RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza impugnata, la Corte d'Appello di Palermo ha parzialmente riformato la sentenza pronunciata il 14.2.13 dal Tribunale di Palermo che aveva dichiarato M.F., O.P., O.M. e L.G. colpevoli dei reati di bancarotta fraudolenta aggravata ascritti ai capi a) e b) e Mo.An. colpevole del reato di bancarotta fraudolenta aggravata di cui al solo capo b), li aveva condannati alle pene di giustizia ed al risarcimento dei danni in favore delle parti civili Sicilcassa s.p.a., in liquidazione coatta amministrativa, e Banca d'Italia.
La Corte d'Appello ha pronunciato sentenza di assoluzione in ordine all'addebito di bancarotta fraudolenta impropria da reato societario, di cui al capo a), ed ha rideterminato la pena in ordine al residuo reato.
1.1. La vicenda attiene al dissesto della Sicilcassa s.p.a., dichiarata in stato di insolvenza dal Tribunale fallimentare di Palermo il 19.2.99, e gli odierni ricorrenti, esclusa quindi la posizione di O.P., ne sono chiamati a rispondere:
- M. e O.M. quali componenti del consiglio di amministrazione L. quale sindaco;
- Mo. quale funzionario dirigente della sede di Catania;
Va precisato che i fatti contestati attengono anche al periodo precedente la costituzione della Sicilcassa s.p.a., vale a dire quando era operativa la Cassa di Risparmio per le province siciliane Vittorio Emanuele (d'ora in avanti CRVE), trasformatasi poi, a seguito dell'entrata in vigore della L. n. 218 del 1990 c.d. L. Amato e con modalità che sono oggetto di uno dei principali motivi di ricorso, nella Sicilcassa. Conseguentemente, gli imputati sono tali anche nella veste da loro assunta all'interno della CRVE.
Essi sono stati ritenuti responsabili, in esito ai due gradi di giudizio di merito, di bancarotta fraudolenta patrimoniale, aggravata dall'avere commesso più fatti di bancarotta e dall'avere cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità, per avere distratto e dissipato i beni dell'istituto bancario (CRVE prima e Sicilcassa poi) concedendo credito per somme ingenti, in violazione delle regole di sana a prudente gestione bancaria.
Il capo d'imputazione, assai articolato, individua 123 operazioni di finanziamento effettuate in favore di grandi gruppi imprenditoriali siciliani con modalità irregolari, che sono di volta in volta descritte.
2. Il ricorso proposto nell'interesse di O.M. preliminarmente deduce:
a) l'assenza di una reale possibilità di accesso alla documentazione bancaria da parte dei consulenti tecnici della difesa nel corso della perizia tecnica disposta dal GIP in sede di incidente probatorio, con conseguente nullità dell'incidente probatorio, tempestivamente dedotta con un'eccezione rigettata dalla Corte d'Appello con motivazione apparente;
b) la mancata ammissione, da parte del Tribunale, di un cospicuo numero di testimoni introdotti dalla difesa per dimostrare che, in molte delle operazioni asseritamente illegittime indicate nell'imputazione, era intervenuto il recupero della somma concessa a titolo di finanziamento, poichè le garanzie apprestate si erano rivelate sufficienti e idonee; si evidenzia, a tale proposito, che la questione era stata proposta alla Corte d'Appello, che l'aveva rigettata facendo riferimento ad un'ordinanza del Tribunale diversa da quella ove si decideva dell'ammissione delle prove;
c) la mancata acquisizione del libro di G.D. "Sicilcassa - una morte annunciata -. La svendita del sistema creditizio siciliano e la crisi delle banche in Italia", che avrebbe contribuito a far luce sulle vicende che avevano portato alla liquidazione coatta di Sicilcassa ed all'acquisizione, da parte del Banco di Sicilia, del suo attivo e passivo; sul punto, come già in relazione ai testi della difesa, la Corte d'Appello avrebbe immotivatamente respinto la richiesta di riapertura dell'istruttoria
d) la violazione dell'art. 507 c.p.p. per quanto riguarda l'assunzione, disposta dal Tribunale ai sensi della norma citata, dei Commissari liquidatori di Sicilcassa; si precisa che l'intento espresso dal Tribunale era quello di chiarire, a fronte delle conclusioni dei periti, a quali fra le delibere indicate nell'imputazione fosse effettivamente seguita l'erogazione del finanziamento, in quali casi l'obbligazione fosse stata spontaneamente estinta dal debitore e quanto fosse stato, ad allora, recuperato; sul punto era stato sentito il dr. P., le cui dichiarazioni, tuttavia, avevano lasciato irrisolte molte delle questioni postegli o, comunque, avevano reso evidente che una notevole parte delle operazioni contestate non avevano ragion d'essere (perchè l'operazione creditizia risultava essere ripianata, perchè l'erogazione del fido non aveva avuto luogo o non era stata utilizzata o non trovava riscontri documentali, perchè l'operazione era la duplicazione di un'altra...); la non esaustività della deposizione P., introdotto ai sensi dell'art. 507 c.p.p. come assolutamente necessario ai fini della decisione, avrebbe dovuto indurre alla pronuncia di una sentenza assolutoria o comunque all'audizione degli altri Commissari liquidatori.
