. Dunque, giudice competente sarebbe, a dire dell'imputato, il Tribunale di Bologna, essendo Imola il luogo in cui si sarebbe vericata l'ultima dazione. 2.2. Al di là delle considerazioni compiute dai Giudici di merito, dalla lettura della imputazione emerge chiaramente come all'imputato si contesti: a) di essersi posto sistematicamente a servizio di Ca.Ma. e Na.Gi.; b) di avere compiuto nell'ambito dell'asservimento della funzione, alcuni atti contrari ai doveri di ufficio; c) di avere ricevuto alcune attività (cfr. testualmente imputazione). Una imputazione in cui il reato di corruzione viene contestato di fatto facendo riferimento alla dazione delle utilità e con permanenza dal febbraio del 2014. Nel caso di specie, dunque, non è in contestazione che il fatto corruttivo, nella sua complessiva articolazione e nella sua evoluzione temporale, costituisca comunque l'esplicitazione, la manifestazione della operatività di un unico accordo, che conserva la sua unicità strutturale, con l'effetto ineludibile che viene in considerazione una sola corruzione e non una pluralità di corruzioni. Un unico patto corruttivo sviluppatosi nel tempo in relazione alla condotta del pubblico ufficiale corrotto, che, in attuazione dell'impegno di "curare" l'interesse del corruttore, pone in essere anche atti contrari ai doveri d'ufficio, e del corruttore, che garantisce utilità. Ciò giustifica l'insegnamento secondo cui il compimento dell'atto da parte del pubblico ufficiale non fa parte della struttura del reato e che la plurima attività pubblica posta eventualmente in essere dal pubblico ufficiale corrotto, in esecuzione di un unico accordo illecito concluso, non dà luogo alla continuazione nel reato, la quale è legata soltanto alla esistenza di pluralità di pattuizioni. Se l'accettazione della promessa e la ricezione dell'utilità sono unitarie, nel senso che sono riconducibili geneticamente alla stessa fonte, anche se in funzione di una pluralità di atti da compiere, il reato è e rimane unico (in tal senso, lucidamente, Sez.6, n. 33435 del 04/05/2006, Battistella, Rv. 234360; in senso sostanzialmente conforme, Sez. U, n. 15208 del 25/02/2010, Mills, Rv. 246583 e, più recentemente, Sez. 6, n. 51126 del 18/07/2019, Evangelisti, Rv. 278192). Ciò giustifica la conseguente affermazione di principio secondo cui lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, con episodi sia di atti contrari ai doveri d'ufficio che di atti conformi o non contrari a tali doveri, configura una progressione criminosa ed un unico reato permanente, previsto dall'art. 319 cod. pen., in cui è assorbita la meno grave fattispecie di cui all'art. 318 stesso codice, nell'ambito del quale le singole dazioni eventualmente effettuate, sinallagmaticamente connesse all'esercizio della pubblica funzione, si atteggiano a momenti consumativi di un unico reato di corruzione propria, con conseguente decorrenza del termine di prescrizione dall'ultima di esse (Sez. 6, n. 16781 del 21/10/2020, dep. 2021, Crialese, Rv. 281089; Sez. 6, n. 51126 del 18/07/2019 Evangelisti, cit.; Sez. 6, n. 40237 del 07/07/2016, Giangreco, Rv. 267634). Dunque un unico reato permanente. Ne consegue che ai fini della individuazione del giudice territorialmente competente è necessario fare riferimento all'art. 8, comma 3, cod. proc. pen. secondo cui in caso di reato permanente occorre avere riguardo al luogo in cui è iniziata la consumazione del reato. Nel caso di specie, la Corte pur non collocando temporalmente l'accordo (cfr. pag. 114 sentenza) non dubita che l'accordo, cioè l'atto che perfeziona il reato, da cui decorre la consumazione della permanenza, sarebbe avvenuto a Monza, con conseguente competenza territoriale di quel Tribunale. Peraltro sulla possibilità che l'accordo corruttivo sia stato concluso in un luogo diverso da quello indicato dalla Corte, il motivo di ricorso è obiettivamente generico, non essendo stato dedotto alcunché. Ne consegue l'infondatezza, ai limiti della inammissibilità, del motivo. 3. Sulla questione di incompetenza territoriale dedotta nell'interesse di Na.Gi. (secondo motivo di ricorso). Considerazioni simili devono essere compiute anche in relazione alla eccezione di incompetenza territoriale dedotta da Na.Gi. con il secondo motivo di ricorso. Secondo il ricorrente i reati contestati avrebbero dovuto determinare l'individuazione del Tribunale di Milano come giudice naturale competente in ragione del delitto di cui al capo P) (si tratta di una ipotesi di corruzione attribuita a Ca.Ma.e ad Ce.An., giudicato separatamente) che avrebbe attratto la competenza territoriale per connessione per tutti gli altri: a Milano infatti sarebbe avvenuta la percezione illecita delle utilità da parte di Ce.An. Il reato di cui al capo P) è contestato formalmente così "in luogo indeterminato dal 2010 in permanenza attuale"; si tratta anche in questo caso di una imputazione strutturata facendo riferimento all'asservimento delle funzioni (art. 318 cod. pen.) e al compimento di atti contrari ai doveri di ufficio (art. 319 cod. pen.). In tale contesto il motivo di ricorso rivela la sua genericità non essendo stato spiegato: a) se e che tipo di connessione sarebbe ravvisabile tra il reato per cui si procede e gli altri oggetto del processo, attesa la mancanza di identità soggettiva; b) perché, posto che sia configurabile una connessione, il reato di cui al capo P), dovrebbe attrarre la competenza per territorio tenuto conto del carattere aperto della contestazione della permanenza; c) perché, in ragione di quanto in precedenza detto con riguardo alla questione dei competenza dedotta nell'interesse di Al.Gi., l'accordo corruttivo nella specie sarebbe stato concluso a Milano; d) perché, pur volendo ragionare con l'imputato, il luogo di emissione delle fatture da parte delle società riconducibili al privato corruttore e il luogo di residenza del pubblico ufficiale corrotto comproverebbero che le dazioni delle utilità sarebbero avvenute a Milano. Un motivo di ricorso inammissibile perché aspecifico. 4. Sulla questione della nullità della richiesta di giudizio immediato e del decreto con cui fu disposto il giudizio immediato dedotta con il primo motivo del ricorso proposto nell'interesse di Na.Gi. 4.1. Si è già detto di come, secondo l'imputato: -il 5.5.2016 il Pubblico Ministero presso il Tribunale di Monza chiese al Giudice per le indagini preliminari di emettere il decreto di giudizio immediato rappresentando, tra l'altro, l'acquisizione dei verbali di interrogatorio e trasmettendo il fascicolo "contenente la notizia di reato, la documentazione relativa alle indagini espletate, i verbali degli atti eventualmente compiuti davanti al GIP" - il 9.5.2016 il Giudice per le indagini preliminari emise il decreto di giudizio immediato, fissando come prima udienza davanti al Tribunale quella del 14.7.2016; - nel decreto, notificato il 10.5.2016, era contenuto l'avviso che gli atti compiuti durante le indagini preliminari erano stati depositati e che l'imputato avrebbe potuto chiedere, entro il termine del 25.5.2016, il giudizio immediato e l'applicazione della pena; - il 6 luglio era decorso il termine per il deposito delle liste testimoniali; - nel pomeriggio dell'08/07/2016 il Pubblico Ministero aveva notificato un nuovo avviso inerente il deposito di ulteriore documentazione inerente non solo l'attività integrativa di indagine compiuta ai sensi dell'art. 430 cod. proc. pen., ma anche i verbali di interrogatorio resi da numerosi soggetti - tutti indicati nel ricorso- riferibili alle indagini preliminari e compiuti tra il 22.2.2016 e il 24.2.2016, quindi precedenti l'esercizio dell'azione penale; - nello stesso avviso era specificato come quei verbali fossero riferibili all'interrogatorio di garanzia "a suo tempo non depositati all'atto della richiesta di giudizio immediato e non oggetto di copia su supporto informatico" (così il ricorso). Dunque, si sostiene, una serie di atti che non erano stati sottoposti al Giudice per l'esercizio delle sue prerogative quanto alla emissione del decreto di giudizio immediato, e non depositati nei termini previsti per l'esercizio dei diritti difensivi, comprensivi anche le eventuali scelte e richieste ai sensi dell'art. 458 cod. proc. pen. Una questione di nullità della richiesta e del giudizio immediato dedotta davanti al Tribunale evidenziando, in analogia con il comma 2 dell'art 416 c.p.p., come il comma 2 dell'art. 454 c.p.p. imponga al PM di trasmettere al gip l'intero fascicolo delle indagini preliminari. 4.2. Il motivo è inammissibile perché generico. Dalla lettura della sentenza emessa all'esito del giudizio di primo grado, si evince che l'omissione del deposito dei verbali di interrogatorio riguarderebbe solo la copia cartacea degli atti, atteso che "dalla documentazione versata in atti, in particolare dall'indice degli atti trasmessi al Gup... risulta che sono stati depositati prima della richiesta di rinvio a giudizio immediato, le trascrizioni integrali, unitamente ai CD contenenti le registrazioni di detti interrogatori" (così testualmente il Tribunale a pag. 14 della sentenza). Rispetto a tale assunto, nulla è stato dedotto, essendosi limitato il difensore a eccepire la mancata trasmissione dei verbali cartacei, senza nessuna argomentazione specifica rispetto all'affermazione del Tribunale e senza allegare alcunché al fine di comprovare che davvero non fossero stati trasmesse le trascrizioni integrali degli interrogatori. Sotto altro profilo, nulla è stato dedotto sul pregiudizio concreto che il diritto di difesa avrebbe subito, non essendo stato nemmeno indicato: a) quale sia il contenuto di dette dichiarazioni; b) se dette dichiarazioni riguardassero l'imputato; c) quale fosse il peso di dette dichiarazioni rispetto agli specifici fatti per il quale l'imputato è chiamato a rispondere; d) se dette dichiarazioni siano state utilizzate nei riguardi dell'imputato. Un motivo strutturalmente generico e perciò inammissibile. 5. Sulla inutilizzabilità delle conversazioni intercettate e sulla questione dedotta con il terzo motivo di ricorso proposto da Na.Gi. È inammissibile anche il terzo motivo di ricorso proposto nell'interesse di Na.Gi. e relativo alla utilizzabilità del contenuto delle conversazioni intercettate, avendo i Giudici di merito chiarito, sulla base della testimonianza dell'ufficiale di polizia giudiziaria Bo. e della documentazione acquista, come le captazioni, a differenza degli assunti difensivi, non siano state compiute a Milano, ma a Monza. Dunque è smentito l'assunto difensivo, posto a fondamento del motivo di ricorso, e cioè che la captazioni sarebbero state compiute presso gli uffici del Comando Provinciale dei Carabinieri di Milano; quelle conversazioni furono compiute utilizzando utenze di apparecchi che non erano a Milano ma a Monza. Chiarito ciò è possibile allora valutare i singoli ricorsi. 6. La posizione di Ca.Ma., 6.1. In via preliminare è utile chiarire che, nell'esaminare i singoli motivi di ricorso, al fine di individuare i reati di volta in volta presi in considerazione si farà riferimento alla contenuto del decreto che ha disposto il giudizio immediato. In tal senso si procede alla esplicazione correttiva del dispositivo della sentenza impugnata nel senso che, facendo riferimento al decreto di giudizio immediato e non alla intestazione della sentenza, i reati per i quali è stata dichiarata la estinzione dei reati per prescrizione sono quelli di cui ai capi D) (turbativa d'asta contestata in concorso con Lo.Ma. e Sa.), H) (corruzione di Pe.Pa.), I) (corruzione di 14Ma.Pi.), S) (art. 7, comma 3, L. 195 del 1974). 6.2. Ciò detto, è inammissibile, perché manifestamente infondato, il primo motivo di ricorso con cui si è dedotta la violazione del principio di correlazione della sentenza quanto ai capi di imputazione H), I), J), L), M), N) del decreto di giudizio immediato, in sentenza indicati come capi G), H, I, K, L, M) Si è già detto di come, con il motivo in esame, si deduca altresì la nullità della sentenza per carenza assoluta di motivazione quanto alla pronuncia di non doversi procedere per il Capo G). 6.2.1. Al di là della obiettiva confusione creata dalla Corte di appello che, come detto, ha fatto riferimento non al decreto che aveva disposto il giudizio immediato ma ad una sua autonoma e diversa indicazione dei singoli reati contestati, non sussiste nella specie violazione del principio di correlazione, non essendovi stata nessuna immutazione dei fatti ma solo una diversa, evitabile, indicazione formale degli stessi. La Corte di appello, cioè, non ha confermato il giudizio di colpevolezza per fatti diversi rispetto a quelli contestati, ma ha solo dato ai singoli fatti una rubrica diversa nella intestazione della sentenza, così creando una non richiesta confusione. Peraltro, rispetto ad una difesa articolatissima che si è sviluppata con atti di impugnazione di oltre cento pagine con cui si è contestato in modo puntuale ogni rivolo della prospettazione d'accusa, ogni singolo elemento valorizzato per ogni reato al fine del giudizio di penale responsabilità, il motivo è strutturalmente generico, non essendo stato spiegato ed indicato quale prerogativa difensiva sia stata in concreto inficiata, quale diritto e quale valore siano stati danneggiati a seguito della iniziativa della Corte di appello di Milano, di cui si è detto. 6.2.2. Non diversamente, alla luce della correzione in precedenza compiuta, è inammissibile anche la parte del motivo che fa riferimento al capo G) della imputazione. Il capo G) del decreto che ha disposto il giudizio immediato aveva ad oggetto il delitto di riciclaggio contestato ad altro soggetto, tale Lo.St. Il fatto oggetto del capo G) della sentenza impugnata, per il quale la Corte ha dichiarato non doversi procedere per intervenuta estinzione del reato motivando a pag. 89 e ss. attiene invece al capo H) del decreto che ha disposto il giudizio e in tal senso si è, come in precedenza detto, proceduto a correggere il dispositivo. Dunque non è esatto affermare che l'imputata sia stata condannata per un reato a lei non contestato. 6.2.3. Non diversamente, quanto al fatto corruttivo posto in essere in concorso con 14Ma.Pi., il reato di cui si discute è quello di cui al capo I) del decreto che ha disposto il giudizio che corrisponde a quello di cui al capo H) della intestazione della sentenza impugnata per il quale la Corte ha dichiarato la estinzione per prescrizione. 6.3. È fondato il secondo motivo di ricorso che attiene al capo K) del decreto che ha disposto il giudizio immediato, riportato in sentenza alla lett. J). Si tratta della turbativa d'asta relativa alla gara indetta dall'Azienda ospedaliera di Desio e Vimercate il 29.4.2015; si contesta all'imputata, in concorso con altri (Ca.; Ga. e Ri. per i quali si è proceduto separatamente), di aver disposto con collusioni e mezzi fraudolenti nel bando di gara una serie di previsioni e di comportamenti - quelli indicati nella imputazione - finalizzati a dissuadere e a rendere di fatto impossibile la partecipazione alla gara ad aziende diverse dalla Se., cioè da quella riferibile alla ricorrente. 6.3.1. A fronte di specifici motivi di appello, secondo la ricorrente, la motivazione sarebbe viziata quanto alla indicazione e alla prova delle condotte collusive concretamente tenute dai soggetti che avrebbero concertato il bando di gara e alla prova relativa a come dette condotte abbiano inciso su! turbamento, cioè sull'evento del reato. In particolare, il tema attiene innanzitutto alla prova della condotta collusiva e alla spiegazione della stessa. Il Tribunale, argomenta l'imputata, aveva accertato una sola condotta collusiva, quella relativa alla previsione del bando che imponeva il sopralluogo obbligatorio a pena di esclusione, e avrebbe erroneamente ritenuto che proprio la prova di detta condotta collusiva rivelerebbe - attraverso una sorta di effetto traslativo- la prova della collusione anche per le altre clausole, che avrebbero avuto come effetto una riduzione della concorrenza. Si aggiunge che con l'atto di appello si era dedotta la questione del vizio di motivazione quanto alla prova della collusione in relazione alle altre clausole indicate nel bando e oggetto della imputazione. In tale contesto vengono ripercorse le singole condotte collusive contestate: 1) l'affidamento in un unico lotto della gestione di dodici ambulatori odontoiatrici che, secondo la Corte, rispondeva ad una specifica richiesta della Ca.Ma.: una condotta collusiva la cui prova deriverebbe da alcune conversazioni intercettate e riportate a pag. 66 della sentenza di primo grado; secondo l'imputata, invece, a pag. 66 non sarebbe riportata alcuna conversazione e non vi sarebbe in atti nemmeno la prova della richiesta da parte dell'imputata inerente l'indizione di gara a lotto unico. Si premette che la gara a lotto unico fu bandita il 29.4.2015 e che successivamente con delibera del 10.6.2015 l'Azienda ampliò i termini per il sopralluogo e per la presentazione delle offerte in autotutela. La Corte avrebbe, da una parte, affermato che la delibera in autotutela sarebbe successiva al momento consumativo del reato, coincidente con la pubblicazione del bando, e, dall'altra, che l'adozione del lotto unico sarebbe avvenuta proprio con la delibera del giugno 2015. Si fa riferimento per interpretare il ragionamento della Corte ad una conversazione dell'8.6.2015 tra l'imputata a l'avv. Avolio, soggetto estraneo al processo, in cui la prima avrebbe chiesto e ottenuto da questi conferma che il lotto rimanesse unico. Dunque una conversazione: a) successiva alla pubblicazione del bando che, secondo la Corte, costituirebbe la emersione consumativa del reato; b) che non fornisce la prova che l'imputata avesse chiesto l'indizione di una gara a lotto unico e che non rivela nemmeno la collusione con i diversi concorrenti nel reato; 2) la previsione del requisito del fatturato minimo di 30 milioni. Si tratterebbe di una condotta collusiva tra l'Azienda Ospedaliera e l'imputata del tutto indimostrata e la cui valenza accusatoria viene tuttavia fatta discendere dalla Corte di appello sostanzialmente dalla esistenza della clausola, "letta alla luce del contesto emergente dalle intercettazioni", in quanto considerata funzionale e ritagliata su misura di Se.. Si assume che, pur volendo ragionare con la Corte, la clausola costituirebbe al più l'evento della condotta perturbatrice ma sarebbe muta in relazione alla prova della condotta di collusione, che, invece, avrebbe dovuto essere accertata. Né tale prova avrebbe potuto essere fatta derivare dal contenuto di un'altra conversazione (la n. 5645 del 9.6.2015) relativa alla preoccupazione della Ca.Ma. che un'altra impresa, che aveva già impugnato il bando al Tar, potesse censurare successivamente anche la clausola inerente il fatturato minimo, atteso che anche in tal caso mancherebbe la prova della collusione e della concertazione di quella clausola; 3) la previsione di termini ristretti per la presentazione dell'offerta e della richiesta di sopralluogo, nonché la pubblicazione dell'avviso in G.U. il giorno 8 maggio 2015. La Corte, da una parte, avrebbe ritenuto illegittime dette clausole, modificate in via di autotutela, ma non avrebbe spiegato perché lo fossero e neppure- nonostante sul punto fosse stata sollecitata a farlo- quali norme avrebbero violato quelle clausole e, dall'altra, non avrebbe spiegato perché vi sarebbe la prova della collusione tra l'imputata e gli altri concorrenti nel reato; 4) la previsione del sopralluogo obbligatorio a pena di inammissibilità, di cui si è già detto, per la quale emergerebbe dagli atti una espressa richiesta della Ca.Ma.; la prova di detta richiesta deriverebbe dal contenuto di una conversazione. Diversamente da quanto affermato dalla Corte, aggiunge l'imputata, con l'atto di appello si era evidenziato come dall'intero materiale intercettato fossero emerse: a) interlocuzioni della Ca.Ma. con i propri collaboratori e, quanto ai soggetti esterni, solo con Avolio e Go.An.; non vi sarebbe dunque nessuna conversazione con i soggetti compartecipi del reato e le stesse tre conversazioni con Go.An. rivelerebbero al più un recepimento della imputata delle informazioni da quella fornite relative alla tempistica del bando e alla definizione del tariffaria (circostanza estranea alla contestazione); la conversazione con l'avv. Avolio, di cui si è detto, sarebbe successiva alla consumazione del reato. Quanto alle conversazioni con i collaboratori, esse confermano come Ca.Ma. non avesse una previa conoscenza del bando. Sotto altro profilo si censura l'affermazione della Corte secondo cui il punto nodale, al fine della prova del reato, non consisterebbe nella formale conformità del bando alla legge, bensì nella sua illiceità derivante dalla intromissione della Ca.Ma. nella predisposizione dello stesso, cioè nell'accordo sottostante. Secondo la ricorrente, invece, essendo il reato di cui all'art. 353 cod. pen. un reato di evento di pericolo, anche la prova delle collusioni non sarebbe stata sufficiente alla integrazione del reato essendo invece necessaria anche la prova del turbamento. La Corte, pur sollecitata esplicitamente sul punto con la impugnazione, avrebbe ritenuto sufficiente la prova della condotta, cioè delle collusioni finalizzate a favorire la Ca.Ma. pretermettendo tuttavia l'analisi relativa al se quelle condotte avessero causato un turbamento, almeno potenziale, della gara. Occorreva cioè almeno la prova della idoneità degli atti a influenzare l'andamento della gara; sul punto, la motivazione sarebbe silente e il turbamento sarebbe stato considerato in re ipsa, cioè come automaticamente derivante dalla prova della collusione a sua volta ritenuta provata dalla presenza di quelle clausole nel bando: clausole che, come detto, al più costituirebbero l'evento del reato. 