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Corruzione: sullo stabile asservimento al pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi

Corruzione

Cassazione penale sez. VI, 21/10/2020, n.16781

In tema di corruzione, lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, con episodi sia di atti contrari ai doveri d'ufficio che di atti conformi o non contrari a tali doveri, configura un unico reato permanente, previsto dall'art. 319 c.p., in cui è assorbita la meno grave fattispecie di cui all'art. 318 stesso codice, nell'ambito del quale le singole dazioni eventualmente effettuate, sinallagmaticamente connesse all'esercizio della pubblica funzione, si atteggiano a momenti consumativi di un unico reato di corruzione propria. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito aveva configurato come un unico reato di corruzione propria più fatti corruttivi posti in essere da un pubblico agente nel tempo succeduto nelle cariche di Ministro dell'Ambiente e di Ministro delle Infrastrutture, per un periodo non ricoprendo nessun incarico ministeriale, in quanto ritenuti manifestazione del medesimo accordo corruttivo stipulato con soggetti privati).

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Venezia ha: - dichiarato non diversi procedere nei confronti di C.C. per i fatti consumati fino al 11.1.2012 perché estinti per prescrizione, ed ha confermato la sentenza che aveva condannato l'imputato per il reato di millantato credito continuato di cui all'art. 346 c.p., comma 2, (Capo 10- fatti commessi fino al 2013); - confermato la sentenza che aveva dichiarato non diversi procedere nei confronti di O.G. per il reato di cui alla L. 2 maggio 1974, n. 195, art. 7, commi 2 e 3, in relazione alla L. 18 novembre 1981, n. 659, art. 4, - violazione della normativa sul finanziamento elettorale (Capo 11d) - perché estinto per prescrizione; - dichiarato non diversi procedere nei confronti di F.N., in ordine ai reati contestati ai capi 1) - 7) (corruzione propria e violazione della normativa sul finanziamento elettorale) perché estinti per prescrizione; - sostanzialmente confermato la condanna di C.E. per il reato di corruzione propria di cui al capo 13). 2. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore di C.C.. C., nella qualità di Presidente della società (OMISSIS) s.p.a. - società del gruppo M.-, millantando credito presso magistrati in servizio al Consiglio di Stato ed al Tribunale amministrativo regionale del Lazio e del Veneto e sostenendo di poter influire sull'esito dei giudizi in cui erano interessate le società del Gruppo M., si sarebbe fatto consegnare in più occasioni da B.P., componente del consiglio direttivo del consorzio (OMISSIS) e vice presidente del c.d.a di (OMISSIS), nonché da M.C. la complessiva somma di 340.000 Euro col pretesto di dover remunerare i magistrati componenti dei collegi giudicanti incaricati di decidere alcune controversie a cui erano interessate le società del gruppo. 2.1. Sono stati articolati tre motivi. 2.1. Con il primo si lamenta violazione di legge in relazione all'art. 81 c.p., comma 2, artt. 157 e 158 c.p., e vizio di motivazione. Il presupposto da cui muove l'imputato é che le dazioni, secondo la prospettazione d'accusa recepita dai Giudici di merito, sarebbero state multiple ma indeterminate e sarebbe stato commesso un millantato credito continuato tra il 2011 ed il 2013. In presenza di più reati avvinti dalla continuazione, si assume, occorrerebbe fare riferimento, al fine della verifica del decorso del termine di prescrizione, alle date dei singoli fatti-reato e, dunque, sarebbe stata essenziale, in relazione alle tre vicende in cui é coinvolto il ricorrente, la indicazione temporale specifica in cui si sarebbero verificati i fatti e le singole dazioni al fine di verificare se dette dazioni furono precedenti o meno all'ipotetico provvedimento del pubblico ufficiale avvicinabile o corruttibile, tenuto conto peraltro che, nel caso di specie, le vicende di contenzioso amministrativo, a cui si sarebbe interessato C. avrebbero visto la società Adra Infrastrutture in un'occasione soccombente, in un'altra vittoriosa non solo nel primo grado - ove si sarebbe registrato l'intervento di C. - ma anche in grado di appello - celebrato nel 2016 - e in una ulteriore occasione la controversia non sarebbe nemmeno "esistita", per il ritiro del ricorso. L'imputazione, per come strutturata, sarebbe incoerente e la stessa declaratoria di prescrizione per i fatti commessi prima del 11.1.2012 sarebbe strutturalmente ingiustificata, non essendo peraltro noto quanto tali fatti "peserebbero" nella economia complessiva del reato continuato. 2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge in relazione all'art. 192 c.p.p., comma 3, e vizio di motivazione quanto al giudizio di penale responsabilità formulato sulla base di dichiarazioni rese da coimputati e testimoni ( M.; B., B., B.) non geneticamente autonome e riscontrate solo in parte, cioé in relazione non a tutti i singoli fatti contestati. Non sarebbe decisiva la sentenza della Corte di cassazione (la n. 47304 del 2015) richiamata dalla Corte di appello: si tratterebbe di una decisione emessa in ambito cautelare, dunque, in relazione ad un giudizio che richiede uno standard probatorio minore rispetto a quello necessario per l'affermazione di colpevolezza, e, soprattutto, perché nell'odierno processo i fatti da riscontrare sarebbero molteplici ed autonomi e non invece uno solo, come nel caso oggetto del precedente richiamato. Sotto altro profilo, si aggiunge, non vi sarebbe la prova che la busta consegnata a C. da parte di B. contenesse denaro e non documenti; a differenza della consegna di quei 10 o 20.000 Euro effettuata in quella occasione, gli altri episodi sarebbero del tutto privi di riscontro. 2.3. Con il terzo motivo si lamenta vizio della motivazione per avere la Corte affermato in un primo momento che C., arrestato il 28.2.2013, avesse in quel momento cessato la sua attività criminale, e successivamente invece ritenuto che detta attività si fosse protratta fino al 28.11.2013, data in cui si sarebbe verificata una delle dazioni di denaro; né , ancora, la sentenza avrebbe spiegato, in relazione a quanto dedotto, come potesse conciliarsi con l'accusa la circostanza che l'imputato solo all'età di 81 anni avesse manifestato per la prima volta una elevata capacità criminale, protrattasi per tre anni. 2.4. Il 12.10.2020 sono state depositate delle note di udienza con cui si richiamano e si sviluppano ulteriormente gli argomenti posti a fondamento del ricorso e si evidenzia come, in considerazione della data indicate nella imputazione, il reato, nonostante le sospensioni della decorrenza del termine, si sarebbe prescritto il 2.9.2020. 3. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore di O.G.. Ad O., già candidato sindaco del Comune di (OMISSIS) in occasione delle elezioni tenute nell'anno 2010 e poi effettivamente eletto sindaco della città, erano stati contestati due fatti di violazione della normativa sul finanziamento elettorale: al capo 11b) si contestava la ricezione di 110.000 Euro da parte del Consorzio (OMISSIS); al capo 11d) la ricezione "in nero" di complessivi 250.000 Euro. Il Tribunale aveva assolto quanto al capo 11b) e prosciolto l'imputato quanto al capo 11d) per essersi il reato estinto per prescrizione. Sono stati articolati due motivi. 3.1. Con il primo si deduce violazione di legge per erronea applicazione della L. n. 195 del 1974, art. 7, commi 2 e 3, in relazione alla L. n. 659 del 1981, art. 4. Il presupposto obiettivo da cui muove il ragionamento del ricorrente é che l'art. 4 cit. estende i divieti di cui alla L. n. 195 del 1974, art. 7, "ai consiglieri regionali, provinciali e comunali, ai candidati alle predette cariche". La Corte, facendo una errata applicazione delle norme indicate, avrebbe erroneamente dichiarato non doversi procedere per estinzione del reato per prescrizione piuttosto che assolvere l'imputato perché il fatto non é previsto alla legge come reato. La normativa di riferimento, si argomenta, nell'individuare i soggetti tenuti agli obblighi da osservare nell'ambito disciplina sul finanziamento illecito ai partiti non farebbe riferimento alla figura del candidato sindaco e nella specie, vi sarebbe stata una interpretazione analogica in malam partem delle norme. 3.2. Con il secondo motivo si lamenta vizio di motivazione per avere la Corte recepito acriticamente le argomentazioni del Tribunale senza nemmeno esaminare le argomentazioni difensive dedotte con l'appello e con la memoria depositata in sede di discussione. Si aggiunge che anche la Corte di cassazione, in una precedente sentenza, avrebbe già affermato che l'applicazione al candidato sindaco della normativa prevista dalla L. n. 659 del 1981, art. 4, violerebbe il divieto di analogia in malam partem (Sez. 3, n. 28045 del 7.6.2017). 4. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore di F.N. in relazione al quale la Corte ha dichiarato non diversi procedere in ordine ai reati di cui ai capi n. 1)7) (corruzione propria e violazione della normativa sul finanziamento elettorale) perché estinti per prescrizione. Quanto alla corruzione, a F. é stato contestato di avere concorso nella corruzione propria di C.P., Presidente del (OMISSIS). F., nella qualità di direttore generale di determinate società, la prima delle quali consorziata al Consorzio (OMISSIS) ((OMISSIS)), avrebbe contribuito ad alimentare il c.d. (OMISSIS), cioé il fondo comune formato da denaro contante costituito dai principali consorziati del Consorzio (OMISSIS) e destinato a corrompere funzionari coinvolti nei procedimenti di interesse del Consorzio ed a finanziare candidati in campagne elettorali o in altre evenienze. L'imputato in tal modo avrebbe concorso alla corruzione di C.P., presidente del MAV, attraverso la dazione di 400.000 Euro all'anno. In relazione al reato in questione la Corte ha confermato la statuizione con cui é stata disposta la confisca di 78.000 Euro. Sono stati articolati tre motivi di ricorso. 4.1. Con il primo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla disposta confisca della somma di Euro 78.000, ritenuta profitto del reato di corruzione. 4.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge quanto al reato di cui al capo 7); il tema é lo stesso proposto con il ricorso presentato nell'interesse di O.G.. 4.3. Con il terzo motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione per avere la Corte condannato l'imputato, quanto al capo di imputazione sub 7), a pagare una somma a titolo di provvisionale di 50.000 Euro in favore del Comune di (OMISSIS); la Corte, rispetto al motivo di appello con cui si rappresentava che la condanna alla provvisionale fosse stata disposta in assenza di una condanna al risarcimento del danno, ha considerato detta omissione come un errore materiale, disponendo una irrituale correzione. 5. Hanno proposto ricorso per cassazione i difensori di C.E.. A C., nella qualità di socio e di amministratore di fatto della società (OMISSIS) s.r.l., si contesta di avere concorso alla corruzione di M.A., allora Ministro (OMISSIS) e della tutela del territorio e, successivamente, Ministro delle (OMISSIS). In particolare, M., in cambio dell'importo complessivo ricevuto da M.G., Presidente del Consorzio, e B.P. per far assegnare e gestire in violazione delle normativa in tema di appalti, al Consorzio (OMISSIS) - ed alle imprese consorziate - i finanziamenti relativi alle opere di bonifica dei siti industriali di (OMISSIS), nonché per garantire a M.G. la nomina di Patrizio C. a presidente del (OMISSIS), avrebbe richiesto allo stesso M. che le opere di bonifica di (OMISSIS) fossero affidate alla (OMISSIS) di C., che, consorziatasi con la M. spa per eseguire i lavori di risanamento ambientale, in realtà non partecipò alla esecuzione delle opere. In tal modo la (OMISSIS), sebbene non operativa, avrebbe conseguito un utile di 29.600.000 milioni di Euro, derivante dalla ripartizione del margine complessivo delle commesse, senza aver sopportato alcun costo per le attività di bonifica, nonché un importo di 13 milioni e mezzo di Euro dalla M. s.p.a. derivante dalla cessione a questa della sua quota consortile nel consorzio (OMISSIS), importo determinato sulla base del portafoglio lavori acquisito dalla stessa (OMISSIS) per effetto della sua partecipazione, anche se non operativa, al Consorzio (OMISSIS), ed, infine, un ulteriore importo di oltre cinque milioni di Euro dalla M. spa derivante dalla cessione di quote consortili nelle società (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) (così l'imputazione-. fatti commessi dal 2001 al 2012). Sono stati articolati nove motivi di ricorso. 5.1. Con il primo motivo si deduce violazione di legge quanto all'art. 319 c.p., o, in subordine, violazione di legge quanto alla mancata applicazione degli art. 318346 bis c.p.. La Corte non avrebbe fornito risposte adeguate al motivo di appello con cui si era contestata la ritenuta contrarietà ai doveri di ufficio degli atti oggetto del patto corruttivo e la riconducibilità degli stessi alla competenza funzionale del Ministro M., Ministro (OMISSIS) dal giugno 2001 al maggio del 2004 - in relazione all'assegnazione dei finanziamenti al Consorzio - e, successivamente, Ministro delle (OMISSIS) da maggio del 2008 sino al novembre del 2011, in relazione alla nomina del Presidente del (OMISSIS) di C.. La Corte si sarebbe limitata a richiamare la sentenza di primo grado facendo riferimento allo "sviamento di poteri": secondo i Giudici di merito, M., con sviamento di poteri, sarebbe intervenuto sugli enti che avrebbero emesso gli atti contrari ai doveri d'ufficio al fine di favorire C.; in tal modo, assume il ricorrente, sarebbe stata tuttavia certificata l'assenza di potere e di competenza funzionale in capo al Ministro quanto all'assegnazione dei lavori al Consorzio ed anche in relazione alla nomina di C., che peraltro compete al Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio dei Ministri. Si aggiunge che mentre nel capo di imputazione l'atto contrario ai doveri di ufficio sarebbe costituito dall'assegnazione dei finanziamenti al Consorzio, l'intera motivazione della sentenza della Corte farebbe invece riferimento alla assegnazione dei lavori, con conseguente violazione del principio di correlazione fra accusa e sentenza. Dunque, in assenza di competenza funzionale da parte di M., non potrebbe nella specie configurarsi il delitto di corruzione propria, atteso che gli atti oggetto del mercimonio non sarebbero stati né di competenza dell'ufficio del Ministro, né nella sfera di influenza dell'Ufficio di questi. Si sarebbe al più potuto ritenere sussistente il delitto di traffico di influenze illecite ma anche sul punto la motivazione sarebbe inadeguata. Sotto ulteriore profilo, in ragione della incompetenza funzionale del Ministro a compiere gli atti e volendo ritenere l'utilità svincolata dagli atti medesimi, residuerebbe semmai il reato di corruzione per l'esercizio della funzione. 5.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla ritenuta unicità del reato, cui é stato riconosciuto carattere permanente, e quanto al difetto di tipicità in relazione alla mancanza di qualifica soggettiva ministeriale per almeno un segmento temporale in cui il fatto corruttivo avrebbe avuto esplicazione. 