Tribunale Palermo sez. III, 07/06/2024, n.1430
Il delitto di atti persecutori (art. 612-bis c.p.) si configura quando una serie di condotte reiterate, come minacce o molestie, provochino nella vittima un grave e perdurante stato di ansia o di paura, o alterino significativamente le sue abitudini di vita. Non è richiesto un accertamento di uno stato patologico della vittima, ma la prova dell'evento deve emergere da elementi sintomatici ricavabili sia dalle dichiarazioni della vittima sia dalle concrete circostanze di tempo e luogo delle condotte persecutorie.
RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE
Ag.Mu. era stato tratto a giudizio dinanzi al Tribunale di Palermo per rispondere del reato di cui all'art. 612-bis, comma 1 e 2, c.p., per avere (giusta contestazione) in più occasioni molestato e minacciato Fr.Vi. continuando ad inviarle numerosi messaggi telefonici nei siti Whatsapp e Facebook, malgrado la stessa avesse manifestato l'intenzione di voler interrompere ogni comunicazione con lui; appostandosi poi nei pressi della sua abitazione o raggiungendola all'università; facendole inoltre recapitare in portineria o presso lo studio medico del padre numerosi biglietti offensivi e molesti, rimproverandole di non volersi intrattenere con lui anche nei corsi universitari e rivolgendole espressioni come: "complessata, bimba-minchia del cazzo - vaffanculo, ma che cazzo hai in testa, cretina deficiente, provavo solo la voglia di ficcare con te e basta, quindi ora basta vaffanculo"; ovvero: "so che lo scriverti è una cosa un pò folle ma mi sta piacendo moltissimo, sento come tu mi prenderai per pazzo non appena leggerai questo ma non importa, prima o poi si comprende, è inevitabile, ora basta, il parlarne è già imprigionante, mi sta venendo da vomitare nello scrivere, questa non è espressione, è delirio meccanico, una grossa parte di me si trattiene dallo scriverti ma mi è ormai evidente l'importanza dell'espressione, in particolar modo quella vietata, quella soppressa". Allorquando accadeva di poterla incrociare non si faceva scrupolo di apostrofarla con piglio aggressivo: "leggi i biglietti, leggi i biglietti! cretina leggi, sei una stupida, non capisci nulla, leggi, allora te lo dico io, sei una malata! non mi rompere più i coglioni! io chiudo ogni legame con te!". Ed ancora: "non ho provato mai niente per te finché non ti ho rivista. Da quel momento ho provato solo ribrezzo. Mi auguro che attraverso la sofferenza che la vita ti porterà comprenderai (…) "cagna schifosa". "lesbica perversa e perfida", "lesbica malata e frustrata"; oppure: "mi auguro la tua morte", "mi fai schifo e mi auguro che tu crepi", "devi morire".
Malgrado l'intervento delle forze dell'ordine che quella era stata costretta a richiedere imponendogli di allontanarsi, proseguiva apostrofandola: "non me ne fotte niente, non me ne fotte niente, io sto qui con la minchia di fuori "; insomma palesemente ingenerando nella stessa un perdurante e grave stato di ansia e di paura nonché un fondato timore per la propria incolumità.
Acquisite le prove processuali con l'escussione di tutti i testi che avevano confermato il contenuto delle contestazioni, con sentenza del 25 agosto 2021 il Tribunale, concesse le attenuanti generiche ritenute equivalenti alla contestata aggravante, lo aveva condannato alla pena - sospesa - di un anno e tre mesi tre di reclusione, oltre alle statuizioni risarcitone.
Contro tale sentenza ha proposto appello il difensore dell'imputato nei termini di cui infra, chiedendo l'assoluzione "perché il fatto non costituisce reato" (motivo I) e, in subordine la riduzione del trattamento sanzionatorio, riconoscendo le circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza anziché di equivalenza (motivo II), nonché la sospensione dell'immediata esecutività della provvisionale (motivo III).
Lo stesso è stato quindi tratto a giudizio dinanzi a questa Corte che all'udienza odierna, sulle conclusioni delle parti, ha deliberato come da dispositivo che segue.