6.3.2. Il ragionamento della Corte è viziato. L'intero impianto accusatorio ruota su un assunto costitutivo e cioè che la ricorrente avrebbe colluso con i preposti alla gara per predisporre un bando che in qualche modo favorisse la sua impresa e dissuadesse le altre imprese dal partecipare. Dunque era necessario fornire la prova della collusione della imputata con i preposti e quella dell'effetto di tale collusione, cioè del turbamento della gara. 6.3.3. Quanto alla collusione, la Corte di cassazione ha chiarito in più occasioni che, ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art. 353 cod. pen., possono rilevare le «collusioni» tra il preposto alla gara ed uno dei concorrenti e si è spiegato come la circostanza aggravante di cui all'art. 353, comma secondo, cod. pen., riferita al soggetto preposto alla gara per il solo fatto della funzione ricoperta, abbia riguardo a tutte le condotte previste dal primo comma del medesimo articolo (così, espressamente, Sez. 6, n. 57521 del 09/11/2017, Vigato, Rv. 271728; Sez. 6, n. 28157 del 17/06/2014, Luce, Rv. 261903; analoghe conclusioni, implicitamente, alla luce della fattispecie esaminata, sono raggiunte da Sez. 6, n. 37337 del 10/07/2003, D'Amico, Rv. 227320). L'esistenza dell'accordo collusivo diretto ad influire sul normale svolgimento del procedimento può essere dedotta sulla base di una valutazione complessiva che tenga conto di elementi indiziari; l'accordo attuato mediante la fornitura di suggerimenti dal soggetto preposto alla gara, sulla base della propria esperienza e delle proprie competenze professionali, eventualmente avvalendosi di notizie riservate, ad uno dei concorrenti al fine di aiutarlo ad individuare il miglior contenuto dell'offerta per aggiudicarsi la gara costituisce condotta di collusione rilevante ai fini dell'integrazione della fattispecie di cui all'art. 353 cod. pen.: si tratta di un contributo conoscitivo indebito, offerto da chi dovrebbe garantire la correttezza e quindi la parità di condizioni dei concorrenti, a vantaggio di uno solo di essi, e, quindi, a danno degli altri, con modalità idonee ad influire sul normale svolgimento delle offerte. (Sez. 6, n. 4113 del 16/05/2019, dep. 2020, Testa, Rv. 278111). 6.3.4. Quanto al turbamento della gara, è utile fare innanzitutto riferimento ad alcuni principi consolidati in tema di turbata libertà degli incanti. L'art. 353 cod. pen. configura un reato di evento di pericolo. È stato correttamente fatto rilevare che, ai fini della integrazione del reato in esame, è necessaria la realizzazione di una condotta collusiva, sempre che questa produca l'effetto di impedire o di turbare l'andamento di una gara indetta da una pubblica amministrazione. Dunque, si è chiarito, la fattispecie in esame può considerarsi come reato di pericolo solo nel senso che il reato sussiste anche senza l'effettivo conseguimento del risultato perseguito dai soggetti agenti colludenti, essendo sufficiente che gli accordi collusivi siano idonei a influenzare l'andamento della gara (v. tra le altre Sez. 6, n. 12821 del 11/03/2013, Adanni, Rv. 254906; Sez. 6, n.12298 del 16/01/2012, Citarella, Rv. 252555; Sez. 6, n.6883 del 24/06/2011, Actis, n.m.). Si è lucidamente spiegato tuttavia che la fattispecie in esame più correttamente deve essere inquadrata nei reati di evento (inteso in senso naturalistico), dovendo essere accertato il verificarsi dell'impedimento della gara o del suo turbamento, e quindi la potenziale incidenza di una simile fraudolenta condotta sul futuro risultato della gara, (così, Sez. 6 n. 28970 del 24/04/2013 Sonn, Rv. 255625). In particolare, per "turbamento" deve intendersi la influenza della condotta collusiva sulle regolari procedure di gara, essendo irrilevante che il risultato di essa sia o meno conforme a quello che si sarebbe prodotto senza tali interferenze. Il turbamento si manifesta con il disturbo, l'alterazione, il condizionamento, lo sviamento del normale iter del procedimento in ragione della finalità di inquinamento del futuro contenuto del bando o di un atto a questo equipollente; uno sviamento volto a strumentalizzare la fissazione delle regole di partecipazione per "condizionare" le modalità di scelta del contraente da parte della pubblica amministrazione (Sez. 6, n. 41094 del 31/03/2022, Uggetti, non massimata). Questo spiega la ricorrente affermazione della Corte secondo cui non occorre che l'azione tipica determini un danno effettivo alla regolarità della gara, ma è sufficiente anche solo che essa produca un "danno mediato e potenziale", costituito dalla semplice "idoneità" degli atti ad influenzare l'andamento della gara (tra le tante, Sez. 6, n. 10272 del 23/01/2019, Cesosimo, Rv. 275163), senza che sia necessario quindi dimostrare un'effettiva alterazione dei suoi risultati (Sez. 2, n. 43408 del 23/06/2016, Martinico, Rv. 267967). L'evento naturalistico del reato richiede infatti, oltre all'ipotesi dell'impedimento della gara o dell'allontanamento degli offerenti, che sia stato realizzato anche solo il turbamento della gara, situazione questa che è integrata da una condotta che abbia anche soltanto influito sulla sua regolare procedura, alterandone lo svolgimento (in tal senso, il turbamento può consistere anche nello "sviamento" del regolare svolgimento della gara, tale da determinarne uno sviluppo anomalo). Onde evitare di conferire rilievo penale a qualsiasi "comportamento perturbatore", la condotta tipica deve essere idonea a ledere i beni giuridici protetti dalla norma, che si identificano non solo con l'interesse pubblico alla libera concorrenza, ma anche con l'interesse pubblico al libero "gioco" della maggiorazione delle offerte, a garanzia degli interessi della pubblica amministrazione (così, Sez. 6, n. 41094, del 31/03/2022, Uggetti, non massimata; Sez. 6, n. 12821 del 11/03/2013, Adanni, Rv. 254906; in senso conforme, tra tante, Sez. 2, n. 7013 del 05/11/2018, dep. 2019, Morabito, non mass.; Sez. 6, n. 2989 del 15/01/2019, Filippelli, non mass.). Detti principi devono essere posti peraltro in connessione con la disposizione normativa di cui all'art. 353-bis cod. pen., introdotta dal legislatore con l'art. 10 della legge 13 agosto 2010, n. 136 (Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia) con l'obiettivo di sterilizzare le condotte finalizzate a turbare le fasi preliminari di una gara, così da arginare i possibili vuoti di tutela che la disposizione di cui all'art. 353 cod. pen. aveva creato anche a seguito di indirizzi giurisprudenziali secondo cui il reato di turbata libertà degli incanti, anche sub specie di tentativo, non sarebbe stato configurabile nei casi in cui alla commissione di una delle condotte ivi enucleate non faccia seguito la pubblicazione del bando di gara e, quindi, il formale avvio della stessa procedura selettiva (in tal senso, da ultimo, Sez. 5, n. 26556 del 13/04/2021, Giamogante, Rv. 281470). Come si legge nei lavori preparatori, con il reato in questione sarebbe stato colmato un vuoto di tutela. La ratio della norma è normalmente individuata nella esigenze di anticipare la tutela penale, rispetto al momento di effettiva indizione formale della gara; la norma, si sostiene, mira a prevenire la preparazione e l'approvazione di bandi personalizzati e calibrati proprio sulle caratteristiche di determinati operatori, ed a preservare il principio di libertà di concorrenza e la salvaguardia degli interessi della pubblica amministrazione. La disposizione è concepita per punire contegni orientati a favorire taluno degli interessati alla commessa a scapito di altri e, più esattamente, a conculcare la parità tra i concorrenti e la libera dialettica economica, ponendosi, dunque, al servizio della libertà di concorrenza intesa quale bene funzionale ad assicurare ai pubblici poteri l'individuazione del migliore offerente. Il reato si consuma indipendentemente dalla realizzazione del fine, essendo sufficiente che sia messa in pericolo la correttezza della procedura amministrativa volta a stabilire il contenuto del bando, in ciò consumandosi il suo turbamento. Non è necessario cioè che il contenuto del bando, o di un atto ad esso equipollente, venga effettivamente inquinato in modo tale da condizionare la scelta del contraente (cfr., tra le tante, Sez. 6, n. 29267 del 5/4/2018, Baccari, Rv. 273449; Sez. 6, n. 1 del 02/12/2014, dep. 2015, Pedrotti, Rv. 262917). L'azione delittuosa, pertanto, consiste nel turbare mediante atti predeterminati il procedimento amministrativo di formazione del bando, allo scopo di condizionare la scelta del contraente. Poiché il condizionamento del contenuto del bando è il fine dell'azione, è evidente che il reato si consuma indipendentemente dalla realizzazione del fine medesimo. Per integrare il delitto, quindi, non è necessario che il contenuto del bando venga effettivamente modificato in modo tale da condizionare la scelta del contraente, ne', a maggior ragione, che la scelta del contraente venga effettivamente condizionata. È sufficiente, invece, che si verifichi un turbamento del processo amministrativo, ossia che la correttezza della procedura di predisposizione del bando sia messa concretamente in pericolo (Sez. 6, n. 44896 del 22/10/2013, cit.), attraverso l'alterazione o lo sviamento del suo regolare svolgimento, e con la presenza di un dolo specifico qualificato dal fine di condizionare le modalità di scelta del contraente da parte della Pubblica Amministrazione. 6.3.5. La Corte di appello non ha fatto corretta applicazione dei principi indicati. La Corte di appello ha ritenuto che: - la illiceità delle clausole sarebbe comprovata dalla intromissione della Ca.Ma. nella predisposizione del bando; - la prova della collusione sarebbe derivante anche dalla circostanza che l'unica clausola chiaramente contraria alla disciplina in materia di appalti- cioè la previsione di termini ristretti per la presentazione delle offerte e delle domande di sopralluogo- era stata stigmatizzata dal Giudice amministrativo e modificata in via di autotutela dalla Azienda; - quanto alla predisposizione del bando a lotto unico, che detta previsione, avvenuta con delibera del 10.6.2015, pur in astratto legittima, rispondeva ad una espressa richiesta di Ca.Ma.; - anche le altre clausole, pur in astratto legittime, sarebbero inquinate per essere funzionali all'interesse della Ca.Ma. Si tratta di un ragionamento viziato e di una errata applicazione della legge penale. Pur investita da specifici motivi, ciò che la Corte non ha innanzitutto spiegato è sulla base di quali elementi sia stata ritenuta raggiunta la prova della collusione tra Ca.Ma., da una parte, e Ga., Ca. e Ri., cioè con i preposti alla gara, dall'altra. Sul punto la stessa ricostruzione del Tribunale valorizza, al fine di inferire la prova della collusione, sostanzialmente solo i rapporti tra Ca.Ma., Go.An. e 14Ma.Pi., oggetto di specifica imputazione di corruzione, e fra la stessa Ca.Ma.e Av., soggetto terzo, ma non chiarisce se, in che misura, quando e come i preposti abbiano recepito quelle clausole perché in accordo con l'imputata. Sul punto la sentenza impugnata è silente. Non diversamente, la sentenza è silente anche nella parte in cui si è ritenuto che il turbamento della gara sia derivato per il solo fatto che dette clausole fossero state inserite nel bando, senza tuttavia spiegare perché quelle clausole, pur legittime, abbiano avuto l'idoneità ad alterare, a condizionare, a sviare il normale iter del procedimento in ragione della finalità di inquinamento; uno sviamento volto a inquinare la libera concorrenza e l'interesse pubblico al libero "gioco" della maggiorazione delle offerte. Ciò che avrebbe dovuto essere provato non è la mera presenza di quelle clausole nel bando e neppure il mero interesse ad ottenerle da parte della Ca.Ma. - che al più può assumere una valenza indiziante- ma il fatto che quelle clausole furono inserite per effetto di un accordo tra i preposti e l'imputata e che quelle clausole - in ragione del loro contenuto - erano idonee ad allontanare le altre imprese. Ne consegue che sul capo la sentenza deve essere annullata senza rinvio ai fini penali; il reato in esame, contestato da "gennaio 2014 ad aprile 2015" è infatti estinto per prescrizione; la sentenza deve invece essere annullata con rinvio ai fini civili e la Corte di appello, applicando i principi indicati, verificherà la fondatezza della domanda risarcitoria. 6.4. Sono inammissibili per genericità il terzo e il quarto motivo di ricorso. Quanto al terzo, si tratta di un motivo con cui si contesta in maniera onnicomprensiva la violazione della legge penale in relazione ai fatti di corruzione - con particolare riguardo alla prova dell'accordo corruttivo - senza tuttavia spiegare in concreto alcunché in ordine alle singole vicende oggetto del processo. Non diversamente, quanto al quarto motivo, si deduce la errata applicazione della legge penale e il vizio di motivazione in ordine alla riconducibilità dei fatti oggetto del processo al reato di corruzione propria e non, invece, a quella di corruzione per l'esercizio della funzione di cui all'art. 318 cod. pen.; anche in questo caso, tuttavia, si tratta di un motivo onnicomprensivo, collettivo, che prescinde dalle singole vicende e dai singoli fatti oggetto delle imputazioni Entrambi i profili segnalati, saranno tuttavia in prosieguo oggetto di valutazione in relazione agli altri motivi di ricorsi relativi i singoli capi di imputazione. 6.5. È infondato il quinto motivo di ricorso relativo alla corruzione di Go.An., cioè del responsabile della esecuzione del contratto di appalto tra l'Azienda Ospedaliera di Desio e Vimercate. 6.5.1. Il pubblico ufficiale, secondo la Corte, avrebbe indebitamente favorito gli interessi della Ca.Ma., legale rappresentante della Se., attraverso il compimento di una serie di atti contrari ai doveri di ufficio (in particolare, per avere fornito Go.An. informazioni inerenti la prossima indizione della gara d'appalto), ricevendo in cambio il prestito di una autovettura Smart. Secondo l'imputata, sarebbe viziata la sentenza impugnata nella parte in cui avrebbe ritenuto provato l'accordo corruttivo e il sinallagma tra le due prestazioni dalla quasi contestualità tra il compimento delle stesse e dall'essere rimasto il prestito dell'auto privo di una spiegazione alternativa. 6.5.2. Il motivo è infondato, ai limiti della inamissibilità. I giudici di merito, con una motivazione scevra da illogicità evidenti, hanno ricostruito i fatti e spiegato che Go.An.: -informò continuamente Ca.Ma., e solo Ca.Ma., della evoluzione e degli sviluppi relativi alla predisposizione del capitolato di gara, fornendo informazioni preziose (conversazioni riportate pagg. 44-48 e 51-52 sentenza di primo grado); - fosse a conoscenza, sin dal giugno del 2014 e in ragione di molteplici informazioni (cfr. pag. 94 sentenza di primo grado), della pratica illecita della Se. di duplicare le prescrizioni degli impianti dentali e non posizionati e non solo omise di informare i vertici della Azienda Ospedaliera sino al momento in cui non vi furono le denunce di altri medici, ma si attivò in occasione del controllo dei Noe del 2014, informando Ca.Ma., al fine di consentirle di intervenire sugli errori che ancora potevano essere corretti (cfr. pagg. 70 e ss. della sentenza impugnata); - ricevette, in cambio del suo asservimento illecito, il prestito di un'autovettura per cinque mesi, da dicembre del 2014 al maggio del 2015, cioè esattamente in un momento: a) contestuale alla procedura volta alla predisposizione del capitolato di gara e al flusso di informazioni indebitamente rivelate alla Ca.Ma.; b) coevo alle dinamiche che portarono a non denunciare il sistema truffaldino della duplicazione delle prescrizioni. I Giudici di merito, diversamente dagli assunti difensivi, hanno spiegato correttamente perché quel prestito fosse correlato e trovasse la sua ragione giustificativa nell'asservimento della funzione, nella indebita presa in carico dell'interesse del privato, nel compimento degli atti di cui si è detto. Rispetto a tale quadro di riferimento, il motivo di ricorso rivela la sua infondatezza perché esula dal percorso di una ragionata censura del complessivo percorso motivazionale del provvedimento impugnato, con il quale obiettivamente non si confronta, e si risolve in una indistinta e generica critica difettiva non ancorata al ragionamento probatorio complessivo della sentenza impugnata: la valorizzazione di singoli elementi il cui significato viene scisso ed esaminato atomisticamente rispetto all'intero contesto viola il necessario onere di specificazione delle critiche mosse al provvedimento (sul tema, Sez. 6, n. 10539 del 10/02/2017, Lorusso, Rv. 269379). I giudici di appello, che pure hanno fatto riferimento alle argomentazioni sviluppate nella sentenza di primo grado, hanno fornito una valutazione analitica, autonoma, non manifestamente illogica sui punti specificamente indicati nell'impugnazione di appello, di talché la motivazione risulta esaustiva ed immune dalle censure proposte. 