5.3. Con il terzo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla affermata compartecipazione criminosa nel reato di corruzione da parte di C., extraneus rispetto al reato proprio; la motivazione sarebbe viziata sotto il profilo della configurabilità del contributo concorsuale, morale o materiale, che l'imputato avrebbe fornito. 5.4. Con il quarto motivo si lamenta violazione di legge ed erronea applicazione degli artt. 157 - 159 - 160 c.p., e art. 129 c.p.p., nonché vizio di motivazione. Il reato contestato al capo 13) si sarebbe estinto per prescrizione già prima della decisione impugnata, atteso che le dazioni delle utilità si esaurirebbero comunque con l'affidamento dei lavori (2004-2005) e con la corresponsione del denaro (2004 - 2006) e le singole vicende contrattuali non avrebbero alcun rilievo ai fini della determinazione del momento consumativo del reato, potendo semmai inerire alla determinazione del quantum della disposta confisca. 5.5. Con il quinto motivo si deduce erronea applicazione dell'art. 322 ter c.p., e vizio di motivazione quanto alla determinazione dell'importo da confiscare. 5.6. Con il sesto motivo si lamenta erronea applicazione di numerose disposizioni di legge e vizio di motivazione. Il tema attiene alla dedotta nullità della sentenza di primo grado ex art. 179 c.p.p. - in relazione agli artt. 7 - 8 Legge Costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 e, comunque, alla inutilizzabilità di numerosi atti di indagine. Il riferimento é alle dichiarazioni accusatorie rese da M. al Pubblico Ministero il 25-29.7.2017 ed il 9.10.2013, in un momento in cui sarebbe già stata esistente la notizia di reato a carico dell'allora onorevole M.; l'ufficio di Procura, rilevata la connotazione ministeriale della notizia di reato, avrebbe dovuto procedere alla iscrizione della notizia - in realtà avvenuta solo il 23.4.2014 - e, omessa ogni indagine, trasmettere gli atti al Collegio di cui alla L. n. 1 del 1989, art. 7. Secondo il ricorrente, cioé , il pubblico ministero, conformemente all'inciso previsto dalla L. n. 1 del 1989, art. 6, rilevata la esistenza di una notizia di reato non avrebbe potuto svolgere nessuna ulteriore attività investigativa, non residuando ad esso nessuna discrezionalità al riguardo. Ne deriverebbe, si argomenta, la nullità ed inutilizzabilità degli atti di indagine indicati e della sentenza impugnata ai sensi dell'art. 179 c.p.p.. Sotto altro profilo si sostiene che le dichiarazioni di M. rese al Pubblico Ministero il 25.7.2013, il 29.7.2013 ed il 9.10.2013 nonché quelle rese al Tribunale dei Ministri il 17.9.2014 sarebbero state acquisite in violazione dell'art. 512 c.p.p.. In sede dibattimentale, dopo la produzione di certificazione medica con la quale si rappresentava la sopravvenuta incapacità a testimoniare di M., indagato di reato connesso, il Tribunale aveva disposto un accertamento peritale al cui esito era stata certificata la totale inidoneità fisica e mentale del dichiarante e, dopo aver notificato l'avviso a presentarsi, si erano acquisite le precedenti dichiarazioni, ai sensi dell'art. 512 c.p.p.. La Corte non avrebbe risposto adeguatamente ai rilievi difensivi in ordine alla prevedibilità della impossibilità di ripetizione dell'atto, atteso che già nel 2005 M. aveva manifestato sintomi patologici, poi evolutisi in un decadimento irreversibile nel 2014. 5.7. Con il settimo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla dedotta questione della incompetenza territoriale, ritenuta infondata dalla Corte sul presupposto che nella specie sarebbe stato compiuto un unico fatto corruttivo con consumazione progressiva e che, dunque, in applicazione dell'art. 8 c.p.p., comma 3, il momento iniziale della consumazione andrebbe individuato nel primo affidamento delle opere di bonifica di (OMISSIS) alla società (OMISSIS), verificatosi a (OMISSIS). Secondo il ricorrente, invece, considerando il reato non come unico a consumazione permanente, ma come reato continuato costituito da più fatti corruttivi, si sarebbe dovuto fare riferimento all'art. 16 c.p.p., e, quindi, al fatto più grave ovvero al luogo del giudice competente per il primo reato. Si evidenzia come la consegna del denaro sarebbe avvenuto a (OMISSIS). 5.8. Con l'ottavo motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla dedotta incompetenza funzionale del Pubblico Ministero per l'attività compiuta dopo il rilascio dell'autorizzazione a procedere ex art. 96 Cost. (stralcio della posizione di alcuni coindagati; doppia modifica del capo di imputazione quanto alla somma conseguita da M. ed alla eliminazione del riferimento alla pluralità di fatti corruttivi con conseguente configurabilità di un unico reato; riunione del procedimento con altro relativo ad altri soggetti ed riguardante altri reati, con conseguente formazione di un unico fascicolo costituito solo in minima parte dagli atti sottoposti al vaglio del Senato della Repubblica in sede di autorizzazione a procedere). Si tratterebbe di attività compiuta in violazione degli artt. 6 - 7 - 8 della Legge Cost. n. 1 del 1989, atteso che la investitura del Collegio dei Ministri per l'espletamento delle indagini preliminari avrebbe assunto nella specie solo carattere parziale e temporaneo rispetto all'intero materiale probatorio utilizzato ai fini della decisione; un materiale ampliato dopo il rilascio dell'autorizzazione per effetto della successiva attività di indagine svolta dalla Procura della Repubblica, che avrebbe "stravolto" (così il ricorso) l'originaria imputazione oltre i limiti della concessa autorizzazione a procedere. Sul punto, la sentenza, che ha ritenuto trattarsi solo di un adeguamento della imputazione rispetto alle risultanze delle indagini, sarebbe viziata; in tal senso si deduce il difetto e la illegittimità della condizione di procedibilità richiesta ai fini dell'esercizio dell'azione penale. 5.9. Con il nono motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla dosimetria delle pene, principale ed accessoria, alla richiesta sospensione condizionale della pena, alla invocata revoca della condanna generica al risarcimento dei danni o comunque alla richiesta di revoca o riduzione delle statuizioni civili. CONSIDERATO IN DIRITTO Premessa: Il processo ha ad oggetto una serie di reati che sarebbero stati commessi in occasione e nell'ambito dei lavori pubblici funzionali alla costruzione del sistema integrato c.d. (OMISSIS) nella laguna di Venezia; si tratta di opere destinate a separare temporaneamente, in occasione dell'evento di acqua alta a Venezia, la laguna dal mare. In tale contesto si procederà all'esame delle singole posizioni processuali degli imputati. 1. La posizione di C.C.. Il ricorso proposto nell'interesse di C.C. é inammissibile. 1.1. E' inammissibile per genericità il primo motivo di ricorso. L'intera ricostruzione difensiva é fondata sulla necessità di accertare temporalmente, al fine di verificare l'estinzione del reato per prescrizione, quando le dazioni di denaro sarebbero state effettuate e, quindi, la correlazione fra le dazioni in questione ed i singoli fatti di contenzioso amministrativo in ragione dei quali le stesse sarebbero state compiute. Si tratta di un assunto che non tiene conto di quanto la Corte ha correttamente evidenziato e neppure dei principi affermati in più occasioni dalla Corte di cassazione, secondo cui é irrilevante che il pubblico ufficiale abbia o meno emesso il provvedimento per il quale l'agente ha promesso il suo interessamento, consumandosi il reato di cui all'art. 346 c.p., comma 2, già solo nel momento in cui l'agente si fa promettere l'utilità con il pretesto di dover comprare il favore del pubblico ufficiale, mentre non é affatto previsto come elemento costitutivo del reato la ricezione della utilità ovvero che l'agente condizioni effettivamente l'attività del pubblico ufficiale, atteso che, se ciò accadesse, e la remunerazione fosse dunque effettivamente destinata al pubblico ufficiale, sarebbero configurabili le diverse ipotesi di reato previste dagli artt. 318 e 319 c.p.. Il millantato credito realizza infatti una forma di tutela anticipata, per cui é sufficiente per la integrazione del reato, alternativamente, l'accettazione della promessa ovvero la dazione e ricezione di un'utilità anche non patrimoniale (Sez. 6, n. 8989 del 29/01/2015, Galletta, Rv. 262798; Sez. 6, n. 30150 del 07/06/2006,Rv. 235428; Sez. 6, n. 50078 del 28/11/2014, Rv. 261540). Dunque, non vi era necessità nella specie di verificare il rapporto tra la promessa, la dazione del denaro ed "il fatto" di contenzioso amministrativo, perché , qualunque fosse l'esito di quest'ultimo, il reato sarebbe nondimeno configurabile. Né é rilevante che i giudizi amministrativi, in ragione dei quali l'imputato promise il proprio interessamento, ebbero in concreto un determinato esito ovvero non ebbero uno sviluppo concreto per essere stato "ritirato" il ricorso: dette circostanze confermano, semmai, la correttezza della qualificazione giuridica del fatto e come le dazioni di denaro fossero slegate dalla concreta incidenza sul contenzioso da parte del ricorrente. Né é stato dedotto alcunché per ritenere che le dazioni furono successive all'esito dei procedimenti. Né , ancora, quanto alla dedotta prescrizione, sono stati indicati, rispetto alle prove acquisite ed ai fatti specificamente indicati nella imputazione e ricostruiti nelle sentenze dei Giudici di merito - che chiaramente fanno riferimento ad accadimenti verificatisi nel 2013 - elementi dimostrativi dell'avvenuta estinzione dei reati prima della sentenza impugnata ovvero della erroneità della determinazione della pena da parte della Corte a seguito della dichiarazione di prescrizione di parte dei fatti contestati. 1.2. E' inammissibile per manifesta infondatezza il secondo motivo di ricorso. La Corte di appello, anche facendo riferimento alla sentenza del Tribunale, ha chiarito come il giudizio di colpevolezza sia stato formulato sulla base di plurime dichiarazioni rese anche dalla stessa M.C. (cioé dall'Amministratrice di (OMISSIS), che avrebbe disposto in molteplici occasioni i numerosi pagamenti in favore dell'imputato), da B.M. (il soggetto che in un'occasione, nel febbraio del 2013 avrebbe materialmente consegnato a C. la busta contenente denaro), da B.N. (che, oltre a confermare l'episodio del febbraio del 2013, ha aggiunto di avere anche in altre occasioni ricevuto incarico dalla M. di preparare la somma di ventimila Euro da destinare all'imputato per agevolare l'esito delle cause pendenti davanti al Giudice amministrativo) oltre che da un biglietto, rinvenuto e sequestrato presso lo stesso B., relativo al luogo dove avrebbe dovuto recarsi B. per consegnare la busta con il denaro a C., e dal contenuto di alcune significative conversazioni. Sulla base di tale articolato quadro di riferimento é stata fatta derivare l'inferenza secondo cui nel corso del tempo all'imputato furono compiute plurime dazioni di somme di denaro. Dunque, diversamente dagli assunti difensivi, un giudizio ed una inferenza fondati su molteplici ed autonome dichiarazioni attendibili, aventi ad oggetto una pluralità di fatti sufficientemente specifici e tra loro omogenei, aventi la stessa causale, posti in essere tra gli stessi soggetti, protrattisi nel tempo nella loro articolazione esecutiva, riscontrati adeguatamente nella loro globalità da più elementi di prova provenienti da diverse e convergenti fonti. Rispetto a tale quadro di riferimento, il motivo di ricorso, e, in particolare, l'assunto difensivo secondo cui per affermare la responsabilità dell'imputato occorrerebbe il riscontro specifico di ogni singola dazione di denaro compiuta in suo favore, rivela la sua manifesta infondatezza, non solo perché é polarizzato sulla prova di un fatto - la dazione- che, come detto, non ha di per sé valenza costitutiva, ben potendo sussistere il reato per effetto della sola promessa, ma, soprattutto, perché si pone in netta asimmetria con i principi consolidati della giurisprudenza. La Corte di cassazione in più occasioni ha affermato il principio secondo cui i riscontri esterni alla chiamata di correità richiesti dall'art. 192 c.p.p., devono essere individualizzanti, nel senso che devono avere ad oggetto direttamente la persona dell'incolpato e devono possedere idoneità dimostrativa in relazione allo specifico fatto a questi attribuito (cfr., tra le tante, Sez. 3. N. 44882 del 18/07/2014, Cariolo, Rv. 260607, nonché Sez. 3, n. 3255 del 10/12/2009, dep. 2010, Genna, Rv. 245867). Tuttavia, si precisa, non é richiesto che i riscontri abbiano lo spessore di una prova autosufficiente perché , in caso contrario, la chiamata non avrebbe alcun rilievo, in quanto la prova si fonderebbe su tali elementi esterni e non sulla chiamata di correità (cfr., in tal senso, ad esempio, Sez. 3, Cariolo, cit., nonché Sez. 4, n. 5821 del 10/12/2004, dep. 2005, Alfieri, Rv. 231301). In questa prospettiva, si é anche affermato che i riscontri estrinseci non devono avere necessariamente i requisiti richiesti per gli indizi a norma dell'art. 192 c.p.p., comma 2, essendo sufficiente che essi siano precisi nella loro oggettiva consistenza e idonei a confermare, in un apprezzamento unitario, la prova dichiarativa dotata di propria autonomia rispetto a quella indiziaria (così, specificamente, Sez. 1, n. 34712 del 02/02/2016, Ausilio, Rv. 267528). Quando il chiamante in correità rende dichiarazioni che concernono una pluralità di fatti - reato commessi dallo stesso soggetto e ripetuti nel tempo, l'elemento di riscontro esterno per alcuni di essi fornisce sul piano logico la necessaria integrazione probatoria della chiamata anche in ordine agli altri, purché sussistano, come nel caso di specie, ragioni idonee a suffragare tale giudizio e ad imporre una valutazione unitaria delle dichiarazioni accusatorie, quali l'identica natura dei fatti in questione, l'identità dei protagonisti, o di alcuni di essi, e l'inserirsi dei fatti in un rapporto intersoggettivo unico e continuativo (cfr., tra le tante, Sez. 1, n. 586 del 04/12/2017, dep. 2018, Callea, Rv. 272037; Sez. 6, n. 38994 del 06/06/2017, Giacino, Rv. 271081; Sez. 6, n. 13844 del 02/12/2016, dep. 2017, Aracu, Rv. 270367; Sez. 6, n. 47304 del 12/11/2015, Messina, Rv. 265355, nonché Sez. 6, n. 41352 del 24/09/2010, Contini, Rv. 248713). Nel caso in esame, come detto, a fronte di molteplici dichiarazioni, già di per sé idonee a riscontrarsi, sono stati indicati molteplici e significativi ulteriori elementi di riscontro in ordine a fatti di identica natura, che hanno riguardato le stesse persone, che si sono sviluppati in un unico contesto relazionale - pur sviluppatosi nel tempo - che si sono verificati secondo uno stesso schema e secondo un'unica causale giustificativa. Dunque una corretta applicazione dei principi di diritto. 