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Atti persecutori: la prova di ansia o paura può derivare da comportamenti destabilizzanti senza necessità di patologie

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Corte appello Lecce, 01/08/2024, n.850

In tema del reato di atti persecutori previsto dall'art. 612 bis c.p., la prova dello stato di ansia o paura: Può essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti dell'agente, se idonei a destabilizzare l'equilibrio psicologico di una persona comune, senza necessità di accertare una condizione patologica.

Tentata estorsione e atti persecutori: condotta reiterata e aggravante del rapporto coniugale (Giudice Martino Aurigemma)


Stalking: esclusione del reato per mancanza di elementi probatori certi, ma conferma delle statuizioni civili per danno extracontrattuale

Stalking: condanna confermata per condotte reiterate di molestie e minacce con mutamento delle abitudini di vita della vittima

Stalking indiretto e gelosia ossessiva: configurabilità del reato di atti persecutori e rilevanza della condotta per interposta persona

Assoluzione per atti persecutori e lesioni volontarie nell'ambito di gestione del servizio sanitario

Stalking: esclusa la particolare tenuità del fatto in caso di recidiva e condotta abituale

Atti persecutori: necessaria prova rigorosa di idoneità e abitualità delle condotte

Stalking e conflittualità condominiale: condanna agli effetti civili per molestie e danno morale

Assoluzione per mancanza di prove sul reato di atti persecutori tra fratelli in conflitto ereditario

La calunnia come strumento di offesa: dolo specifico e consapevolezza della falsità dell'accusa

La sentenza integrale

RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE
Con sentenza emessa il 19 gennaio 2022, il Tribunale di Lecce ha dichiarato Lu.Pe. colpevole dei reati di violenza sessuale, maltrattamenti, atti persecutori ai danni della moglie St.Gu., a lui ascritti in rubrica e riportati in epigrafe - giuridicamente qualificati i fatti di cui al decreto n. 9891/2018 RGNR, quelli di cui al capo a) del decreto n. 7060/2019 RGNR e quelli di cui al decreto n. 6568/2017 RGNR successivi al settembre 2016 come unico reato previsto e punito dall'art. 612 bis c.p., in esso assorbito il reato di violenza privata di cui al capo c) del decreto n. 7060/19 R.G.N.R. - nonché del reato di lesioni personali, aggravato dai futili motivi, ai danni di Gi.Gi., e, unificati i reati sotto il vincolo della continuazione, riconosciuta la contestata recidiva, lo ha condannato alla pena principale di anni sette di reclusione e alle pene accessorie previste dagli artt. 29,32,609 nonies c.p., oltre al pagamento delle spese processuali. L'imputato è stato, altresì, sottoposto alle misure di sicurezza di cui all'art. 609 nonies comma 3 c.p., per la durata minima.

Con la medesima sentenza, Pe. è stato condannato al risarcimento del danno - equitativamente liquidato in 20.000 euro - in favore della parte civile, St.Gu., nonché al pagamento delle spese processuali, da questa sostenute, liquidate in 3.000 euro, oltre accessori di legge.

Il Tribunale ha assolto Pe. dal reato di tentato omicidio di cui al capo b1) del decreto n. 7060/2019 RGNR perché il fatto non costituisce reato.

Avverso tale sentenza l'imputato, per mezzo del suo difensore di fiducia, ha proposto appello con atto depositato il 2 maggio 2022, articolando cinque motivi.

Con il primo motivo, il difensore appellante ha dedotto che il Tribunale avrebbe ritenuto il narrato della persona offesa, in relazione a tutti gli episodi denunciati, attendibile e riscontrato dal contenuto degli atti di p.g. acquisiti e dalle testimonianze rese da Fr.Ta., El.Co., Ma.Da., Al.Fa. e Ma.To., "senza però spendere alcuna considerazione dalla quale si possa anche solo desumere, non foss'altro per criticarlo o apprezzarlo, il percorso logico-argomentativo e valutativo seguito per approdare a quello che invece inevitabilmente appare ed è un laconico ed arbitrario giudizio dì verosimiglianza se non di vera e propria veridicità di tutto quanto oggetto di accusa". Il Tribunale, inoltre, avrebbe omesso di valorizzare quanto dichiarato dall'imputato e avrebbe ritenuto inconferente l'apporto probatorio offerto dai testi della difesa "anche in tal caso senza alcun riferimento ad un percorso logico in linea con i principi che disciplinano la valutazione prima e la spiegazione-motivazione poi degli elementi di prova".