6.5.3. Né sussiste la ipotizzata violazione di legge. II reato di corruzione, nelle sue varie declinazioni, integra un reato a forma libera, plurisoggettivo, a concorso necessario, di natura bilaterale, fondato sul "pactum sceleris" tra privato e pubblico agente. Si tratta di un illecito che si sostanzia in condotte convergenti, tra loro in reciproca saldatura e completamento, idonee ad esprimere, nella loro fisiologica interazione, un unico delitto. Da ciò consegue che il reato si configura e si manifesta, in termini di responsabilità, solo se entrambe le condotte, del funzionario e del privato, in connessione indissolubile, sussistano probatoriamente e l'illecito sussiste alternativamente con l'accettazione della promessa o con il ricevimento effettivo dell'utilità. Ciò che deve essere processualmente accertato è se il pubblico ufficiale abbia accettato una utilità, se quella utilità sia collegata all'esercizio della sua funzione, al compimento di quale atto quella utilità sia collegata, se quell'atto sia o meno conforme ai doveri di ufficio. In particolare, deve essere accertato il nesso tra l'utilità e l'asservimento della funzione ovvero con l'atto da compiere o compiuto da parte del pubblico ufficiale, e se il compimento dell'atto sia stato la causa della prestazione e dell'accettazione da parte del pubblico ufficiale della utilità. Costituisce infatti principio più volte ribadito nella giurisprudenza di legittimità, e che il Collegio condivide, quello secondo cui, ai fini dell'accertamento del reato di corruzione propria, nell'ipotesi in cui risulti provata la dazione di denaro o di altra utilità in favore del pubblico ufficiale, è necessario dimostrare che il compimento dell'atto contrario ai doveri di ufficio sia stato la causa della prestazione dell'utilità e della sua accettazione da parte del pubblico ufficiale, non essendo sufficiente a tal fine la mera circostanza dell'avvenuta dazione. In linea con il dettato dell'art. 319 cod. pen., è infatti necessario dimostrare non solo la dazione indebita dal privato al pubblico ufficiale (o all'incaricato di pubblico servizio), bensì anche la finalizzazione di tale erogazione all'impegno di un futuro comportamento contrario ai doveri di ufficio ovvero alla remunerazione di un già attuato comportamento contrario ai doveri di ufficio da parte del soggetto munito di qualifica pubblicistica. La prova della dazione indebita di una utilità in favore del pubblico ufficiale, quindi, ben può costituire un indizio, sul piano logico, ma non anche, da solo, la prova della finalizzazione della stessa al comportamento antidoveroso del pubblico ufficiale: è pertanto necessario valutare tale elemento unitamente alle altre circostanze di fatto acquisite al processo, in applicazione della previsione di cui all'art. 192, comma 2, cod. proc. pen., secondo cui «l'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti». Sotto altro profilo, la Corte ha già chiarito che in tema di corruzione, la mera accettazione da parte del pubblico agente di un'indebita utilità a fronte del compimento di un atto discrezionale non integra necessariamente il reato di corruzione propria, dovendosi verificare, in concreto, se l'esercizio dell'attività sia stata condizionata dalla "presa in carico" dell'interesse del privato corruttore, comportando una violazione delle norme attinenti a modi, contenuti o tempi dei provvedimenti da assumere e delle decisioni da adottare, ovvero se l'interesse perseguito sia ugualmente sussumibile nell'interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere, nel qual caso la condotta integra il meno grave reato di corruzione per l'esercizio della funzione (cfr, per tutte, Sez. 6 n. 18125 del 22/10/2019, dep. 2020, Bolla, Rv. 279555). È assai utile riportare la motivazione della sentenza appena indicata che ha compiutamente ricostruito i rapporti tra le fattispecie di reato previste dagli artt. 318 -319 cod. pen. e spiegato se ed in che limiti sia configurabile il reato di corruzione propria in caso di attività discrezionale. 6.5.3.1. "Nel sistema precedente alla riforma attuata con la legge 6 novembre 2012, n. 190, il reato di corruzione esprimeva una concezione c.d. mercantile; si incriminava la pattuizione avente ad oggetto la compravendita di singoli atti amministrativi, conformi o contrari ai doveri d'ufficio. Nell'ambito dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, erano disciplinati i distinti reati di corruzione propria o per atti contrari ai doveri d'ufficio, di cui all'art. 319 cod. pen., e di corruzione impropria o per atto d'ufficio, punita dall'art. 318 cod. pen. La relativa linea di discrimine riguardava l'oggetto del patto corruttivo e, in particolare, la conformità o meno ai doveri d'ufficio dell'atto compiuto. Il chiaro riferimento all'atto dell'ufficio aveva tuttavia fatto emergere evidenti difficoltà in tutti i casi di sistemici rapporti "clientelari" tra soggetti pubblici e privati, cioè quei rapporti che prescindevano da una stretta logica di formale sinallagma, in quanto fondati non sul mercimonio dì specifici atti - singoli o molteplici - quanto, piuttosto, sull'asservimento della parte pubblica, che si poneva stabilmente a disposizione di quella privata. In particolare, l'ineffettività del sistema, la sua incapacità a fornire una limpida risposta, la sua inadeguatezza strutturale emergeva in maniera evidente in tutti i casi in cui il patto corruttivo aveva ad oggetto "il rapporto" tra soggetto pubblico e privato e ruotava su interessenze sganciate "a monte" dal compimento di specifici atti, che, peraltro, in molti casi non erano rinvenibili nemmeno ex post. Si trattava di casi in cui l'oggetto del patto corruttivo era, per così dire, muto, nel senso che al momento in cui l'accordo illecito veniva concluso, il pubblico ufficiale non "vendeva" atti , ma se stesso, il suo essere pubblico ufficiale, la sua funzione, il futuro esercizio del potere pubblico. L'effetto che ne era conseguito era stato il sostanziale mutamento dell'oggetto dello scambio corruttivo, passato dall'atto alla funzione del pubblico agente. Tale traslazione si era verificata nel corso del tempo attraverso: a) la dematerializzazione dell'elemento di fattispecie di corruzione propria dell'atto di ufficio; b) la inclusione nella nozione di atto d'ufficio dei meri comportamenti, ovvero l'affermazione di principio secondo cui sarebbe stato sufficiente la individuabilità nel genere dell'atto; c) la interpretazione estensiva dello stesso concetto di atto contrario ai doveri d'ufficio, ravvisata anche nei casi in cui l'atto, pur formalmente legittimo, persegua "finalità diverse"; la questione, come meglio si dirà, attiene all'esercizio dell'attività discrezionale ed in tale contesto si era tendenzialmente ritenuto di ravvisare "sempre" la corruzione propria, addebitando al pubblico agente la violazione di doveri generali e, in particolare, di quello d'imparzialità, per il fatto oggettivo di avere ricevuto denaro o altra utilità; d) l'affermazione secondo cui la corruzione propria era ravvisabile anche nel caso in cui la promessa o la dazione fossero riferiti nella previsione generica di eventuali, futuri, imprecisati atti, al fine di ottenere la benevolenza del soggetto corrotto; e) l'inevitabile sostanziale ridimensionamento della corruzione impropria, sussistente nei soli casi in cui il mercimonio riguardasse specifici atti conformi ai doveri d'ufficio e cioè, in sostanza, solo nei casi di compimento di atti vincolati. 6.5,3.2. In tale contesto è intervenuta la legge n. 190 del 2012 che ha introdotto la nuova fattispecie di corruzione per la funzione prevista dall'art. 318 cod. pen. Con la nuova fattispecie: a) è scomparso il riferimento all'atto d'ufficio legittimo, adottato o da adottare da parte del pubblico ufficiale; b) il patto corruttivo ha per oggetto l'esercizio dei poteri o delle funzioni: il compenso che il pubblico agente riceve non retribuisce più il compimento di un atto non contrario ai doveri dell'ufficio, ma, più in generale, rimunera "la presa in carico" degli interessi di cui è portatore il privato; c) il consenso del funzionario pubblico alla pattuizione illecita deve essere accertato, atteso che l'accordo segna la linea di confine con la "nuova" istigazione alla corruzione (art. 322, comma 1, cod. pen.) in cui l'offerta e la promessa di denaro o altra utilità non è accettata dall'agente pubblico ovvero resta allo stadio di sollecitazione, se l'iniziativa proviene da quest'ultimo (art. 322, comma 3, cod. pen.); d) è stato configurato un reato eventualmente permanente, almeno nei casi di plurime dazioni indebite che trovano una loro ragione giustificatrice nel fattore unificante dell'asservimento della funzione pubblica. (Sez. 6, n. 3043 del 27/12/2015 (dep. 2016), Esposito, Rv. 265619, in cui la Corte ha qualificato in termini di corruzione per l'esercizio della funzione la condotta di un indagato che aveva stabilmente asservito le proprie funzioni di consigliere comunale, nonché di presidente e vicepresidente di commissioni comunali, agli scopi di società cooperative facenti capo ad altro coindagato; nello stesso senso, Sez. 6, n. 49226 del 25/9/2014, Chisso, Rv. 261355). Entrambe le fattispecie criminose previste dagli artt. 318 - 319 cod. pen. descrivono il perfezionamento di una pattuizione tra un privato e un soggetto qualificato, il cui oggetto tuttavia deve essere accertato. Concluso l'accordo, il reato è perfezionato e non assume rilievo decisivo la sua esecuzione; è l'accordo che si punisce, anche se intervenuto successivamente all'adozione dell'atto- legittimo o illegittimo che sia - ovvero all'esercizio della funzione. Ciò che accomuna le due fattispecie è il divieto di "presa in carico" d'interessi differenti da quelli che la legge persegue attraverso il pubblico agente; nella corruzione propria detta presa in carico riguarda e si manifesta con il compimento di un atto contrario, dunque con un atto specifico; nella corruzione per l'esercizio della funzione, invece, la "presa in carico" realizza un inquinamento di base, un asservimento diffusivo che ha la capacità di propagarsi in futuro, in modo non preventivato e non preventivabile rispetto al momento della conclusione del patto corruttivo. I delitti di corruzione puniscono il collateralismo clientelare o mercantile. 6.5.3.3. Si è posto il tema della corretta individuazione dei rapporti strutturali tra le due fattispecie. Secondo un primo orientamento, autorevolmente sostenuto in dottrina, nella specie vi sarebbe un'ipotesi di concorso apparente di reati ex art. 15 cod. pen.; le due fattispecie sarebbero tra loro in rapporto di specialità unilaterale per specificazione. Sarebbe generale la norma di cui all'art. 318 cod. pen. e speciale quella dell'art. 319 cod. pen.; il reato di corruzione propria sarebbe infatti configurabile solo in presenza di uno specifico atto, individuato o individuabile, oggetto dell'accordo corruttivo. Un secondo orientamento fa invece riferimento al principio di sussidiarietà ed al disvalore giurid ico del fatto: tra due norme, che tutelano lo stesso bene giuridico, si dovrebbe applicare quella che realizza un'offesa maggiore. Dunque, anche seguendo detta impostazione, l'art. 319 cod. pen. sarebbe applicabile solo in presenza di un accordo che preveda da parte del pubblico funzionario corrotto il compimento di un atto determinato o determinabile. In definitiva, due diversi ambiti: 1) il primo, riferibile all'art. 319 cod. pen., in cui il patto corruttivo ha ad oggetto uno specifico atto, determinato o determinabile, che il funzionario si sia impegnato a compiere (o abbia compiuto) a favore del privato; 2) il secondo, relativo al nuovo art. 318 cod. pen., riguarda tutti i casi in cui l'agente pubblico si accorda con il privato corruttore, ma l'oggetto del patto attiene alla messa a disposizione della sua funzione o dei suoi poteri in relazione al compimento di possibili, futuri, non specificati atti vantaggiosi e favorevoli per il privato; si tratta di casi in cui la dazione pone le condizioni per ottenere futuri favori. Rispetto a tale quadro di riferimento, la questione riguarda se, anche dopo la nuova fattispecie di corruzione per la funzione, continuino ad essere riconducibili al reato di corruzione propria tutti quei fatti che, sulla base del diritto vivente precedente alla legge n. 190 del 2012, erano ricondotti all'art. 319 cod. pen. in ragione della indicata attività interpretativa estensiva, sostanzialmente fondata sul processo di smaterializzazione dell'atto oggetto del patto corruttivo. In concreto, il tema attiene a tutti i casi in cui il pubblico ufficiale sia "solo" a "libro paga" e se la nuova fattispecie di cui all'art. 318 cod. pen. debba essere interpretata come se il suo dato testuale sia rimasto identico a quello precedente, nel senso di ritenere configurabile la fattispecie in questione solo in presenza di atti conformi ai doveri d'ufficio e, fra questi, solo in presenza di atti vincolati, atteso che, in presenza di patti prospettici ovvero di atti discrezionali, il reato sussistente sarebbe sempre quello di corruzione propria. Secondo un primo orientamento, che parrebbe consolidato, all'art. 318 cod. pen. non potrebbero essere ricondotti i casi di generale asservimento dell'intera funzione, che continuerebbero ad integrare la fattispecie di corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio. Gli argomenti sono molteplici, comunemente richiamati. Si è sostenuto, da un lato, che il generico riferimento, anticipato dalla preposizione finalistica "per", all'esercizio delle funzioni e dei poteri del pubblico ufficiale - espresso dal nuovo art. 318 cod. pen. - non consentirebbe una immediata decifrabilità delle concrete forme o espressioni che il mercimonio di funzioni e poteri può assumere in concreto, e, dall'altro, che sarebbe ben singolare che una disciplina normativa (quella introdotta dalla legge n. 190 del 2012), tesa ad armonizzare le disposizioni sanzionatone di sempre più diffusi fenomeni di corruzione sistemica e a renderne più agevole l'accertamento e la perseguibilità, offra il fianco a possibili rilievi in termini di graduazione dell'offensività, di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di proporzionalità della pena (art. 27 Cost.). Il tema - in verità valorizzato prima della modifica della cornice edittale dell'art. 318 cod. pen., ad opera della legge 9 gennaio 2019, n. 3 - ruota intorno all'assunto secondo cui non sarebbe sistemico che la condotta di un pubblico ufficiale che compia per denaro o altra utilità ("venda") un solo suo atto contrario all'ufficio debba essere punito con una cospicua pena, mentre invece un pubblico funzionario stabilmente infedele, che ponga l'intera sua funzione e i suoi poteri al servizio di interessi privati per un tempo prolungato, con contegni di infedeltà sistematici e in relazione ad atti contrari alla funzione non predefiniti o nemmeno specificamente individuabili ex post (in caso diverso si rifluirebbe, come è ovvio, nella previsione dell'art. 319 cod. pen.), debba essere irrazionalmente punito con una pena più mite. Una diversa interpretazione, evidenzia l'impostazione in parola, troverebbe giustificazione solo sul presupposto, tuttavia non razionale sul piano sistematico, secondo cui vi sarebbe una maggiore offensività ed un più elevato disvalore giuridico e sociale nella condotta prevista dall'art. 318 cod. pen. rispetto a quella di cui all'art. 319 cod. pen. Tali considerazioni spiegano l'affermazione tradizionale secondo cui, ai fini della integrazione del delitto di cui all'art. 319, non sarebbe necessaria l'individuazione di uno specifico atto contrario ai doveri d'ufficio per il quale il pubblico ufficiale abbia ricevuto somme di denaro o altre utilità non dovute, a condizione che, dal suo comportamento, emerga comunque un atteggiamento diretto in concreto a vanificare la funzione demandatagli ed a violare i doveri di fedeltà, di imparzialità e di perseguimento esclusivo degli interessi pubblici che sullo stesso incombono (Sez. 6, n. 22301 del 24/05/2012, Saviolo, Rv. 254055 che richiama, tuttavia, Sez. 6, n. 34417 del 15/05/2008, Leoni, Rv. 241081; Sez. 6, n. 20046 del 16/01/2008, Bevilacqua, Rv. 241184; Sez. 6, n. 21192 del 26/02/2007, Eliseo, Rv. 236624; si tratta di pronunce tutte precedenti alla introduzione della nuova fattispecie di cui all'art. 318 cod. pen.). Dunque, la fattispecie prevista dall'art. 318 avrebbe sostanzialmente un ambito di operatività residuale, potendo ravvisarsi solo nella ipotesi in cui la vendita della funzione abbia ad oggetto il mercimonio di un atto conforme ai doveri di ufficio, ovvero un atto non determinato (ex ante o ex post), ovvero non determinabile; il reato non sarebbe neppure sostanzialmente configurabile, come si dirà, nemmeno nel caso di atto discrezionale conforme ai doveri d'ufficio (sul tema, Sez. 6, n. 8211 del 11/2/2016, Ferrante, Rv. 266510; Sez. 6, n. 40237 del 7/7/2016, Giangreco, Rv. 267634; Sez. 6, n. 15959 del 23/2/2016, Caiazzo, Rv. 266735; Sez., 6, n. 47271 del 25/9/2014, Casarin, Rv. 260732; Sez. 6, n. 6056 del 23/9/2014, (dep. 2015), Stafferi, Rv. 262233, Sez. 6, n. 9883 del 15/10/2013, (dep. 2014), Terenghi, Rv.258521; conforme è anche Sez. 6, n. 24535 del 10 aprile 2015, Mogliani). L'atto, peraltro, sarebbe sempre quantomeno determinabile in ragione della competenza e della sfera di influenza del pubblico ufficiale; nel contesto della interpretazione estensiva dell'art. 319 cod. pen. di cui è detto, l'indirizzo in esame si pone infatti in chiara continuità con il principio secondo cui, ai fini della integrazione del reato di cui all'art. 319 cod. pen., sarebbe sufficiente la mera individuabilità del genus di atti da compiere, e detta operazione sarebbe possibile in ragione della competenza o della concreta sfera di intervento del pubblico ufficiale, così da essere suscettibile di specificarsi in una pluralità di atti singoli non preventivamente fissati o programmati, ma pur sempre appartenenti al genus. (tra le tante, Sez. 6, n. 30058 del 16/05/2012, Di Giorgio, Rv. 253216; Sez.6, n. 2818 del 02/10/2006, Bianchi, Rv. 235727). Una interpretazione conservativa del nuovo art. 318 cod. pen., a cui viene attribuita una sostanziale funzione accessoria, di contorno, come se il testo della norma non fosse stato innovato. 