1.3. Manifestamente infondato é , infine, il terzo motivo di ricorso. Quanto alla censura relativa all'età ed alla vita professionale pregressa dell'indagato, si tratta di una argomentazione del tutto generica che non si confronta con la motivazione della sentenza, tenuto conto che nella motivazione della sentenza il giudice di merito non é peraltro tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cfr, fra le altre, Sez. 5, n. 6746 del 13/12/2018, dep. 2019, Currò, Rv. 275500). Quanto alla contraddizione della motivazione della sentenza sulla indicazione della data in cui sarebbe cessata l'attività criminosa da parte dell'imputato, il motivo é manifestamente infondato, essendo chiaro, sulla base delle evidenti risultanze probatorie (cfr., conversazioni intercettate), che, al di là di qualche errore materiale, la Corte di appello abbia fatto riferimento al febbraio del 2013 e non al novembre di quell'anno. Il reato, dunque, non era prescritto alla data in cui é stata emessa la sentenza impugnata e, in considerazione della inammissibilità del ricorso, non rileva la eventuale estinzione per prescrizione successivamente verificatasi. 2.La posizione di O.G.. Si é già detto di come ad O., già candidato sindaco del Comune di (OMISSIS) in occasione delle elezioni dell'anno 2010 e poi effettivamente eletto sindaco della città, fossero stati contestati due reati di violazione della normativa sul finanziamento elettorale: al capo 11b) si contestava la ricezione di 110.000 Euro da parte del Consorzio (OMISSIS); al capo 11d) la ricezione di complessivi 250.000 Euro. Il Tribunale aveva assolto l'imputato quanto al capo 11b) e prosciolto O. per il reato contestato al capo 11d) per essersi il reato estinto per prescrizione. La Corte di appello ha confermato la sentenza di proscioglimento per prescrizione per il capo 11d). 2.1. I due motivi di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati. Secondo il ricorrente, la Corte di appello, facendo una errata applicazione della legge, avrebbe erroneamente prosciolto l'imputato ritenendo estinto il reato per prescrizione, piuttosto che assolverlo perché il fatto non é previsto alla legge come reato. La normativa, nell'individuare i soggetti obbligati e le relative sanzioni nell'ambito della disciplina sul finanziamento illecito ai partiti politici, non farebbe riferimento alla figura del candidato sindaco e, dunque, nella specie, vi sarebbe stata una interpretazione analogica in malam partem della norma. In particolate, sarebbe errato l'assunto del Tribunale, recepito dalla Corte di appello, secondo cui, dovendosi fare riferimento all'art. 37, comma 1, art. 71, comma 9, e art. 73 comma 11, del Testo Unico delle Enti locali, il candidato alla carica di sindaco sarebbe anche candidato al consiglio comunale e quindi O., nella qualità di candidato al consiglio comunale, non avrebbe potuto ricevere quelle somme; secondo il Tribunale, si tratterrebbe di una consentita interpretazione estensiva della norma ma non analogica. Secondo invece il ricorrente, il reato contestato all'imputato sarebbe un reato proprio ed il riferimento all'art. 73, comma 11, non sarebbe decisivo, atteso che detta norma farebbe riferimento solo alla possibilità che, in un momento successivo alle elezioni - e dunque successivo al momento in cui il soggetto assume la qualità di candidato sindaco - questi, in determinati eventuali casi (cioé che il soggetto candidato sindaco non sia stato eletto e che la lista a cui il candidato é collegato abbia ricevuto almeno un seggio all'interno del consiglio comunale), assuma la carica di consigliere comunale. Dunque, si argomenta, nessun automatismo di equivalenza tra la qualifica soggettiva di candidato sindaco e quella di candidato al consiglio comunale. Si evidenzia inoltre, ad ulteriore conferma dalla diversità della posizione di candidato sindaco rispetto a quella di candidato consigliere comunale, come: a) la posizione del sindaco non sia computata ai fini del quorum costitutivo del consiglio (art. 38, comma 2); b) ai sensi dell'art. 39 T.U.E.L. il sindaco presieda il consiglio solo nei comuni con meno di 15.000 abitanti, mentre nei comuni con più di 15.000 egli non svolga alcun ruolo nell'ambito del Consiglio; c) in ragione dell'art. 43 T.U.E.L. il Sindaco risponda alle interrogazioni ed ad ogni altra istanza di sindacato ispettivo presentata dai consiglieri comunali, circostanza, questa, che confermerebbe ulteriormente la sua distinzione dal Consiglio; d) ai sensi dell'art. 72 T.U.E.L., la candidatura a sindaco sia autonoma rispetto a quella dei consiglieri, nel senso che l'elettore può votare un determinato candidato sindaco e nello stesso tempo per una lista allo stesso non collegata. Il procedimento elettorale contemplerebbe due subprocedimenti amministrativi differenti, caratterizzati da una propria autonoma sequenza di atti, che conducono ad esiti distinti, quali la proclamazione del sindaco e quella dei consiglieri (in tal senso si fa riferimento alla giurisprudenza amministrativa che chiarisce che sono necessari ricorsi distinti per l'impugnazione dei rispettivi atti di proclamazione degli eletti. Ne discende, si conclude, che nella specie l'imputato, candidato sindaco, non sarebbe mai stato candidato consigliere comunale e dunque non poteva assumere la qualifica soggettiva necessaria per commettere il reato contestatogli. 2.2. L'assunto non può essere condiviso. E' utile riprodurre il testo delle norme rispettivamente previste dalla L. n. 195 del 1974, art. 7, e L. n. 659 del 1981, art. 4, comma 1. Dispone l'art. 7 citato: "1. Sono vietati i finanziamenti o i contributi, sotto qualsiasi forma e in qualsiasi modo erogati, da parte di organi della pubblica amministrazione, di enti pubblici, di società con partecipazione di capitale pubblico superiore al 20 per cento o di società controllate da queste ultime, ferma restando la loro natura privatistica, a favore di partiti o loro articolazioni politico-organizzative e di gruppi parlamentari. 2. Sono vietati altresì i finanziamenti o i contributi sotto qualsiasi forma, diretta o indiretta, da parte di società non comprese tra quelle previste nel comma precedente in favore di partiti o loro articolazioni politico-organizzative o gruppi parlamentari, salvo che tali finanziamenti o contributi siano stati deliberati dall'organo sociale competente e regolarmente iscritti in bilancio e sempre che non siano comunque vietati dalla legge. 3. Chiunque corrisponde o riceve contributi in violazione dei divieti previsti nei commi precedenti, ovvero, trattandosi delle società di cui al comma 2, senza che sia intervenuta la deliberazione dell'organo societario o senza che il contributo o il finanziamento siano stati regolarmente iscritti nel bilancio della società stessa, é punito, per ciò solo, con la reclusione da 6 mesi a 4 anni e con la multa fino al triplo delle somme versate in violazione della presente legge". La L. n. 659 del 1981, art. 4, comma 10, intitolata "Modifiche ed integrazioni alla L. 2 maggio 1974, n. 195, sul contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici", prevede: "I divieti previsti dalla L. 2 maggio 1974, n. 195, art. 7, sono estesi ai finanziamenti ed ai contributi in qualsiasi forma o modo erogati, anche indirettamente, ai membri del Parlamento nazionale, ai membri italiani del Parlamento Europeo, ai consiglieri regionali, provinciali e comunali, ai candidati alle predette cariche, ai raggruppamenti interni dei partiti politici nonché a coloro che rivestono cariche di presidenza, di segreteria e di direzione politica e amministrativa a livello regionale, provinciale e comunale nei partiti politici". Secondo il ricorrente, che richiama un precedente di questa Corte, "il divieto di erogare sotto qualsiasi forma finanziamenti o contributi, a favore di partiti o loro articolazioni politico-organizzative e di gruppi parlamentari, da parte dei soggetti indicati nella L. 2 maggio 1974, n. 195, art. 7, non si applica alle erogazioni in favore dei candidati alla carica di sindaco, non essendo tale ipotesi contemplata dalla L. 18 novembre 1981, n. 659, art. 4, comma 1, che ha esteso l'applicabilità del predetto divieto solo ai membri del Parlamento nazionale ed Europeo, ai consiglieri regionali, provinciali e comunali, nonché ai candidati alle predette cariche" (Sez. 3, n. 28045 del 29/11/2016, dep. 2017, Favilla, Rv. 270077). Con la sentenza in questione la Corte di cassazione evidenziò come, diversamente ragionando, l'estensione soggettiva al candidato sindaco del divieto non costituirebbe il risultato di una interpretazione meramente "estensiva" della norma, quanto, piuttosto, di una vera e propria interpretazione analogica in malam partem, vietata dal sistema. In particolare, la Corte, dopo essersi lungamente diffusa sulla distinzione tra interpretazione analogia, vietata, ed interpretazione estensiva, consentita, ritenne nel caso specifico che l'operatività del divieto nei riguardi del candidato sindaco non potesse "giustificarsi sulla base di una altrettanto arbitraria, apodittica e irragionevole equiparazione tra la carica di consigliere comunale e quella del Sindaco, sulla base di una contestualità temporale delle due competizioni elettorali e di un collegamento tra esse vista la possibilità per il candidato sindaco eventualmente non eletto di essere eletto alla carica di consigliere comunale, non mancando, peraltro, di rilevare come le nuove norme sull'elezione diretta del sindaco ostino ad una interpretazione siffatta" (così testualmente la sentenza). Questa fu la motivazione adottata nella occasione per spiegare le ragioni per cui il candidato sindaco non potesse assumere la qualifica soggettiva richiesta dalla norma incriminatrice di candidato al consiglio comunale. 2.3. Si tratta di una interpretazione che questo Collegio non condivide. La questione in esame trae origine dalla circostanza obiettiva che, al momento della entrata in vigore della L. n. 659 del 1981, art. 4, il sindaco non era eletto direttamente dal corpo elettorale, essendo il sistema elettorale mutato solo con la L. n. 81 del 1993. Dunque, il mancato riferimento nell'art. 4 cit. alla figura del candidato sindaco potrebbe non essere il frutto di una obiettiva scelta del legislatore, quanto, piuttosto, di un mancato coordinamento della L. n. 659 del 1991, con quella n. 81 del 1993-con la quale é stato introdotto nell'ordinamento il sistema della elezione diretta del sindaco-. Né sono state spiegate le ragioni per le quali al candidato sindaco dovrebbe essere consentito ciò che a tutti gli altri é vietato. E tuttavia, rispetto al quadro normativo descritto, il tema é del tutto estraneo alla possibilità di interpretare la norma di cui all'art. 4 cit. in modo analogico ed in malam partem, nel senso di attribuire la qualifica soggettiva richiesta dalla norma incriminatrice ad un soggetto diverso rispetto a quelli espressamente indicati, e non attiene neppure alla possibilità di interpretare l'art. 4 in via estensiva. Né assume rilevanza il tema della distinzione tra interpretazione analogica o estensiva della norma. La questione attiene a due distinti profili. Il primo riguarda se, sulla base delle norme vigenti, il candidato sindaco sia anche candidato alla carica di consigliere comunale e, dunque, in questa veste e non in quella di candidato sindaco, sia a lui vietato ricevere finanziamenti; ciò che deve essere stabilito é , cioé , se colui che si candida a sindaco assuma, nel momento in cui si candida, anche la veste di candidato alla carica di consigliere comunale, con conseguente divieto di ricevere finanziamenti. Si tratta di chiarire se O., candidato sindaco al Comune di (OMISSIS), fosse anche candidato alla carica di consigliere comunale e, dunque, in tale ultima veste, non potesse ricevere finanziamenti. Ove infatti si ritenga che il candidato sindaco sia anche un candidato alla carica di consigliere comunale, la norma di cui all'art. 4 cit. troverebbe diretta e testuale applicazione, senza nessuna torsione interpretativa, né estensiva, né , tantomeno, analogica in malam partem. Il secondo profilo attiene al se, posto che il candidato sindaco sia anche candidato al consiglio comunale, l'operazione di "ridefinizione" della imputazione compiuta dai giudici di merito sia processualmente rituale o se invece abbia prodotto lesione ai diritti della difesa e, più in generale, abbia violato il principio di correlazione fra accusa e sentenza. 2.4. Rispetto al primo profilo, non assumono decisivo rilievo le molteplici norme, puntualmente richiamate dal ricorrente, con cui si sono evidenziate correttamente le diversità strutturali e funzionali tra la figura del sindaco e quella del consigliere comunale e i diversi sub procedimenti che portano alla proclamazione del sindaco e dei consiglieri comunali. Si tratta di riferimenti che prescindono dalla questione e che si limitano a disciplinare singoli profili giuridici riguardanti le due figure soggettive, la cui distinzione non é in contestazione. In realtà esistono numerosi e significativi dati normativi che inducono a ritenere che il candidato sindaco sia, per espressa previsione legislativa, anche candidato alla carica di consigliere comunale. Come correttamente evidenziato dai giudici di merito, nell'attuale sistema, l'art. 71, comma 9, del Testo Unico degli Enti locali prevede, in tema di elezione del sindaco e del consiglio comunale nei comuni sino a 15.000 abitanti, che: "Nell'ambito di ogni lista, i candidati sono proclamati eletti consiglieri comunali secondo l'ordine delle rispettive cifre individuali, costituite dalla cifra della lista aumentata dei voti di preferenza. A parità di cifra, sono proclamati eletti i candidati che precedono nell'ordine di lista. Il primo seggio spettante a ciascuna lista di minoranza é attribuito al candidato sindaco della lista medesima". In senso simmetrico, l'art. 73, del medesimo testo unico, in tema di elezioni comunali nei comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, prevede ai commi 11 - 12: "11. Una volta determinato il numero dei seggi spettanti a ciascuna lista o gruppo di liste collegate, sono in primo luogo proclamati eletti alla carica di consigliere i candidati alla carica di sindaco, non risultati eletti, collegati a ciascuna lista che abbia ottenuto almeno un seggio. In caso di collegamento di più liste al medesimo candidato alla carica di sindaco risultato non eletto, il seggio spettante a quest'ultimo é detratto dai seggi complessivamente attribuiti al gruppo di liste collegate. 