Osserva, ciò premesso, la Corte che la sentenza impugnata merita integrale conferma. Con il primo motivo di impugnazione l'appellante, premessa una analisi teorica sulla natura del reato contestato e sulla configurazione della fattispecie penale, deduce che le condotte non sarebbero tali da integrare il reato di atti persecutori, concludendo che avrebbe dovuto essere esclusa la prova dell'elemento soggettivo del reato. Nelle premesse tuttavia si duole che la sentenza impugnata non abbia specificato a quali alterazioni delle abitudini di vita la persona offesa sarebbe stata costretta in dipendenza di un corteggiamento da parte del Mu., osservando (su un piano così di contestazione della stessa condotta materiale del reato) che in definitiva nel processo sarebbe stato provato soltanto che l'imputato si era limitato ad un approccio di corteggiamento mostrato comunque nelle occasioni di normale espletamento delle attività di studio e di vita. Infatti si osserva - la persona offesa aveva dichiarato di essere stata solo infastidita ma non aveva specificato a quali spazi di vita avrebbe dovuto rinunciare, posto che comunque aveva continuato a svolgere i suoi impegni personali e di studio universitario, anzi ammettendo di essere stata semmai lei stessa a rivolgersi con toni severi al Mu., che dopo tutto si era limitato a corteggiarla con "inoffensivi sguardi".
Tali considerazioni, che richiedono dunque una integrale rivisitazione delle fonti probatorie esposte in sentenza - cui occorre fare comunque integrale rinvio, non tengono conto, a giudizio della Corte, della esauriente disamina svolta dal primo Giudice.
Infatti la Fr. aveva intanto correttamente ammesso che con il Mu. - conosciuto dai tempi delle scuole elementari aveva inizialmente accettato uno scambio di messaggi whatsapp, in quanto lui, che era peraltro balbuziente, "le faceva pena": "io provavo pena e dispiacere per lui, mi sembrava una persona umiliata, ferita, sola". Dal quale atteggiamento di incoraggiante comprensione era tuttavia derivata una crescente tenace attività persecutoria dell'imputato; una volta ad un seminario universitario dove, alla presenza delle colleghe Pe.Gi., Di.Di. e Ra.Gi., con fare "invadente e aggressivo" le aveva chiesto
insistentemente di parlarle, apostrofandola nei termini già riportati in premessa; quindi a seguire iniziando a lasciarle in portineria dei biglietti ai quali quella non era più disposta a rispondere; quindi ivi incontrandola in compagnia dell'amica Ra. (indicata in appello come prova a difesa) le aveva rivolto seccate rimostranze, ma era stato allontanato anche con l'intervento del portiere.
Nel resoconto processuale qui la persona offesa aveva riferito di essersi impaurita: "era come se lui non avesse percepito la presenza di altre persone intorno a noi Lui vedeva solo me e si è avvicinato in un modo tale da farmi temere che potesse accadermi qualcosa". Ne erano seguite, secondo il puntuale resoconto della sentenza impugnata, una serie di telefonate alle quali i familiari della stessa erano stati delegati a rispondere negando la sua disponibilità a parlargli; quindi un messaggio tutt'altro che accomodante del Mu. ("devi morire", "mi auguro la tua morte per permettere la vita"). Una sorella le aveva poi riferito dì averlo visto davanti al portone seduto su una sedia di legno che con fare nervoso andava dicendo "non me ne fotte niente, non me ne fotte niente io sto qui con la minchia di fuori"-, la madre di un'amica, così come il di lei marito, lo avevano visto seduto davanti al portone di ingresso, intento a parlare al telefono con tono alterato (affacciatasi, la persona offesa lo aveva riconosciuto ed aveva evitato di uscire per tutto il giorno).
In periodo estivo lo stesso l'aveva poi seguita al "(…)", ritrovo balneare ("la prima volta io ero con mia madre, Di.Pi. e Gi.Ra., e la prima volta è stato tutto il tempo messo davanti a dove eravamo seduti noi a fissarci. La seconda volta io l'ho trovato già seduto vicinissimo al posto dove io mi siedo di solito e dov'ero seduta quella volta. E poi quindi io mi sono seduta più lontana e lui si è venuto a sedere proprio davanti al bar che era messo di fronte a dove ero io, seduto a terra, con un bigliettino in mano. Quindi io per andare al bar ho fatto il giro, sono andata all'altro bar, sono andata allo spogliatoio, e una volta uscita da lì lui era messo là davanti sempre cioè, quindi mi ha seguita davanti allo spogliatoio e io uscendo era messo proprio di fronte il sentiero che porta al mio posto"). Il tutto confermato in processo, anche in relazione allo stato di inquietudine della ragazza, da L.Fi. ed altri (…), portieri rispettivamente dello studio del padre, dell'abitazione della persona offesa con la madre e di quella del padre Fr.Fr., ai quali erano stati lasciati i biglietti diretti alla giovane, che nel vederla il Mu., che la seguiva dovunque, sollecitava a leggere. Tutti concordemente dichiarando che Vi. era molto spaventata e aveva cambiato le abitudini di vita, perfino chiedendo più volte al padre di accompagnarla, dato certamente non usuale - anzi sorprendentemente insolito per una giovane della sua età.