6.5.3.4. Restano tuttavia sullo sfondo delicate questioni che attengono, da una parte, al rapporto di specialità unilaterale che caratterizza il reato di corruzione propria rispetto a quello di cui all'art. 318 cod. pen, e, dall'altro, sul piano della offensività, alla progressione criminosa che viene a realizzarsi attraverso le due fattispecie. Quanto a quest'ultimo profilo, si è già detto di come sia diffusa l'affermazione secondo cui la offensività della condotta del pubblico ufficiale che venda la funzione senza accordarsi per il compimento di un atto specifico, determinato o determinabile, contrario ai propri doveri di ufficio sarebbe comunque maggiore rispetto a quella del funzionario che, in ragione del patto corruttivo, compia anche solo un atto contrario ai propri doveri di ufficio. Si tratta di un assunto che deve essere precisato. Si è correttamente evidenziato come, se è vero che, attraverso l'art. 318 cod. pen. il legislatore abbia inteso punire di per sé la condotta del pubblico ufficiale che, dietro compenso di una utilità, "prenda a carico" un interesse privato a prescindere dal compimento di un atto dell'ufficio, è altrettanto vero che in tali casi l'incriminazione sembra rispondere alla logica della anticipazione della tutela del bene protetto dalla norma - e, in particolare, della imparzialità dell'agire amministrativo- secondo lo schema del reato di pericolo. In tal senso la fattispecie di cui all'art. 318 cod. pen. rivela una offensività diversa e - probabilmente - minore rispetto al reato di corruzione propria, che è fondata, invece, sul danno in concreto arrecato e sull'accertamento di un nesso strumentale tra la dazione-promessa e il compimento di un determinato o comunque ben determinabile atto contrario ai doveri d'ufficio. Se infatti l'oggetto dell'accordo corruttivo con cui il pubblico ufficiale vende "solo" la sua funzione è l'impegno a considerare in futuro, cioè a curare, gli interessi del privato corruttore ed a tutelarlo, appaiono condivisibili le impostazioni dottrinarie e le affermazioni contenute in altre sentenze della Corte di cassazione secondo cui «il discrimine tra le due ipotesi corruttive resta pertanto segnato dalla progressione criminosa dell'interesse protetto in termini di gravità (che giustifica la diversa risposta punitiva) da una situazione di pericolo (il generico asservimento della funzione) ad una fattispecie di danno, in cui si realizza la massima offensività del reato (con l'individuazione di un atto contrario ai doveri d'ufficio). Nel primo caso la dazione indebita, condizionando la fedeltà ed imparzialità del pubblico ufficiale che si mette genericamente a disposizione del privato, pone in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione; nell'altro, la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d'ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto» (ed in particolare, della imparzialità dell'azione amministrativa) meritando quindi una pena più severa (così, Sez. 6, n. 4486 del 11/12/2018 (dep. 2019), Palozzi, Rv. 274984; nello stesso senso, Sez. 6, n. 49226 del 25/09/2014, Chisso, Rv. 261353, e sostanzialmente, Sez. 6, n. 33828 del 26/04/2019, Massobrio, Rv. 276783; Sez. 6, n. 32401 del 20/06/2019, Monaco, Rv. 276801). È fondato ritenere che la nuova formulazione dell'art. 318 cod. pen., ora rubricata come 'corruzione per l'esercizio della funzione', abbia inciso notevolmente sulla struttura della norma, mutandone la natura; mentre infatti nella precedente versione la fattispecie era pur sempre costruita come reato di danno, connesso alla compravendita di un atto d'ufficio (purché non contrario ai doveri), nella nuova tipizzazione il legislatore ha inteso ricomprendere tutte le forme di 'compravendita della funzione' non connesse causalmente al compimento di uno specifico atto contrario ai doveri di ufficio. Dunque, una offensività "diversa" e "minore", rispetto a quella insita nel reato di corruzione propria, che giustifica una risposta sanzionatoria minore. L'art. 318 cod. pen. sanziona la violazione del principio rivolto al pubblico funzionario di non ricevere denaro o altre utilità in ragione della funzione pubblica esercitata e, specularmente, al privato di non corrisponderglieli; la norma sanziona l'intesa programmatica - l'impegno del pubblico ufficiale a curare interessi indebiti senza la previa individuazione di alcunché -, previene la compravendita degli atti d'ufficio e garantisce il corretto funzionamento e l'imparzialità della pubblica amministrazione. «Il discrimine tra le due ipotesi corruttive resta pertanto segnato dalla progressione criminosa dell'interesse protetto in termini di gravità (che giustifica la diversa risposta punitiva) da una situazione di pericolo (il generico asservimento della funzione) ad una fattispecie di danno, in cui si realizza la massima offensività del reato (con l'individuazione di un atto contrario ai doveri d'ufficio). Nel primo caso la dazione indebita, condizionando la fedeltà ed imparzialità del pubblico ufficiale che si mette genericamente a disposizione del privato, pone in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione; nell'altro, la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d'ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto, meritando quindi una pena più severa» (così, Sez. 6, n. 4486, Palozzi, cit.). In tale ottica, la modifica apportata all'art. 318 dalla legge n. 3 del 2019, che ha consistentemente aumentato la pena per il reato di corruzione per l'esercizio della funzione, ha indubbiamente eliso una delle argomentazioni maggiormente valorizzate dall'indirizzo che riconduce all'art. 319 cod. pen. "la messa a libro paga" del pubblico funzionario e contribuisce a sgomberare il campo da possibili fraintendimenti. Sotto altro profilo, se la fattispecie di reato di cui all'art. 319 cod. pen. è in rapporto di specialità unilaterale per specificazione rispetto a quella di cui all'art. 318 cod. pen., è necessario che l'atto contrario ai doveri d'ufficio sia specificamente individuato o individuabile, altrimenti il fatto non potrà che essere sussunto nella fattispecie generale, cioè nell'art. 318 cod. pen. Assume decisiva valenza non il mero riferimento astratto ed onnicomprensivo alla competenza dell'ufficio, di cui si è in precedenza detto, quanto, piuttosto, il contenuto del patto corruttivo. Il tema si incrocia con l'accertamento probatorio dei fatti e, in particolare, con il senso e la natura dell'accordo. È possibile che il patto corruttivo sia solo apparentemente muto, ma in realtà il suo oggetto sia in concreto ricostruibile, nel senso che l'impegno da parte del pubblico ufficiale sia quello di compiere uno o più specifici atti contrari ai doveri d'ufficio; non importa che l'atto specifico sia successivamente compiuto, quanto, piuttosto, la esatta determinazione del contenuto del programma obbligatorio che il pubblico ufficiale assume. Si tratta di un accertamento che, sotto il profilo probatorio, deve essere compiuto caso per caso; potranno assumere rilievo la situazione concreta, le aspettative specifiche del corruttore, cioè il movente della condotta del corruttore - il senso ed il tempo della pretesa di questi-, la condotta in concreto compiuta dal pubblico agente, le modalità della corresponsione del prezzo. Deve essere accertato il "colore" del patto corruttivo, il suo oggetto specifico, la sua riferibilità o meno al compimento di un atto contrario ai doveri d'ufficio; se il contenuto del patto non "attiene" al compimento di un atto contrario ai doveri d'ufficio, la condotta è riconducibile all'art. 318 cod. pen. Il patto può essere probatoriamente muto, nel senso che non sia individuabile nessuno specifico atto che il pubblico ufficiale si sia impegnato a compiere; è possibile che, a fronte della dazione di denaro da parte del privato corruttore - anche con scadenze temporali fisse (es. una determinata somma al mese) -, il pubblico ufficiale assuma solo l'impegno "di sorvegliare", "di vigilare" che gli interessi del privato, presi indebitamente "in carico", non siano danneggiati nel corso del procedimento amministrativo. Si tratta di ipotesi in cui la condotta sarà riconducibile all'art. 318 cod. pen. 6.5.3.5. Le considerazioni esposte assumono una maggiore complessità in tutti i casi in cui oggetto del mercimonio sia l'attività amministrativa discrezionale, cioè un'attività in cui la norma attributiva del potere consente all'amministrazione un ampio ambito di possibilità di azione. Il tema del rapporto tra esercizio della discrezionalità amministrativa e corruzione involge l'interpretazione del sintagma "atto contrario ai doveri d'ufficio", di cui all'art. 319 cod. pen. ed assume una sua rilevanza problematica perché non tutte le regole che presiedono all'esercizio della funzione amministrativa discrezionale hanno lo stesso grado di precettività. Nella giurisprudenza della Corte di cassazione è diffusa l'affermazione secondo cui, ai fini della configurabilità del delitto di cui all'art. 319 cod. pen., sono contrari ai doveri d'ufficio non solo gli atti illeciti o illegittimi perché assunti in violazione di norme giuridiche, riguardanti la loro validità ed efficacia, ma anche quelli che, "pur formalmente regolari, prescindono, per consapevole volontà del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, dall'osservanza dei doveri istituzionali, espressi in norme di qualsiasi livello, compresi quelli di correttezza e di imparzialità" (Sez. 6, n. 46492 del 15/09/2017, Argenziano, Rv. 271383; Sez. 6, n. 3606 del 20/10/2016, dep. 2017, Bonanno, Rv. 269347; Sez. 6, n. 29267 del 05/04/2018, Baccari, Rv. 273448). La "sudditanza" del pubblico ufficiale al corruttore si tradurrebbe comunque in atti che, pur formalmente legittimi, in quanto discrezionali e non rigorosamente predeterminati nell'an, nel quando o nel quomodo, si conformano all'obiettivo di realizzare l'interesse del privato nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali (Sez. 6, n. 29267 dei 05/04/2018, cit.). In altri termini, anche se ogni singolo atto, di per sé considerato, corrisponda ai presupposti normativi - come nel caso in cui il funzionario si adoperi al solo fine di velocizzare la definizione di un procedimento senza tuttavia inficiarne l'esito -l'inquinamento "alla base" della funzione imporrebbe di ritenere integrato il reato di corruzione propria. In tal senso si è ritenuto integrare il reato di cui all'art. 319 cod. pen. il comportamento del dipendente comunale addetto a istruire pratiche relative a gare d'appalto, che abbia percepito da un privato denaro o altre utilità al fine di "velocizzare" la liquidazione di fatture nell'interesse di quest'ultimo, poiché "l'accettazione di una indebita retribuzione, pur se riferita ad un atto legittimo, configura comunque una violazione del principio d'imparzialità" (Sez. 6, n. 22707 del 11/04/2014, Lo Cricchio, Rv. 260275; nello stesso sembra porsi, Sez. 6, n. 33032 del 24/05/2018, Mancuso, non massimata). Una soluzione interpretativa sovrapponibile ai casi, tuttavia obiettivamente diversi, in cui il funzionario non si limiti solo ad accelerare la definizione delle pratiche cui è interessato il corruttore, ma per fare ciò faccia anche "altro", come ad esempio, inverta l'ordine di trattazione delle pratiche, così violando l'art. 13 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, che impone al pubblico impiegato di trattare gli affari attribuiti alla sua competenza "tempestivamente e secondo l'ordine cronologico" (Sez. 6, n. 1777 del 21/11/2005, Abeysundera, Rv. 233114). Ed invece, si assume, l'accettazione del compenso di per sé farebbe perdere al funzionario l'imparzialità fondamentale per l'esercizio del potere discrezionale: per il solo fatto di avere accettato una retribuzione, il pubblico ufficiale agirebbe in modo contrario ai suoi doveri d'ufficio, non orientando le proprie scelte verso l'interesse pubblico. Astrattamente, la giurisprudenza sottolinea che, a fronte dell'esercizio di un potere discrezionale, gli estremi della corruzione propria ricorrono solo nelle ipotesi in cui il soggetto agente abbia accettato dietro compenso di non esercitare la discrezionalità che gli è stata attribuita dall'ordinamento oppure di usare tale discrezionalità in modo distorto, alterandone consapevolmente i fondamentali canoni di esercizio e ponendo perciò in essere una attività contraria ai suoi doveri di ufficio. Detta affermazione, tuttavia, viene collegata al principio secondo cui "integra il delitto di corruzione propria la condotta del pubblico ufficiale che, dietro elargizione di un indebito compenso, esercita i poteri discrezionali spettantigli rinunciando a una imparziale comparazione degli interessi in gioco, al fine di raggiungere un esito predeterminato, anche quando questo risulta coincidere, ex post, con l'interesse pubblico", e questo perché, "ai fini della sussistenza del reato in questione e non di quello di corruzione impropria, l'elemento decisivo è costituito dalla 'vendita' della discrezionalità accordata dalla legge" (Sez. 6, n. 5577 del 03/02/2016, Maggiore Rv. 267187, in fattispecie in cui l'indagato, in qualità di Presidente della Commissione medica di verifica presso il ministero dell'economia e delle finanze, aveva ricevuto somme di denaro da un medico legale per far ottenere benefici pensionistici ai suoi pazienti. In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto irrilevante, per escludere il reato, la circostanza che, trattandosi di persone affette da gravi patologie, sarebbero stati comunque riconosciuti loro i benefici richiesti; nello stesso senso, Sez. 6, n. 4454 del 24/11/2016, dep. 2017, Fiorani, Rv. 269613, Sez. 6, n. 7903 del 17/01/2018, Morace, non massimata). Si tratta di una interpretazione che deve essere esplicitata. La questione non coincide con il tema del se la corruzione propria sia configurabile solo in presenza di un atto amministrativo illegittimo e, dunque, se il giudice penale debba compiere un sindacato sull'atto sovrapponibile a quello che compie il giudice amministrativo. L'atto amministrativo non costituisce un presupposto del reato, ma è lo strumento di cui l'agente si serve per commettere il reato; l'atto viene in considerazione al fine della verifica del comportamento, della condotta che integra il reato. Come sostenuto da autorevolissima dottrina, l'atto amministrativo viene "retrocesso a fatto"; non è l'atto a dover essere sindacato dal giudice penale ai fini della verifica della sussistenza del reato di corruzione propria, ma una condotta umana, e cioè come il pubblico ufficiale si sia posto rispetto alla funzione pubblica di cui è titolare e cosa abbia fatto in concreto per "giungere" all'atto. Il giudice deve verificare la corrispondenza fra fatto storico e previsione normativa: deve stabilire se sia stata o meno realizzata una condotta abusiva, arbitraria, contraria a ciò che i doveri di ufficio imponevano di fare. La legittimità dell'atto, della quale il giudice deve tenere eventualmente conto, serve solo perché "essa può concorrere a consentirgli di stabilire se si sia realizzata, o meno, una condotta abusiva o arbitraria". Anche con riguardo all'attività discrezionale, se si ritiene che il fatto oggettivo della conclusione del pactum sceleris, che abbia ad oggetto il compimento di un atto discrezionale, sia di per sé sufficiente a configurare il reato di corruzione propria, la distinzione tra il reato di cui all'art. 319 e quello previsto dall'art. 318 cod. pen. resta di difficile riconoscibilità, perché anche nel reato di corruzione per l'esercizio della funzione, il pubblico ufficiale, accettando una remunerazione indebita, viola i doveri istituzionali di correttezza. Ove si ritenga che la retribuzione del pubblico ufficiale implichi di per sé la violazione del dovere di imparzialità, la violazione di detto dovere finirebbe per costituire un contenitore generale al cui interno ricondurre una quantità indistinta di condotte la cui rilevanza, ai fini della integrazione della fattispecie di cui all'art. 319 cod. pen., sarebbe fatta derivare solo dalla esistenza dell'accordo corruttivo, "a prescindere" dalla concreta offesa della funzione amministrativa, dalla concreta violazione di questa, dalla inosservanza dei doveri specifici di ufficio. Ciò che deve essere rivisto è il "presupposto, di tipo "presuntivo psicologico", secondo cui una volta concluso l'accordo corruttivo, "il successivo (futuro e incerto) esercizio del potere pubblico non potrà non essere inquinato, contaminato dall'interesse privato veicolato dell'intesa illecita"; si finisce per centrare il disvalore della fattispecie sul patto criminoso e per spostare l'antigiuridicità del comportamento del funzionario dai profili relativi alla condotta (la non conformità ai doveri di ufficio) a quelli che riflettono maggiormente l'elemento psicologico del reato (il dolo insito nell'accettazione del denaro o della sua promessa). In realtà, si osserva correttamente, al di là delle infedeltà in quanto tali del pubblico ufficiale, ai fini della configurabilità del reato di corruzione propria rileva la violazione dei doveri che attengono al modo, al contenuto, ai tempi degli atti da compiere e delle decisioni da adottare, alla violazione, cioè, della regola "giusta" nel concreto operare della discrezionalità amministrativa. È necessario fare riferimento alle regole sottese all'esercizio dell'attività discrezionale e si tratta di verificare se l'interesse pubblico sia stato in concreto condizionato dalla "presa in carico" dell'interesse del privato corruttore; nel caso in cui l'interesse pubblico non sia stato condizionato, il fatto integrerà la fattispecie di cui all'art. 318 cod. pen. Quello che deve essere verificato, cioè, è se l'interesse perseguito in concreto sia sussumibile nell'interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere, se questo sia stato soddisfatto, ovvero se esso sia stato limitato, condizionato, inquinato dalla esigenza di soddisfare gli interessi privati posti a carico con l'accordo corruttivo. È possibile che l'atto discrezionale, nonostante l'accordo corruttivo, realizzi l'interesse pubblico e che il comportamento del pubblico ufficiale non abbia violato nessun dovere specifico. L'atto discrezionale ed il comportamento sottostante sono contrari ai doveri di ufficio nei casi in cui "siano state violate le regole sull'esercizio del potere discrezionale o ne siano stati consapevolmente alterati i fondamentali canoni di esercizio in vantaggio del corruttore". L'esistenza di un potere discrezionale non basta a far ritenere integrata la fattispecie di corruzione propria, che, invece, sussiste solo ove sia dimostrata la violazione di una delle regole sull'esercizio del corrispondente potere. E' necessario esaminare la struttura del patto corruttivo, da una parte, per accertare se sia o meno identificabile "a monte" un atto contrario ai doveri di ufficio; nel caso in cui ciò non sia possibile, occorre verificare la condotta del pubblico agente nei settori che interferiscono con gli interessi del corruttore, per comprendere se il predetto funzionario, al di là del caso di manifeste violazioni di discipline cogenti, di elusione della causa fondativa del potere attribuito, abbia, nonostante ed in conseguenza del patto, fatto o meno buon governo del potere assegnatogli, tenendo conto di tutti i profili valutabili, o se abbia pregiudizialmente inteso realizzare l'interesse del privato corruttore, a fronte di ragionevolmente possibili esiti diversi. Anche in tal caso il profilo giuridico interferisce con quello processuale di accertamento probatorio dei fatti e assumerà rilevante valenza l'interpretazione dell'oggetto del patto corruttivo; è possibile, come in precedenza detto, che un privato si rivolga ad un funzionario non per esserne pregiudizialmente favorito, ma per assicurarsi che la valutazione non sia condizionata da pregiudizi in suo danno o da indebite interferenze altrui, ipotesi nelle quali non potrà prospettarsi a priori, nel caso in cui si compia un atto discrezionale, alcuna violazione dei doveri diversa da quella inerente all'indebita ricezione di un'utilità non dovuta (in tal senso, la Corte di cassazione si era in passato già espressa, Sez. 6, n. 9927 del 10/07/1995, Caliciuri, Rv. 202877; Sez. 6, n. 11462 del 12/06/1997, Albini, Rv. 209699; Sez. 6, n. 1319 del 28/11/1997, Gilardino, Rv. 210442; Sez. 6, n. 3945 del 15/02/1999, Di Pinto, Rv. 213885). In conclusione, se la pregiudiziale accertata rinuncia all'esercizio genuino della discrezionalità conduce all'adozione di atti contrari ai doveri di ufficio, non può dirsi il contrario, e cioè che sia configurabile la corruzione propria per il solo fatto che il pubblico ufficiale abbia ricevuto denaro in ragione del compimento della sua attività, anche discrezionale". 