2.1. Con il primo motivo di ricorso si deducono violazione di legge, vizi motivazionali e travisamento della prova con riguardo all'affermazione di responsabilità per i fatti contestati nel periodo precedente la costituzione di Sicilcassa, quindi fino al 31.12.91, riferibili invece alla CRVE, nonchè sugli effetti di natura giuridico penalistica della sentenza di dichiarazione di insolvenza pronunciata dal Tribunale di Palermo nei confronti della sola Sicilcassa.
Si censura, in particolare, la decisione della Corte di estendere l'efficacia della dichiarazione di insolvenza, quale elemento costitutivo del reato di bancarotta, a tutte le condotte indicate al capo b), comprese quelle poste in essere durante l'operatività della CRVE, con ovvi effetti pregiudizievoli per l'imputato, posto che la stragrande maggioranza delle operazioni indicate nell'imputazione erano riconducibili alla CRVE.
Si sostiene l'erroneità dell'assunto secondo cui la CRVE - ente pubblico regionale economico-, trasformandosi in Sicilcassa, sia rimasta il medesimo soggetto, con una nuova veste giuridica di natura privatistica.
In realtà, le trasformazioni di enti creditizi pubblici in società per azioni operanti nel settore bancario, disciplinate appunto dalla L. n. 218 del 1990, costituirebbero, ai sensi del D.Lgs. n. 356 del 1990, art. 16, comma 1 una cessione d'azienda e non integrerebbero una successione universale, cosicchè il cessionario dovrebbe assumere la veste di successore a titolo particolare delle sole attività e passività dell'azienda ceduta e non vi sarebbe una estinzione automatica dell'ente di diritto pubblico.
La mancata dichiarazione dello stato di insolvenza della CRVE impedirebbe, quindi, di ritenere penalmente rilevanti, ai fini della bancarotta, le operazioni compiute nel corso di quella gestione, così svuotando, di fatto, l'accusa, come implicitamente riconosciuto dalla stessa Corte d'Appello.
2.2. Con il secondo motivo si deducono la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riguardo al significato della prova ammessa ex art. 507 c.p.p. in relazione alla evoluzione delle posizioni debitorie ed ai recuperi effettuati, alla rilevanza ex ante delle garanzie patrimoniali, nonchè l'erronea o falsa applicazione della L. Fall., art. 216 quale reato di danno e non di pericolo.
Viene ripresa la censura già illustrata al precedente punto 2. d), con riguardo alle carenze della deposizione del dr. P..
Si sostiene che i giudici di merito non abbiano compiuto alcuna verifica del concreto pregiudizio subito dai creditori, o quantomeno paventabile alla luce della fisiologica attività di recupero cui è proiettato il credito bancario.
Si sarebbe, così erroneamente esclusa la rilevanza dei recuperi, anche operati successivamente alla dichiarazione di insolvenza poichè le garanzie prestate si erano rilevate sufficienti, e dell'incidenza del calcolo degli interessi sulla complessiva esposizione.