Conferma era stata dunque offerta anche dalla dichiarazione della sorella della persona offesa Fr.Au., la quale ha riferito di aver visto spesso l'imputato sotto la loro casa e che Vi. "non usciva serenamente, usciva in compagnia, però usciva in compagnia, sì, non usciva quasi mai da sola".
La presenza dell'imputato sotto l'abitazione della persona offesa è stata confermata da In.Ma. e dal padre Gi., vicini di casa della famiglia Fr., i quali sentiti in sede di sommarie informazioni hanno riferito di aver visto una volta, tornando a casa alle ore 20, quel ragazzo seduto su una sedia pieghevole (appositamente da lui portata) nei pressi del portone di ingresso del condominio (univoca manifestazione di volontà nel senso di non volere demordere dal proposito di incontrarla, In.Gi. ha precisato di aver notato la presenza del giovane già nel pomeriggio: questi girando attorno ad un'autovettura andava dicendo a voce alta: "me ne sto fottendo di lei, mi esco la minchia di fuori". Ge.Se. ha esposto di aver convissuto con Am.An., madre dell'imputato, dal 2002 al 2009 e di essere legato ad Ag. da un rapporto affettivo. Una volta lo aveva visto discutere serenamente con due agenti di polizia, dopo che era stato da diverse ore seduto sulla sedia pieghevole; gli aveva confidato di essere profondamente innamorato di Vi.: "la voleva assolutamente incontrare e mi aveva detto che voleva andare lì per incontrarla o per lasciargli un messaggio nel quale manifestava diciamo tutto il suo amore". Il teste Ad.Ma., sovrintendente di Polizia, ha confermato un intervento effettuato su richiesta della persona offesa, la quale aveva segnalato la presenza di un uomo appostato da diverso tempo sotto la propria abitazione. Arrivati sul posto, gli agenti, dopo aver identificato il Mu., lo avevano invitato ad allontanarsi, precisando: "lui in un primo momento acconsente, poi ritorna una seconda volta con un altro parente, Ge.Se., tale Ge.Se. il quale poi definitivamente lo porta via dal posto.
Po.An., amica dell'imputato, ha confermato che Ag. nutriva forti sentimenti verso Vi., non corrisposti da quest'ultima, che era molto legata ad una ragazza. Ra.Gi., compagna di Vi., ha dichiarato di avere avuto da questa confidato la incessante sequela di messaggi telefonici da parte del Mu. e la fastidiosa sua presenza al seminario di psicologia, dove quello la fissava con evidente insistenza pur dopo il suo rifiuto di parlargli. Altra volta la Fr. le aveva riferito di averlo incontrato al Gi.In. e di essersi dovuta subito allontanare per evitarlo; lo stesso le aveva inviato messaggi lasciati oltre che alla portineria di casa anche in quella dello studio del padre con tenace accanimento: "ha consegnato, credo nel tardo pomeriggio, due biglietti, uno e poi è ritornato per consegnarne un altro al portiere dello stabile dove ha il domicilio Vi.
Ag. è quindi ritornato sempre in portineria a consegnarne un terzo, erano le 19.15 circa. Nell'occorso io e Vi. eravamo presenti in portineria con il portiere allorquando lo stesso entrava. Ag. quando entrò immediatamente si diresse verso Vi. dicendole che doveva leggere quello che c 'era scritto nei biglietti che aveva consegnato, lei gli ha ripetuto più volte che non aveva intenzione di parlargli e lui si alterò, alzo la voce verso Vi., mentre a me e al portiere non ci degnò di uno sguardo. Ag. alzando la voce disse "Dio Santo leggi quello che c'è scritto nei biglietti" quindi prese il terzo biglietto che ancora non aveva consegnato e lo lanciò verso il bancone del portiere, Vi. lo recuperò successivamente. Con tono alto Ag. disse che "lei era malata che non doveva più rompergli i coglioni e che in quel modo avrebbe tagliato ogni forma di legame con lei".