6.5.3.6. I Giudici di merito hanno fatto corretta applicazione dei principi indicati. Quanto alla prova del patto corruttivo, vi è la prova che Go.An. prese in carico l'interesse del privato corruttore e in ragione della presa in carico pose in essere una serie di atti contrari ai suoi doveri d'ufficio perché nulla le consentiva di concordare, di conformare il contenuto del bando di una gara con il soggetto privato principalmente interessato all'appalto, di informarlo continuativamente. Ciò che non è chiaro nel ragionamento della imputata è: a) perché quelle descritte dai Giudici di merito sarebbero comportamenti e atti conformi ai doveri dell'ufficio del pubblico ufficiale; b) perché, in particolare, quel continuo contatto tra Go.An. e Ca.Ma. sarebbe stata solo un informale comportamento volto al perseguimento dell'interesse pubblico; c) perché Go.An. non sentì il bisogno di ascoltare e di informare anche altri soggetti che potessero essere interessati alla gara; d) perchè fu consentito a quel soggetto terzo, il principale soggetto interessato a quel procedimento, di incidere, di partecipare al contenuto del bando in ragione dei propri interessi; e) perchè furono reiteratamente portate a conoscenza di un aspirante concorrente le dinamiche interne alla pubblica amministrazione; f) perché Go.An., consapevole del meccanismo truffaldino, ritardò di denunciare e consenti alla Ca.Ma. di accedere a ciò che non era accessibile. Nel caso di specie, non si tratta di fare riferimento al generale dovere di imparzialità dei pubblici ufficiali, ma alla violazione reiterata e continua di specifici doveri di ufficio che imponevano di non divulgare alla Ca.Ma. il non divulgabile e di non consentire a questa di indirizzare il modo con cui il potere pubblico avrebbe dovuto essere esercitato ovvero di denunciare la esistenza di un sistema illecito quale quello volto a aumentare il numero di impianti prescritti. L'interesse e il potere pubblico fu piegato ad interessi solo privati, quelli cioè del corruttore, non essendo ad esempio chiaro quale fosse l'interesse pubblico perseguito da Go.An. nel non denunciare il sistema illecito delle prescrizioni; in ragione del compimento degli atti indicati, Go.An. ottenne una utilità. 6.6. A non diverse conclusioni deve giungersi anche per quel che concerne il sesto motivo di ricorso relativo alla corruzione propria di Ro.An., incaricata di pubblico servizio in qualità di coordinatore infermieristico per i centri odontoiatrici dell'Azienda ospedaliera di Desio e Vimercate, la quale, a fronte di una serie di atti contrari ai propri doveri di ufficio e di comportamenti indicati nella imputazione, avrebbe ricevuto in cambio l'assunzione del figlio presso la Se.. 6.6.1. Si è già detto di come, secondo la ricorrente nella specie difetterebbe la prova del patto corruttivo e comunque i fatti dovrebbero essere ricondotti al più all'art. 318 cod. pen,; sarebbe in particolare errata l'affermazione della Corte secondo cui l'atto contrario ai doveri di ufficio sarebbe costituito dal fatto che, in occasione di un controllo sindacale e in occasione del controllo dei NOC, di cui si detto, Ro.An. si sarebbe comportata come fosse una dipendente di Se.. Il fatto, si argomenta, dovrebbe essere ricondotto all'art. 318 cod. pen., tenuto conto che a Ro.An., a differenza di Go.An., non sarebbe contestata nemmeno l'omessa denuncia delle irregolarità nel sistema delle c.d. ricette rosse. Peraltro, si aggiunge, ove pure i fatti fossero ricondotti alla corruzione per l'esercizio della funzione, nondimeno non vi sarebbe prova del patto illecito. 6.6.2. Si tratta di un motivo infondato. La Corte, richiamando anche la sentenza di primo grado, ha indicato gli elementi da cui è si è fatta discendere la prova del patto corruttivo, dell'asservimento delle funzioni, del nesso tra l'utilità ricevuta e l'inquinamento della funzione. Nulla di specifico è stato dedotto sul punto, essendosi limitata la ricorrente a riproporre censure già adeguatamente valutate, senza tuttavia confrontarsi con la motivazione della sentenza impugnata. Alla luce di quanto in precedenza detto, è corretta anche la qualificazione giuridica dei fatti e la loro riconduzione alla fattispecie di corruzione propria, atteso il pieno coinvolgimento della stessa Ro.An. nelle illecite dinamiche che portarono ad informare Ca.Ma. della emersione del meccanismo illecito della duplicazione del numero di impianti prescritti (cfr. pag. 110 e ss. sentenza del Tribunale). 6.7. È invece fondato, limitatamente alla qualificazione giuridica dei fatti, il settimo motivo di ricorso relativo al fatto corruttivo di cui al capo Q) del decreto di giudizio immediato in cui si contesta all'imputata di aver corrotto Pietro Ca., direttore generale della Azienda ospedaliera di Desio e Vimercate, il quale, a fonte del compimento di una serie di atti contrari ai doveri d'ufficio, avrebbe ricevuto in cambio l'assunzione in Se. di Zi.Gi., dallo stesso segnalata. L'oggetto del patto illecito sarebbe costituito dal totale asservimento della funzione e dal compimento di due atti contrari ai doveri d'ufficio, costituiti dalla turbativa d'asta di cui al capo K) - di cui si è già detto- e- seppure non oggetto di contestazione formale- dall'aggiornamento del tariffario nel 2012 che, secondo la Corte, non rispondeva ad esigenze dell'Azienda ma a un interesse del privato, cioè di Ca.Ma.; le nuove tariffe sarebbero state decise, secondo la Corte, nel corso di una riunione tra altri soggetti e Ca. avrebbe "preso atto" e quindi ratificato tali modifiche. 6.7.1. Si è già detto di come, secondo la ricorrente, non sarebbe provato che la modifica del tariffario rispondesse esclusivamente ad un suo interesse, essendo stato invece accertato che detto aumento fosse conforme all'interesse dell'ente perché foriero di maggiori introiti, circostanza, questa che troverebbe conferma in una serie di risultanze istruttorie. Si sottolinea, sotto altro profilo, come l'aumento delle tariffe sarebbe stato non anomalo ma possibile e legittimo; dunque non sarebbe chiaro perché sarebbe espressione del patto corruttivo la firma di Ca. sulla delibera legittima di approvazione del tariffario del 2.7.2012. Sul tema la sentenza sarebbe viziata. Quanto alla turbativa d'asta di cui al capo K), di cui si è detto, si ribadisce come sarebbe la stessa Corte di appello a ribadire la legittimità delle clausole inserite nel bando (vengono riprese le considerazioni già svolte); anche in questo caso la condotta attribuita sarebbe costituita dalla apposizione della firma sulla delibera di indizione della gara, ma nulla sarebbe stato spiegato sulla prova della collusione e della partecipazione dello stesso Ca. nella predisposizione del bando. Anche in relazione al capo Q) mancherebbe inoltre la prova dell'accordo corruttivo, sulla quale pure la Corte era stata sollecitata e del nesso tra le condotte contestate al pubblico ufficiale e l'assunzione di Zi.Gi., in assenza peraltro di interlocuzioni dell'imputata con lo stesso Ca. Il fatto ricostruito dai Giudici di merito sarebbe al più riconducibile all'art, 318 cod. pen. 6.7.2. I Giudici di merito hanno spiegato che Zi.Gi., assunta da Se. su indicazione di Ca., fu retribuita per due anni, dal gennaio del 2014 (cfr. sul punto, pagg. 118 e ss. sentenza di primo grado); l'assunzione di Zi.Gi. fu conseguente ad altre segnalazioni da parte di Ca. di altre persone che avrebbero dovuto essere assunte; Zi.Gi. conseguì la retribuzione senza avere mai sostanzialmente lavorato. Su tali decisivi profili il ricorso è totalmente silente. Il ricorso è silente anche in relazione alla affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui il "compendio probatorio costituito da innumerevoli conversazione telefoniche richiamate in sentenza, rimasta non confutata in appello, consente di ritenere ampiamente provata la posizione di totale asservimento del pubblico ufficiale Ca. agli interessi del privato Ca.Ma." (così a pag. 79 sentenza impugnata e, in modo assolutamente simmetrico, pag. 122 sentenza Tribunale, richiamata anche dall'imputato, secondo cui "la controprestazione nel caso di specie non si riferisce a un atto specifico di Ca. ma rientra in un rapporto corruttivo che perdura nel tempo. Dalle conversazioni telefoniche emerge con chiarezza la sussistenza di un accordo corruttivo in virtù del quale Ca.Ma.da una parte può contare sull'apporto del pubblico ufficiale Ca. e quest'ultimo, consapevole delle proprie condotte poste in essere in favore del privato è consapevole di poter chiedere l'assunzione di vari soggetti") Nulla di specifico è stato dedotto anche al riguardo, essendosi limitata l'imputata ad affermazioni generiche senza confrontarsi con la motivazione della sentenza impugnata. Dunque, un asservimento della funzione, del suo essere, del suo ruolo da parte di Ca. che, in virtù della presa a carico dell'interesse del privato, chiese ed ottenne una oggettiva utilità. In tale contesto i Giudici di merito hanno fatto derivare la prova della esistenza di atti contrari d'ufficio dall'avere Ca. firmato nel 2012 la delibera di modifica del tariffario e il 29.4.2014 la delibera con cui fu indetta la gara di cui al capo K. Una responsabilità, tuttavia, affermata senza nessuna prova della ingerenza di Ca. negli accadimenti in questione, senza indicazione di nessun elemento probatorio da cui desumere la inquinante consapevolezza del pubblico ufficiale della contrarietà ai doveri di ufficio di quegli atti. Una responsabilità obiettivamente fatta derivare dalla posizione di direttore generale, dalla funzione e dai poteri di questi (cfr. sul punto, in modo chiarissimo, la Corte di appello a pag. 78 della sentenza impugnata). Quanto alla delibera di indizione della gara, si è già detto di come non vi sia la prova della compartecipazione di Ca. alle condotte collusive, né quella della sua consapevolezza che quelle clausole, in astratto legittime, furono inserite nel bando non perché funzionali al perseguimento dell'interesse pubblico ma per favorire il privato corruttore e turbare la gara. Non diversamente, quanto alle modifiche del tariffario, avvenute due anni prima dell'assunzione di Zi.Gi., nulla è stato spiegato sulla base di quali elementi sia stata raggiunta la prova che l'accordo corruttivo fu concluso sin dal 2012 e che anche quell'atto rientrasse nel suo oggetto. Ne deriva che il fatto di cui al capo Q) del decreto che dispone il giudizio immediato, in assenza della prova del compimento di atti contrari ai doveri d'ufficio oggetto del patto da parte del pubblico ufficiale, deve essere ricondotto al reato di cui all'art 318 cod. pen. e la sentenza deve essere annullata con rinvio per la rideterminazione della pena. 6.8. È fondato solo in punto di qualificazione, seppur in parte inammissibile, l'ottavo motivo di ricorso relativo al giudizio di responsabilità per il fatto corruttivo di cui al capo R), in cui si contesta all'imputata di avere corrotto Ga., direttore amministrativo dell'Azienda Ospedaliera di Desio- Vimercate che, a fronte del compimento di una serie di atti di ufficio, avrebbe ricevuto come utilità il 19.1.2016, cioè dopo pochi giorni il suo pensionamento, un contratto di prestazione di opera intellettuale per una retribuzione lorda di euro 114.000, con una società comunque riconducibile alla stessa Ca.Ma. Alla Ga. è contestato innanzitutto di aver firmato la delibera di indizione della gara di cui al capo K) e quella di approvazione dell'aggiornamento del tariffario; è inoltre contestato di avere omesso di denunciare il sistema illecito relativo al raddoppio delle prescrizioni del numero degli impianti, di cui si è già detto. 6.8.1. Le considerazioni difensive sono sostanzialmente le stesse indicate in relazione ai fatti di corruzione contestati a Ca. e Go.An. Si è già detto di come, secondo la ricorrente, sarebbe documentalmente provato che, diversamente dagli assunti della Corte, Ga. non partecipò alla riunione in cui si discusse con Ca.Ma. della modifica del tariffario; né vi sarebbe la prova della connessione causale tra le prestazioni. Si è già detto anche di come, con riguardo alla contestazione di aver omesso di segnalare il sistema del raddoppio degli impianti, siano state riproposte le stesse considerazioni sviluppate per la corruzione di Go.An. (capo L), in ordine alla individuazione dell'atto contrario ai doveri di ufficio e alla qualificazione giuridica dei fatti. 6.8.2. Quanto alla esistenza del patto corruttivo, i Giudici di merito hanno spiegato che: a) anche prima della assunzione di Ga., Ca.Ma. avesse assunto la nipote - e il di lei marito- del compagno della Ga.; b) l'assunzione di Ga. fu posta in essere nonostante la Ca.Ma. non avesse stima di quella (cfr. sul punto pag. 120- 121 e ss. sentenza del Tribunale). Sul punto il ricorso è silente ed è sostanzialmente silente anche in relazione al tema della prova dell'accordo corruttivo, sul quale pure nulla di specifico è stato dedotto. L'intero motivo di ricorso è sostanzialmente costruito sulla configurabilità del reato di corruzione propria e sulla esistenza di atti contrari ai doveri di ufficio: sul tema è sufficiente rinviare a quanto già detto in relazione al fatto corruttivo contestato al capo Q)- Ne consegue che anche per il capo in esame, in assenza di un chiaro coinvolgimento di Ga. nel sistema illecito relativo al raddoppio delle prescrizioni del numero degli impianti, i fatti devono essere ricondotti al reato di cui all'art. 318 cod. pen. e, di conseguenza, la sentenza annullata con conseguente rinvio alla Corte di appello per la rideterminazione della pena. 6.9. È fondato il nono motivo di ricorso, relativo al capo D) della imputazione. Si tratta di un fatto di turbata libertà degli incanti dichiarato estinto per prescrizione per il quale sono state tuttavia confermate le statuizioni civili; del reato in esame Ca.Ma. risponde in concorso con Lo.Ma., appartenente allo staff del presidente della terza commissione della Regione Lombardia, e con Massimiliano Sa., responsabile di una determinata struttura dell'Azienda Ospedaliera Istituti Clinici di Perfezionamento di Milano. Lo.Ma. e Sa. avrebbero colluso con Ca.Ma. per ottenere un determinato contenuto del bando relativo alla gara, poi aggiudicata alla Se.; secondo la ricorrente sarebbe viziata l'affermazione della Corte secondo cui Longo avrebbe agito come tramite della Ca.Ma. con Or., responsabile unico del procedimento, rispetto al quale tuttavia non vi sarebbe stato nessun accordo corruttivo. 6.9.1. Si è già detto di come, secondo l'imputata, proprio l'assenza di prova di un patto corruttivo con Or. renderebbe viziato il ragionamento probatorio dei Giudici di merito che avrebbero ritenuto provata la condotta collusiva dalla esistenza di una serie di elementi - quali gli incontri tra i soggetti interessati nel marzo del 2012 - non dimostrativi di alcunché perché sostanzialmente riguardanti solo la carriera professionale dello stesso Or.; nel senso della inesistenza della collusione deporrebbe inoltre la mancata inclusione nel bando della clausola a cui era interessata la Ca.Ma., cioè l'inclusione nel lotto unico anche del laboratorio di Baggio. Si aggiunge che ove pure fossero state provate le collusioni nondimeno non vi sarebbe prova del turbamento della gara, atteso che le stesse non avevano influito sul contenuto del bando. Considerazioni analoghe vengono compiute anche per la ipotizzata collusione tra Ca.Ma. e Sa. quanto al tariffario e alla condivisione della notizia inerente la data di pubblicazione del bando. 6.9.2. Le Sezioni unite della Corte hanno chiarito che all'esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, nel caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità. In particolare, in presenza di una causa di estinzione del reato, il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell'art. 129 comma secondo, cod. proc. pen. soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di "constatazione", ossia di percezione "ictu oculì", che a quello di "apprezzamento" e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento. Le Sezioni unite hanno tuttavia affrontato il tema della interferenza della disciplina contemplata nell'art. 578 cod. proc. pen. rispetto a quella prevista dall'art. 129 cod. proc. pen. e chiarito che la disposizione di cui al secondo comma dell'art. 129 cod. proc. pen. deve coordinarsi con la presenza della parte civile nel processo e con la esistenza di una pronuncia di una condanna in primo grado; in tali casi, il giudice dell'appello, pur prendendo atto della causa estintiva del reato verificatasi nel corso del giudizio di impugnazione, è tuttavia tenuto a pronunciarsi, ai sensi dell'art. 578 cod. proc. pen., sull'azione civile. Ne consegue, argomentano le Sezioni unite, che il giudice d'appello deve compiere "una valutazione approfondita dell'acquisito compendio probatorio, senza essere legato ai canoni di economia processuale che impongono la declaratoria della causa di estinzione del reato quando la prova della innocenza non risulti ictu oculi .. e non sussiste alcuna ragione per la quale, in sede di appello...non debba prevalere la formula assolutoria nel merito rispetto alla causa di estinzione del reato: e ciò, non solo nel caso di acclarata piena prova di innocenza, ma anche in presenza di prove ambivalenti, posto che alcun ostacolo procedurale, né le esigenze di economia processuale (che, come più volte detto, costituiscono, con riferimento al principio della ragionevole durata del processo, la ratio ed il fondamento della disposizione di cui all'art. 129 comma 2, cod. proc. pen.), possono impedire la piena attuazione del principio del favor rei con l'applicazione della regola probatoria di cui al secondo comma dell'art. 530 del codice di rito" ( Sez. U., n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244274). 