RITENUTO IN FATTO
1. La sentenza impugnata è della Corte d'appello di Trieste, che, previa declaratoria di estinzione del reato di bancarotta preferenziale contestato a Ro.Ru., ha confermato l'affermazione di responsabilità di quest'ultimo e di Pi.Ma., statuita dal Tribunale di Pordenone, per il delitto di bancarotta fraudolenta documentale, commesso in qualità di amministratori della AL. Srl (Ro.Ru. amministratore di fatto dal 15 giugno 2012 al fallimento e il Pi.Ma. amministratore unico dal 26 febbraio 2013 alla data di fallimento), dichiarata fallita il 12 settembre 2013.
2. Hanno promosso ricorso per cassazione, tramite difensori abilitati, i due imputati.
2.1. Pi.Ma. ha dedotto un primo motivo, fondato sui vizi di cui all'art. 606 comma 1 lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., con cui ha contestato l'affermazione di reità, non essendo sufficiente l'accettazione dell'assunzione della carica di amministratore, peraltro in veste di prestanome, ai fini dell'attribuzione del reato di bancarotta fraudolenta documentale; la condotta contestata consiste nella sottrazione o distruzione della contabilità e sarebbe indispensabile la prova di un comportamento "attivo" dell'amministratore; la documentazione contabile non sarebbe mai stata nella sua disponibilità, come riferito dal teste Cn., che ha dichiarato di essere stato incaricato della gestione contabile negli anni 2012-2013 e di avere periodicamente consegnato le scritture al Ro.Ru.; in definitiva, la sentenza impugnata avrebbe assegnato al ricorrente una responsabilità di mera posizione, non avrebbe elencato gli indici di fraudolenza a lui riconducibili e non avrebbe neppure indicato gli elementi di prova del dolo specifico, richiesto dalla norma incriminatrice e preteso dai precedenti della giurisprudenza di legittimità.
Il secondo motivo ha denunciato una carenza di motivazione a riguardo del mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, giustificate dal corretto comportamento processuale da lui tenuto.
2.1. Ro.Ru. ha denunciato, con unico motivo, erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione in relazione all'attribuzione della veste di amministratore di fatto della società e dell'individuazione dell'obbligo giuridico a fondamento dell'affermazione di responsabilità, poiché solo l'amministratore di diritto sarebbe destinatario del dovere di corretta conservazione della contabilità e in ogni caso il ricorrente avrebbe messo a disposizione del curatore fallimentare quanto eventualmente in suo possesso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso di Ro.Ru. è inammissibile, mentre quello di Pi.Ma. è nel complesso infondato.
1. Il primo motivo del ricorso di Pi.Ma. è infondato.
Per un verso, esso non si confronta compiutamente con il tessuto probatorio delle sentenze del doppio grado di giudizio, nel contesto di c.d. "doppia conforme" sulla responsabilità penale, con la conseguenza che le due sentenze di merito possono essere lette congiuntamente dalla Corte di Cassazione, costituendo un unico corpo decisionale, nel cui ambito la sentenza d'appello si richiama alla decisione del tribunale ed entrambe le sentenze di merito adottano gli stessi criteri nella valutazione delle prove (Sez. 3, n.44418 del 2013, Argentieri, Rv. 257595; Sez. 2, n. 51192 del 2019, Rv. 278368).
Per altro verso, la ragione di censura richiama taluni principi di diritto che, nel caso di specie, sono stati puntualmente rispettati dalle pronunce di merito, che ne hanno esposto le argomentazioni con enunciati appropriati, coerenti e certamente immuni da critiche di intrinseca illogicità.
Deve invero ricordarsi che, secondo la giurisprudenza di legittimità, "vi sono due diversi criteri di imputazione soggettiva della bancarotta fraudolenta all'amministratore "testa di legno", a seconda che si tratti di bancarotta patrimoniale o documentale, in quest'ultima ricompresa anche quella per omessa tenuta delle scritture contabili; è principio ermeneutico in fase di consolidamento - ed al quale i giudici del merito si sono conformati - quello che (Sez. 5, n. 18634 del 1/2/2017, Autunno, Rv. 269904) equipara, senza dubbio alcuno, la condotta di "occultamento delle scritture contabili" e quella della loro "omessa tenuta" - che può dunque realizzarsi anche attraverso un "non facere", a differenza di quanto sostenuto nel ricorso -assistite dall'esistenza e dalla prova del dolo specifico, così affermando, contrariamente a quanto ritenuto da una corrente interpretativa risalente, una netta distinzione tra la diade "occultamento-omessa tenuta" delle scritture contabili e la fraudolenta tenuta di tali scritture, che integra una fattispecie autonoma ed alternativa in seno all'art. 216, comma primo, lett. b), L. Fall., appunto connotata dall'elemento soggettivo del dolo generico.