12. Compiute le operazioni di cui al comma 11, sono proclamati eletti consiglieri comunali i candidati di ciascuna lista secondo l'ordine delle rispettive cifre individuali. In caso di parità di cifra individuale, sono proclamati eletti i candidati che precedono nell'ordine di lista". Il Consiglio di Stato ha chiarito in più occasioni come non vi siano dubbi sull'applicabilità di tali norme a tutti i candidati alla carica di sindaco non risultati eletti (Cfr., fra le altre, Cons. Stato, Sez. 5, n. 227 del 07/03/1997; Cons. Stato, Sez. 5, n. 752 del 13/05/1995). La stessa Corte costituzionale ha spiegato che la L. n. 81 del 1993, stabilisce un collegamento tra l'elezione del sindaco e quella del consiglio comunale, al fine di assicurare al sindaco eletto, nella normalità dei casi, una consistente maggioranza nell'organo di indirizzo e di controllo politico- amministrativo del comune. Il collegamento di più liste ad un candidato alla carica di sindaco presuppone l'omogeneità del programma politico che si intende realizzare e prefigura, nell'ambito del consiglio comunale, una coalizione che rispecchi il raggruppamento dichiarato prima della votazione per l'elezione del sindaco. Sottolinea la Corte costituzionale come l'aggregazione sia destinata ad operare tanto per la maggioranza che per le minoranze, atteso che "il candidato alla carica di sindaco che non risulti eletto é il primo proclamato eletto alla carica di consigliere, se il gruppo di liste a lui collegate ha ottenuto almeno un seggio" (Corte Cost., n. 429 del 1995). Dunque, per il candidato sindaco non eletto é espressamente previsto dalla legge un "recupero" automatico, pur subordinato alla condizione che il gruppo di liste a lui collegate abbia ottenuto almeno un seggio; il sindaco non eletto é il primo proclamato eletto alla carica di consigliere e lo é per effetto della sua decisione di candidarsi alla carica di sindaco. La circostanza che la nomina a consigliere comunale possa in concreto non realizzarsi non assume decisiva valenza perché non attiene alla candidatura ma al concreto atteggiarsi del successivo risultato elettorale. Non si tratta di una interpretazione analogica della norma incriminatrice e nemmeno, come detto, di una interpretazione estensiva della stessa ma di una interpretazione testuale, fedele al dato letterale-normativo, che obiettivamente risolve l'evidente difetto di coordinamento formale tra la L. n. 659 del 1991, e quella n. 81 del 1993; il candidato sindaco, nel momento in cui formalizza la sua candidatura, sa di essere candidato anche alla carica di consigliere comunale e, dunque, non può ricevere finanziamenti. O. sapeva che, candidandosi alla carica di Sindaco di Venezia era automaticamente candidato alla carica di consigliere comunale, e, dunque, non poteva ricevere in tale veste finanziamenti. 2.5. Semmai la questione, che non riguarda la prospettata interpretazione analogica della norma, attiene al secondo profilo in precedenza segnalato e cioé se, rispetto alla formulazione testuale della imputazione - che fa espresso riferimento alla candidatura dell'imputato a sindaco - i giudici di merito potessero valorizzare la sua candidatura a consigliere comunale al fine di formulare un giudizio di responsabilità. Il tema, cioé , ha una valenza strettamente processuale e riguarda se il fatto per cui O. é stato giudicato, quello cioé di avere violato la normativa sul finanziamento illecito ai partiti nella qualifica di candidato consigliere comunale, sia diverso rispetto a quello contestato, in cui, come detto si aveva riguardo solo alla carica di candidato sindaco. Un prima riflessione riguarda le garanzie difensive in ragione della "riqualificazione"; si evoca sui punto l'art. 111 Cost., e l'art. 6, par. 3, lettere a) e b), CEDU, per come interpretato dalla Corte di Strasburgo, in particolare nella sentenza Drassich c. Italia dell'11 dicembre 2007; la seconda riflessione attiene alla possibile mutazione del fatto ritenuto rispetto a quello originariamente contestato. In via preliminare é utile evidenziare come il ricorrente non abbia prospettato alcuna concreta emergenza alla stregua della quale poter apprezzare che la censurata "ridefinizione" dei fatti abbia in qualche modo vulnerato la sua difesa e, soprattutto, l'esercizio del diritto alla prova, tenuto conto dei due gradi di giudizio celebrati e, soprattutto, la obiettiva circostanza che il ricorrente non solo ha potuto richiedere in appello l'assunzione di nuove prove in ragione della ricostruzione compiuta dal Tribunale, ma ha in concreto esercitato il diritto "di difendersi provando". Dall'esame della imputazione originariamente contestata, emerge con chiarezza l'intero quadro di riferimento fattuale su cui si é articolato il contraddittorio e il diritto alla prova, avendo i Giudici mutato esclusivamente la qualifica soggettiva. Nei casi, come quello di specie, in cui la diversa "definizione" del fatto é compiuta dal giudice di primo grado e contro la decisione così emessa é possibile provocare un controllo dapprima in appello e poi davanti alla Corte di cassazione, la Corte di Strasburgo é orientata ad escludere la violazione dell'art. 6, pp. 1 e 3, lett. a) e b), della Convenzione alla luce di una valutazione che tiene conto del complesso del procedimento e della possibilità dell'imputato di far valere le proprie ragioni davanti al giudice nazionale (emblematiche sono, in proposito, le sentenze Corte EDU, Quinta Sezione, 9 dicembre 2010, Zhupnik c. Ucraina, e le sentenze ‘gemellé Corte EDU, Quarta Sezione, 8 ottobre 2013, Mulosmani c. Albania, e Corte EDU, Quarta Sezione, 8 ottobre 2013, Hoxha c. Albania). La giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha inoltre in più occasioni escluso la violazione dei parametri convenzionali in tutti i casi in cui la prospettiva della nuova definizione giuridica fosse nota o comunque prevedibile per l'imputato, censurando, in concreto, le ipotesi in cui la riqualificazione dell'addebito assuma le caratteristiche di un atto a sorpresa. La stessa Corte, inoltre, non ha mancato di sottolineare come il diritto di difesa e quello al contraddittorio non siano vulnerati nei casi in cui i fatti costitutivi del nuovo reato siano già presenti nella originaria imputazione: ciò, evidentemente, anche nella ipotesi in cui la nuova definizione giuridica non fosse di per sé prevedibile per l'imputato (fra le tante, sentenze 1 marzo 2001, Dallos c. Ungheria; 3 luglio 2006, Vesque c. Francia; 7 gennaio 2010, Penev c. Bulgaria; 12 aprile 2011, Adrian Constantin c. Romania; 3 maggio 2011, Giosakis c. Grecia; 15 gennaio 2015, Mihei c. Slovenia, nella quale ultima si é in particolare rilevato come l'imputato fosse pienamente a conoscenza degli elementi fattuali posti alla base della contestazione originaria, dai quali era possibile desumere l'oggetto della contestazione così come modificata nel corso del dibattimento). In tale contesto, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno chiarito come l'attribuzione all'esito del giudizio di appello, pur in assenza di una richiesta del pubblico ministero, al fatto contestato di una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione non determina la violazione dell'art. 521 c.p.p., neanche per effetto di una lettura della disposizione alla luce dell'art. 111 Cost., comma 2, e dell'art. 6, della Convenzione EDU come interpretato dalla Corte Europea, qualora la nuova definizione del reato fosse nota o comunque prevedibile per l'imputato e non determini in concreto una lesione dei diritti della difesa derivante dai profili di novità che da quel mutamento scaturiscono (Sez. U., n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264438). Quanto al secondo profilo, quello relativo alla correlazione fra accusa e sentenza, le Sezioni unite hanno spiegato come in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché , vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione é del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'"iter" del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (Sez. U, n. 36551 derl 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051). Ne deriva che anche sotto tale profilo, tenuto conto dello sviluppo del processo, di cui si é detto, nessuna lesione ai diritti dell'imputato si é verificata. 3. La posizione di F.N.. Il ricorso presentato nell'interesse di F.N. é nel complesso infondato. Si é già detto di come la Corte di appello abbia ritenuto di non doversi procedere in ordine ai reati di cui ai capi n. 1) - 7) (corruzione propria e violazione della normativa sul finanziamento elettorale) perché estinti per prescrizione. Quanto alla corruzione, a F. é stato contestato di avere concorso con alcune sue società nella corruzione propria di C.P., Presidente del (OMISSIS)MAV(OMISSIS). F., nella qualità di direttore generale di determinate società, la prima delle quali consorziata al Consorzio (OMISSIS) (CVN), avrebbe contribuito ad alimentare il c.d. (OMISSIS), cioé il fondo comune formato da denaro contante costituito dai principali consorziati del Consorzio (OMISSIS) e destinato a corrompere funzionari coinvolti nei procedimenti di interesse del Consorzio ed a finanziare candidati in campagne elettorali o in altre evenienze. L'imputato in tal modo avrebbe concorso alla corruzione di C.P. con la dazione di un determinata somma all'anno. In relazione al reato in questione la Corte ha confermato la statuizione con cui é stata disposta la confisca di 78.000 Euro quale profitto derivante dal reato. 3.1. E' inammissibile per manifesta infondatezza il primo motivo di ricorso. Il ricorrente, richiamando numerosi principi di diritto affermati anche dalle Sezioni unite, sostiene che le somme confiscate non potrebbero considerarsi profitto del reato di corruzione in quanto non legate a questo da un rapporto di derivazione diretta, e che il profitto confiscabile sarebbe solo quello netto, cioé il guadagno conseguito dal reato "al netto dei costi" (così il ricorso). La somma confiscata, argomenta il ricorrente, costituirebbero solo un vantaggio derivante in via diretta dall'illecito fiscale, cioé dalla falsa fatturazione con cui si costituivano le provviste da destinare alla corruzione; sarebbe stato necessario, si aggiunge, verificare l'utilità conseguita dal comportamento antigiuridico del pubblico ufficiale. 3.2. Si tratta di un ragionamento non condivisibile. Assume rilievo come i giudici di merito abbiano descritto e ricostruito il sistema attraverso cui venivano commessi i fatti corruttivi per cui si procede. Il Consorzio (OMISSIS) era formato da circa dieci soci c.d. di primo grado (a loro volta costituiti da consorzi) tra cui anche la Coveco, a cui erano consorziate le società di F.. Al Consorzio spettava il 12% dell'importo dei lavori di cui ciascuna impresa era assegnataria; detta somma - di circa 100 milioni di Euro all'anno - che avrebbe dovuto essere destinata a coprire le spese generali della struttura consortile, era in realtà utilizzata per versare alle società consorziate c.d. di secondo livello delle somme di denaro a fronte di fatturazioni da parte di queste anche per lavori inesistenti. Dette società restituivano in contanti le somme ricevute, decurtate da quanto versato al fisco in ragione della falsa fatturazione (e quindi circa la metà); tali somme, retrocesse in contanti ed in nero al (OMISSIS) o alla società di primo livello, costituivano la fonte di alimentazione di un fondo finalizzato alla corruzione. Sulla base di tale meccanismo, la Corte ha spiegato che: a) il ricorrente ricevette sui propri conti correnti l'importo complessivo di circa 83 mila Euro; b) il profitto sarebbe costituito da circa il 50% degli importi fatturati dalle società di F. alla (OMISSIS), ossia da circa il 50% delle somme ricevute in pagamento dal Consorzio, atteso che l'altra metà veniva retrocessa alla (OMISSIS) ed al Consorzio per l'alimentazione del fondo, nel senso che si é detto; c) la partecipazione all'attività corruttiva sarebbe stata lo strumento per potere operare tramite il (OMISSIS) e, dunque, l'importo di dette fatturazioni emesse - depurate nel senso indicato- costituirebbero il corrispettivo dei lavori effettivamente svolti ed il profitto derivante dal reato "proprio per il tramite della partecipazione all'attività corruttiva, l'odierno imputato si é assicurato la possibilità di operare per il (OMISSIS), appare evidente come le fatture dallo stesso emesse per il pagamento dei corrispettivi di tali lavorazioni costituiscano in concreto il profitto derivante in capo al F. dalla condotta illecita; ovviamente, avendo accertato che gli importi erano in realtà sovrafatturati (nel senso che il 50% dell'importo della fattura non aveva alcun fondamento nei lavori effettuati ed era invece pertinente a somme anticipate dal (OMISSIS) e destinate ad essere allo stesso restituite), il profitto andrebbe determinato nella misura del 50% delle somme oggetto di tali fatturazioni" (così, lucidamente, il Tribunale a pag. 782 della sentenza di primo grado). Ha aggiunto la Corte di appello che il Tribunale aveva ritenuto eccessiva la quantificazione del profitto nella misura del 50% di cui si é detto, perché per le società di F. le fatturazioni erano state almeno in parte relative a lavori effettivamente eseguiti e che proprio per tale ragione dalla somma originariamente individuata di 97,500 Euro si era decurtata l'ulteriore percentuale del 20%. Rispetto a tale articolato quadro di riferimento, il motivo di ricorso rivela la sua strutturale inammissibilità. Il meccanismo descritto dai Giudici di merito, non contestato dall'imputato, spiega, da una parte, come le somme che il Consorzio (OMISSIS) conseguiva per effetto dell'attività corruttiva fossero distribuite tra tutte le società che al fatto corruttivo avevano concorso, e, dall'altra, come una parte di queste somme fosse retrocessa per alimentare, attraverso false fatturazioni, il sistema di corruzione. Dunque, a seguito del meccanismo indicato, l'imputato, attraverso le sue società, conseguì un profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato di corruzione, rispetto al quale il sistema di falsa fatturazione era strumentale solo a celare, a nascondere, il riutilizzo di quelle somme in funzione della alimentazione del fondo destinato alla corruzione sistematica. Un profitto, dunque, di diretta e immediata derivazione dal reato di corruzione ed una corretta applicazione dei principi affermati dalle Sezioni unite della Corte secondo cui il profitto, per rilevare ai fini della disciplina della confisca, deve essere accompagnato dal requisito della "pertinenzialità", inteso nel senso che deve derivare in via immediata e diretta dal reato che lo presuppone (principio di "causalità" del reato rispetto al profitto) (Sez. Un., n. 9194 del 3/07/1996, Chabni, Rv. 205707; Sez. Un., n. 29951 del 24/05/2004, Focarelli, in motivazione; Sez. Un., n. 29952 del 24/05/2004, Romagnoli, in motivazione; Sez. Un., n. 41936 del 25/10/2005, Muci, Rv. 232164; Sez. Un., n. 26654 del 27/03/2008, Fisia Impianti, Rv. 239924; Sez. un., n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, in motivazione). In virtù del "principio di causalità" e dei requisiti di materialità e attualità, il profitto, per essere tipico, deve corrispondere, come nel caso di specie, a un mutamento materiale, attuale e di segno positivo, della situazione patrimoniale del suo beneficiario, ingenerato dal reato attraverso la creazione, trasformazione o l'acquisizione di cose suscettibili di valutazione economica, sicché non rappresenta "profitto" un qualsivoglia vantaggio futuro, immateriale, o non ancora materializzato in termini strettamente economico-patrimoniali (Sez. un., n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264436; Sez. 5, n. 10265 del 28/12/2013, - dep. 2014-, Banca Italease s.p.a, Rv. 258577; ma anche Sez. un. "Fisia impianti", cit.). Ne consegue l'infondatezza del motivo. 3.3. E' infondato il secondo motivo di ricorso per le stesse ragioni già espresse per la posizione dell'imputato O.. 3.4. E' infondato, ai limiti della inammissibilità, il terzo motivo di ricorso, relativo alla pagamento - a titolo di provvisionale - della somma di 50.000 Euro disposto, si assume, in mancanza di una formale condanna al risarcimento del danno per il reato contestato al capo 7); la Corte di appello in modo puntuale ha proceduto alla correzione dell'errore materiale emergente chiaramente dal testo della sentenza di primo grado (pag. 818), da cui si evince che il Tribunale aveva condannato l'imputato al risarcimento del danno dell'imputato per il reato contestato al capo 7). 