6.9.3. Rispetto a tale quadro di riferimento, deve dunque essere verificato se la Corte di appello abbia fatto un corretta applicazione dei principi indicati. La Corte di appello, rilevata l'estinzione del reato per prescrizione, ha ritenuto di confermare comunque le statuizioni civili, affermando come dall'esame degli atti non vi sarebbero elementi per pervenire ad una "pronuncia più favorevole alla imputata" (così testualmente a pag. 84 della sentenza impugnata). In tal senso si sono valorizzati una serie di elementi quali: a) l'avere Longo e Sa. definito la rispettiva posizione processuale con una sentenza di applicazione dei pena; b) l'esistenza di conversazioni intercettate che comproverebbero il costante e continuativo contatto tra Lo.Ma. e Or., che, pur incentrate sulle aspirazioni professionali di quest'ultimo, costituirebbero nondimeno "un importante indizio" della esistenza di un sistema di rapporti clientelari tra "i soggetti coinvolti". Tali circostanze attribuirebbero rilevanza penale anche alla richiesta di Ca.Ma. veicolata da Lo.Ma. ad Or. 6.9.4. Si tratta di una motivazione che, se valutata in relazione agli specifici motivi di appello, rivela la sua strutturale instabilità non avendo la Corte spiegato, al di là di riferimenti generici, da una parte, perché, nella specie, vi sarebbe la prova delle condotte collusive e perché dette collusioni avrebbero una efficacia traslativa rispetto al soggetto, Or., che materialmente predispose il bando e che tuttavia è stato ritenuto estraneo sia alla turbativa d'asta sia ad ogni patto corruttivo, e dall'altra, perché la interlocuzione tra Sa. e Ca.Ma., quanto alla modifica del tariffario, non adottata, avrebbe avuto idoneità inquinante della gara. Ne consegue che, in assenza della prova certa del fatto generatore della responsabilità civile, la sentenza deve essere annullata con rinvio al giudice civile. 6.10. È infondato, ai limiti della inammissibilità, il decimo motivo di ricorso relativo al fatto corruttivo di cui al capo E) con il quale si contesta a Ca.Ma. di aver corrotto Massimiliano Sa., dipendente dell'Azienda ospedaliera Istituti clinici di perfezionamento, avente funzioni di dirigente della struttura semplice denominata "gestione e controllo dei processi organizzativi". A fronte di una serie di atti contrari ai doveri di ufficio, a Sa. sarebbe stata promessa dall'imputata l'assunzione della moglie e una serie di commesse di fornitura. 6.10.1. Il motivo di ricorso si struttura su due distinti livelli; il primo attiene alla prova del patto corruttivo e al sinallagma tra le prestazioni, il secondo, invece, alla esistenza di atti contrari ai doveri di ufficio e, quindi, alla qualificazione giuridica dei fatti che, al più, sarebbero riconducibili al reato di cui all'art. 318 cod. pen. 6.10.2. Quanto alla prova del patto corruttivo e del nesso tra le prestazione, i Giudici di merito hanno ricostruito i fatti spiegando come: a) Sa. svolgesse una funzione di controllo e di verifica di tutte le modalità con cui venivano erogate le prestazioni odontoiatriche nella Azienda Ospedaliera; b) avesse rapporti amicali ed economici con Ca.Ma.; c) preannunciò a Ca.Ma. i problemi, individuati dalla AsI, relativi al personale del service gestito dall'imputata e un imminente controllo al riguardo; d) informò la Ca.Ma. degli esiti dei controlli preannunciando successive verifiche che ebbero esito positivo per la Ca.Ma. per essere stata questa previamente informata (cfr. pagg. 162 e ss. sentenza di primo grado); e) a fronte di detta attività, la As., riconducibile allo stesso Sa., avrebbe ricevuto numerose commesse di fornitura di macchinari dagli ambulatori delle società dell'imputata e si sarebbe fatta promettere l'assunzione della di lui moglie (cfr. pagg. 182 e ss. sentenza di primo grado, e pagg. 87 e 88 sentenza di appello). Sul punto il motivo di ricorso è sostanzialmente silente, non essendo stato dedotto nulla di specifico e non essendosi l'imputata confrontata con le motivazioni delle sentenze di merito. Non diversamente è infondato il motivo di ricorso quanto al tema della sussistenza di atti contrari ai doveri di ufficio e della configurabilità del reato di corruzione propria. I giudici di merito, pur facendo riferimento ad indirizzi giurisprudenziali non completamente condivisibili per le ragioni già in precedenza esposte, hanno tuttavia spiegato come, nel caso di specie, il pubblico ufficiale infedele non si sia limitato a prendere in carico l'interesse del privato corruttore, ma abbia in concreto posto in essere atti contrari ai doveri d'ufficio, come, appunto, avvisare il privato corruttore di controlli imminenti in tal modo consentendo a questi di eliminare le disfunzioni organizzative della propria attività. Né è obiettivamente chiaro perché rivelare da parte di un dirigente - deputato al controllo e alla verifica - ciò che non avrebbe dovuto essere rivelato, cioè un imminente controllo, non sarebbe contrario ai doveri d'ufficio, tenuto conto peraltro che l'"atto d'ufficio" non deve essere inteso in senso strettamente formale in quanto esso è integrato anche da un comportamento materiale che sia esplicazione di poteri-doveri inerenti alla funzione concretamente esercitata (Cfr., Sez. 6, n. 17585 del 28/02/2017, Pastore, Rv. 269831). Ne deriva l'infondatezza del motivo. 6.11. È infondato l'undicesimo motivo di ricorso relativo al capo J) del decreto di giudizio immediato e che è contestato anche ai ricorrenti Al.Gi. e Na.Gi. L'imputazione riguarda un fatto corruttivo in cui si contesta a Al.Gi., quale pubblico ufficiale in quanto dirigente di Odontoiatria presso la Clinica odontoiatrica dell'ospedale IRCCS Policlinico di Milano e referente del reparto protesi mobili della medesima Clinica, di avere favorito la società El., riconducibile a Ca.Ma. e Na.Gi., in cambio di un contratto di prestazioni lavorative e delle conseguenti retribuzioni per la di lui compagna Ba.El., giudicata separatamente. Al.Gi., secondo la imputazione, avrebbe compiuto atti contrari ai doveri d'uffici, consistiti: a) nell'avere, nell'ambito di un accordo quadro per la fornitura di materiale odontoiatrico, favorito la società indicata effettuando in favore della medesima consistenti ordini di materiale per ortodonzia e per protesica in danno delle altre aziende fornitrici; b) nell' avere fornito indicazioni a Na.Gi. per la formulazione di una proposta relativa ad ulteriori forniture non comprese nell' accordo quadro di cui si è detto, in modo di favorire la scelta della predetta società in danno di altre; c) per essersi posto sistematicamente a servizio di Ca.Ma. e Na.Gi. nella gestione delle forniture al fine di favorirne l'incremento degli affari. 6.11.1. I Giudici di merito hanno ricostruito i fatti evidenziando come: a) i contatti tra Ca.Ma., Na.Gi. e Al.Gi. fossero sin dall'inizio finalizzati da parte dei primi due ad aumentare la richiesta di forniture con correlativo aumento di fatturato e come tale obiettivo fosse posto in relazione con la volontà di fare "un regalo" al terzo e alla collaborazione professionale con la compagna del prezioso pubblico ufficiale; b) Al.Gi. avesse promesso a Na.Gi. "alcuni numeri" e, davanti alle domande di questi che faceva rilevare come quei numeri non "risultassero", Al.Gi. aveva in qualche modo spiegato come gli ordini fossero stati tenuti sospesi perché doveva essere completato il rapporto con un altro fornitore; c) Al.Gi. subordinasse la possibilità di "fare favori" alla "sistemazione" della compagna (pagg. 241 e ss. sentenza impugnata); d) nel corso del tempo e in relazione alla evoluzione positiva del rapporto con la Ba.El., "i numeri" fossero aumentati (cfr. pag. 255 sentenza di primo grado); e) Al.Gi., consapevole dell'abuso, si rese disponibile a riferire in anticipo a Na.Gi. l'elenco dei prodotti ulteriori che l'ospedale avrebbe potuto richiedere; f) Al.Gi. facesse da riferimento per veicolare a Ca.Ma. e Na.Gi. le richieste della compagna, volte ad ottenere una migliore posizione lavorativa di questa, e che proprio in ragione di tale funzione Na.Gi. poteva interloquire con lo stesso Al.Gi. dei propri interessi con una maggiore capacità persuasiva; g) Al.Gi. fosse partecipe della verifica della crescita degli ordini alla El.. 6.11.2. In tale contesto, il motivo di ricorso rivela la sua complessiva infondatezza. Il motivo è inammissibile per genericità quanto ai temi della prova dell'accordo corruttivo e del nesso di corrispettività tra le prestazione dell'accordo illecito. Si tratta di assunti generici che non si confrontano con la motivazione delle sentenze dei Giudici di merito che, sulla base delle conversazioni intercettate e peraltro nemmeno contestate, hanno correttamente ritenuto provato il patto illecito e la corrispettività delle prestazioni. Sul contenuto delle conversazioni e sulla loro capacità dimostrativa il ricorso è del tutto muto. La Corte di cassazione ha costantemente affermato che la funzione tipica dell'impugnazione è quella della critica argomentata avverso il provvedimento cui si riferisce. Tale critica argomentata si esplica attraverso la presentazione di motivi che, a pena di inammissibilità (artt. 581 e 591 cod. proc. pen.), devono indicare specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta. Contenuto essenziale dell'atto di impugnazione è infatti il confronto puntuale (cioè con specifica indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che fondano il dissenso) con le argomentazioni del provvedimento il cui dispositivo si contesta. Ne consegue che se il motivo di ricorso si limita ad affermazioni generiche, esso non è conforme alla funzione per la quale è previsto e ammesso, cioè la critica argomentata al provvedimento, posto che con siffatta mera riproduzione il provvedimento formalmente "attaccato", lungi dall'essere destinatario di specifica critica argomentata, è di fatto del tutto ignorato. Non è obiettivamente chiaro, alla luce delle decine di pagine di conversazioni intercettate e non contestate, perché nella specie non vi sarebbe prova del fatto corruttivo. Il motivo è infondato anche nella parte relativa al tema della sussistente discrezionalità in capo ad Al.Gi. e della corretta qualificazione dei fatti in termini di corruzione propria. Diversamente dagli assunti difensivi, secondo cui nel caso di specie vi sarebbe stato un travisamento della prova, la Corte ha richiamato la sentenza di primo grado che aveva evidenziato gli elementi posti a fondamento della ritenuta sussistenza del patto corruttivo, del nesso di corrispettività tra le prestazioni e ha spiegato, riportando testualmente una parte della deposizione dello stesso Gi. (cfr., pag. 109 della sentenza impugnata), come residuasse un margine d discrezionalità nella distribuzione degli affari e, in particolare, come, secondo lo stesso Gi. (fortemente valorizzato in chiave difensiva) vi fosse la possibilità di determinare, a certe condizioni, uno scostamento, seppur non elevato, della distribuzione degli ordini. Si tratta di una piattaforma probatoria chiara che consente di inferire la prova che il patto corruttivo prevedeva non solo l'asservimento della funzione ma anche il compimento di atti contrari ai doveri d'ufficio. L'oggetto del patto, così come provato, consente, al di là degli assunti difensivi, di sussumere i fatti nella fattispecie prevista dall'art. 319 cod. pen. Sul punto le censure dedotte si sviluppano sul piano della ricostruzione fattuale e sono sostanzialmente volte a sovrapporre un'interpretazione delle risultanze probatorie diversa da quella recepita dai giudici di merito, piuttosto che a far emergere un vizio della motivazione rilevante ai sensi dell'art. 606 cod. proc. pen. Secondo i principi consolidati dalla Corte di cassazione la sentenza non può tuttavia essere annullata sulla base di mere prospettazioni alternative che si risolvano in una rilettura orientata degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell'assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferire rispetto a quelli adottati dal giudice del merito, perché considerati maggiormente plausibili, o perché assertivamente ritenuti dotati di una migliore capacità esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata ( Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, rv. 265482; Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, Bosco, rv. 234148). L'odierna ricorrente ha riproposto con il ricorso per cassazione la versione dei fatti dedotta in primo e secondo grado e disattesa dai Giudici del merito; compito del giudice di legittimità nel sindacato sui vizi della motivazione non è tuttavia quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito, ma quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando completa e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre. E' possibile che nella valutazione sulla "tenuta" del ragionamento probatorio, la struttura motivazionale della sentenza di appello si saldi con quella precedente per formare un unico corpo argomentativo, atteso che le due decisioni di merito possono concordare nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni (cfr., in tal senso, tra le altre, Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, rv. 2574595; Sez. 2, n. 5606 dell'8/2/2007, Conversa e altro, Rv. 236181; Sez. 1, n. 8868 dell'8/8/2000, Sangiorgi, rv. 216906; Sez. 2, n. 11220 del 5/12/1997, Ambrosino, rv. 209145). Tale integrazione tra le due motivazioni si verifica allorché i giudici di secondo grado, come nel caso in esame, esaminino le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con riferimenti alle determinazioni ed ai passaggi logico-giuridici della decisione di primo grado e, a maggior ragione, ciò è legittimo quando i motivi di appello non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione del primo giudice (Cfr. la parte motiva della sentenza Sez. 3, n. 10163 del 12/3/2002, Lombardozzi, Rv. 221116). Nel caso di specie, i giudici di appello, che pure hanno fatto riferimento alle argomentazioni sviluppate nella sentenza di primo grado, hanno fornito una valutazione analitica ed autonoma sui punti specificamente indicati nell'impugnazione di appello, di talché la motivazione risulta esaustiva ed immune dalle censure proposte. Dunque è corretta la qualificazione giuridica dei fatti al reato di corruzione propria: Al.Gi., in cambio della sistemazione della compagna, promise di veicolare gli ordini e le informazioni alla El., a Ca.Ma., a Na.Gi. (cfr., fra le altre, pag. 120- 121 sentenza impugnata, ma anche le decine di pagine dedicate al capo in esame dal Tribunale). 6.12. È invece fondato il dodicesimo motivo, relativo al fatto corruttivo di cui al capo P) in cui si contesta all'imputata di avere corrotto, mediante la dazione di somme di denaro, Ce.An., dipendente dell'Azienda Ospedaliera di Garbagnate Milanese e responsabile aziendale per l'attività odontoiatrica di Limbiate e Arese svolta in service dalla società De.(riconducibile alla stessa Ca.Ma.), che avrebbe compiuto una serie di atti contrari ai doveri d'ufficio, quali: a) la partecipazione alla commissione aggiudicatrice per la gara bandita dall'Azienda ospedaliera Fatebenefratelli di Milano - poi aggiudicata alla Se. - per il servizio di odontoiatria, rispetto al quale Cetta avrebbe avuto un dovere di astensione in ragione dei rapporti d'affari con Ca.Ma.; b) l'esercitare pressioni sul direttore generale dell'Azienda Ospedaliera, Ermenegildo Ma., affinchè desse l'assenso per l'apertura dell'ambulatorio di Bollate, affidato alla stessa De.. Il giudizio di responsabilità è stato fatto discendere dalla Corte di appello, che è rimasta silente sul tema della partecipazione di Cetta alla commissione aggiudicatrice in violazione del dovere di astensione, esclusivamente in considerazione delle pressioni che lo stessa Cetta avrebbe esercitato, nell'interesse del privato corruttore, nei confronti di Ma., cioè del funzionario legittimato ad avviare il procedimento complesso che avrebbe potuto portare all'apertura del centro a Bollate. Non è in contestazione che al patto corruttivo è rimasto estraneo Ma.; l'assunto costitutivo posto a fondamento del giudizio di responsabilità è che il pubblico ufficiale corrotto sarebbe stato Cetta e che l'oggetto del patto corruttivo sarebbe stato il compimento di un atto contrario ai doveri dell'ufficio di Cetta, cioè, come detto, il fare pressioni su Ma. affinchè questi desse impulso alla procedura volta alla apertura dell'ambulatorio odontoiatrico a Bollate. In particolare, secondo la Corte di appello, rileverebbe la circostanza che Cetta, che rivestiva all'interno dell'Azienda Ospedaliera di Garbagnate milanese il ruolo di responsabile dell'azienda per l'attività odontoiatrica svolta presso gli ambulatori del territorio, avesse esercitato le pressioni di cui si è detto (pag. 93 sentenza impugnata). 6.12.1. Si tratta di un ragionamento obiettivamente viziato. Va sul punto richiamato il consolidato orientamento secondo cui il reato di corruzione rientra tra i reati propri funzionali, con la conseguenza che il comportamento oggetto del mercimonio deve rientrare nella sfera di competenza o di influenza dell'ufficio cui appartiene il soggetto corrotto (Sez. 6, n. 33435 del 4/5/2006, Battistella, rv. 234359; in senso analogo, Sez. 6, n. 23355 del 26/2/2016, Margiotta, rv. 267060 e Sez. 6, n. 20502 del 2/3/2010, Martinelli, rv. 247373, secondo cui «ai fini della configurabilità del reato di corruzione propria, non è determinante il fatto che l'atto d'ufficio o contrario ai doveri d'ufficio sia ricompreso nell'ambito delle specifiche mansioni del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, ma è necessario e sufficiente che si tratti di un atto rientrante nelle competenze dell'ufficio cui il soggetto appartiene ed in relazione al quale egli eserciti, o possa esercitare, una qualche forma di ingerenza, sia pure di mero fatto»). La Corte, tuttavia, non si è affatto confrontata con le argomentazioni difensive secondo cui: a) Ce.Al. era stato responsabile aziendale solo per l'attività odontoiatrica svolta presso gli ambulatori di Limbiate e Arese dal 2007 al 31.12.2013, allorché si era dimesso per una contestazione disciplinare; b) l'oggetto dell'incarico a Limbiate e Arese era quello di assicurare la omogeneità del Servizio erogato dall'assistenza specialistica affidato alla De., attraverso la programmazione, l'organizzazione, la formazione e la supervisione sia clinica che terapeutica"; c) Cetta non aveva ricevuto nessuna nomina di responsabile dell'attività odontoiatrica presso l'ambulatorio di Bollate, che non esisteva e per l'apertura del quale avrebbe compiuto pressioni. Peraltro secondo la stessa Corte di appello, il comportamento oggetto del mercimonio riguardava un procedimento e un ufficio che non solo non rientrava nelle specifiche mansioni di Cetta ma che non era quello dello stesso Ce.An. Una motivazione sincopata in cui neppure è stata descritta la procedura che avrebbe dovuto condurre all'apertura dell'ambulatorio e quali fossero i profili di interferenza e di influenza tra l'ufficio e le competenze di Cetta, individuate in modo obiettivamente generico, e il procedimento che avrebbe potuto condurre all'apertura del laboratorio a Bollate. Si tratta di un profilo che assume valenza anche rispetto al tema della corrispettività delle prestazioni dell'ipotizzato patto corruttivo. Ne consegue che la sentenza deve essere annullata sul capo; la Corte di appello, ricostruirà con rigore i fatti e applicherà i principi indicati al fine di verificare la sussistenza del patto corruttivo e se i fatti contestati siano riconducibili al reato di corruzione propria ovvero, eventualmente, ad altre fattispecie di reato. 