Con il secondo motivo, l'appellante ha lamentato l'erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che le condotte contestate nel 2019 - a torto ritenute provate - fossero idonee ad integrate il reato di atti persecutori, ritenendo che l'evento del reato fosse provato dal fatto che la parte civile aveva richiesto l'intervento delle forze dell'ordine in una circostanza in cui il marito le aveva puntato i fari contro, dal fatto che ella si era allontanato con una collega quando il marito aveva fatto accesso nel bar della (…), dal fatto che era la stessa era scappata nascondendosi tra le auto nell'episodio del ristorante "Sc.", dal fatto che avrebbe spesso evitato di fare pausa con i colleghi di lavoro e avrebbe tenuto le tapparelle abbassate per evitare di essere spiata; ciò "in pregio a quanto dichiarato in proposito dai testi Co. e Sp., per non parlare del teste Ta.Do.".

Con il terzo motivo, ha dedotto l'erronea valutazione da parte del Tribunale del quadro probatorio con riferimento al reato di lesioni personali in danno del Gi., e in particolare l'omessa valutazione delle dichiarazioni rese dall'imputato e dal figlio Ma., oltre che del contenuto dell'annotazione di p.g. del 10 novembre 2019, idonee a dimostrare l'insussistenza del reato, trattandosi di evento colposo, in relazione al quale non solo non era stata sporta querela, ma era intervenuto il risarcimento del danno subito dalla persona offesa, a seguito dell'apertura del sinistro presso la compagnia assicuratrice del veicolo.

Con il quarto motivo, il difensore appellante ha censurato l'omesso riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, pur a fronte di un comportamento processuale "esemplare sin dalla fase delle indagini, con la resa dell'interrogatorio innanzi al GIP, con il puntuale costante rispetto dell'ordinanza interdittiva, non impugnata sebbene non condivisa e ritenuta ingiusta, con la narrazione a cuore aperto della vicenda familiare e giudiziaria in termini rispettosi e non rancorosi nei confronti di chi lo accusa ingiustamente".

Con il quinto motivo, ha censurato l'applicazione di un aumento di pena per la contestata recidiva, nonostante il casellario giudiziale riportasse solo una condanna per il reato di danneggiamento (ora non rientrante nei limiti di sanzionabilità penale) commesso il 16 settembre 2005 e sanzionato con la pena di 258 euro di multa.

Sulla scorta di tali motivi, l'appellante ha chiesto l'assoluzione dell'imputato perché il fatto non sussiste e, in subordine, la riduzione della pena nel minimo edittale, previa esclusione della recidiva e previa concessione delle attenuanti generiche; ha chiesto, infine, la riduzione del danno liquidato alla parte civile, anche in ipotesi di assoluzione parziale.

All'udienza del giorno 8 maggio 2024, sulle conclusioni delle parti, come da verbale, la Corte ha deciso come da dispositivo, riservando il deposito della motivazione nel termine di novanta giorni.

Premesso il generale principio in materia di impugnazioni secondo cui le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile (Cass. n. 5606/2007; Cass. n. 23248/2003; Cass. n. 11220/1997), ritiene la Corte che il giudizio di responsabilità penale di Lu.Pe. in ordine ai reati ritenuti in sentenza debba essere pienamente confermato.

Il primo motivo di appello, con cui il difensore ha lamentato la carenza della motivazione della sentenza di primo grado in ordine alla valutazione del materiale probatorio, è infondato.

La prova dei fatti contestati si desume dalle dichiarazioni della parte lesa, che ha riferito, in maniera dettagliata e scevra da contraddizioni logiche, la sequela di violenze e prevaricazioni inflittele dall'imputato nel corso della convivenza coniugale e le condotte persecutorie perpetrate dal coniuge successivamente alla separazione.