Invero, si è condivisibilmente sostenuto che, in caso di addebito che riguardi le scritture contabili, ben può ritenersi la responsabilità del soggetto investito solo formalmente dell'amministrazione dell'impresa fallita, perché su quest'ultimo grava il diretto e personale obbligo di tenere e conservare le suddette scritture e di farlo correttamente. È stata quindi ritenuta logica e giustificata la presunzione che l'omissione nella doverosa documentazione di attività societarie effettive "..." ponga l'amministratore di diritto in difetto rispetto al dovere giuridico che su di lui grava per il periodo di riferimento, vale a dire quello di garantire una corretta e completa rappresentazione contabile delle attività sociali al fine di assicurare la necessaria informazione del ceto creditorio. Non altrettanto può dirsi con riguardo all'ipotesi della bancarotta patrimoniale o per distrazione, dal momento che la pur consapevole accettazione del ruolo di amministratore apparente non necessariamente implica la consapevolezza di disegni criminosi nutriti dall'amministratore di fatto" (v., in motivazione, Sez. 5, n. 53227 del 25/10/2018, Cataudo).
Già in precedenza, del resto, si era affermato che "in tema di bancarotta fraudolenta, mentre con riguardo a quella documentale per sottrazione o per omessa tenuta in frode ai creditori delle scritture contabili, ben può ritenersi la responsabilità del soggetto investito solo formalmente dell'amministrazione dell'impresa fallita (cosiddetto "testa di legno"), atteso il diretto e personale obbligo dell'amministratore di diritto di tenere e conservare le suddette scritture, non altrettanto può dirsi con riguardo all'ipotesi della distrazione, relativamente alla quale non può, nei confronti dell'amministratore apparente, trovare automatica applicazione il principio secondo il quale, una volta accertata la presenza di determinati beni nella disponibilità dell'imprenditore fallito, il loro mancato reperimento, in assenza di adeguata giustificazione della destinazione ad essi data, legittima la presunzione della dolosa sottrazione, dal momento che la pur consapevole accettazione del ruolo di amministratore apparente non necessariamente implica la consapevolezza di disegni criminosi nutriti dall'amministratore di fatto" (Sez. 5, n. 19049 del 19/02/2010, Succi, Rv 247251; v. anche, nello stesso senso, Sez. 5, n. 54490 del 26/09/2018, Costantino).
Alcune più recenti pronunce, tuttavia, esigono più precisamente che alla violazione dei doveri di vigilanza e di controllo che derivano dalla accettazione della carica debba essere aggiunta la dimostrazione non solo astratta e presunta, bensì effettiva e concreta, della consapevolezza dello stato delle scritture, tale da impedire la ricostruzione del movimento degli affari o, per le ipotesi con dolo specifico, di farne emergere la strumentalità verso fini di pregiudizio in danno dei creditori (Sez. 5, n. 40176 del 02/07/2018, Mastroeni, nonché Sez. 5, n. 40487 del 28/05/2018, Bruccoleri). Nella motivazione della sentenza Mastroeni appena menzionata si legge che "se non è "..." revocabile in dubbio che la carica di amministratore di diritto di una società conferisca alla persona che la ricopre doveri di vigilanza e controllo (sintetizzabili nella posizione di garanzia ex art. 2392 cod. civ.), la cui violazione comporta responsabilità penale a titolo di dolo, generico, è pur vero che l'addebito di consapevole mancanza di condotta impeditiva del fatto illecito può muoversi soltanto quando la condotta omissiva sia stata accompagnata dalla rappresentazione della situazione anti-doverosa, onde legittimare la prefigurazione dei consequenziali eventi tipici del reato o, nella prospettazione del dolo eventuale, l'accettazione del rischio del loro accadimento".