Lo stesso aveva continuato a presentarsi sia sotto l'abitazione della Fr. sia presso i luoghi da lei frequentati, come il circolo (…); "questa cosa è successa per almeno tre giorni consecutivamente, io sono stata sempre presente"; aggiungendo che questo aveva determinato nella stessa uno stato di timore tale da dovere richiedere più volte l'intervento delle forze dell'ordine.
Tutto aveva insomma determinato un radicale cambiamento delle sua abitudini di vita: "era solita uscire di casa a piedi e sola, normalmente, mentre da quando questa vicenda è cominciata non lo ha più fatto, quindi era sempre con qualcuno e non camminava più a piedi", "ha cominciato a sentirsi preoccupata di poterlo vedere nei luoghi normalmente da lei frequentati, quindi comunque ha vissuto timore, agitazione e non si è sentita più tranquilla di potere andare in giro sola come, insomma, normalmente ha sempre fatto".
Questi stati d'animo erano stati inoltre confidati dalla persona offesa alla madre D.Pi., la quale in processo ha confermato le condotte assillanti dell'imputato con lunghissimi messaggi spesso offensivi tutti lasciati in portineria, cagionandole una intollerabile angoscia che le procuravano crisi di pianto " lo stato di Vi. a quel punto è andato completamente in tilt. Lei ha cominciato a non volere, avere paura quando citofonavano, oppure a non volere più uscire da sola, andavamo in palestra insieme e allora se io tornavo da là fuori la dovevo passare a prendere perché da sola non voleva venire più per esempio lei usava leggere oppure studiare al giardino inglese o a Villa (…) e siccome si era verificato che lui si fosse messo nelle panchine accanto e la seguiva pur lei spostandosi dì panchina in panchina allora lei non andò più (…) aveva tachicardia, non dormiva la notte, la incontravo la mattina presto quando io mi alzavo per andare a scuola e lei in cucina mi diceva che non aveva potuto dormire, non aveva chiuso occhio, uno stato molto avvilito. Con ulteriore rassegna delle condizioni di vita cui quella era costretta, nei termini integralmente riportati nella sentenza impugnata e, come si è detto, non formanti oggetto di alcuna censura in sede di appello.
Così come d'altra parte per i contributi ricostruttivi offerti dai testi Ru.Ig., ispettore di Polizia, Ta.Vi., sovrintendente di Polizia, Lo Ia.Sa. del Centro di Salute Mentale, Ra.Va., psicoterapeuta, e tutti gli altri, compresi i consulenti tecnici escussi e in definitiva come la stessa madre dell'imputato Am.An. nella sua elaborazione soggettiva delle vicende del figlio in una diversa chiave di lettura ma certamente coerente con la complessiva ricostruzione: "Ag. si è illuso perché è stato illuso da littoria; è cominciato questo tira e molla, poi ad un certo punto c 'erano degli stop e poi si ripartiva, cioè lei si ritirava e poi ritornava di nuovo, mandando un messaggio, mandandogli vari modi lo chiamava, poi quindi sono usciti alcune volte insieme, quindi c'era un come dire un 'amicizia molto particolare", che si era incrinata a seguito dell'incontro al seminario di psicologia, in cui la ragazza si era mostrata alla fine scostante, fino al punto di determinarne una crisi interiore.