Non si ravvisano motivi per cui dubitare della piena attendibilità della parte lesa, la cui deposizione risulta precisa, dettagliata e scevra da contraddizioni logiche.

Non sono emersi, d'altra parte, elementi che possano rivelare un intento calunnioso in capo alla stessa. Come rilevato dal primo giudice, nel corso della deposizione, la Gu. aveva un tono dimesso e rassegnato, e ha più volte manifestato la propria commozione, scoppiando in lacrime in diversi momenti della testimonianza, né la donna ha esternato ragioni di astio o di risentimento nei confronti dell'ex coniuge ulteriori rispetto a quelle derivanti dalla consapevolezza di essere vittima dei soprusi denunciati.

La deposizione della Gu., pertanto, appare dotata di piena capacità dimostrativa dei fatti da essa rappresentati e idonea, quindi, a integrare prova "autosufficiente" degli accadimenti esposti.

Come correttamente evidenziato dal primo giudice - la cui esposizione, qui da intendersi integralmente richiamata, è tutt'altro che carente nella individuazione delle ragioni della decisione - va, poi, considerato che le dichiarazioni della Gu. sono corroborate da plurimi riscontri estrinseci, desumibili dai seguenti atti, provenienti da fonti assolutamente neutre e imparziali:

1) l'annotazione di servizio del 18 luglio 2017, in cui si evidenzia che la Gu. aveva chiesto l'intervento della Polizia perché era stata avvicinata sotto casa dall'ex marito, che, con tono alterato, l'aveva invitata ad avere maggiore attenzione nei confronti dei figli;

2) la deposizione della teste Ma.To., responsabile del Centro Antiviolenza "Re.Fo.", la quale ha riferito che la Gu., mentre raccontava le violenze sessuali subite dal coniuge, alle quali si era rassegnata a soggiacere per evitare che i figli la sentissero urlare, "piangeva e stava male", e narrava i fatti bisbigliando la seguente frase: "vi prego liberatemi dal suo odore sul mio corpo perché non ce la faccio più perché così è meglio morire"; la teste ha aggiunto che la donna era giunta al centro "terrorizzata per la sua incolumità";

3) la deposizione della teste Al.Fa., agente in servizio presso il Comando Polizia Locale di Lecce, che ha riferito di essere intervenuta nel 2017 in Piazza (…) a Lecce, perché, all'improvviso, le si era avvicinata una donna sconvolta, spaventata, in evidente stato di paura, che chiedeva di poter stare con le vigilesse, spiegando di essere seguita dal marito, dal quale cercava di scappare; la teste ha affermato che la Gu. era "terrorizzata", che "parlava tremando" e che aveva indicato una macchina parcheggiata al cui interno vi era un uomo, che era stato identificato da lei e dalle sue colleghe, e che la teste ha riconosciuto in aula nell'imputato; l'Agente Fa. ha aggiunto che avevano accompagnato la Gu. in un bar, per farla riprendere, e che la donna, in modo molto evasivo e "balbettando", aveva raccontato di aver subito violenza dal marito (cfr. pag. 17 e ss del verbale di trascrizione dell'udienza del 26 maggio 2021);

4) la relazione dell'assistente sociale del comune di Galatina, Francesca Lillo, dell'8 marzo 2019, da cui si traeva indiretta conferma della circostanza che il Pe. era solito monitorare gli spostamenti della moglie, avendo l'uomo riferito agli assistenti sociali, con riferimento alla richiesta a lui rivolta dalla Gu. di andare a prendere i figli da scuola, motivata dal doversi trattenere al lavoro, che tale giustificazione non era veritiera, in quanto egli era passato più volte dal luogo di lavoro della moglie constatando l'assenza della sua autovettura.

Un serio riscontro alla ricostruzione dei fatti offerta dalla parte civile proviene anche dalle dichiarazioni della di lei madre, che ha reso una dichiarazione che si reputa pienamente genuina, essendosi la teste limitata a riferire solo quanto da lei direttamente percepito, senza alcuna enfasi, il che esclude che essa possa aver voluto rendere delle dichiarazioni "di favore".