4. La posizione di C.E. Il ricorso proposto nell'interesse di C.E. é infondato ma la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali per essersi il reato estinto per prescrizione. Si é già detto di come all'imputato si contesti, nella qualità di socio e di amministratore di fatto della società (OMISSIS) s.r.l., di avere concorso nella corruzione dell'allora Ministro (OMISSIS) e, successivamente, Ministro delle (OMISSIS), M.A.. In particolare, M., in cambio dell'importo complessivo ricevuto da M.G., Presidente del Consorzio (OMISSIS), e da B.P. per far assegnare e gestire in violazione delle normativa in tema di appalti, del codice dei contratti pubblici e delle direttive Europee, al Consorzio in questione - ed alle imprese consorziate - i finanziamenti relativi alle opere di bonifica dei siti industriali di (OMISSIS), nonché per garantire a M.G. la nomina di C.P. a presidente del (OMISSIS) ((OMISSIS)), avrebbe richiesto allo stesso M. che le opere di bonifica di (OMISSIS) fossero affidate alla (OMISSIS) s.r.l., che, dopo essersi associata in A.T.I. ed aver costituito con la M. s.p.a., le Società consortili (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), per eseguire i lavori di risanamento ambientale, in realtà non partecipò alla esecuzione delle opere. In tal modo la società (OMISSIS), sebbene non operativa, avrebbe conseguito un utile di circa 29,600 milioni di Euro, al netto delle imposte, derivante dalla ripartizione del margine complessivo delle commesse, senza aver sopportato alcun costo per le attività di bonifica, nonché un importo di circa 13,5 milioni di Euro dalla M. s.p.a. derivante dalla cessione a questa della sua quota consortile nel consorzio (OMISSIS), importo determinato sulla base del portafoglio lavori acquisito dalla stessa (OMISSIS) s.r.l. per effetto della sua partecipazione, anche se non operativa, al Consorzio (OMISSIS), ed, infine, un ulteriore importo di oltre 5 milioni di Euro dalla M. spa derivante dalla cessione a questa di quote consortili nelle società (OMISSIS) Sc, (OMISSIS) e (OMISSIS) (fatti commessi dal 2001 al 2012). 4.1. Per ragioni di ordine espositivo, é utile esaminare innanzitutto il sesto e l'ottavo motivo di ricorso, con cui sono state dedotte numerose questioni di carattere processuale. Si tratta di questioni proposte con motivi con cui é stato denunciato il vizio di violazione di legge e quello relativo alla motivazione con cui la Corte di appello ha argomentato nell'affrontare la questione dedotta. La Corte di Cassazione ha in molteplici occasioni chiarito tuttavia che non sono denunciabili, con il ricorso per cassazione, dei "vizi della motivazione nelle questioni di diritto affrontate dal giudice di merito in relazione alle argomentazioni giuridiche delle parti" (Sez. 5, n. 4173 del 22/02/1994, Marzola, Rv. 197993), in quanto o le medesime "sono fondate, e allora il fatto che il giudice le abbia disattese (motivatamente o meno) dà luogo al diverso motivo di censura costituito dalla violazione di legge, ovvero sono infondate, ed in tal caso il provvedimento con cui il giudice le abbia disattese non può dar luogo ad alcun vizio di legittimità della pronuncia giudiziale, avuto anche riguardo al disposto di cui all'art. 619 c.p.p., che consente di correggere, ove necessario, la motivazione quando la decisione in diritto sia comunque corretta" (Sez. 1, n. 49237 del 22/09/2016, dep. 2017, Emanuele, Rv. 271451). Le questioni di diritto proposte, dunque, devono essere valutate al fine di verificare se i giudizi di merito abbiano fatto corretta applicazione della legge. 4.1.1. Il sesto motivo, che si articola in più questioni, é nel complesso infondato, ai limiti della inammissibilità. Quanto alla dedotta nullità della sentenza di primo grado ex art. 179 c.p.p. - in relazione alla L. Cost. 16 gennaio 1989, n. 1, artt. 7 e 8 e, comunque, alla inutilizzabilità di una serie di atti indagine, il presupposto da cui muove il ricorrente é che già dalle intercettazioni telefoniche eseguite nel 2011 e dalle dichiarazioni rese da M. alla Polizia Tributaria di Venezia il 29.7.2013 sarebbe stata configurabile la notizia di reato per il fatto oggetto del processo a carico di M. (così a pag. 34 del ricorso in cui viene ripotato un breve stralcio delle dichiarazioni). Sarebbe errata l'affermazione della Corte secondo cui solo con il rapporto della polizia giudiziaria dell'aprile del 2014 il Pubblico Ministero avrebbe avuto la possibilità di valutare la consistenza della notizia criminis e procedere alla iscrizione nel registro degli indagati. L'Ufficio di Procura, rilevata la connotazione ministeriale della notizia di reato, avrebbe dovuto immediatamente procedere alla iscrizione della notizia- avvenuta solo il 23.4.2014- e, omessa ogni indagine, trasmettere gli atti al Collegio di cui alla L. n. 1 del 1989, art. 7. Secondo il ricorrente, il Pubblico Ministero, conformemente all'inciso previsto dalla L. n. 1 del 1989, art. 6, rilevata l'esistenza di una notizia di reato "ministeriale", "omessa ogni indagine", non avrebbe potuto svolgere nessuna ulteriore attività investigativa, non residuando nessuna discrezionalità al riguardo. Ne deriverebbe, argomenta il ricorrente, la nullità ed inutilizzabilità quanto meno delle dichiarazioni accusatorie rese da M. il 25.7, il 29.7 ed il 9.10.2013 e la nullità della sentenza impugnata. 4.1.2. L'assunto non può essere condiviso. Il motivo rivela un preliminare profilo di inammissibilità strutturale, non essendo stato adeguatamente chiarito quale sarebbe stata l'incidenza probatoria degli atti ritenuti inutilizzabili rispetto al giudizio di penale responsabilità. E tuttavia, pur volendo prescindere da tale profilo, il motivo é comunque infondato. Il ricorrente chiede alla Corte di cassazione di verificare, in funzione surrogatoria, se e da quando fosse stata configurabile la notizia di reato per la quale si procede e, dunque, da quando il pubblico ministero, rilevata la connotazione ministeriale di essa, avrebbe dovuto astenersi dal compiere attività di indagine ai sensi della L. Cost. n. 1 del 1989, art. 6. Sul tema le Sezioni unite della Corte di cassazione, consapevoli delle delicate implicazioni sottese alla questione loro rimessa e, in particolare, dei rischi di lesioni senza sanzione processuale derivanti da possibili abusi da parte della pubblica accusa, hanno chiarito che: a) l'organo titolare dell'azione penale ha l'obbligo giuridico indilazionabile di iscrivere la "notitia criminis" ed il nominativo dell'indagato senza alcuna soluzione di continuità rispetto al momento in cui sorgono i relativi presupposti, non sussistendo alcuna possibilità "di scelta, non solo in relazione all'an, ma anche rispetto al quid... ed al quando" e dovendosi ritenere "non pertinente il riferimento ad un potere "discrezionale" del pubblico ministero, atteso che "appena acquisita, infatti, la notizia di reato, nei termini di configurabilità oggettiva di cui si é detto (base fattuale idonea a configurare un "fatto" come sussumibile in una determinata fattispecie di reato), il pubblico ministero é tenuto a procedere, senza soluzione di continuità e senza alcuna sfera di "discrezionalità", alla relativa iscrizione nel registro previsto dall'art. 335 c.p.p.. Allo stesso modo, e sul versante della attribuibilità soggettiva, una volta conseguiti elementi "obiettivi"di identificazione del soggetto "responsabile" (tali, dunque, da superare la soglia del generico e "personale" sospetto), con altrettanta tempestività il pubblico ministero sarà tenuto a procedere alla iscrizione del relativo nominativo"; b) la vaghezza, che attiene ai "parametri identificativi del "momento" di insorgenza dell'obbligo di procedere agli adempimenti previsti dall'art. 335 c.p.p. "é ineludibile e scaturisce, a ben guardare, dalla stessa scelta del legislatore di configurare l'iscrizione come un atto a struttura "complessa" in cui convivono una componente oggettiva, "quale é la configurazione di un determinato fatto ("notizia") come sussumibile nell'ambito di una determinata fattispecie criminosa" e di una componente "soggettiva", rappresentata dal nominativo dell'indagato, essenziale "perché é solo dopo che viene individuato il soggetto cui attribuire il reato che i termini cominciano a decorrere"; c) le questioni connesse a possibili disfunzioni patologiche connesse a ritardi, anche colpevoli o abnormi, rispetto all'obbligo di procedere "immediatamente" alle iscrizioni delle notizie di reato, richiederebbero "quale efficace rimedio, la individuazione di un giudice e di un procedimento che consentisse l'adozione di un qualche provvedimento "surrogatorio," che la legge non ha previsto..... Non esiste, infatti, nel sistema, né un principio generale di "sindacabilità" degli atti del pubblico ministero, né un altrettanto generalizzato compito di "garanzia" affidato al giudice per le indagini preliminari"; d) il sindacato giurisdizionale sulla tempestività delle iscrizioni operate dal pubblico ministero presuppone una espressa previsione normativa che disciplini "non soltanto le attribuzioni processuali da conferire ad un determinato organo della giurisdizione, ma anche il "rito" secondo il quale inscenare un simile accertamento "incidentale". Basti pensare, ad esempio, alla esigenza di rispettare il contraddittorio, non solo tra i soggetti necessari, ma anche in riferimento agli altri eventuali "partecipanti" della indagine o del processo"; e) allo stato, in assenza di un intervento normativo, da molto tempo atteso, il principio non può che essere quello indicato, non potendo essere invocato il "rimedio" restitutorio auspicato, in mancanza di soluzioni procedimentali costituzionalmente obbligate (Sez. U, n. 40538 del 24/09/2009, Lattanzi, Rv. 244376). In tale quadro di riferimento, si pone in senso chiaramente simmetrico Sez. 6, n. 10130 del 03/03/2011, Mastella, in motivazione, secondo cui il potere di qualificazione del reato, anche con riferimento alla sua natura, ministeriale o meno, spetta sempre all'autorità giudiziaria. Si é chiarito nell'occasione come, secondo la L. Cost. n. 1 del 1989, se é vero che il pubblico ministero, ricevuta la notitia criminis riguardante una condotta attribuita ad un ministro, debba trasmettere ogni indagine nel termine di quindici giorni gli atti al collegio per i reati ministeriali, é altrettanto vero che l'obbligo di trasmissione ed il conseguente divieto di compiere indagini sorge solo in presenza di una notitia criminis qualificata, nel senso che dalla stessa sia possibile "direttamente ed immediatamente" ricollegare al ministro la commissione del reato, anche in relazione al collegamento con l'esercizio delle sue funzioni. Si é spiegato in maniera condivisibile come in questa prima fase spetti al pubblico ministero il compito di accertare se l'ipotesi del "reato ministeriale" abbia una qualche consistenza, anche per quanto concerne la riconducibilità del rapporto di strumentale connessione alla competenza funzionale del soggetto politico (Sez. 1, n. 28866 del 22/05/2008, n. 28866, confl., comp. in proc. Amato; Sez. U, n. 14 del 20/07/1994, De Lorenzo, secondo cui sarebbe "arbitrario tanto identificare quel rapporto in un nesso di mera occasionalità con l'esercizio delle funzioni, quanto pretendere che esso sia arricchito di ulteriori elementi qualificanti, come l'abuso dei poteri o delle funzioni, ovvero la violazione dei doveri d'ufficio, non richiesti dalla legge né suggeriti da una corretta interpretazione"). In tal senso si pone anche Corte Cost. n. 88 del 2012 secondo cui la L. Cost. n. 1 del 1989, art. 6, destina al Collegio ministeriale i soli rapporti, referti e denunzie concernenti "i reati indicati dall'art. 96 Cost.", ossia quegli illeciti - come specifica la norma sovraordinata - che "il Presidente del consiglio dei Ministri e i Ministri, anche se cessati dalla carica" abbiano commesso "nell'esercizio delle funzioni". Essendo concepita non come "protezione offerta alla persona" - opzione che risulterebbe costituzionalmente illegittima, per violazione del principio di uguaglianza ma quale mezzo di tutela della "funzione da quest'ultima esercitata", la speciale procedura descritta dalla novella del 1989 non scatta automaticamente in presenza di un'incriminazione relativa a un ministro, ma presuppone che si accerti preliminarmente l'attinenza del comportamento illecito ascrittogli allo svolgimento del munus publicum ricoperto. Ebbene, un simile vaglio non può che essere affidato a(procuratore della Repubblica cui sia pervenuta L. n. 1 del 1989, ex art. 6 una notitia criminis a carico di un soggetto che sia membro dell'esecutivo (o che lo fosse al tempus commissi delicti), essendo principio generale dell'ordinamento processuale, non derogato da alcuna norma speciale, che la prerogativa di qualificare il fatto reato compiuto - che include nella fattispecie in esame anche la valutazione della sua natura ministeriale - spetti all'autorità giudiziaria ordinaria. In altri termini, il riconoscimento del carattere ministeriale del reato per cui si procede - che, precisa la sentenza, potrebbe essere immediato, nel caso in cui il fatto venga "descritto nella notizia di reato in termini inequivocabilmente ministeriali", o invece "emergere solo successivamente, a seguito dell'acquisizione, anche attraverso le indagini, degli elementi utili a tale scopo" - rappresenta il presupposto affinché trovino applicazione le speciali guarentigie previste dalla legge costituzionale e da quella di attuazione, in difetto del quale l'itinerario procedimentale seguirà necessariamente le vie ordinarie (Così, testualmente, Corte Costi. Ciò non significa, si é spiegato, lasciare sguarnita l'Assemblea parlamentare di un adeguato strumento di tutela, ne(caso in cui si ritenga che sia stato forzatamente ricondotto alle cadenze "comuni" l'accertamento di un reato commesso nell'esercizio delle funzioni ministeriali, impedendole così di esercitare le prerogative costituzionali che le assegna la L. Cost. n. 1 del 1989, art. 9, comma 3, potendosi fare ricorso al conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale. In tale quadro di riferimento, il motivo di ricorso rivela la sua obiettiva infondatezza, avendo peraltro spiegato la Corte di appello come, nella specie, solo con il rapporto della Guardia di finanza dell'aprile del 2014, il quadro di riferimento in ordine alla notizia di reato ed alla sua natura ministeriale fu effettivamente compiuto. Sul punto nulla di specifico é stato dedotto. 