Tale ricostruzione, infine, collima esattamente con la prospettazione da parte dello stesso imputato del suo speculare punto di vista, in cui raccontando gli stati d'animo sofferti finisce con il rafforzare la lettura accusatoria di un vero e proprio irrefrenabile impulso persecutorio verso la persona che formava oggetto delle sue attenzioni; come: "io feci il mio primo atto definito da stalker, nel senso che vidi su Facebook il fatto che lei andava a quel seminario", "un seminario di psicologia sulla solitudine e la depressione, mi incuriosiva la tematica pure, e decisi alla fine di andarci ". Infatti avrebbe riconosciuto a proposito dei messaggi facebook, che si trattava di una" forma di terapia, anche perché a parte il fatto che studio questo, cioè studiavo psicologia e terapie varie, anche olistiche, ho trovato terapeutico, e lo è veramente stato, il fatto di scrivere a Vi. via Facebook tutto quello che pensavo, che mi feriva, anche perché è come se in quel momento avevo un coltello ficcato nel cuore fondamentalmente, e cercavo di tirarmelo fuori". E quanto alle lettere lasciate in portineria: "scrivevo che io non avevo rispettato i suoi confini in passato, e che comunque intendevo rispettare ogni sua volontà di non avere contatti con me, ma era l'ultimo messaggio di tutto questo. E mi sentivo veramente bene e libero nell'averle scritto queste cose"; confermando pure la consapevolezza della opposta chiave di lettura da parte della donna che lo rifiutava dicendo alla sorella di questa: "dì a tua sorella che delle sue minacce non me ne frega niente". Le pacifiche evidenze probatorie messe in luce dal primo Giudice, così riassunte, dimostrano la infondatezza della tesi difensiva di attribuire a tali comportamenti il contenuto di innocue manifestazioni di corteggiamento, rendendo palese come queste costringessero invece la persona offesa ad un tenore di vita perennemente condizionato da una invadente presenza con intuitiva e credibile compromissione della serenità di attendere agli impegni personali di studio e di relazione sociali, nei termini appunto sussunti nella contestazione processuale; senza con questo potersi ricavare - come vorrebbe l'appellante - argomento di segno contrario da un episodio in cui, come addotto dall'appellante, la Fr. aveva ammesso di essere stata brusca nei di lui confronti; dimostrando questo, all'opposto, soltanto una pregressa disponibilità a passarvi sopra.
Il primo motivo di impugnazione è dunque infondato. Difatti, restando con questo dimostrata l'infondatezza delle doglianze difensive, in linea generale giova osservare che, per consolidata giurisprudenza di legittimità, il delitto di atti persecutori costituisce reato abituale che differisce dai reati di molestie e di minacce, che pure ne possono rappresentare un elemento costitutivo, per la produzione di un evento di danno consistente nell'alterazione delle proprie abitudini di vita o in un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero, in alternativa, di un evento di pericolo, consistente nel fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva (Cass. sez. V, 23.1.2018, n. 8744; Cass. sez. Ili, 16.1.2015 n. 9222, P.C. in proc. G., Rv. 262517). L'evento deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso e la reiterazione degli atti considerati tipici costituisce elemento unificante ed essenziale della fattispecie, facendo assumere a tali atti un'autonoma ed unitaria offensività, in quanto è proprio dalla loro reiterazione che deriva nella vittima un progressivo accumulo di disagio che infine degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi in una delle forme descritte dalla norma incriminatrice.
La prova dell'evento del delitto in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura deve essere, peraltro, ancorata ad elementi sintomatici che possono ricavarsi dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti susseguenti alla condotta dell'agente ed anche da quest'ultima, "considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata" (Cass. sez. V, n. 14391 del 28/02/2012, S., Rv. 252314), senza che si richieda pure "l'accertamento di uno stato patologico" della vittima (Cass. sez. III, 3.1.2018, n. 104).
Nei termini, in definitiva, della vicenda processuale, in cui resta provato il grado estremo di sofferenza causata dalla condotta dell'imputato che, come attendibilmente riferito dalla persona offesa, aveva provocato con i comportamenti persecutori riferiti, gravi sofferenze alla giovane persona offesa che, come evidenziato, aveva persino modificato le sue abitudini di vita (anche il padre, della giovane vittima aveva ben chiarito che a causa delle condotte poste in essere dall'imputato, Vi. era molto spaventata e aveva cambiato le abitudini di vita, chiedendogli più volte di accompagnarla quando doveva uscire).
Deduce in subordine la difesa la eccessività della pena inflitta dal primo Giudice dolendosi peraltro della valutazione di equivalenza delle attenuanti generiche e della insufficiente motivazione sul punto; tanto, a fronte del dedotto leale comportamento processuale dell'imputato, in termini peraltro non esplicitati. Laddove in realtà la implicita ammissione della veridicità dei fatti a lui attribuiti, a fronte di un indiscutibile riscontro probatorio non foss'altro che per la reciproca integrazione delle emergenze stesse provenienti da varie fonti tutte attendibili e soprattutto concordanti, dunque in alcun modo contestabili, non può essere utilizzata a quel fine.
Da qui la condivisibile valutazione - in un contesto di equilibrata graduazione della pena e senza necessità di ulteriore motivazione - di equivalenza quanto alle attenuanti generiche riconosciute dal primo Giudice e non costituenti oggetto di gravame, non ravvisandosi elementi di valutazione talmente favorevoli da giustificare il chiesto giudizio di prevalenza.