La teste, escussa all'udienza del 16 giugno 2021, ha premesso che da almeno cinque anni i suoi rapporti con la figlia e il genero non erano buoni ("è più di cinque anni che non stavamo bene con mia figlia e con mio genero, eravamo bisticciati, quindi io non sono venuta a conoscenza di queste cosa….io non ho visto….perché non mi parlavo con mia figlia") e ha affermato che, ciò nonostante, quando la figlia era andata via di casa, si era recata da lei, chiedendole ospitalità, "tutta spaventata", sostenendo che il marito l'aveva minacciata con un coltello (cfr. pag. 6 del verbale del verbale di trascrizione dell'udienza del 16 giugno 2021: "quando l'ha lasciato, ma non mi ricordo la data e il giorno…è venuta tutta spaventata piangendo, che lui la minacciava con un coltello e da allora poi è stata a casa mia").

La teste ha riferito che, prima del matrimonio, la figlia, all'epoca diciottenne, lavorava in una sartoria e subito dopo il matrimonio aveva iniziato a lavorare in campagna nell'azienda del marito; su domanda del P.M., ha dichiarato di non sapere se questa fosse stata una libera scelta della figlia, pur ritenendo che, a suo giudizio, essa fosse una normale conseguenza degli obblighi coniugali ("quando sei sposata devi no? Cioè una che si sposa, se il marito fa un lavoro partecipi, non è che ti rifiuti").

La teste ha poi dichiarato che, sin dai primi anni del matrimonio, Pe. era molto "geloso" ("la conoscenza mia è che è stato un matrimonio non bello, la gelosia era al primo posto"….di mio genero, geloso al massimo, e questo non andavano, le cose non erano..) e questa era la causa di continui litigi ("si bisticciavano").

La teste ha riferito, conformemente a quanto dichiarato dalla persona offesa al riguardo, che in un'occasione, Pe., dopo un litigio, aveva preso con sé il primo figlio ancora neonato ed era sparito, senza dare più notizie di sé per giorni, minacciando "che si buttava nel pozzo con il bambino", tant'è che lei e la figlia lo avevano denunciato. La teste ha ben descritto lo stato di ansia e paura che tale condotta aveva provocato in loro: "P.M.: e ricorda poi dove aveva portato il bambino?; teste: da sua sorella Sa., lo aveva nascosto sì, si sono nascosti e non si facevano trovare. Noi con la paura e con l'ansia, che il cuore mi batteva come un cavallo, la verità, siamo andati alla Polizia di Galatina e abbiamo denunciato e lui lo sa che dico la verità, però noti l'ha fatto").

Ciò posto, non può ritenersi che le dichiarazioni della teste Da., tese a negare di aver assistito direttamente ad episodi specifici di violenza perpetrati dal Pe. ai danni della figlia, possano inficiare il giudizio di piena attendibilità della ricostruzione dei fatti fornito dalla parte lesa, dal momento che la stessa teste ha chiarito che, quantomeno dal 2015 in poi, i rapporti con la figlia e il Pe. si erano raffreddati e che in tale periodo non vi era stata tra loro alcuna frequentazione né alcun contatto tra lei e la figlia ("non mi parlavo"). Quindi la circostanza che ella non abbia assistito ad alcun episodio di violenza può giustificarsi alla luce di tale interruzione dei rapporti, protrattasi per vari anni.

La deposizione della teste consente, però, di individuare due elementi di sicuro riscontro alla attendibilità della parte lesa, che si desumono: 1) dalla descrizione dello stato di paura in cui la figlia versava all'epoca della separazione allorché, nonostante i freddi rapporti tra loro, si era rifugiata da lei, chiedendole ospitalità ("è venuta tutta spaventata piangendo…quando è venuta a casa, spaventata, tutta fuori di testa, con la paura dentro….perché il marito l'aveva minacciata con un coltello e che lei mi ha detto che dormiva con un coltello per la difesa…..era fuori di sé per la paura, piangeva"); 2) dalla descrizione dell'episodio (avvenuto nei primissimi tempi del matrimonio) del "rapimento" del figlio neonato, che aveva provocato in loro uno stato di angoscia, inducendole a denunciare l'accaduto alle forze dell'ordine, episodio questo di una gravità inaudita e assolutamente emblematico dell'allarmante personalità del Pe..