4.1.3. E' inammissibile il sesto motivo di ricorso anche in relazione alla parte concernente l'acquisizione, ai sensi dell'art. 512 c.p.p., delle dichiarazioni rese da M. nel corso delle indagini preliminari. Nel subordinare l'utilizzabilità dibattimentale delle dichiarazioni precedentemente rese dalle persone informate sui fatti - o dalle persone imputate in procedimento connesso o probatoriamente collegato al reato per cui si procede - alla condizione che l'esame di queste ultime sia divenuto impossibile per fatti o circostanze imprevedibili, l'istituto della irripetibilità sopravvenuta di cui all'art. 512 c.p.p. é riconducibile, al pari della irripetibilità originaria, al parametro costituzionale della impossibilità di natura oggettiva (art. 111 Cost., comma 5) quale deroga al principio del contraddittorio nella formazione della prova (Sez. U, n. 36747 del 28/05/203, Torcasio, Rv. 225470; Corte Cost., ord. n. 375 del 2001). La salvaguardia della corretta funzionalità del delicato meccanismo contemplato dall'art. 512 c.p.p. é in gran parte affidata al "buon senso" del giudice nella gestione del criterio della imprevedibilità, che rappresenta, come é noto, il risvolto negativo della prognosticabilità del rischio della dispersione della prova su cui si regge l'istituto dell'incidente probatorio. Il criterio della imprevedibilità costituisce il perno su cui ruotano gli equilibri tra l'incidente probatorio e l'istituto della irripetibilità sopravvenuta; il nesso tra questi due istituti si fonda sulla circostanza che il concetto di imprevedibilità si ricollega logicamente alla possibilità di instaurare un meccanismo procedimentale alternativo che consenta di acquisire la prova in contraddittorio prima del dibattimento, scongiurandone la dispersione. Si é sostanzialmente concordi nel ritenere che la verifica di tale presupposto debba articolarsi in un controllo circa la prevedibilità dell'evento ostativo alla ripetibilità dell'atto, secondo la tecnica della c.d. prognosi postuma, ampiamente collaudata dal diritto sostanziale. Il giudicante é chiamato a riprodurre mentalmente la valutazione prognostica che la parte che chiede l'acquisizione delle dichiarazioni unilateralmente assunte ha effettuato in fase di indagine, verificandone la correttezza, a prescindere dagli accadimenti che abbiano avuto luogo in concreto. Il procedimento, cioé , presuppone che il giudice si cali nei panni del richiedente, si riporti in un dato momento del passato e, tenendo conto delle circostanze di fatto allora note o conoscibili, stabilisca se l'evento che ha reso impossibile la ripetizione si sarebbe potuto ragionevolmente prevedere. Risulta peraltro evidente che non si potrebbe pretendere dalla parte interessata al recupero delle dichiarazioni extradibattimentali la capacità di preconizzare tutti gli impedimenti possibili, ma solo quelli "probabili", in ossequio al noto criterio dell'id quod plerumque accidit, ed é altresì verosimile che il controllo sull'imprevedibilità dell'evento ostativo debba fondarsi su dati concreti e specifici. Il presupposto dell'imprevedibilità, in sostanza, mira ed evitare la deliberata elusione dell'istituto dell'incidente probatorio, soggetto alle norme proprie del dibattimento, soprattutto da parte della pubblica accusa, che potrebbe avere interesse ad utilizzare per fini probatori le dichiarazioni da essa raccolte unilateralmente nel corso delle indagini - e che avvalorano l'impianto accusatorio - piuttosto che far assumere la prova in contraddittorio fra le parti, poiché questa l'assunzione con il metodo dialettico si presenta di esito più incerto in quanto implica, fisiologicamente, un confronto tra tesi contrapposte e la loro valutazione immediata e diretta da parte del giudice. La Corte di appello ha fatto corretta applicazione dei principi indicati spiegando non solo le ragioni per cui era divenuto impossibile assumere in dibattimento l'esame di M., ma, soprattutto, perché , al momento in cui questi rese le dichiarazione nel 2013 nel corso delle indagini preliminari, fosse non prevedibile la impossibilità di ripetizione dell'atto in giudizio, nel contraddittorio delle parti. La Corte ha chiarito puntualmente (pag. 7 e ss. sentenza impugnata) come in tal senso depongano numerosi ed univoci elementi (deposizioni dei testi, Dott.ssa S., medico curante di M., D.P. e D., collaboratrici del dichiarante, dichiarazioni dei coindagati, B., S. e M., documentazione medica e relazione peritale del Dott. S.) comprovanti il fatto che, al momento in cui furono rese quelle dichiarazioni, M. fosse sì affetto da una patologia dementigena, ma non vi fossero elementi oggettivi che potessero ragionevolmente indurre a prevedere la successiva impossibilità di ripetizione dell'atto. Sul punto il ricorso é silente. 4.2. E' infondato l'ottavo motivo di ricorso, relativo alla dedotta incompetenza funzionale del Pubblico Ministero per l'attività compiuta dopo il rilascio dell'autorizzazione a procedere ex art. 96 Cost.. Si tratterebbe di attività posta in essere in violazione della L. Cost. n. 1 del 1989, artt. 6,7 e 8, atteso che la investitura del Collegio dei Ministri per l'espletamento delle indagini preliminari avrebbe assunto nella specie solo un carattere parziale e temporaneo rispetto all'intero materiale probatorio utilizzato ai fini della decisione, ampliato, dopo il rilascio dell'autorizzazione, per effetto della successiva attività di indagine svolta dalla Procura della Repubblica che avrebbe "stravolto" (così il ricorso) l'originaria imputazione oltre i limiti della concessa autorizzazione a procedere. 4.2.1. L'assunto difensivo, generico nella sua formulazione, non può essere condiviso per più ragioni. Sotto un primo profilo, la tesi difensiva lambisce quasi il difetto di interesse, atteso che nel caso di specie si procede nei riguardi del corruttore e non del Ministro che sarebbe stato corrotto. Sotto altro profilo, la L. Cost. n. 1 del 1989, art. 9, comma 4, dispone che l'Assemblea, ove conceda l'autorizzazione, rimette gli atti al collegio di cui all'art. 7 perché "continui il procedimento"; si tratta di una formula che deve essere posta in connessione con l'art. 3, comma 1, della legge ordinaria di attuazione della legge costituzionale secondo cui il "procedimento continua" secondo le regole vigenti. Dunque, non esiste una preclusione per il Pubblico Ministero a compiere attività che, da una parte, siano meramente ordinatorie, e dall'altra, si risolvano, come nel caso di specie, in una ridefinizione conformativa sul piano giuridico della imputazione rimasta immutata in ordine al fatto- reato per il quale l'autorizzazione a procedere é stata rilasciata. Né il ricorrente ha indicato quali sarebbero stati i procedimenti per i quali é stata disposta la riunione, quali il loro oggetto, quali gli altri indagati e quali i reati per cui si é proceduto, e, soprattutto, quale sarebbe stato il materiale probatorio utilizzato nei riguardi del ricorrente diverso da quello per il quale l'autorizzazione a procedere era stata rilasciata. 4.3. E' infondato il secondo motivo di ricorso. 4.3.1. L'assunto difensivo é che nella specie sarebbe stata realizzata una pluralità di fatti corruttivi autonomi e indipendenti, commessi in un arco temporale di dodici anni, e che i Giudici di merito, in violazione dell'art. 81 c.p., avrebbero erroneamente ritenuto sussistente un unico reato, seppur a consumazione progressiva, con conseguente applicazione della disciplina del reato permanente. Un fatto unico permanente, si argomenta, a fronte del quale, tuttavia, il Ministro corrotto avrebbe rivestito l'incarico solo per alcuni segmenti temporali e comunque non tra il maggio 2006 e il maggio del 2008. Secondo il ricorrente, la cessazione della carica di Ministro nel 2006 farebbe interrompere la progressione criminosa e, dunque, la consumazione del delitto con conseguente applicazione della disciplina del reato permanente; attesa la frattura temporale indicata, non sarebbe configurabile nemmeno il reato di cui all'art. 318 c.p., non potendosi ammettere una vendita della funzione "per il futuro". Quindi, si evidenzia, un difetto di tipicità del reato unico prospettato, con conseguente erronea applicazione della disciplina del reato permanente per assenza della continua, medesima, qualifica pubblicistica e per eterogeneità degli atti contrari compiuti. Nella prospettiva accusatoria sarebbero al più configurabili più fatti corruttivi avvinti dalla continuazione, così come originariamente contestato, prima della modifica della imputazione compiuta all'esito della udienza preliminare. La sentenza sul punto sarebbe silente. Ad ulteriore conferma della impossibilità di ritenere un unico fatto corruttivo, si segnala come anche le utilità della corruzione sarebbero consistite in atti autonomi ed indipendenti ed anche sotto il profilo del dolo la costruzione della Corte sarebbe errata ed immotivata. 4.3.2. Il tema attiene alla esatta ricostruzione dell'oggetto del patto corruttivo nei casi in cui, come quello in esame, "il rapporto" tra soggetto pubblico e privato ruota su interessenze sganciate "a monte" dal compimento di specifici atti, atteso che al momento della conclusione del patto, il pubblico ufficiale non "vende" atti, ma se stesso, il suo essere pubblico ufficiale, la sua funzione, il futuro esercizio del potere pubblico. Concluso l'accordo, il reato é perfezionato e non assume rilievo decisivo la sua esecuzione, le sue dinamiche, la sua evoluzione nel tempo; é l'accordo che si punisce, é la "presa in carico" da parte del pubblico ufficiale d'interessi differenti da quelli che la legge impone di perseguire: un inquinamento di base, un asservimento diffusivo che ha la capacità di propagarsi nel tempo, in futuro, in modo non preventivato e non specificamente preventivabile rispetto al momento della conclusione del patto corruttivo. I delitti di corruzione puniscono il collateralismo clientelare o mercantile. Il tema si incrocia con l'accertamento probatorio dei fatti, e, in particolare, con la prova del senso e della natura dell'accordo, della sua struttura, della sua attuazione, della eventuale esistenza di un ulteriore patto. Si tratta di un accertamento che deve essere compiuto caso per caso ed in cui, si é fatto già notare, possono assumere rilievo la situazione concreta, le aspettative specifiche del corruttore, cioé il movente della condotta del corruttore, il senso ed il tempo della pretesa di questi, la condotta in concreto compiuta dal pubblico agente, le modalità della corresponsione del prezzo. Deve essere accertato il "colore" del patto corruttivo (così, diffusamente, Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019, dep. 2020, Bolla, Rv. 279555 ed in motivazione). Le considerazioni esposte assumono maggiore rilievo in tutti i casi, come quello in esame, in cui oggetto del mercimonio sia l'attività amministrativa discrezionale, cioé un'attività in cui la norma attributiva del potere consente all'amministrazione un ampio ambito di possibilità di azione. I giudici di merito hanno fatto corretta applicazione dei principi in questione. Nel caso di specie, il riferimento a più episodi, a più atti, a distinti momenti temporali, alla circostanza che il pubblico ufficiale muti nel corso del tempo la sua veste, il suo "ufficio", al fatto che il pubblico ufficiale corrotto muti il Ministero di cui assume la titolarità ovvero, per un certo periodo cessi di ricoprire la carica di ministro, non consente, in assenza di elementi probatori contrari, di escludere che il fatto corruttivo, nella sua complessità e nella sua evoluzione temporale, costituisca l'esplicitazione, la manifestazione della operatività di un unico accordo, che conserva la sua unicità strutturale, con l'effetto ineludibile che viene in considerazione una sola corruzione e non una pluralità di corruzioni. Un unico patto corruttivo sviluppatosi nel tempo in relazione alla condotta del pubblico ufficiale corrotto - che, in attuazione dell'impegno di "curare" l'interesse del corruttore, pone in essere atti contrari ai doveri d'ufficio in qualsiasi occasione - e del corruttore - che garantisce utilità multiple. Ciò spiega l'insegnamento secondo cui il compimento dell'atto da parte del pubblico ufficiale non fa parte della struttura del reato e che la plurima attività pubblica posta eventualmente in essere dal pubblico ufficiale corrotto, in esecuzione di un unico accordo illecito concluso, non dà luogo alla continuazione nel reato, la quale é legata soltanto alla esistenza di pluralità di pattuizioni. Se l'accettazione della promessa e la ricezione dell'utilità sono unitarie, nel senso che sono riconducibili geneticamente alla stessa fonte, anche se in funzione di una pluralità di atti da compiere, il reato é e rimane unico (in tal senso, lucidamente, Sez.6, n. 33435 del 04/05/2006, Battistella, Rv. 234360; in senso sostanzialmente conforme, Sez. U, n. 15208 del 25/02/2010, Mills, Rv. 246583 e, più recentemente, Sez. 6, n. 51126 del 18/07/2019, Evangelisti, Rv. 278192). Ciò giustifica la conseguente affermazione di principio secondo cui lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, con episodi sia di atti contrari ai doveri d'ufficio che di atti conformi o non contrari a tali doveri, configura una progressione criminosa ed un unico reato permanente, previsto dall'art. 319 c.p., in cui é assorbita la meno grave fattispecie di cui all'art. 318 c.p., nell'ambito del quale le singole dazioni eventualmente effettuate, sinallagmaticamente connesse all'esercizio della pubblica funzione, si atteggiano a momenti consumativi di un unico reato di corruzione propria, con conseguente decorrenza del termine di prescrizione dall'ultima di esse (Sez. 6, n. 51126 del 18/07/2019 Evangelisti, cit.; Sez. 6, n. 40237 del 07/07/2016, Giangreco, Rv. 267634). La Corte di appello ha spiegato come, nel caso di specie, la successione di M. nelle diverse cariche di Ministro dell'Ambiente e delle Infrastrutture ed anche la circostanza che questi in un dato momento non ricoprì nessun incarico ministeriale, non intacchi la configurazione di un unico continuo rapporto corruttivo tra M., C. e il Consorzio; un rapporto sviluppatosi nel tempo con continuità, attuato secondo le contingenze, in ragione delle esigenze dei corruttori e dei rapporti mantenuti con il pubblico ufficiale negli anni, realizzato con la dazione di plurime dazioni ed utilità (cfr. sentenza impugnata a pagg. 90- 91- 97 in cui si evidenzia come, secondo M., "per il Ministro M. osi faceva entrare C. oppure niente affidamenti dei lavori"). Un patto corruttivo unico con cui M., da una parte, ordinò al Consorzio di coinvolgere C. - cioé un "suo uomo"- e la società che a questi faceva riferimento, e, dall'altra, "garantì" il Consorzio nel corso degli anni, piegando, come meglio si dirà, i pubblici poteri agli interessi privati "presi a carico". 