A dire del ricorrente, la Corte d'Appello avrebbe finito per configurare un reato di pericolo astratto, anticipando la tutela penale e ritenendo punibili le condotte prima del verificarsi di un danno ed indipendentemente da esso.
Una più corretta interpretazione della norma avrebbe dovuto indurre alla individuazione di un pericolo concreto che, nel caso in esame, sarebbe escluso dalla risalenza nel tempo delle condotte, ascrivibili fino a 12 anni prima della dichiarazione di insolvenza, e dalla imprevedibilità del fatto che ad un ente pubblico, quale era la CRVE, sarebbe succeduta una società di diritto privato, soggetta a fallimento.
2.3. Con il terzo motivo di ricorso si denunzia la violazione della L. Fall., artt. 216 e 219 quanto alla presunta irrilevanza delle garanzie patrimoniali quale strumento di tutela del credito ed alla possibilità di determinare il danno soltanto in esito alla quantificazione delle perdite dopo l'escussione delle garanzie.
In proposito, si evidenzia che tutte le operazioni di finanziamento indicate nell'imputazione erano sorrette da garanzie patrimoniali e che il rinnovamento delle linee di credito era accompagnato sempre da un rafforzamento di tali garanzie, sicchè sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo, non potevano essere intese come operazioni distrattive, tenuto conto, altresì, della peculiarità di un'azienda bancaria che, per definizione, è tenuta a fornire credito e a sopportare l'alea ed i tempi del rientro.
Sotto tale profilo, sarebbe illogico affermare che il fenomeno distrattivo sia ravvisabile nel monte degli incagli e delle sofferenze, ritenendo che già essi depauperino il patrimonio bancario.
In realtà, il depauperamento patrimoniale si verificherebbe soltanto con le perdite definitivamente accertate.
In ogni caso, la mancata precisazione del danno, inteso in tal senso, avrebbe dovuto indurre ad escludere l'esistenza dell'aggravante di cui all'art. 219, comma 1.
Tale conclusione sarebbe legittima anche facendo riferimento al rapporto fra le perdite accertate nel giudizio di merito ed il monte complessivo degli impieghi Sicilcassa, pari ad appena il 5%.
2.4. Con il quarto motivo si denunzia la violazione del R.D. n. 375 del 1936 (L. bancaria), del D.Lgs. n. 385 del 1993 (TUB) e della L. Fall., art. 216, con riferimento al principio di "sana e prudente gestione" introdotto dal TUB ed alla sostituzione della c.d. "vigilanza strutturale" prevista dalla legge bancaria previgente.
Si sostiene che non avrebbe potuto essere addebitata al ricorrente la violazione del principio di sana e prudente gestione, introdotto con il TUB entrato in vigore l'1.1.94 e il cui contenuto è stato precisato da circolari della Banca d'Italia emanate a partire dall'aprile del 2005, con riferimento alle operazioni compiute prima di quelle date (tenuto conto della sostanziale irrilevanza di quelle poste in essere in epoca successiva).
Nè si potrebbe ritenere che tale principio fosse ricavabile dal complesso normativo preesistente all'entrata in vigore del TUB, diversamente da quanto affermato dalla Corte d'Appello.
Facendo più corretto riferimento al principio della c.d. vigilanza strutturale, i giudici di merito avrebbero dovuto tenere conto degli esiti non negativi delle ispezioni.
Si evidenzia inoltre l'illogicità del ragionamento dei giudici di appello, laddove, da un lato, non hanno inteso entrare nel merito di ogni singolo episodio contestato, pur ammettendo le criticità nella ricostruzione, in senso accusatorio, di alcune delle operazioni indicate, mentre, dall'altro, hanno valutato l'insieme di tali operazioni al fine di trarne la prova di una scorretta gestione imprenditoriale dell'azienda di credito.
Richiamando la tesi secondo cui sarebbe necessaria la sussistenza di nesso causale fra la condotta contestata ed il dissesto, si evidenzia che nulla sarebbe emerso in tal senso.