6.13. È fondato, nei limiti di cui si dirà, il tredicesimo motivo di ricorso, relativo alla corruzione di cui al capo F), con cui si contesta a Ca.Ma. di aver corrotto Lo.Ma. e Ri., questi nella qualità di Consigliere regionale e Presidente della III commissione permanente del Consiglio della Regione Lombardia, mentre il primo quale consulente e, più in generale, appartenente allo staff presidenziale della Commissione sanità della Regione Lombardia. In particolare Lo.Ma. e Ri. avrebbero compiuto atti contrari ai doveri di ufficio consistiti nell'utilizzo del loro ruolo politico e della loro posizione al fine di favorire Ca.Ma.: in cambio i due pubblici ufficiali infedeli avrebbero ricevuto denaro e utilità. Dal dato testuale della imputazione emerge come gli atti contrari ai doveri di ufficio che i pubblici ufficiali avrebbero compiuto sarebbero consistiti nello spendere il proprio ruolo, la propria influenza e la propria posizione verso terzi soggetti allo scopo di favorire Ca.Ma. e le sue società in una serie di vicende. L'imputazione di corruzione è costruita nel senso che parti del patto corruttivo sarebbero stati la ricorrente e Lo.Ma. e Ri. e non anche il soggetto che questi ultimi avrebbero provato a influenzare. Dunque un patto corruttivo intercorso solo tra tre soggetti. 6.13.1. La motivazione della sentenza impugnata è in effetti tutta costruita nel senso di attribuire a Lo.Ma. e Ri. un ruolo di collegamento, di influenza, di intermediazione tra la Ca.Ma.- e gli interessi di questa- e i soggetti che, di volta in volta, dovevano essere "avvicinati" (che, tuttavia, lo si ripete, non sono stati considerati parti dell'accordo corruttivo) e i cui uffici dovevano compiere atti e attività che avrebbe interferito con gli interessi della stessa Ca.Ma. Sulla base di tale quadro di riferimento, sostanzialmente non in contestazione tra le parti, emerge chiaramente la errata applicazione della legge penale da parte della Corte di appello. Ciò che è stato accertato è solo l'opera di favoritismo da parte di Lo.Ma. e Ri., la spendita della loro influenza, della loro posizione per indurre altri a compiere atti che favorissero la Ca.Ma.; un'opera di influenza onerosa in ragione della quale Lo.Ma. e Ri. ricevevano un compenso. 6.13.2. Il tema allora che si pone è quello della corretta qualificazione dei fatti che devono essere ricondotti al reato di traffico di influenze illecite. È stato evidenziato come, a seguito della legge 9 gennaio 2019, n. 3, la base di tipicità del reato sia stata rimodellata estensivamente in una triplice direzione: - si è provveduto all'abrogazione del reato di millantato credito sulla scia delle previsioni sovranazionali che sollecitavano la punizione della compravendita di influenza; - si è eliminato l'inciso contenuto nel precedente testo dell'art. 346-bis «in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio»; - è venuta meno la natura necessariamente "patrimoniale" del vantaggio dato o promesso al mediatore, per cui ora la disposizione individua il corrispettivo ricevuto dal venditore di influenza con il generico termine "utilità"; - il raggio operativo dell'incriminazione è stato ampliato agli accordi finalizzati ad influenzare un pubblico ufficiale straniero o altro soggetto menzionato nell'art. 322-bis cod. pen. (traffico di influenze c.d. internazionale). Si è da più parti affermato in maniera condivisibile, quanto alla offensività ed alla lesione del bene giuridico, che l'art. 346-bis cod. pen. incrimina attualmente condotte prodromiche a più gravi fatti, secondo la tecnica della anticipazione della tutela; una tutela avanzata dei beni della legalità e della imparzialità della pubblica amministrazione rispetto ad una tipo criminoso obiettivamente non omogeneo. L'ampliamento della clausola di sussidiarietà dell'art. 346-bis cod. pen., oltre ad escludere il concorso tra il traffico di influenze e le più gravi ipotesi di corruzione per atto contrario ai doveri d'ufficio e di corruzione in atti giudiziari, assume rilievo anche in ordine ai delitti di cui agli artt. 318 e 322-bis cod. pen. Si sono fugate le incertezze, riguardanti il rapporto tra il traffico di influenze e la corruzione per l'esercizio della funzione nel caso in cui il pubblico ufficiale (o l'incaricato di pubblico servizio) accetti la promessa o la dazione del denaro o dell'utilità offertagli dall'intermediario per il compimento di un atto conforme ai suoi doveri d'ufficio ovvero per la vendita della sua funzione, di sè stesso, del suo essere pubblico agente. Nell'eventualità in cui la mediazione illecita vada a buon fine e si concluda l'accordo con il pubblico agente, le condotte descritte nell'art. 346-bis cod. pen. degraderanno a mero ante-factum non punibile, il cui disvalore risulterà assorbito in quello degli altri e più gravi delitti richiamati dalla clausola. Anche dopo la novella del 2019, la materialità del fatto incriminato dall'art. 346- bis cod. pen. continua a descrivere due condotte tra loro alternative, che differiscono in ordine alla causa ed alla giustificazione della promessa/dazione del compratore di influenze. Nella prima ipotesi, l'erogazione indebita costituisce il corrispettivo della mediazione illecita presso il pubblico agente italiano, straniero o internazionale. Nella seconda, la corresponsione illecita è effettuata all'intermediario affinché questi, a sua volta, remuneri il soggetto pubblico in relazione all'esercizio delle sue funzioni o poteri. Tale quadro di riferimento si distingue ulteriormente, con varie possibili combinazioni, in ragione della duplicità delle condotte dell'intermediario, consistenti nello sfruttare ovvero vantare relazioni, esistenti o asserite, con il pubblico ufficiale. Si tratta di condotte (sfruttamento, vanteria) che possono riguardare: a) un rapporto tra mediatore e pubblico agente ed una capacità di influenza del primo che possono effettivamente esistere già al momento in cui la condotta è commessa e di cui il "compratore" può essere già a conoscenza; b) un rapporto che non esiste al momento in cui il "l'influenza" viene venduta ma che il "compratore" sa del potere del "venditore" di realizzalo, di concretizzarlo, di renderlo effettivo - grazie ad una capacità di influenza potenziale (dovuta ad es. al suo prestigio sociale o posizione professionale riconosciuta nell'ambiente di riferimento); c) un rapporto che esiste e che tuttavia è magnificato dal "mediatore", ampliato, fatto apparire più intenso di quanto lo sia in concreto; d) un rapporto che non solo non esiste al momento in cui la condotta è compiuta ma che il "venditore" sa che non potrà nemmeno realizzarsi in futuro e che il "compratore" ritiene invece esistente o realizzabile per effetto di una condotta decettiva del mediatore (un traffico di influenze impossibile/putativo). Il rapporto tra mediatore e pubblico agente e la capacità di influenza del primo sul secondo possono essere inesistenti, esistenti - anche solo in potenza- e, posto che siano esistenti, assumere diverse gradazioni e modulazioni a seguito delle asserzioni del "mediatore -venditore". In tale contesto, la modalità comportamentale consistente nella dazione/promessa del privato committente al "trafficante di influenza" affinché questi provveda a remunerare il pubblico agente (c.d. mediazione gratuita ) è quella di più agevole discernimento sul piano strutturale. L'accordo illecito nella specie assume, infatti, una finalità prospetticamente corruttiva e si colloca in uno stadio anticipato rispetto alle fattispecie previste dagli artt. 318 ss. cod. pen. L'ultima novella legislativa ha fortemente esteso il perimetro applicativo della fattispecie: mentre infatti nel testo previgente la remunerazione doveva essere condivisa dalle parti dell'accordo illecito in vista dell'ottenimento di un atto antidoveroso, cioè il compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio ovvero omissione o ritardo di un atto dell'ufficio-, nel nuovo regime normativo, invece, tale proiezione finalistica realizza una aggravante, quella che è stata innestata nel comma 4, parte seconda, dell'art. 346-bis cod. pen. Si è osservato in dottrina che in tali casi l'utilitas promessa o erogata dal "cliente" costituisce il prezzo che l'intermediario dovrà versare al pubblico agente per ottenere uno specifico atto dell'ufficio, per "asservirlo" stabilmente o semplicemente per instaurare una relazione privilegiata prò futuro. In tali casi il carattere illecito della mediazione è più facilmente percepibile e configurabile, atteso il carattere intrinsecamente ed auto-evidente illecito del "contratto". Qualora il pagamento indebito programmato vada a buon fine, si realizzerà, come detto, un concorso trilaterale in corruzione tra gli aderenti al patto d'influenza e il pubblico ufficiale indebitamente remunerato. Quanto alla c.d. mediazione onerosa, quella cioè in cui la prestazione del committente costituisce, come nel caso di specie, solo il corrispettivo per la mediazione illecita promessa dall'intermediario nei confronti del pubblico agente, l'utilità corrisposta dall'acquirente dell'influenza non è diretta, neppure in parte, a retribuire il pubblico agente, bensì costituisce il prezzo per l'intercessione promessa dal "faccendiere". In tali casi, la questione attiene alla individuazione delle condizioni in presenza delle quali può dirsi "illecita" una mediazione onerosa che - in assenza di pressioni estorsive o, più in generale, condizionamenti corruttivi - sia finalisticamente rivolta ad ottenere, un provvedimento ovvero un qualsiasi atto favorevole, anche discrezionale. Nel caso di mediazione onerosa, con la riforma del 2019, la punibilità viene fatta discendere dal mero accordo tra committente e intermediario, originato, sul piano dei motivi, dalla possibilità di sfruttare una relazione reale con il pubblico agente ovvero semplicemente indotta dalla ostentazione di relazioni in tutto o in parte ineffettive: un accordo che nella prospettiva dualistica del committente e del mediatore deve tuttavia essere diretto ad "influenzare" l'operato del "pubblico agente-bersaglio", al di là dell'effettivo esercizio di una ingerenza inquinante e del conseguimento del risultato desiderato. In tale quadro di riferimento, è possibile innanzitutto definire ciò che non può considerarsi mediazione onerosa illecita, almeno finché perduri l'assenza di una regolamentazione legale dell'attività dei gruppi di pressione in grado di riempire di contenuto l'elemento di illiceità speciale in oggetto. Non può essere oggetto di incriminazione il contratto di per sé, sia esso di mediazione in senso stretto o di altro tipo, atteso che, se così fosse, la tensione della fattispecie rispetto ai principi fondanti di materialità del fatto, di tipicità, di frammentarietà, di offensività sarebbe evidente. Non può assumere rilievo il mero "uso" di una relazione personale - preesistente o potenziale- il fatto cioè che un privato contatti una persona in ragione del conseguimento di un dato obiettivo lecito perché consapevole della relazione, della possibilità di "contatto", tra il "mediatore" ed il pubblico agente, da cui dipende il conseguimento dell'obiettivo perseguito. Né, ancora, può assumere decisivo rilievo, ai fini della connotazione di illiceità, la mera circostanza che il contratto tra committente e venditore presenti difformità dal tipo legale, presenti cioè profili di illegittimità negoziale, tenuto conto peraltro che il riferimento alla mediazione, contenuto nell'art. 346 bis cod. pen., non deve essere inteso come esclusivamente riferito al contratto tipico di mediazione disciplinato dagli artt. 1754 e ss. cod. civ., ma, più in generale, a quel sistema di rapporti, che, pur non essendo riconducibili tecnicamente al contratto in questione, si caratterizzano nondimeno per la presenza di "procacciatori d'affari" ovvero per mere "relazioni informali" fondate su opacità diffuse, da scarsa trasparenza, da aderenze difficilmente classificabili. Il tema della validità negoziale della "mediazione" può al più assumere una valenza probatoria. In realtà, si è fatto correttamente notare, in assenza di una disciplina organica del lobbismo, volta a disciplinare le "modalità abusive" di "contatto" tra mediatore e pubblico agente e, quindi, in mancanza di riferimenti chiari volti a definire la "illiceità modale" della mediazione, il connotato di illiceità della mediazione onerosa deve essere correlata allo "scopo", alla finalità dell'attività d'influenza. La mediazione onerosa è illecita in ragione della proiezione "esterna" del rapporto dei contraenti, dell'obiettivo finale dell'influenza compravenduta, nel senso che la mediazione è illecita se è volta alla commissione di un illecito penale - di un reato.-idoneo a produrre vantaggi al committente. Un reato oggetto del programma contrattuale che permea la finalità del committente e giustifica l'incarico al mediatore. Una mediazione espressione della intenzione di inquinare l'esercizio della funzione del pubblico agente, di condizionare, di alterare la comparazione degli interessi, di compromettere l'uso del potere discrezionale. Si tratta di un tema in cui il profilo giuridico interferisce con quello processuale di accertamento probatorio dei fatti. Un reato, quello inquinante la mediazione, che potrà essere individuato nei suoi contorni, nella sua essenza, nella sua configurazione strutturale con un quantum probatorio - dimostrativo della finalità perturbatrice della pubblica funzione- variabile in ragione dello stato del procedimento. Ciò che assumerà rilevante valenza è la ricostruzione dell'oggetto della "mediazione", della volontà del committente, dell'impegno, del programma obbligatorio, dell'opera che il mediatore si obbliga a porre in essere. Un accertamento che, sotto il profilo probatorio, deve essere compiuto caso per caso; potranno assumere rilievo le aspettative specifiche del committente, cioè il movente della condotta del privato compratore, il senso, la portata ed il tempo della pretesa di questi, la condotta in concreto che il mediatore assume di dover compiere con il pubblico agente, il rapporto di proporzione tra il prezzo della mediazione ed il risultato che si intende perseguire, i profili relativi alla illegittimità negoziale del contratto (Così testualmente in modo condivisibile, Sez. 6, n. 1182 del 14/10/2021, dep. 2022, Guarnierì, Rv. 282453; nello stesso senso, Sez. 6, n. 40518 dell'8/07/ 2021, Alemanno, Rv. 282119). 6.13.3. In ossequio ai principi indicati, i fatti devono dunque essere ricondotti al reato di cui all'art. 346 bis cod. pen., in tale ottica valorizzandosi la corrispondenza fattuale della contestazione, il rapporto di sussidiarietà espressa, intercorrente tra il delitto di cui all'art. 346 bis cod. pen. e le ipotesi di corruzione, nonché le deduzioni difensive, coerenti, in parte qua, con detta qualificazione. Quella in esame è una ipotesi di mediazione onerosa illecita. Lo.Ma. e Ri. fungevano da mediatori della Ca.Ma., che li retribuiva, per influenzare i pubblici ufficiali - rimasti esterni al patto corruttivo - e, quindi, inquinare la funzione pubblica da questi esercitata. Una mediazione illecita perché chiaramente volta a far compiere reati al pubblico ufficiale, quali la rivelazione di notizie riservate, la turbativa d'asta, l'abuso d'ufficio. Ne consegue che i fatti accertati devono essere ricondotti al reato previsto dall'art 346 bis cod. pen. e, conseguentemente, la sentenza annullata; la Corte di appello procederà alla rideterminazione della pena 6.14. È fondato anche il quattordicesimo motivo relativo al giudizio di responsabilità per l'associazione per delinquere finalizzata alla commissione dei reati contro la pubblica amministrazione e di cui avrebbero preso parte la ricorrente, 14Ma.Pi. (socio della Ca.Ma.nella società El.) Lo.Ma., Ri. (di cui si è detto), Bo.Si.(compagna convivente di Lo.Ma.) e Pa.Lo.(compagna convivente di Ri.) (Capo A). 6.14.1. La Corte ha fondato il giudizio di responsabilità per il reato associativo dall'accertamento della responsabilità della ricorrente per i reati fine, dalle modalità seriali e dal contesto in cui i reati fine sarebbero stati commessi, dalla natura omogenea dei reati fine. Una motivazione da cui emerge come la Corte abbia di fatto ritenuto sussistente un'associazione di fatto composta da tre persone; Ca.Ma. sarebbe stata motore del sodalizio, Ri. e Lo.Ma., strumenti a disposizione di Ca.Ma. per condizionare i pubblici ufficiali che di volta in volta erano chiamati ad operare nell'ambito dei procedimenti che interferivano con gli interessi della stessa Ca.Ma. Non si rinvengono nella motivazione della sentenza impugnata riferimenti ad altri soggetti. 6.14.2. Si tratta anche in questo caso di una motivazione instabile e di una non corretta applicazione della legge penale. È noto come il reato associativo si differenzi rispetto alla fattispecie del concorso continuato nel reato per l'elemento organizzativo, in quanto la condotta punibile a titolo di associazione non può ridursi ad un semplice accordo delle volontà, ma deve consistere in un "quid pluris", che si sostanzia nella predisposizione di mezzi concretamente finalizzati alla commissione di delitti e in un contributo effettivo da parte dei singoli per il raggiungimento dello scopo illecito. Solo, infatti, nel momento in cui diviene operativa e permanente la struttura organizzativa si realizza la situazione antigiuridica che caratterizza il reato associativo, che rappresenta una minaccia grave per l'ordinamento, tanto da giustificare le singole incriminazioni con sanzioni penali più incisive. In particolare, l'elemento aggiuntivo e distintivo va individuato non solo nel carattere dell'accordo criminoso - avente ad oggetto la commissione di una serie non preventivamente determinata di delitti - e nella permanenza del vìncolo associativo tra i partecipanti - che devono assicurare la propria disponibilità duratura ed indefinita nel tempo al perseguimento del programma criminoso del sodalizio-, ma, soprattutto, nell'esistenza di una organizzazione che consenta, come ampiamente spiegato, la realizzazione concreta dello stesso programma criminoso. (Sul tema, per tutti, Sez. 6, n. 18055 del 10/01/2018, Canale, Rv. 273008). Pienamente coerente con tale impostazione è l'affermazione secondo cui «ai fini della configurabilità di un'associazione per delinquere è necessario: a) che almeno tre persone siano tra loro vincolate da un patto associativo (sorto anche in modo informale e non contestuale) avente ad oggetto un programma criminoso da realizzare attraverso il coordinamento degli apporti personali; b) che il sodalizio abbia a disposizione, con sufficiente stabilità, risorse umane e materiali adeguate per una credibile attuazione del programma associativo; c) che ciascun associato, a conoscenza quantomeno dei tratti essenziali del sodalizio, si metta stabilmente a disposizione di quest'ultimo» (Cass. Sez. 6, n. 7387 del 3/12/2013, dep. nel 2014, Pompei, rv. 258796; Cass. Sez. 4, n. 44183 del 2/10/2013, Alberghini, rv. 257582). 