4.4. E' inammissibile il terzo motivo di ricorso relativo alla ritenuta compartecipazione criminosa nel reato di corruzione da parte di C., extraneus al reato proprio. Il reato di corruzione, nelle sue varie ipotesi, integra un reato a forma libera, plurisoggettivo, fondato sul pactum sceleris tra privato e pubblico ufficiale (o incaricato di pubblico servizio). Si tratta di un illecito che si sostanzia in condotte convergenti, tra loro in reciproca saldatura e completamento, idonee ad esprimere, nella loro fisiologica interazione, un unico delitto. Da ciò consegue che il reato si perfeziona e si manifesta, in termini di responsabilità, solo tra le parti dell'accordo illecito e solo se entrambe le condotte - del corrotto e del corruttore - in connessione indissolubile, sussistono probatoriamente; il reato si realizza alternativamente al momento dell'accettazione della promessa ovvero con il ricevimento effettivo dell'utilità. Ciò che deve essere processualmente accertato é se il pubblico ufficiale abbia accettato una utilità, se quella utilità sia collegata all'esercizio della sua funzione, al compimento di quale atto quella utilità sia connessa, se quell'atto sia o meno conforme ai doveri di ufficio. In tal senso, la Corte di cassazione ha chiarito che normalmente non sussiste la compartecipazione criminosa del terzo che non abbia concorso alla conclusione del patto illecito e che, invece, conoscendo l'esistenza del patto illecito tra altri, si adoperi successivamente alla realizzazione dell'accordo corruttivo. La condotta del terzo, non promessa e non tenuta in conto al momento dell'accordo, compiuta successivamente alla conclusione del patto intercorso tra altri, che non rivela un nuovo patto corruttivo ma che attiene alla fase esecutiva dell'accordo, non modifica la struttura del patto già concluso, né consente di aggiungere all'unico patto pregresso un nuovo contraente postumo; essa può assumere al più rilevanza penale in relazione ad altre fattispecie di reato (Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019, dep. 2020, Bolla, Rv. 279555; Sez. 6, n. 46404 del 29/10/2019, Genco, Rv. 277308). Diversa é l'ipotesi, come quella in esame, in cui l'attività del terzo si risolva in un'attività interna all'accordo corruttivo, in un contributo, materiale o morale, consapevole del terzo e di cui sin dall'origine le parti contraenti tengono conto, un fatto che "entra" nell'accordo: un accordo corruttivo in favore del terzo consapevole. Un fatto del terzo che svolge una indispensabile funzione di connessione tra gli autori necessari e che illumina il patto (in questo senso, tra le diverse, Sez. 6, n. 24535 del 10/04/2015, Mogliani, Rv. 264124; Sez. 6, 33435 del 04/05/2006, Battistella, Rv. 234361). Nel caso di specie, i giudici di merito, soprattutto il Tribunale, hanno chiarito: a) la natura e la portata del rapporto personale tra C. e M.; b) i rapporti che sin dal 1999 si sono sviluppati tra C. e M. e come questo considerasse il primo un "uomo determinante rispetto al Ministro"; c) il pieno e diretto coinvolgimento di C. agli incontri tra il Ministro e lo stesso M.; d) come, sin da subito, il Ministro chiarì che "o si faceva entrare C. oppure niente affidamenti dei lavori". Dunque, un contributo del "terzo" consapevole, originario e condiviso sin dal momento della conclusione del patto corruttivo: una originale, consapevole e continua opera di connessione tra il corruttore ed il pubblico ufficiale corrotto. Rispetto a tale ricostruzione, nulla di specifico é stato dedotto, essendosi limitato il ricorrente ad affermazioni generiche, senza confrontarsi con la motivazione della sentenza. 4.5. E' inammissibile il settimo motivo di ricorso, relativo alla incompetenza territoriale. Si é già detto di come, secondo il ricorrente, il reato contestato deriverebbe non da un unico fatto "a consumazione permanente", ma da una pluralità di fatti; sulla base di tale presupposto, si assume che, ai fini della individuazione del giudice territorialmente competente si sarebbe dovuto fare riferimento all'art. 16 c.p.p. e, quindi, al fatto più grave ovvero al luogo del giudice competente per il primo reato. Si tratta di un motivo che perde la sua rilevanza alla luce di quanto chiarito in relazione al secondo motivo di ricorso. 4.6. E' infondato il primo motivo di ricorso, relativo alla esatta qualificazione dei fatti, che, al più, dovrebbero essere ricondotti al reato di traffico di influenze illecite ovvero a quello di corruzione per l'esercizio della funzione. 4.6.1. L'assunto difensivo, come detto, é che gli atti compiuti in esecuzione dell'accordo non potrebbero essere considerati contrari ai doveri di ufficio del Ministro perché non riconducibili alla sua competenza funzionale. La Corte avrebbe erroneamente richiamato la sentenza di primo grado facendo riferimento allo "sviamento di poteri": M. sarebbe cioé intervenuto sugli enti che avrebbero emesso gli atti posti a fondamento della imputazione in relazione all'assegnazione dei lavori al Consorzio ed alla nomina alla carica di presidente del M.A.V. di C., che, in realtà, sarebbe di competenza del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio dei Ministri. 4.6.2. La Corte di cassazione ha già spiegato come il reato previsto dall'art. 346 bis c.p. si differenzi dalle fattispecie di corruzione per la connotazione causale del prezzo, finalizzato a retribuire soltanto l'opera di mediazione compiuta da chi si adopera per promuovere un accordo corruttivo al quale resta tuttavia estraneo (in tal senso, Sez. 6, n. 4113 del 14/12/2016, dep. 2017, Rigano, Rv. 269736). Con la introduzione del reato di traffico di influenze illecite si é cioé intesa sanzionare penalmente la condotta del mediatore che compia atti diretti a mettere in contatto il pubblico ufficiale ed il privato, sì da creare le condizioni per la commissione di delitti di corruzione propria e di corruzione in atti giudiziari; la clausola di sussidiarietà con la quale esordisce la formulazione letterale della fattispecie incriminatrice "fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli artt. 319 e 319 ter" dimostra che il legislatore ha inteso sanzionare una condotta in certo modo meramente preparatoria da parte di chi resta esterno rispetto alla conclusione del patto corruttivo. (Sez. 6, n. 3606 del 20/10/2016, dep. 2017, Bonanno, Rv. 269348). E' evidente come i fatti per cui si procede non siano riconducibili al reato di traffico di influenze, non essendo nella specie le parti rimaste estranee al patto corruttivo. 4.6.3. Sotto altro profilo, la Corte di cassazione ha già chiarito che se é vero che, attraverso l'art. 318 c.p., il legislatore ha inteso punire di per sé la condotta del pubblico ufficiale che, dietro compenso di una utilità, "prenda a carico" un interesse privato a prescindere dal compimento di un atto dell'ufficio, é altrettanto vero che in tali casi l'incriminazione sembra rispondere alla logica della anticipazione della tutela del bene protetto dalla norma - e, in particolare, della imparzialità dell'agire amministrativo-secondo lo schema del reato di pericolo. In tal senso la fattispecie di cui all'art. 318 c.p. rivela una offensività diversa e minore rispetto al reato di corruzione propria, che é fondata, invece, sul danno in concreto arrecato e sull'accertamento di un nesso strumentale tra la dazione-promessa e il compimento di un determinato o comunque ben determinabile atto contrario ai doveri d'ufficio. Se infatti l'oggetto dell'accordo corruttivo con cui il pubblico ufficiale vende "solo" la sua funzione é l'impegno a considerare in futuro, cioé a curare, gli interessi del privato corruttore ed a tutelarlo, appaiono condivisibili le impostazioni dottrinarie e le affermazioni contenute in altre sentenze della Corte di cassazione secondo cui "il discrimine tra le due ipotesi corruttive resta pertanto segnato dalla progressione criminosa dell'interesse protetto in termini di gravità (che giustifica la diversa risposta punitiva) da una situazione di pericolo (il generico asservimento della funzione) ad una fattispecie di danno, in cui si realizza la massima offensività del reato (con l'individuazione di un atto contrario ai doveri d'ufficio). Nel primo caso la dazione indebita, condizionando la fedeltà ed imparzialità del pubblico ufficiale che si mette genericamente a disposizione del privato, pone in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione; nell'altro, la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d'ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto" (ed in particolare, della imparzialità dell'azione amministrativa) meritando quindi una pena più severa (così, Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019, dep. 2020, Bolla, Rv. 279555; Sez. 6, n. 4486 del 11/12/2018, dep. 2019 Palozzi, Rv. 274984; nello stesso senso, Sez. 6, n. 49226 del 25/09/2014, Chisso, Rv. 261353, e sostanzialmente, Sez. 6, n. 33828 del 26/04/2019, Masobrio, Rv. 276783; Sez. 6. N. 32401 del 20/06/2019, Monaco, Rv. 276801). E' fondato ritenere che la nuova formulazione dell'art. 318 c.p., ora rubricata come corruzione per l'esercizio della funzione, abbia inciso notevolmente sulla struttura della norma, mutandone la natura; mentre infatti nella precedente versione la fattispecie era pur sempre costruita come reato di danno, connesso alla compravendita di un atto d'ufficio (purché non contrario ai doveri), nella nuova tipizzazione il legislatore ha inteso ricomprendere tutte le forme di compravendita della funzione non connesse causalmente al compimento di uno specifico atto contrario ai doveri di ufficio. Dunque, una offensività diversa e "minore", rispetto a quella insita nel reato di corruzione propria, che giustifica una risposta sanzionatoria minore. L'art. 318 c.p. sanziona la violazione del principio rivolto al pubblico funzionario di non ricevere denaro o altre utilità in ragione della funzione pubblica esercitata e, specularmente, al privato di non corrisponderglieli; la norma sanziona l'intesa programmatica - l'impegno del pubblico ufficiale a curare interessi indebiti senza la previa individuazione di alcunché -, previene la compravendita degli atti d'ufficio e garantisce il corretto funzionamento e l'imparzialità della pubblica amministrazione. "Il discrimine tra le due ipotesi corruttive resta pertanto segnato dalla progressione criminosa dell'interesse protetto in termini di gravità (che giustifica la diversa risposta punitiva) da una situazione di pericolo (il generico asservimento della funzione) ad una fattispecie di danno, in cui si realizza la massima offensività del reato (con l'individuazione di un atto contrario ai doveri d'ufficio). Nel primo caso la dazione indebita, condizionando la fedeltà ed imparzialità del pubblico ufficiale che si mette genericamente a disposizione del privato, pone in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione; nell'altro, la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d'ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto, meritando quindi una pena più severa" (così, Sez. 6, Palozzi, di cui si é detto). In tale ottica la recente modifica apportata alla L. n. 3 del 2019, art. 318, che ha consistentemente aumentato la pena per il reato di corruzione per l'esercizio della funzione, ha in realtà eliso una delle argomentazioni maggiormente valorizzate dall'indirizzo che riconduce all'art. 319 c.p. "la messa a libro paga" del pubblico funzionario e contribuisce a sgomberare il campo da possibili fraintendimenti. In tale quadro di riferimento, si é già detto di come il tema attenga alla esatta ricostruzione dell'oggetto del patto corruttivo nei casi in cui, come quello in esame, "il rapporto" tra soggetto pubblico e privato ruota su interessenze sganciate "a monte" dal compimento di specifici atti, atteso che al momento della conclusione del patto corruttivo il pubblico ufficiale "vende" sé stesso, il suo essere pubblico ufficiale, la sua funzione, il futuro esercizio del potere pubblico. Si é detto di come, concluso l'accordo, il reato é perfezionato e non assume rilievo decisivo la sua esecuzione; é l'accordo che si punisce a prescindere dalla futura sua capacità diffusiva. Si é detto ancora come il tema si incroci con l'accertamento probatorio dei fatti, e, in particolare, con la verifica della struttura del patto e del suo oggetto. Il giudice deve verificare la corrispondenza fra fatto storico e previsione normativa: deve stabilire se sia stata o meno realizzata una condotta abusiva, arbitraria, contraria a ciò che i doveri di ufficio imponevano di fare. Al di là delle infedeltà in quanto tali del pubblico ufficiale, ai fini della configurabilità del reato di corruzione propria rileva la violazione dei doveri che attengono al modo, al contenuto, ai tempi degli atti da compiere e delle decisioni da adottare, alla violazione, cioé , della regola "giusta" nel concreto operare dell'azione amministrativa. E' necessario esaminare la struttura del patto corruttivo, da una parte, per accertare se sia o meno identificabile "a monte" un atto contrario ai doveri di ufficio, e, dall'altro, per verificare la condotta del pubblico agente nei settori che interferiscono con gli interessi del corruttore, per comprendere se il predetto funzionario, al di là del caso di manifeste violazioni di discipline cogenti, di elusione della causa fondativa del potere attribuito, abbia, in conseguenza del patto, fatto buon governo del potere assegnatogli, tenendo conto di tutti i profili valutabili, o se abbia pregiudizialmente inteso realizzare l'interesse del privato corruttore, a fronte di ragionevolmente possibili esiti diversi. 4.6.4. Nel caso di specie, i giudici di merito hanno chiarito come: - al Ministro M. sia stato contestato di essersi adoperato per l'assegnazione di una serie di interventi/opere al Consorzio (OMISSIS), garantendo al concessionario ed ai suoi consorziati di usufruire di ingenti finanziamenti; - il Ministero dell'Ambiente avesse una generale competenza nell'erogazione delle coperture finanziarie provenienti dal bilancio dello Stato e destinate a favore degli interventi di salvaguardia della laguna di (OMISSIS); - interlocutore necessario del Ministero (OMISSIS), quale destinatario dei fondi trasferiti per l'esecuzione dei vari interventi, era il Magistrato (OMISSIS); - dalla documentazione acquisita emerga chiaramente l'interesse e le interlocuzioni, succedutesi nel corso del tempo del Presidente dell'Organismo incaricato dell'affidamento delle opere ((OMISSIS), all'epoca presieduto dall'Ing. P.) con il Ministro (OMISSIS) in ordine all'intenzione maturata in seno al (OMISSIS) (in stretto raccordo e cointeressenza con il concessionario (OMISSIS)) di affidare direttamente al (OMISSIS) la realizzazione di tutti gli interventi oggetto della transazione (OMISSIS); - in tale contesto si colloca la nota del Ministro del 14.10.2014 con cui, in risposta alle sollecitazioni di P., M. avallò l'affidamento diretto dei lavori di bonifica senza procedura di evidenza pubblica al (OMISSIS) "appare comunque obiettivamente evidente l'interesse manifestato dalla Presidente (OMISSIS), P., ad essere rassicurata dal Ministro circa la condivisione dell'opzione di affidare gli interventi, oggetto della transazione, al concessionario (OMISSIS), trattandosi di garantire agli esponenti del (OMISSIS), cui era legata da un accordo corruttivo, potenziale continuità di finanziamento da parte del Ministero (OMISSIS), che nel recente passato aveva invece frapposto ostacoli alla realizzazione degli interventi di salvaguardia ambientale da parte del concessionario" (così il Tribunale a pag.779). - da quell'atto emerga la determinazione di M. di contribuire, in funzione strumentale, all'attuazione dell'illecito accordo convenuto con i rappresentanti del (OMISSIS), nella consapevolezza che da quelle risorse finanziarie sarebbe derivato un profitto per C. e, indirettamente, per lui; - in tal senso deponga la documentazione del febbraio- marzo del 2006 intercorsa tra lo stesso Ministro con l'allora Presidente del Consiglio dei Ministri e con il Ministro dell'economia; - l'ingerenza del Ministro M. anche nella procedura che portò alla nomina di C. all'incarico di Presidente (OMISSIS), e, soprattutto, l'intervento dello stesso Ministro nell'ambito della procedura di controllo avviata dalla Corte dei Conti, culminato nella lettera inviata al Presidente della Corte il 10.12.2008, elogiativa dell'operato del (OMISSIS) e del tutto sovrapponibile a quella rinvenuta nel server del Consorzio (OMISSIS). Dunque, diversamente dagli assunti difensivi, nella specie non assume rilievo il tema della competenza dell'Ufficio diretto da M. a compiere gli atti indicati; gli atti compiuti dal Ministro erano - solo in parte - "esterni" rispetto al procedimento, nel senso che non erano previsti specificamente nell'ambito della procedura relativa all'affidamento diretto dei lavori al (OMISSIS) ovvero di quella di controllo della Corte dei Conti, e, tuttavia, erano atti - soprattutto la nota indirizzata al Presidente (OMISSIS) - altamente discrezionali con cui il Ministro, impegnando l'Ufficio, intervenne sul corso di quelle procedure, condizionandole in funzione della cura dell'interesse privato, preso a carico con l'accordo corruttivo. Il Ministro aveva interlocuzioni dirette con il (OMISSIS), e quando P., legata anch'essa al (OMISSIS), chiese un riscontro "politico" alla volontà di affidare quelle opere direttamente al Consorzio, M. pose in essere, in attuazione dell'accordo corruttivo, un atto fortemente condizionante. Atti assunti non in assenza di potere, ma attraverso un uso indebito del potere ed in violazione dei doveri perché , da una parte, elusivi della causa fondativa del potere attribuito al Ministro, e, dall'altra, strettamente legati alla realizzazione degli interesse del corruttore ed all'attuazione del patto corruttivo. Una pregiudiziale accertata rinuncia all'esercizio genuino della discrezionalità con cui il Ministro impegnò l'Ufficio, adottando atti contrari ai doveri di ufficio perché strumentali a dare attuazione al patto corruttivo. Dunque una corretta qualificazione dei fatti, ricondotti al reato di corruzione propria. Né , alla luce dello sviluppo del processo, del diritto alla prova assicurato, del perimetro del contraddittorio garantito, sussiste l'ipotizzata violazione del principio di correlazione tra l'accusa e la sentenza. 