Il ricorso prosegue enucleando censure di vario genere rispetto al percorso motivazionale della Corte d'Appello, per l'omessa valutazione delle circostanze a sostegno dell'innocenza dell'imputato, sia sotto il profilo oggettivo che sotto il profilo soggettivo.
Con specifico riguardo all'elemento soggettivo del reato, si rileva che:
- l'indagine non ha evidenziato collusioni fra il ricorrente e i beneficiari dei finanziamenti;
- non sono emerse condotte a lui specificamente ascrivibili, trattandosi di componente del consiglio di amministrazione privo di deleghe;
- la prassi dell'istituto bancario era nel senso che la pratica di finanziamento fosse istruita dai competenti uffici, portata in consiglio d'amministrazione ed approvata ove fosse ritenuta sufficientemente istruita;
- la società di revisione Deloitte & Touche, incaricata della revisione dei bilanci, aveva espresso giudizi positivi in ordine a quelli approvati dal Consiglio di amministrazione di cui O.M. faceva parte;
- la crisi dell'istituto bancario era da ricondurre a fattori non imputabili agli organi societari ed imprevedibili ex ante, cioè ad una crisi improvvisa del settore a cui si aggiungeva quella di alcuni gruppi di clienti, inaspettatamente divenuti insolventi a causa dell'intervento di misure di prevenzione patrimoniale.
Il ricorrente censura, altresì, il percorso motivazionale dei giudici di merito laddove si indica quale regola di sana e prudente gestione violata dagli imputati quella di avere concentrato il rischio, concedendo i principali affidamenti a pochi gruppi imprenditoriali, circostanza non vera e comunque non provante l'intento dissipatorio. Si contesta l'esistenza di "indici di allarme" che avrebbero dovuto indurre gli imputati, ed in particolare il ricorrente, ad apprezzare le effettive condizioni dell'istituto di credito ed i pericoli indotti dalle maggiori operazioni finanziarie che egli era chiamato a deliberare, anche tenuto conto delle modalità con cui erano istruite le pratiche di finanziamento ai grandi gruppi, caratterizzate da un complesso iter procedurale e da molteplici controlli interni.
Quelli che la Corte d'Appello ha indicato come "segnali d'allarme" (relazione Banca d'Italia e quanto riferito dal teste Mi.) non erano noti al ricorrente e, del resto, la stessa Corte d'Appello avrebbe, nella sostanza, riconosciuto che gli organi di vertice dell'istituto erano condizionati da informazioni inesatte o incomplete.
L'affidamento, da parte del ricorrente, nella situazione della banca così come prospettata dai funzionari dell'istituto, sarebbe stato del tutto legittimo, posto che, al momento della trasformazione da CRVE in Sicilcassa, il Tribunale di Palermo aveva nominato un collegio peritale allo scopo di valutare i cespiti aziendali e definire il patrimonio iniziale della costituenda società ed in tale sede non era stata rilevata alcuna anomalia nelle pratiche di finanziamento.
Si contesta, poi, che segnali d'allarme potessero essere ricavati dalle relazioni ispettive della Banca d'Italia, che invece i giudici di appello lungamente citano.
Si censura l'operato della Corte laddove svaluta il dato comparativo, in relazione al dolo di bancarotta, fra le condotte incriminate del consiglio di amministrazione di cui faceva parte il ricorrente e quelle, ritenute prive di rilievo, del successivo consiglio di amministrazione operante a partire dal 1995, a cui farebbero, invece, capo operazioni decisamente incompatibili rispetto ad una banca in stato di insolvenza.
Il ricorrente afferma che il dolo può essere configurato nell'accettazione del rischio della perdita patrimoniale come conseguenza della condotta realizzata ma che, tuttavia, il rischio deve superare l'area della fisiologica attività speculativa di un impresa bancaria, per sconfinare nell'accettazione di un'alea.
Sotto questo profilo, si rileva che sarebbe stato molto più dannoso per l'istituto chiudere le principali linee di credito e che era stata una scelta vincente quella di rinnovare le linee di credito ampliando le garanzie, come dimostrato dai recuperi effettuati.