Come correttamente evidenziato dal Tribunale, riscontri alle dichiarazioni della parte lesa provengono, infine:

1) dalle dichiarazioni di Fr.Ta., che ha confermato il regime di vita odioso al quale l'imputato sottoponeva l'amica Stefania, riferendo che quest'ultima era sempre molto controllata, che il Pe. era "possessivo", che il suo comportamento era tale da creare "tensione" e aggiungendo addirittura che il figlio più piccolo della coppia, Di., le aveva raccontato delle aggressioni fisiche perpetrate dal padre ai danni della madre (" Di. veniva e mi diceva: "le ha messo le mani alla gola" oppure "le ha urlato contro "…Di. mi ha raccontato che la offendeva molto…di un episodio in cui le ha strappato gli slip e ha iniziato a urlare…era molto nervoso quando raccontava"), e che un giorno - nel 2014 - la Gu. si era recata da lei piangendo, con un graffio alla gola e che i tre figli, che erano in auto, avevano confermato i litigi tra i genitori, appena verificatisi;

2) dalle dichiarazioni di El.Co., collega della parte lesa, che ha riferito che la Gu. le aveva confidato i maltrattamenti subiti ad opera del marito e che, varie volte, le aveva chiesto ospitalità insieme ai figli, per sfuggire al marito violento;

3) dalle dichiarazioni di Emanuele Sp., collega di lavoro della persona offesa, che ha riferito che, dopo il lavoro in un ristorante di Galatina, intorno alle 2.30, lui, la Gu. e la collega Co. si erano recati a prendere un caffè presso la (…) di Galatina e che, mentre stavano bevendo il caffè, la Gu. aveva visto il marito entrare e si era allontanata con la collega; egli, allora, era andato a pagare e, mentre stava per uscire, era stato avvicinato, da dietro, dal Pe., che "gli aveva dato una spinta o uno sgambetto"; ha aggiunto che, quando era entrato nel bar, il Pe. era agitato e che lo aveva sentito chiedere al barista: "chi cavolo è questo?", capendo che tale richiesta era rivolta a lui.

Si tratta di testimoni della cui attendibilità non può dubitarsi, avendo gli stessi reso dichiarazioni lineari e scevre da contraddizioni logiche, non ravvisandosi, d'altra parte, motivi che possano averli indotti a rendere dichiarazioni false, assumendosi il rischio di incorrere in responsabilità penali.

Il giudizio di piena attendibilità della parte lesa, formulato sia alla luce delle connotazioni intrinseche della sua deposizione, sia alla luce dei plurimi riscontri esterni innanzi evidenziati, non è, in alcun modo, inficiato dalle dichiarazioni rese dai testi della difesa.

Quanto alle dichiarazioni rese dai figli Ma. e Ri. - che, pur confermando i frequenti litigi tra i genitori, hanno negato di aver mai assistito ad aggressioni poste in essere dal padre ai danni della madre - non può escludersi che i predetti, che hanno dichiarato di aver vissuto per lungo tempo con il padre dopo la separazione, possano averne subito il condizionamento. Un riscontro al controllo esercitato dal Pe. sui figli, si desume, invero, da quanto raccontato dalla stessa parte lesa, che, il 15 agosto 2019, aveva scoperto, sul cellulare del figlio Di., ultimo figlio della coppia, alcuni messaggi vocali inviati al ragazzo dal marito, in cui quest'ultimo, ritenendo il figlio "colpevole" di essere andato in pizzeria con la madre e il nuovo compagno di lei, lo accusava di essere "un venduto" e lo avvertiva che "avrebbe dovuto dimenticarsi di avere un padre".

Nemmeno possono desumersi elementi idonei a inficiare il racconto dalla parte lesa dalle dichiarazioni degli altri due testi della difesa, Donato Ta. e Ti.Pe..