4.7. E' infondato, ai limiti della inammissibilità, il quarto motivo di ricorso. 4.7.1. Assume il ricorrente che il reato si sarebbe estinto per prescrizione già prima della decisione impugnata, atteso che le utilità corrisposte si esaurirebbero comunque con l'affidamento dei lavori (2004-2005) e con la corresponsione del denaro (2004-2006) e perché le singole vicende contrattuali non avrebbero alcun rilievo ai fini della determinazione del momento consumativo del reato di corruzione, potendo semmai inerire alla determinazione del quantum della disposta confisca. Si afferma, cioé , che l'autonomia e la reale esecuzione dei rapporti contrattuali non consentirebbero di attribuire alla esecuzione delle opere ed ai relativi incassi una funzione di approfondimento dell'offesa tipica del reato, atteso che detti contratti non sarebbero "il frutto" della corruzione, ma solo, al più, l'utilità corrisposta indirettamente al pubblico ufficiale. I singoli stati di avanzamento lavori ed i pagamenti sarebbero accadimenti esterni ed indipendenti rispetto al rapporto tra corrotto ( M.) e corruttore ( M.); non diversamente si afferma in relazione alle cessioni di quota (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) negli anni 2008- 2012 in favore della M.. Esclusa la unicità del reato e ritenuta la pluralità di fatti si sarebbe dovuta dichiarare la prescrizione per i singoli reati, non potendosi ancorare il decorso del termine in modo onnicomprensivo, per tutte le vicende contrattuali, al 19.7.2012, cioé al ultima fattura emessa alla M. da parte di (OMISSIS), senza tuttavia nemmeno spiegare se detta fattura fosse riconducibile al sub affidamento (OMISSIS), all'affidamento diretto (OMISSIS), alla cessione delle quote, ai versamenti in contanti. Anche i due pretesi atti contrari ai doveri di ufficio (assegnazione dei finanziamenti al (OMISSIS) e nomina di C.) si collocherebbero "entro il termine di prescrizione" (così il ricorso). 4.7.2. Si tratta di un ragionamento non condivisibile. Si é già detto di come i fatti, pur nella loro complessità strutturale, siano riconducibili ad un unico patto corruttivo, di cui costituiscono esplicazione nel corso del tempo. In tale quadro di riferimento, la Corte ha richiamato la sentenza di primo grado ed ha spiegato perché il corrispettivo delle cessioni al gruppo M. delle quote di (OMISSIS) in (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), costituiscano un segmento attuativo del patto corruttivo e perché , attraverso dette cessioni, fu corrisposto una parte del prezzo del reato. Si sono chiariti: a) il senso, la portata, il significato delle cessioni delle quote consortili da parte di (OMISSIS) alla M., la loro ragione giustificativa, il loro rapporto con il fatto corruttivo (cfr., dichiarazioni B. riportate a pag. 802 della sentenza di primo grado "il motivo per cui C. viene liquidato é perché dice: "non posso stare ad aspettare voi e ho i miei", intende i suoi referenti politici, "che mi pressano, perché dovevano vedere una cifra e non la vedono e lo perdo la mia credibilità"; "il dottor C. ha chiesto e ottenuto di vedersi liquidato in anticipo l'utile anche per i lavori non ancora eseguiti, sostenendo che i suoi referenti politici erano stanchi di aspettare); b) la necessità di C. di "monetizzare" per soddisfare i suoi referenti politici e, dunque, la connessione tra quelle cessioni ed il reato per cui si procede; c) le modalità esecutive dei contratti di cessione di quote sociali attraverso la documentazione contrattuale acquisita al giudizio, laddove é indicato l'impegno di M. a rimettere progressivamente in favore di (OMISSIS), a scadenze periodiche decorrenti dal 2011, le somme dovute a titolo di prezzo di acquisto delle quote sociali a mezzo bonifico bancario ed emissione di assegni; c) l'entità ed il valore complessivo della cessione di quote sociali posta in essere da (OMISSIS) tra l'aprile 2011 ed il luglio 2012, in relazione alle quali é stato determinato un importo complessivo delle cessioni pari ad Euro 19.150.000,00, per un valore netto di realizzo, depurato delle imposte dovute dalla società per la plusvalenza maturata per effetto delle cessioni, pari ad Euro 14.720.324,66. Dunque, é corretto l'assunto della Corte di appello con cui, sul presupposto della esistenza di un unico reato, si é individuata nel 19.7.2012, cioé nella data dell'ultima fattura da parte di (OMISSIS) in favore della M., la data di consumazione finale del reato ed il dies a quo di decorrenza del termine di prescrizione. Ne consegue che alla data in cui é stata emessa la sentenza impugnata (12.7.2019) il reato non era prescritto. 4.8. E' inammissibile anche il quinto motivo di ricorso. 4.8.1. Assume il ricorrente che, a parere della Corte, l'utile derivante a (OMISSIS) nell'ambito dei rapporti contrattuali pertinenti alla esecuzione delle opere costituirebbe il profitto del reato, non aggredibile ai sensi dell'art. 322 ter c.p. secondo la formulazione all'epoca vigente, mentre il valore della cessione delle quote delle società consortili (OMISSIS), (OMISSIS) ed (OMISSIS) alla M. rappresenterebbe, come già detto, il prezzo della corruzione, cioé "la mercede ricevuta da C. per gli illeciti favori assicurati a M. e soci" (così il ricorso nel richiamare una parte della motivazione della sentenza). Sulla base di tale distinzione il motivo di ricorso é strutturato: a) sulla distinzione tra i profitti derivanti dal sub- affidamento da quelli derivanti dalla cessione delle quote; b) sulla omessa motivazione in ordine ai rilievi difensivi relativi alla sussistenza del nesso di pertinenza tra beni da confiscare ed i reati contestati; c) sulla pluralità ed autonomia dei diversi atti e contratti oggetto di contestazione; d) sull'assunto secondo cui dall'importo indicato dal primo Giudice di 19.150.000 Euro avrebbe dovuto essere detratto quello relativo alle imposte pagate a titolo di plusvalenza, sicché il prezzo andava quantificato in 14.720.324, così come indicato con l'atto di appello. Sarebbe inoltre priva di idonea giustificazione l'affermazione della Corte, secondo cui la cessione delle quote non sarebbe stata una mera esecuzione di patti parasociali liberamente intervenuti tra le parti, ma costituiva una parte integrante dell'originario disegno corruttivo. 4.8.2. Si tratta di un motivo aspecifico. La Corte di appello ha chiarito che la somma confiscata attiene al prezzo della corruzione, ossia alla "mercede" ricevuta da C. per gli illeciti favori assicurati da M. a M. e soci, "al corrispettivo del mercimonio della pubblica funzione". (così la Corte a pag. 102 della sentenza). Sulla base di tale presupposto é chiaramente asimmetrica tutta la parte del motivo relativa alla individuazione del profitto, alla determinazione del suo ammontare ed all'accertamento del suo nesso di derivazione rispetto al reato. Quanto al tema del prezzo, di cui si é già detto, la Corte ha richiamato la motivazione della sentenza di primo grado secondo cui, quanto alla cessione delle quote delle società consortili (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), a fronte dell'acquisto di tali quote da parte di (OMISSIS) per valori assolutamente modesti (Euro 25.968,56= per le quote di (OMISSIS); Euro 5.000,0= per le quote di (OMISSIS); Euro 82.500,00= per le quote di (OMISSIS); Euro 5.000,00= per le quote di (OMISSIS)2), proprio la cessione delle stesse, negli anni 20112012, per il valore di realizzo complessivo di Euro 19.150.000,00 (al lordo delle imposte eventualmente versate- così la sentenza del Tribunale) costituirebbe il prezzo della corruzione; si é già detto del senso e della portata di quelle cessioni e delle motivazioni ad esse sottostanti allorché si é trattato del quarto motivo di ricorso. In tal senso si spiega l'affermazione della Corte secondo cui C. "entrò" come socio consorziato per 118 mila Euro e ne "uscì" con le somme indicate " senza medio tempore aver di fatto lavorato con la propria impresa". Sulla base di tale ragionamento la Corte ha ulteriormente ridotto il quantum della somma da confiscare in ragione delle somme effettivamente corrisposte da (OMISSIS) per l'acquisto delle quote in questione e per i lavori effettivamente svolti, così giungendo a determinare la somma complessiva da confiscare in quella di 18 milioni di Euro, ulteriormente divisa per due - secondo un'applicazione automatica del c.d. principio solidaristico-. Una motivazione non manifestamente illogica, rispetto alla quale il motivo rivela sostanzialmente lo scopo ad esso, quello cioé di sollecitare una diversa ricostruzione dei fatti e della valutazione delle prove. 4.9. E' inammissibile il nono motivo di ricorso. Con una puntuale motivazione la Corte ha chiarito le ragioni poste a fondamento della determinazione delle pene - principale ed accessoria-, della mancata sospensione condizionale delle stesse, ha valorizzato, spiegandolo, il ruolo di promotore di condotte corruttive di C. anche ai fini della determinazione delle provvisionali e delle statuizioni civili (pag. 47 sentenza in cui si chiarisce come sul tema delle provvisionali non fossero stati proposti motivi di appello specifici). Si é fatto riferimento alla estrema gravità dei fatti, alla strumentalizzazione della funzione pubblica Ministeriale, alla durata dell'asservimento della funzione a logiche clientelari e di arricchimento indebito, alla umiliazione dell'interesse pubblico e della collettività, al ruolo in concreto ricoperto da C.. Nulla di specifico é stato dedotto, essendosi il ricorrente limitato a sottolineare il suo stato di incensuratezza, l'aver egli svolto in maniera esemplare nel corso degli anni la sua professione, il comportamento processuale. La Corte di cassazione ha costantemente affermato che la funzione tipica dell'impugnazione é quella della critica argomentata avverso il provvedimento cui si riferisce. Tale critica argomentata si esplica attraverso la presentazione di motivi che, a pena di inammissibilità (artt. 581 e 591 c.p.p.), devono indicare specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta. Contenuto essenziale dell'atto di impugnazione é infatti il confronto puntuale (cioé con specifica indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che fondano il dissenso) con le argomentazioni del provvedimento il cui dispositivo si contesta. Ne consegue che se il motivo di ricorso si limita, come nel caso di specie, ad affermazioni generiche, esso non é conforme alla funzione per la quale é previsto e ammesso, cioé la critica argomentata al provvedimento, posto che con siffatta mera riproduzione il provvedimento formalmente "attaccato", lungi dall'essere destinatario di specifica critica argomentata, é di fatto del tutto ignorato. 5. L'infondatezza complessiva del ricorso determina l'annullamento senza rinvio ai fini penali della sentenza; facendo infatti riferimento alla data del 19.7.2012 - indicata dai Giudici di merito correttamente come dies a quo di decorrenza del termine di prescrizione di sette anni e sei mesi, il reato si é estinto. Quanto alla posizione di C. devono invece essere confermate le statuizioni civili e la confisca. Al rigetto dei ricorsi, consegue la condanna di O.G. e F.N. al pagamento delle spese processuali. Alla inammissibilità del ricorso proposto nell'interesse di C.C. consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila a favore della Cassa delle ammende. Gli imputati devono in solido essere condannati alla rifusione delle spese sostenute nel presente grado dalle parti civili costituite come segue: - tutti i ricorrenti al pagamento della somma di Euro 4.200,00 in favore della Presidenza del Consiglio di Ministri e del Ministero delle (OMISSIS); - C.E. e F.N. al pagamento della somma di Euro 6.000,00 oltre accessori di legge, in favore della Regione (OMISSIS); - O.G., F.N. e C.E. al pagamento della somma di Euro 6.000,00, oltre accessori di legge, in favore del Consorzio (OMISSIS); - C.E. e O.G. al pagamento della somma di Euro 9.500,00, oltre accessori di legge, in favore del Comune di (OMISSIS) e della Città Metropolitana di (OMISSIS). P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di C.E. perché il reato é estinto per prescrizione, confermando le statuizioni civili e la disposta confisca. Rigetta i ricorsi di O.G. e F.N. che condanna al pagamento delle spese processuali. Dichiara inammissibile il ricorso di C.C., che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Condanna inoltre gli imputati alla rifusione delle spese sostenute nel presente grado dalle parti civili costituite come segue: -tutti i ricorrenti al pagamento della somma di Euro 4.200,00 in favore della Presidenza del Consiglio di Ministri e del Ministero delle (OMISSIS); - C.E. e F.N. al pagamento della somma di Euro 6.000,00 oltre accessori di legge, in favore della Regione (OMISSIS); - O.G., F.N. e C.E. al pagamento della somma di Euro 6.000,00, oltre accessori di legge, in favore del Consorzio (OMISSIS); - C.E. e O.G. al pagamento della somma di Euro 9.500,00, oltre accessori di legge, in favore del Comune di (OMISSIS) e della Città Metropolitana di (OMISSIS). Così deciso in Roma, il 21 ottobre 2020. Depositato in Cancelleria il 3 maggio 2021
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