Pertanto, come nel complesso declinato dalla persuasiva struttura delle sentenze del doppio grado di merito - e discettandosi, nella specie, di un addebito di bancarotta fraudolenta documentale per sottrazione o per omessa tenuta, col fine di trarne, anche per altri, un profitto ingiusto o di recare nocumento alla massa dei creditori - anche la scelta cosciente e volontaria, precipuamente dettata da bisogno economico, previa pattuizione di un compenso mensile ad hoc destinato e in un contesto di plurime realtà imprenditoriali riconducibili al medesimo "dominus" (e quando "la ditta era già ferma", pag. 3 sentenza di primo grado) della totale, originaria abdicazione della veste connaturata al proprio ruolo organico ed apicale per abbandonarne la concreta, incontrollata ed indiscriminata titolarità gestionale a terzi può rappresentare sostrato probatorio sufficiente a comprovare la sussistenza del dolo omissivo di cui all'art. 40 cpv. cod. pen., in riferimento agli artt. 2475 e 2476 cod. civ., che stabiliscono che dalla posizione di garanzia dell'amministratore di una società a responsabilità limitata derivino gli specifici obblighi dell'osservanza dei doveri imposti dalla legge, dall'atto costitutivo e dallo statuto per l'amministrazione della società, tra i quali spiccano quelli, certamente primari, di vigilare sulla continuità aziendale e sui fattori di manifestazione della crisi, in vista della conservazione del patrimonio dell'impresa a tutela delle aspettative dei creditori, ai quali sono di tutta evidenza funzionali i doveri di corretta tenuta ed aggiornamento dell'impianto contabile.
Nel caso in esame, peraltro, la sentenza di primo grado (pag. 4, richiamata da quella d'appello, punti 6, 6.1, 6.2, 6.3, 6.4) - con i cui enunciati il motivo di ricorso evita di misurarsi - ha espressamente dato conto della accertata disponibilità di una parte delle scritture contabili in capo a Pi.Ma., che - dopo la declaratoria di fallimento, su insistenti richieste - le ha recapitate al curatore con la collaborazione di tale Venturini; si tratta di ulteriore indizio, pianamente illustrato dalle proposizioni delle sentenze, insieme agli altri (pagg. 4-6 sentenza primo grado, punto 6 e segg. sentenza d'appello), secondo il quale il ricorrente fosse consapevole della posizione di garanzia assunta con l'accettazione della veste di amministratore della società e dell'obbligo, gravante su quest'ultimo, di provvedere o almeno di sorvegliare affinché la contabilità dell'impresa fosse regolarmente tenuta, essendo essa finalizzata ad assicurare l'ostensibilità del patrimonio dell'imprenditore, destinato a garantire il soddisfacimento delle ragioni dei creditori; ed in tale scenario comportamentale, gli elaborati del doppio grado hanno messo in rilievo che la scelta consentanea di acquisire il capitale di rischio e la veste di amministratore della MB. Srl, sempre su "incarico" del Ro.Ru., costituisse significativo indicatore di un concerto criminoso, dal momento che agli opachi intrecci commerciali tra le due società si sono rivelate strumentali talune fatturazioni i cui rapporti sottostanti non sono stati ricostruibili proprio a causa del mancato aggiornamento di ogni adempimento contabile successivo al subingresso dell'attuale ricorrente, che ha reso anche dichiarazioni non veritiere (punto 6.4 sentenza impugnata) - sintomo, dunque, di mala fede - a riguardo dell'affidamento riposto sui commercialisti, i due Gr., in relazione alle promesse di rituale esecuzione delle registrazioni contabili.
In definitiva, l'analisi delle circostanze concrete del fatto - dettagliatamente e razionalmente ripercorse dai giudici di merito - ha restituito la prova della componente rappresentativa del dolo - inteso come manifestazione degli indispensabili indici di fraudolenza - sotteso alla fattispecie di reato contestata.
Le doglianze difensive sono nel complesso orientate a sollecitare una rivisitazione del materiale probatorio, mentre nel giudizio di cassazione sono precluse - a meno che non si rivelino fattori di manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato, insussistenti nel caso specifico - la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr., tra le più recenti, Sez. 6, n. 5465 del 4/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601; Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482).