Quanto al primo (cognato dell'imputato), che ha riferito in ordine all'episodio del ristorante "Sc.", escludendo che il Pe. avesse inseguito la persona offesa, va evidenziato, come già fatto dal primo giudice, che il teste si è platealmente contraddetto, in quanto, dopo aver affermato che l'imputato era sempre rimasto seduto, su domanda del Giudice, ha riferito che sia lui che il Pe. si erano certamente alzati, a turno, per andare in bagno, sicché la sua testimonianza non è idonea a smentire il racconto della Gu..

Quanto alla teste Ti.Pe. (sorella dell'imputato) - che in generale ha riferito di non aver riscontrato problematiche particolari nella coppia, al di là di alti e bassi, normali in ogni famiglia e di non aver notato lividi sulla Gu. - non può non evidenziarsi, oltre alla genericità delle dichiarazioni rese dalla teste, che ella ha comunque riferito di aver trascorso molti anni in Germania, in coincidenza con i primi anni di matrimonio del fratello, e di essersi trasferita a Rimini dal 2017 per lavoro, il che lascia presumere che ella possa non aver conosciuto a fondo le dinamiche del nucleo familiare del fratello. La teste è parsa inoltre contraddittoria, laddove, da un lato ha dichiarato che lei e la cognata erano "come sorelle", dall'altro, ha affermato di non averle mai chiesto nulla in ordine ai motivi della separazione. La Pe. ha, in ogni caso, confermato il clima di tensione tra i coniugi, avendo ammesso che era capitato che ella, in occasione di alcuni litigi tra il fratello e la cognata, avesse portato fuori i nipoti per evitare che assistessero ai litigi tra i genitori (cfr. pag. 9 del verbale di trascrizione dell'udienza del 24 novembre 2021).

Infondato è anche il secondo motivo di appello

Il reato di atti persecutori si configura strutturalmente come una fattispecie di reato abituale ad evento di danno, che prevede più eventi in posizione di equivalenza, uno solo dei quali è sufficiente ad integrarne gli elementi costitutivi necessari (Cass. Sez. 5, n. 39519 del 05/06/2012, G., Rv. 254972): a) cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero b) ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero, ancora, c) costringere (la vittima) ad alterare le proprie abitudini di vita.

Il mutamento delle abitudini di vita della persona offesa o il timore per l'incolumità propria o di un congiunto non sono pertanto essenziali ai fini della sussistenza del reato, essendo sufficiente che la condotta abbia indotto nella vittima uno stato di ansia di paura.

Il perdurante e grave stato di ansia o di paura, d'altra parte, non integra una condizione di vera e propria patologia, che può assumere rilevanza solo nell'ipotesi di contestazione del concorso formale con l'ulteriore delitto di lesioni: la fattispecie prevista dall'art. 612 bis c.p., infatti, non può essere ridotta ad una sorta di mera ripetizione di quella contenuta nell'art. 582 c.p. - il cui evento è configurarle sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica - e per la sua consumazione deve ritenersi dunque sufficiente che gli atti ritenuti persecutori abbiano un effetto comunque destabilizzante dell'equilibrio psicologico della vittima (Sez. 5 n. 16864 del 10 gennaio 2011,C, rv 250158).

E' costante nella giurisprudenza di legittimità l'affermazione secondo cui "in tema di atti persecutori, la prova dello stato d'ansia o dì paura denunciato dalla vittima del reato può essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall'agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante" (cfr. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 24135 del 09/05/2012).

Ciò posto, contrariamente a quanto dedotto dall'appellante, è indubitabile che gli ossessivi comportamenti posti in essere dall'imputato, sostanziatisi nell'invio di sms dal contenuto minaccioso e comunque tale da far comprendere alla parte lesa che egli era conoscenza di tutti i suoi movimenti, fossero idonei - soprattutto alla luce delle reiterate e incontrollate violenze inflitte alla parte lesa durante il precedente periodo di convivenza - da produrre un effetto destabilizzante per l'equilibrio psichico della donna.