6.14.3. La Corte non ha fatto corretta applicazione dei principi indicati non avendo in nessun modo chiarito, da una parte, perché, nella specie, gli stessi elementi valorizzati al fine di ritenere sussistente il reato associativo non sarebbero in realtà rivelatori di un concorso nel reato continuato, e, dall'altra, in cosa sarebbe consistita l'organizzazione del sodalizio. Ciò che emerge è che Ca.Ma. si serviva di Ri. e Lo.Ma.- che retribuiva - per influenzare di volta in volta i pubblici poteri, ma non è obbiettivamente chiaro quale sarebbe stata l'organizzazione criminale, quale la condivisione di fine tra i sodali, quali i mezzi di cui l'associazione disponeva. Una motivazione viziata; ne consegue che la sentenza anche sul capo in esame deve essere annullata. La Corte di appello applicherà i principi indicati e verificherà se e in che termini sia possibile formulare un giudizio di responsabilità per il reato in esame. 6.15. È inammissibile il quindicesimo motivo di ricorso, relativo al mancato riconoscimento d'ufficio della circostanza attenuante di cui all'art. 323 bis cod. pen., avendo la Corte correttamente valorizzato il comportamento collaborativo tenuto dalla imputata con il versamento della somma di 300.000 euro solo al fine del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e ritenendo detto elemento comunque esterno alla valutazione della gravità dei fatti. 6.16. È infondato anche il sedicesimo ed ultimo motivo di ricorso relativo al riconoscimento della continuazione tra i reati oggetto del processo e quelli oggetto della sentenza di applicazione di pena n. 269/2020 emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Monza - divenuta irrevocabile il 18.9.2020. La Corte sul punto ha correttamente rilevato, da una parte, come non sia configurabile il medesimo disegno criminoso tra i fatti oggetto del presente processo e le distrazioni della società Se. Srl, non essendo chiaro perché Ca.Ma. già nel 2011 dovesse rappresentarsi e volere i fatti per cui si procede, posti in essere a distanza di anni, e, dall'altra, come il riconoscimento della continuazione tra i fatti per cui si procede e gli altri reati oggetto della sentenza di patteggiamento non avrebbe effetti favorevoli per la ricorrente. 7. La posizione di Na.Gi. 7.1. Si sono già esaminati i primi tre motivi del ricorso proposto nell'interesse di Na.Gi. 7.2. Il quarto motivo, relativo al giudizio di responsabilità, è infondato alla luce delle considerazioni già esposte in occasione della valutazione dell'undicesimo motivo del ricorso proposto nell'interesse di Ca.Ma. 7.3. E' infondato anche il quinto motivo di ricorso, relativo alla determinazione della pena, alla individuazione del momento consumativo del reato e della corrispondente cornice edittale. Come in più occasioni è stato affermato, il delitto di corruzione è reato a duplice schema perché si perfeziona alternativamente con l'accettazione della promessa o con il ricevimento effettivo dell'utilità, ma, se tali atti si susseguono, il momento consumativo si cristallizza nell'ultimo, che assorbe, facendogli perdere di autonomia, l'atto di accettazione della promessa, perché con l'effettiva prestazione si concretizza l'attività corruttiva e si approfondisce l'offesa tipica del reato (Sez. 6, n. 33435 del 04/05/2006, Battistella, Rv. 234360) Il delitto di corruzione cioè si perfeziona alternativamente con l'accettazione della promessa ovvero con la dazione - ricezione dell'utilità, e tuttavia, ove alla promessa faccia seguito la dazione - ricezione, è solo in tale ultimo momento che, approfondendosi l'offesa tipica, il reato viene a consumazione (Sez. U, n. 15208 del 25/02/2010, Mills, Rv. 246583) Nel caso di specie, hanno spiegato i Giudici di merito, il reato, compiuto in modo concorsuale, risulta essersi consumato con l'ultimazione delle utilità percepite da Elisa, cioè tra gennaio e febbraio 2016. Dunque, correttamente i Giudici di merito hanno fatto riferimento alla cornice edittale vigente dopo le modifiche apportate con la legge 27 maggio 2015, n. 69 8. La posizione di Al.Gi. 8.1. Si è già detto della infondatezza del primo motivo di ricorso, relativo alla dedotta questione di incompetenza territoriale. 8.2. Il secondo, il terzo, il quarto e il quinto motivo, relativi alla tenuta del ragionamento probatorio, al giudizio di responsabilità e alla corretta qualificazione giuridica dei fatti sono infondati alla luce delle considerazioni esposte in precedenza in occasione della valutazione dell'undicesimo motivo del ricorso proposto nell'interesse di Ca.Ma. 8.3. Anche il sesto motivo è infondato per le stesse ragioni già indicate; il reato per cui si procede è un reato commesso in concorso, consumato, a prescindere dal momento in cui sono stati compiuti i singoli contributi concorsuali, nel 2016. 8.4. Sono infondati, ai limiti della inammissibilità, il settimo motivo, relativo al mancato riconoscimento della circostanza attenuante prevista dall'art. 323 bis cod. pen., e l'ottavo motivo relativo alla circostanza di cui all'art. 62, n. 4, cod. pen., avendo la Corte, quanto alla prima, negato l'invocata circostanza attenuante generica sostanzialmente in ragione della gravità del fatto, che, si è spiegato, non può considerarsi contenuta, e, quanto alla seconda circostanza attenuante, spiegato come, diversamente dagli assunti difensivi, l'attenuante del danno di speciale tenuità presupponga un giudizio complesso che prenda in considerazione tutti gli elementi della fattispecie concreta necessari per accertare non il solo danno patrimoniale, ma il danno criminale nella sua globalità (Cfr., tra le altre, Sez. 5, n. 344 del 26/11/2021, dep. 2022, Ghirasam, Rv. 282402). Nulla di specifico è stato dedotto, essendosi limitato il ricorrente a reiterare le stesse argomentazioni già portate alla cognizione della Corte e da questa adeguatamente valutate. 8.5. È infondato anche il nono motivo di ricorso, relativo alla ritenuta ammissibilità dell'appello proposto dalla parte civile Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Milano. Il Tribunale non aveva accolto la richiesta risarcitoria della parte civile indicata per non essere stato provato il danno all'immagine, ritenuto erroneamente in re ipsa (così testualmente la sentenza a pag. 416); una motivazione, quella del Tribunale, brevissima, assertiva, priva di spiegazione esplicativa sulle ragioni per cui il danno non fosse esistente; una motivazione rispetto alla quale l'onere di specificità del motivo di appello, come è stato chiarito in più occasioni dalla giurisprudenza, era proporzionale. Di fronte ad una motivazione, quella del Tribunale, obiettivamente sincopata, l'atto di impugnazione era, come rilevato dalla Corte, funzionalmente volto a dimostrare come il danno, a prescindere dalla sua quantificazione, fosse stato causato dal reato. Dunque un atto di appello ammissibile. 8.6. È infondato infine anche il decimo motivo di ricorso, relativo al riconosciuto diritto al risarcimento del danno in favore dell'Ordine dei Medici, avendo la Corte, da una parte, indicato quale sarebbe il danno risarcibile subito dall'Ordine e, dall'altra, spiegato come, ai fini dell'accoglimento della domanda di condanna generica al risarcimento del danno sia sufficiente che l'attore dimostri la colpa ed il nesso causale e che l'esistenza del danno appaia anche solo probabile (Sez. U, civ., n. 29862 del 12/10/2022, Rv. 665940). 9. La posizione di Ga.St. Il ricorso è fondato nei limiti di cui si dirà. 9.1. Si è già detto di come a Ga.St. fosse stato contestato il reato di corruzione propria; il fatto è stato poi riqualificato in abuso d'ufficio dal Tribunale avuto riguardo alla sola condotta omissiva di cui al terzo paragrafo del capo M). Ga.St., dipendente della Azienda Ospedaliera di Desio e Vimercate con funzioni di supervisore clinico del servizio di odontoiatria, avrebbe omesso di effettuare le dovute segnalazioni alla direzione dell'Azienda ospedaliera e alla Autorità giudiziaria, dopo aver avuto conoscenza di comportamenti fraudolenti tenuti nella gestione del service della Se., consistiti nel raddoppio sistematico - nelle ricette relative alla prestazioni rese a carico del servizio sanitario nazionale al fine dell'ottenimento del relativo pagamento - del numero di impianti indicati dagli odontoiatri rispetto a quello riportato nelle cartelle cliniche dei pazienti. 9.2. Sono infondati ì primi tre motivi di ricorso, che possono essere valutati congiuntamente. In punto di fatto dalle sentenze di merito emerge che: - Ga.St. fosse stato incaricato di una supervisione clinica in ambito aziendale "atta a verificare la corretta applicazione delle linee guida dei protocolli e delle procedure sanitarie aziendali" e "di revisionare le cartelle cliniche odontoiatriche da un punto di vista tecnico ed esaminare quelle che avevano evidenziato errori durante lo screening" (così la sentenza impugnata a pag. 126); - Ga.St., al di là degli incarichi formali indicati, almeno dal luglio del 2014, in occasione della verifica del Nucleo operativo di controllo per la quale fu incaricato di organizzare il lavoro, era a conoscenza del "fenomeno" del raddoppio del numero degli impianti oggetto delle prescrizioni rispetto a quello indicato nelle cartelle (cfr., sul punto, pagg. 69 e ss. sentenza di primo grado in cui si specifica che tuttavia tra le cartelle oggetto del controllo da parte del nucleo operativo vi fosse una sola con tale "anomalia"); - nel 2015 Go.An. incaricò Ga.St. di controllare e rilevare le duplicazioni effettuate, che questi rilevò. Rispetto a tale quadro di riferimento il motivi di ricorso rivelano la loro infondatezza. 9.2.1. Quanto al primo e alla ritenuta insussistenza della qualifica soggettiva, è noto che con la riformulazione degli artt. 357 e 358 cod. pen. ad opera della legge 26 aprile 1990, n. 86, è stato definitivamente positivizzato il superamento della concezione soggettiva delle nozioni di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio, che privilegiava il rapporto di dipendenza dallo Stato o da altro ente pubblico, con l'adozione di una prospettiva funzionale-oggettiva, secondo il criterio della disciplina pubblicistica dell'attività svolta e del suo contenuto. Ciò che è necessario accertare, ai fini dell'assunzione della qualifica di pubblico ufficiale è l'esercizio di una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. Tale ultima funzione è stata specificamente definita al secondo comma dell'art. 357 cod. pen., introdotto dalla legge 7 febbraio 1992, n. 181, attraverso specifici indici di carattere oggettivo che consentono di delimitare la funzione pubblica, verso l'esterno, da quella privata e, verso l'interno, dalla nozione di pubblico servizio. Si definisce, infatti, pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico (Sez. U, n. 10086 del 13/07/1998, Citaristi, definisce tali quelle attinenti all'organizzazione generale dello Stato) e da atti autoritativi e caratterizzata, nell'oggetto, dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o, nelle modalità di esercizio, dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi (Sez. U, n. 7958 del 27/03/1992, Delogu). Come emerge dall'impiego nel testo della norma della disgiuntiva "o", in luogo della congiunzione "e", i suddetti criteri normativi di identificazione della pubblica funzione non sono tra loro cumulativi, ma alternativi. E' stato, inoltre, precisato che nel concetto di poteri "autoritativi" rientrano non soltanto i poteri coercitivi, ma tutte quelle attività che sono esplicazione di un potere pubblico discrezionale nei confronti di un soggetto che viene a trovarsi così su un piano non paritetico - di diritto privato - rispetto all'autorità che tale potere esercita; rientrano, invece, nel concetto di "poteri certificativi" tutte quelle attività di documentazione cui l'ordinamento assegna efficacia probatoria, quale che ne sia il grado (Sez. U, Delogu). La giurisprudenza di legittimità ha, inoltre, attribuito rilevanza anche all'esercizio di fatto della pubblica funzione, purché questo non sia usurpato, ma accompagnato dall'acquiescenza, dalla tolleranza o dal consenso, anche tacito, dell'amministrazione (Sez. 6, n. 19217 del 13/01/2017, Como, Rv. 270151). Non occorre, dunque, un'investitura formale se vi è, comunque, la prova che al soggetto sono state affidate effettivamente delle pubbliche funzioni (in senso conforme, si veda anche Sez. 6, n. 34086 del 26/07/2013, Bessone, Rv. 257035 con riferimento all'assunzione della qualifica di incaricato di pubblico servizio del soggetto che, di fatto, svolge delle attività diverse da quelle inerenti alle mansioni istituzionalmente affidategli). L'attività dell'incaricato di pubblico servizio, secondo la definizione contenuta al successivo art. 358 cod. pen., è ugualmente disciplinata da norme di diritto pubblico, ma presenta due requisiti negativi in quanto manca dei poteri autoritativi e certificativi propri della pubblica funzione, con la quale è in rapporto di accessorietà e complementarietà, e non ricomprende le attività che si risolvono nello svolgimento di mansioni di ordine o in prestazioni d'opera meramente materiale. Si tratta, dunque, di un un'attività di carattere intellettivo, caratterizzata, quanto al contenuto, dallo svolgimento di compiti di rango intermedio tra le pubbliche funzioni e le mansioni di ordine o materiale. Quale diretta conseguenza del criterio oggettivo-funzionale adottato dal legislatore, la qualifica pubblicistica dell'attività prescinde dalla natura dell'ente in cui è inserito il soggetto e dalla natura pubblica dell'impiego. La giurisprudenza di legittimità ha, infatti, da tempo affermato che anche i soggetti inseriti nella struttura organizzativa di una società per azioni possono essere qualificati come pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, quando l'attività della società sia disciplinata da norme di diritto pubblico e persegua delle finalità pubbliche sia pure con strumenti privatistici (da ultimo, Sez. 6, n. 19484 del 23/01/2018, Bellinazzo, Rv. 273781). Rileva l'attività dell'ente e, posto che questa abbia caratteri pubblicistici, quale sia in concreto l'attività compiuta dal soggetto. 9.2.1.1. In tale quadro di riferimento correttamente è stato evidenziato come Ga.St. svolgesse funzioni pubbliche non solo in ragione del contenuto formale degli incarichi che aveva ricevuto, ma, in relazione ai fatti specifici per cui si procede, anche in considerazione dei compiti che a lui furono attribuiti dalla Go.An. in occasione del controllo del Nucleo operativo di controllo, avendo il Tribunale spiegato come nell'occasione fu il ricorrete ad assumere la veste di interlocutore con i controllori per conto dell'Azienda sanitaria e fu colui che si adoperò per "costruire" una versione da fornire al personale del Nucleo Operativo (cfr., pag. 82 e ss. sentenza di primo grado) Ga.St. rappresentò e manifestò la volontà della Azienda nella occasione del controllo e obiettivamente non è chiaro perchè nella specie non sarebbero ravvisabili i poteri rappresentativi e certificativi propri della pubblica funzione. 9.2.2. Sulla base delle considerazioni esposte anche il secondo e il terzo motivo rivelano la loro strutturale inammissibilità, perché aspecifici, non essendosi il ricorrente confrontato con la motivazione delle sentenza di merito ed essendosi limitato a reiterare censure e argomenti già sottoposti alla cognizione dei giudici di merito e da questi adeguatamente vagliate. 9.3. I Giudici di merito hanno ritenuto configurabile il reato di abuso d'ufficio senza tuttavia motivare alcunché sulla esistenza degli elementi costitutivi, in particolare dell'evento di danno o vantaggio e sulla sua ingiustizia, che non può essere desunta implicitamente dall'illegittimità della condotta, in quanto il requisito della doppia ingiustizia presuppone l'autonoma valutazione degli elementi costitutivi del reato (cfr., fra le altre, Sez.6, n. 58412 del 25/09/2018, Iorio, Rv. 275642)-, oltre che sul profilo intertemporale, alla luce delle modifiche introdotte dal d.l. 76 del 2020, convertito dalla legge 120 del 2020. I fatti contestati devono essere invero riqualificati e ricondotti al reato di cui all'art. 361 cod. pen.; si tratta di un reato non prescritto, avendo la Corte chiarito che la relazione finale fu redatta dall'imputato a seguito dell'incarico ricevuto da Go.An. il 23.11.2015 ed ad essa non conseguì alcuna denuncia. La sentenza, dunque, deve essere annullata con rinvio quanto al capo M), per la rideterminazione della pena. II quarto e il quinto motivo sono assorbiti. 10. Al rigetto dei ricorsi proposti nell'interesse di Al.Gi. e di Na.Gi. consegue la condanna degli imputati al pagamento delle spese processuali in solido tra loro a rifondere le spese di rappresentanza e difesa delle parti civili Regione Lombardia e Ordine Provinciale dei Medici Odontoiatri di Milano, che liquida in euro 5.000,00 per ciascuna, oltre accessori di legge. In relazione alla non integrale soccombenza, devono invece essere compensate le spese del grado nei confronti di Ga.St. con riguardo alle parte civili. PQM P.Q.M. Corretto l'errore materiale che figura nel dispositivo della sentenza impugnata, nel senso che nei confronti di Ca.Ma. dove si legge "capi D), G), H) e S)" deve leggersi "capi D), H), I) e S)", annulla senza rinvio nei confronti di Ca.Ma. la sentenza impugnata agli effetti penali con riferimento al capo K) del decreto di giudizio immediato, perché estinto per prescrizione; annulla detta sentenza nei confronti di Ca.Ma.con riferimento ai capi A) e P) nonché, agli effetti civili, con riferimento ai capi D) e K) del decreto e rinvia per nuovo giudizio su tali capi, rispettivamente, agli effetti penali e agli effetti civili ad altra Sezione della Corte di appello di Milano; qualifica i capo Q) ed R) ai sensi dell'art. 318 cod. pen. e il capo F) ai sensi dell'art. 346 bis cod. pen. e rinvia ai fini della rideterminazione della pena nei confronti di Ca.Ma. ad altra Sezione della Corte di appello di Milano. Rigetta nel resto il ricorso di Ca.Ma. Qualificato il capo M) del decreto nei confronti di Ga.St. ai sensi dell'art. 361 cod. pen., rinvia per la rideterminazione della pena ad altra Sezione della Corte di appello di Milano, rigettando nel resto il ricorso di Ga.St. Rigetta i ricorsi di Al.Gi. e di Na.Gi., che condanna al pagamento delle spese processuali. Condanna Al.Gi. e Na.Gi. in solido tra loro a rifondere le spese di rappresentanza e difesa delle parti civili Regione Lombardia e Ordine Provinciale dei Medici Odontoiatri di Milano, che liquida in euro 5.000,00 per ciascuna, oltre accessori di legge. Dichiara compensate le spese del grado nei confronti di Ga.St. con riguardo alle parte civili. Così deciso in Roma, 8 giugno 2023. Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2024.
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