Ove fossero stati ritenuti esistenti, comunque, profili di colpa, avrebbe dovuto essere configurata la diversa ipotesi di bancarotta semplice, reato prescritto ancora prima della pronuncia di primo grado.
2.5. Con il quinto motivo di deducono violazione di legge e vizi motivazionali con riguardo alla ritenuta sussistenza dell'aggravante del danno di rilevante gravità. Si tratterebbe di una circostanza aggravante non applicabile alle fattispecie di bancarotta impropria, in ragione del circoscritto richiamo operato dall'art. 219 agli artt. 216, 217 e 218, quindi non estensibile analogicamente all'art. 223.
2.6. Con il sesto motivo si deducono violazione di legge e vizi motivazionali in relazione al trattamento sanzionatorio, avuto riguardo alle pene inflitte ai coimputati che hanno definito la propria posizione processuale ai sensi dell'art. 444 c.p.p. ed al ridimensionamento del danno all'esito dei recuperi.
Ci si duole del mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.
2.7. Con il settimo motivo si chiede l'annullamento delle statuizioni civili in favore della Banca d'Italia, richiamando i motivi posti alla base dell'opposizione alla costituzione di parte civile dell'Istituto.
3. Il ricorso proposto dal difensore di M. si articola su otto motivi concernenti: il tema della successione fra CRVE e Sicilcassa, l'erronea applicazione della legge fallimentare con riferimento alla fattispecie di bancarotta impropria fallimentare, sia sotto il profilo oggettivo della condotta che di quello soggettivo, i vizi motivazionali con riguardo alla replica della Corte ai rilievi difensivi.
3.1. Il primo motivo denunzia la violazione della L. n. 218 del 1990 e del D.Lgs. n. 356 del 1990, art. 16, comma 1 ed asserisce l'inesistenza di una successione a titolo universale fra CRVE e Sicilcassa nei termini enunciati al precedente paragrafo 2.1.
Viene approfondita la tematica della pretesa successione, sostenendo che le trasformazioni di enti pubblici creditizi operanti nel settore bancario e disciplinate dalla L. n. 218 del 1990 costituiscono una cessione d'azienda, l'ente pubblico non viene, quindi, trasformato in un altro soggetto e non subisce alcun fenomeno di estinzione automatica ma rimane nelle vesti della Fondazione detentrice della partecipazione di controllo nella società.
La Corte d'Appello, pur riconoscendo l'esistenza della Fondazione, ha erroneamente negato che il fenomeno di trasformazione o successione si sia verificato soltanto fra la CRVE, istituto di diritto pubblico, e la Fondazione, pure di diritto pubblico, estendendolo anche alla società per azioni cessionaria dell'azienda bancaria, cioè alla Sicilcassa.
La successione fra CRVE e Sicilcassa non è, secondo il ricorrente, di natura universale ma a titolo particolare, sicchè è scorretto estendere gli effetti della dichiarazione di insolvenza agli atti compiuti durante la gestione CRVE.
Quanto alla rilevanza penale di tali atti, si osserva che la Banca d'Italia aveva assentito alla costituzione di Sicilcassa proprio in ragione del mancato riscontro di irregolarità sostanziali.
Si sostiene, quindi, che proprio la Banca d'Italia, ritenendo che la CRVE fosse patrimonialmente idonea alla trasformazione in Sicilcassa, aveva attestato l'inesistenza di una situazione di insolvenza e, quindi, di uno stato di dissesto in capo a CRVE, a cui vanno ricondotte la maggior parte delle operazioni di finanziamento indicate nell'imputazione.
3.2. Con il secondo motivo si denunzia l'erronea applicazione dei principi che regolano i provvedimenti amministrativi ed in particolare l'autorizzazione all'attività bancaria con riferimento al D.Lgs. n. 356 del 1990, nonchè la violazione del principio generale dell'affidamento.
Si sostiene che l'autorizzazione, ad opera del Ministero del Tesoro, alla trasformazione da CRVE in Sicilcassa, oltre ad avere determinato un netto confine valutativo sotto il profilo della regolarità amministrativa e patrimoniale, avrebbe indotto un generale affidamento circa l'assenza di irregolarità nella gestione, anche in considerazione dell'assenza di rilievi ad opera della Banca d'Italia.