A ciò si aggiungano gli specifici episodi raccontati dalla parte lesa (descritti a pag. 5 della sentenza di primo grado), tra cui quello verificatosi il 18 dicembre 2017 presso il bar dell'area di servizio (…) di Galatina, allorquando il Pe., giunto all'improvviso, aveva strattonato il collega che era insieme alla Gu. e ad un'altra collega episodio questo pienamente confermato dal teste Sp., che ha riferito che il Pe., avvicinatosi a lui da dietro, gli aveva dato "una spinta" o "uno sgambetto"; l'episodio verificatosi presso il ristorante "Sc.", quando Pe. aveva inseguito la persona offesa nel parcheggio del ristorante, brandendo un sasso (che deve ritenersi provato in conformità a quanto narrato dalla parte lesa, stante l'inidoneità delle dichiarazioni del teste Ta. a inficiare tale racconto, stante la loro intrinseca contraddittorietà innanzi rilevata); infine, il grave episodio verificatosi il 9 novembre 2019, quando l'imputato, accelerando la corsa, aveva investito il Gi., che camminava insieme alla Gu., per poi darsi alla fuga.

Quanto all'elemento soggettivo, è sufficiente ad integrare l'elemento soggettivo il dolo generico, quindi la volontà di porre in essere le condotte di minaccia o di molestia, con la consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente necessari per l'integrazione della fattispecie legale (Cass. Sez. 5, n. 20993 del 27/11/2012 - dep. 15/05/2013, Feola, Rv. 255436).

Trattandosi di reato abituale di evento, il dolo è da ritenersi senz'altro unitario, esprimendo un'intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica; ma ciò non significa affatto che l'agente debba rappresentarsi e volere fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi, ben potendo il dolo realizzarsi in modo graduale e avere ad oggetto la continuità nel complesso delle singole parti della condotta.

A fronte del quadro probatorio puntualmente delineato e correttamente valutato nella sentenza di primo grado, non v'è dubbio circa la sussistenza nel caso di specie dell'elemento psicologico del reato.

Parimenti infondato è il terzo motivo di appello.

La tesi del Pe. secondo cui egli avrebbe investito il Gi. "per distrazione", avendogli il figlio fatto notare la presenza della Gu. mentre egli stava guidando, non è credibile, non potendosi francamente ritenere plausibile che, dopo aver notato, su invito del figlio, la presenza della moglie con il compagno a lato della strada, per mera "distrazione" l'imputato possa aver diretto l'auto proprio nella loro direzione, dal momento che un investimento per distrazione può presumersi nel caso in cui il conducente non si avveda della presenza di un pedone, ma non quando lo stesso conducente ammetta di aver notato tale presenza, come nella specie. A ciò si aggiunga che, come correttamente ritenuto dal primo giudice, la volontarietà dell'investimento si desume sia dalla stessa testimonianza della Gu. - sulla cui piena attendibilità ci si è soffermati innanzi - che ha riferito che il Pe., subito dopo aver attinto il Gi., l'aveva guardata con "l'aria soddisfatta", sia dalla condotta dell'imputato, che immediatamente dopo l'investimento, aveva fatto marcia indietro ed era fuggito via, pur avendo visto l'uomo voltare sulla sua macchina e poi cadere a terra.

E' infondato il motivo di appello con cui il difensore appellante ha lamentato l'illegittimità del diniego delle circostanze attenuanti generiche, pur a fronte di un comportamento processuale dell'imputato da lui definito "esemplare". E' appena il caso di evidenziare che la condotta processuale del Pe. risulta tutt'altro che esemplare, evincendosi dalla lettura del verbale del 13 maggio 2021, che il predetto, nel corso della testimonianza della responsabile del Centro Antiviolenza, aveva "inveito" animatamente contro la teste e, dopo l'ammonimento del Presidente, si era allontanato dall'aula "imprecando" (cfr. pag. 13 verbale del 26 maggio 2021). Tale condotta evidenzia, quindi, oltre ad uno scarso rispetto delle regole processuali, una totale assenza di resipiscenza rispetto alle condotte compiute, che, unitamente alla constatazione dell'assenza di ulteriori elementi positivi idonei a giustificare una mitigazione del trattamento sanzionatorio, osta al riconoscimento di attenuanti generiche e consente di ritenere del tutto congrua alla gravità dei fatti la pena determinata dal Tribunale.