2. Il secondo motivo, che contesta, con appunto vago, il diniego delle circostanze attenuanti generiche, è manifestamente infondato, perché, secondo l'indirizzo consolidato della Corte di Cassazione - nel motivare il diniego del beneficio richiesto, è sufficiente un congruo riferimento, da parte del giudice di merito, agli elementi ritenuti decisivi o rilevanti, come avvenuto nella specie (si vedano, in particolare, pag. 9 sentenza di primo grado, a riguardo della gravità dei fatti e del ruolo "organico" rivestito dal prevenuto nel progetto delittuoso del Ro.Ru., punto 6.4 della sentenza del gravame).
Tale interpretazione è ispirata alla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il giudice, quando neghi la concessione delle circostanze attenuanti generiche, non debba necessariamente prendere in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma possa limitarsi a fare riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti (Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Giovane e altri, Rv. 248244).
3. Il motivo di ricorso presentato da Ro.Ru. è generico e manifestamente infondato.
Contrariamente a quanto assunto dal ricorrente, è costante principio ermeneutico, affermato da questa Corte, che in tema di reati fallimentari, l'amministratore "di fatto" della società fallita è da ritenere gravato dell'intera gamma dei doveri cui è soggetto l'amministratore "di diritto", per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli assume la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili (Sez. 5, n. 39593 del 20/05/2011, Assello, Rv.250844; Sez. 5, n. 15065 del 02/03/2011, Guadagnoli e altri, Rv.250094; Sez. 5, n. 7203 del 11/01/2008, Salamida, Rv. 239040).
Fermo restando che la tenuta di una contabilità completa ed intellegibile, comunque tale da consentire la ricostruzione del patrimonio e dell'andamento degli affari, costituisce in linea di principio un obbligo specifico e diretto dell'amministratore di diritto dell'impresa collettiva, l'immissione "in fatto" nell'attività gestoria rappresenta la fonte dell'assunzione della posizione di garanzia di cui all'art. 40 cpv. cod. pen,, che può anche coesistere con quella del titolare della carica formale e dalla quale discendono tutti gli oneri connessi alla cura delle scritturazioni contabili, tanto più - come nel caso di specie - quando l'apparato espositivo delle sentenze di merito evidenzi il ruolo di protagonista assoluto dell'imprenditore occulto in ogni componente dell'attività di conduzione dell'ente, incluso il settore dell'organizzazione amministrativa.
La signoria indiscussa del ricorrente in ambito societario, una volta dismesso dai Tr., è stata puntualmente descritta, con sequenze logiche e convincenti, dalle sentenze di prime e seconde cure (pag. 2 e 3 della sentenza di primo grado, che ha richiamato le convergenti deposizioni testimoniali degli ex dipendenti, di Cn., di Gr., di Ri., di Tr. e le dichiarazioni etero-accusatorie dello stesso Pi.Ma.; punti 5.1,5.2,5.3,5.4 della sentenza di secondo grado), anche a riguardo della disponibilità materiale di buona parte dei libri contabili (pag. 4 sentenza di primo grado, punto 5.5 sentenza appello) - poi non consegnati alla curatela del fallimento - e, sotto tali profili, del tutto evanescenti e puramente contestative, se non persino indeterminate - oltre che meramente riproduttive di censure già adeguatamente respinte in grado di appello, in assenza di idoneo confronto con le relative inferenze - si rivelano le doglianze che intendono confutare la emersione della prova della veste di amministratore di fatto e delle condotte di rilievo penale a costui ascrivibili.
4. Ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., alla declaratoria di inammissibilità del ricorso del Ro.Ru. e di reiezione del ricorso del Pi.Ma. consegue la condanna di entrambi al pagamento delle spese del procedimento e, non potendosi escludere profili di colpa nella formulazione dei motivi, anche di condanna del solo Ro.Ru. al versamento della somma di Euro 3000 a favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso di Pi.Ma. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Dichiara inammissibile il ricorso di Ro.Ru. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3000 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 13 dicembre 2023.
Depositato in Cancelleria il 07 marzo 2024.