3.3. Con il terzo motivo si deducono violazione di legge e vizi motivazionali in ordine al giudizio di responsabilità per il reato di bancarotta impropria.
Sotto tale profilo, si evidenzia che un istituto bancario, pur se strutturato in forma societaria, riveste una funzione pubblicistica poichè, attraverso la concessione del credito, sostiene il sistema economico-sociale.
Ciò implica la difficoltà di ritenere che risorse della banca destinate a finanziamenti possano essere considerate come distratte, in quanto comunque rientranti nell'oggetto sociale; tenuto conto, altresì, del fatto che i finanziamenti in contestazione erano stati erogati in favore di imprenditori impegnati in molteplici attività produttive.
La contestazione ad opera dell'accusa riguarda l'avere concesso finanziamenti a soggetti che non garantivano il rispetto delle obbligazioni assunte, ledendo l'interesse della banca ad un puntuale rientro dell'esposizione debitoria; in tal senso, secondo il ricorrente, al fine di valutarne la fondatezza, sarebbe stato indispensabile accertare la misura in cui i crediti erano stati recuperati grazie alle garanzie patrimoniali pretese dalla banca.
Ove il rapporto fra crediti e garanzie reali si fosse rivelato tale da escludere il rischio di irrecuperabilità delle somme erogate, l'accusa sarebbe risultata insostenibile, sicchè la Corte d'Appello avrebbe gravemente errato nel ritenere irrilevante tale dato. A tal fine, si evidenzia che il valore delle garanzie riconosciuto dagli Ispettori della Banca d'Italia era pari a 2.146 miliari di lire, a fronte di un valore nominale di crediti concessi ai grandi gruppi pari a 2.286 miliardi di lire.
3.4. Con il quarto motivo si deduce l'inesistenza del presupposto oggettivo dei reati ascritti al ricorrente, sotto il profilo della causa del dissesto, con i correlati vizi motivazionali.
La Corte d'Appello avrebbe sottovalutato l'incidenza di fattori esterni, in particolare la crisi economica del tempo, sull'andamento gestionale della banca, tanto che l'eventuale mancato rinnovo delle linee di credito avrebbe determinato il crollo del sistema creditizio siciliano, considerato che i grandi gruppi erano esposti anche con altri istituti di credito dell'isola.
La gestione del credito era stata quindi esplicitamente approvata dalla Banca d'Italia, circostanza che aveva creato nei componenti del consiglio di amministrazione il convincimento di avere perseguito un fine di utilità generale, piuttosto che il dissesto o la dissipazione delle risorse aziendali.
3.5. Con il quinto motivo si deducono violazione di legge e vizi motivazionali con riguardo alla ritenuta sussistenza dell'elemento soggettivo del reato.
L'avere individuato l'illegittimità del comportamento del ricorrente per avere violato le regole di sana e prudente gestione bancaria avrebbe dovuto indurre il giudicante a riconoscere che, nei fatti, era stata contestata una condotta imprudente, incompatibile con la nozione di bancarotta fraudolenta.
Il ricorrente contesta l'applicabilità del principio di sana e prudente gestione bancaria ai fatti commessi prima dell'entrata in vigore del TUB, così come nel quarto motivo del ricorso O.M., e stigmatizza la mancata risposta della Corte d'Appello alle osservazioni difensive secondo cui il tenore delle contestazioni sembra essere, piuttosto, riconducibile alle fattispecie di cui all'art. 217, commi 2 e 3 e non all'art. 216.
3.6. Con il sesto motivo si deducono violazione di legge e vizi motivazionali quanto alla ritenuta sussistenza dell'elemento soggettivo del reato di bancarotta fraudolenta.
Si sottolinea che, al di là della previsione dell'evento, per la configurabilità del dolo è richiesto l'ulteriore requisito della intenzionalità e, del tutto erroneamente, la Corte d'Appello ha tratto dalla prova della previsione dell'evento quella della volontà di causarlo.