E' fondato il quinto motivo di appello, con cui è stato censurata l'applicazione dell'aumento per la contestata recidiva.

Va premesso che, secondo l'insegnamento della giurisprudenza di legittimità, "il giudice, onde verificare se la reiterazione dell'illecito sia effettivamente sintomatica di una maggiore riprovevolezza della condotta e di un'accresciuta pericolosità del suo autore, non dovrà limitarsi ad esaminare i fattori significativi della condotta sottoposta in quel momento al suo giudizio, ma dovrà istituire una relazione tra tali fattori e quelli rivenienti dal pregresso corredo penale del prevenuto, esaminando dialetticamente gli uni con gli altri, onde accertare se - in ragione della natura dei distinti reati commessi, del tipo di devianza di cui essi sono espressione e della eventuale omogeneità di essa, della qualità e del grado di offensività da essi dimostrato, della maggiore o minore distanza temporale intercorsa fra un fatto e l'altro, nonché della occasionalità della ricaduta nel delitto ovvero della sua rispondenza, una volta comparati i nuovi fatti con quelli precedentemente commessi, a criteri di sostanziale sistematicità, - sia possibile esprimere, correlando i fatti del passato con quelli attualmente sottoposti al suo scrutinio, l'esistenza di un legame tra di essi, tale da far ritenere accentuala, proprio in ragione delle inefficaci risposte soggettive del prevenuto alla comminatoria penale, una più intensa pericolosità in capo al soggetto in quel momento giudicando" (cfr. Cass. Sez. III penale, sentenza n. 33299 del 16 novembre 2016 - 10 luglio 2017).

Nel caso di specie, risulta a carico dell'imputato una precedente condanna a pena pecuniaria per il reato di danneggiamento continuato, commesso il 16 settembre 2009.

Orbene, valutata la natura del reato precedentemente commesso, non si ravvisa, tra le condotte pregresse e quelle attuali, uno specifico legame tale da far ritenere sussistente una più intensa pericolosità dell'imputato. Ed invero, in considerazione del lunghissimo tempo trascorso tra i fatti già oggetto di condanna definitiva e quelli attuali, della non particolare gravità dell'unico precedente a carico dell'imputato e della disomogeneità del reato già giudicato rispetto a quelli sub judice, non si reputa possa desumersi dalla inefficace risposta soggettiva alla comminatoria penale (che, come evidenziato, è molto risalente nel tempo e afferente ad una pena pecuniaria di modesta entità) una più intensa pericolosità sociale del prevenuto tale da giustificare l'aumento di pena contemplato dall'art. 99 c.p..

Va, per tali ragioni, escluso l'aumento di sei mesi operato dal primo giudice per la contestata recidiva, residuando a carico dell'imputato la pena di sei anni e sei mesi di reclusione, pena che si reputa congrua alla gravità dei fatti e alla pericolosità sociale dell'imputato.

La sentenza impugnata va nel resto confermata, anche con riguardo alle statuizioni civili, che non sono state fatte oggetto di specifiche contestazioni.

L'imputato va condannato alla refusione delle spese del grado nei riguardi della parte civile, liquidate come da separato e contestuale decreto e da versarsi in favore dello Stato perché parte ammessa al beneficio del patrocinio a spese dello Stato.

Il complessivo carico di lavoro giustifica il termine per il deposito della motivazione.

P.Q.M.
Letti gli artt. 605 e 592 c.p.p.,

in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Lecce in data 19 gennaio 2022, appellata da Pe.Lu., esclude l'operatività della contestata recidiva ai fini della determinazione della pena ed elimina il relativo aumento di pena, cosi residuando a suo carico quella di anni sei e mesi sei di reclusione.

Condanna l'imputato alla refusione delle spese del grado nei riguardi della parte civile, liquidate come da separato e contestuale decreto e da versarsi in favore dello Stato perché parte ammessa al beneficio del patrocinio a spese dello Stato.

Conferma nel resto l'impugnata sentenza.

Termine di giorni novanta per il deposito della sentenza.

Così deciso in Lecce l'8 maggio 2024.

Depositata in Cancelleria l'1 agosto 2024.

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