Anche il terzo motivo di appello è infondato.
La difesa chiede la concessione della sospensione della esecutività della provvisionale stabilita in relazione al risarcimento del danno da liquidarsi in sede civile, laddove comunque una tale statuizione non richiede affatto, per la provvisorietà cautelare che la giustifica, ulteriore supporto di specifica motivazione, già fondata sull'esito dell'accertamento processuale. Tanto che lo stesso appellante ne individua la giustificazione nelle stesse deduzioni afferenti alla congruità della prova dei fatti giudicati. In ogni caso la doglianza è infondata.
Non vi è dubbio alcuno, dell'esistenza di un concreto pregiudizio morale e patrimoniale patito dalla costituita parte civile, per effetto della condotta di atti persecutori perpetrata dall'odierno imputato.
Come insegnato dai Supremi Giudice per la liquidazione del danno morale, in mancanza di indici matematici di riferimento cui agganciare la valutazione in argomento, si deve ricorrere ad un criterio necessariamente equitativo, tenendo conto del patimento e disagio psicologico subito dalla persona offesa connesso al reato. La monetizzazione dei pregiudizi morali non può, infatti, che essere equitativa, trattandosi di danni che, per definizione, è impossibile quantificare nel loro esatto ammontare. Giova rammentare che la Suprema Corte ha chiarito che perché sia soddisfatto l'obbligo di motivazione, non è necessario che il giudice indichi analiticamente in base a quali calcoli ha determinato il quantum del risarcimento - ovvero ha ritenuto che il danno non possa essere liquidato in misura inferiore ad una determinata somma, ma è sufficiente che siano indicati i fatti materiali tenuti in considerazione per pervenire a quella decisione (Sez. 4, n. 18099 del 01/04/2015, Lucchelli, Rv. 263450). La dazione di una somma di denaro non è infatti per tali danni, reintegratrice di una diminuzione patrimoniale, ma compensativa di un pregiudizio non economico, con la conseguenza che non si può fare carico al giudice di non aver indicato le ragioni per le quali il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare giacche' in tanto una precisa quantificazione" pecuniaria è possibile, in quanto esistano dei parametri normativi fissi di commutazione, in difetto dei quali il danno non patrimoniale non può mai essere provato nel suo preciso ammontare (Sez. 3 civile, n. 2228 del 16/02/2012, Rv.621460; Sez.3 civile, n. 19493 del 21/09/2007, Rv. 599416; Sez. lav., n. 11039 del 12/05/2006, Rv.589068; Sez. 3 civile, n. 20320 dei 20/10/2005, Rv.584526; Sez. 3 civile, n. 9626 del 16/06/2003, Rv. 564299).
Quanto alla provvisionale, la determinazione della somma assegnata è riservata insindacabilmente al giudice di merito, che non ha l'obbligo di espressa motivazione quando l'importo rientri nell'ambito del danno prevedibile (Sez. 6, n. 49877 del 11/11/2009, R.C. e Blancaflor, Rv. 245701).
Nel caso di specie la Corte ritiene che la somma di euro 2500,00 stabilità dal Tribunale nell'appellata sentenza sia equa e proporzionata, rientrando nel danno prevedibile, tenuto conto della gravità dei fatti, protrattisi nel tempo avuto riguardo al patimento psicologico e del disagio provocato alla giovane persona offesa dall'imputato.
La sentenza impugnata va quindi integralmente confermata e Mu.Ag. condannato al pagamento delle ulteriori spese di fase e di quelle sostenute dalla parte civile liquidate come da dispositivo.
Per esigenze di ruolo, e risultando il consigliere relatore al contempo impegnato nella redazione della motivazione di altre sentenze, si fissa in giorni novanta il termine per il deposito della motivazione della presente sentenza.
P.Q.M.
Visti gli artt. 592, 605 c.p.p. conferma la sentenza resa in data 10 giugno 2021 dal Tribunale di Palermo in composizione monocratica nei confronti di Mu.Ag. appellata dall'imputato che condanna al pagamento delle ulteriori spese di fase e di quelle sostenute dalla parte civile Fr.Vi. che liquida in euro 1200,00 oltre IVA e CPA come per legge.
Visto l'art. 544 comma III c.p.p. indica in giorni novanta il termine per il deposito delli sentenza.
Così deciso in Palermo il 14 marzo 2024.
Depositata in Cancelleria il 7 giugno 2024.