Si sostiene che nella bancarotta societaria, lo stato di insolvenza deve essere previsto e voluto dall'agente, perchè il carattere doloso della condotta è espressamente previsto e richiesto dall'art. 223, che configura una ipotesi di reato diversa da quelle di cui all'art. 216; mentre quest'ultima disposizione colpisce direttamente il fallito, quella di cui all'art. 223 riguarda gli amministratori che agiscono nell'interesse della società e, rispetto ad essi, è proprio questa norma a ricollegare, ai fini della punibilità, la relazione causale fra azione ed evento (cioè il fallimento della società) anche all'elemento doloso della condotta.
Anche in questo caso, si ripercorrono le considerazioni, già riassunte al precedente paragrafo 2.4., in merito alla istruzione delle pratiche di finanziamento ad opera delle strutture predisposte all'interno della banca, alla non perfetta conoscenza, da parte dei consiglieri di amministrazione, delle condizioni in cui venivano erogati i finanziamenti e delle criticità eventualmente riscontrate.
Mai sarebbe stata raggiunta la prova di un concerto fraudolento fra i membri del consiglio di amministrazione, non essendo evidentemente tale il generico interesse a favorire i grandi gruppi imprenditoriali, clienti storici dell'istituto di credito.
Infine, si sottolinea che tutte le pratiche di fido enumerate nell'imputazione avevano ricevuto il benestare della Banca d'Italia.
3.7. Con il settimo motivo si deduce l'insussistenza dell'aggravante del danno di rilevante gravità.
3.8. Con l'ottavo motivo si denunzia l'eccessiva entità della pena irrogata.
A sostegno degli argomenti addotti, in particolare per quanto riguarda la asserita disparità di trattamento con i coimputati che hanno definito la propria posizione processuale ai sensi dell'art. 444 c.p.p., è stata prodotta, in allegato a note difensive, la sentenza di applicazione della pena su richiesta.
4. Il ricorso proposto nell'interesse di L.G. affronta preliminarmente il tema già diffusamente trattato ai paragrafi 2.1 e 3.1., sottolineando l'erronea individuazione, da parte dei giudici di merito, della successione delle posizioni giuridiche fra CRVE e Sicilcassa, reso palese dall'uso improprio ed indistinto dei termini "conferimento" e " trasformazione".
Nel caso in esame, il successore nei rapporti della CRVE avrebbe dovuto essere considerato l'Ente Fondazione Cassa di Risparmio e non la nuova azienda bancaria Sicilcassa s.p.a., a cui era stata conferita l'azienda CRVE, integrando così una successione a titolo particolare limitata alle posizioni giuridiche civili ed amministrative.
4.1. In via preliminare si impugna l'ordinanza di rigetto della richiesta di effettuazione di una nuova perizia e si deduce il travisamento del fatto in ordine agli errori commessi dai periti.
In termini analoghi a quelli del ricorso O.M. (paragrafo 2.) si censurano gli errori di fatto, concettuali e metodologici commessi dal collegio peritale nominato in sede di incidente probatorio, con riferimento alla mancata differenziazione fra mutui edilizi e mutui fondiari, all'erronea conoscenza delle procedure, visto che era stata omessa la rilevantissima circostanza per cui tutte le delibere concernenti mutui fondiari erano sottoposte a preventiva autorizzazione da parte della Banca d'Italia, all'avere ignorato, quanto al punto n. 108 dell'imputazione, che gli affidi al gruppo R. erano garantiti da un'ipoteca di primo grado sui beni periziati per un valore doppio.
Peraltro, i limiti dell'elaborato peritale avrebbero dovuto essere ben chiari alla stessa Corte d'Appello, vista la decisione di pronunciare sentenza di assoluzione in ordine al reato di cui al capo a), disattendendo le conclusioni dei periti.
Ugualmente si censura la deposizione del dr. P., in quanto affetta da errori e travisamenti dei dati tecnici e, comunque, espressione degli interessi della parte civile.
4.2. Con il terzo motivo si deduce l'omessa valutazione del decreto del Ministero del Tesoro a definizione della verifica ispettiva della Banca d'Italia degli anni 1995/96, adottato su conforme parere della Banca d'Italia, che aveva escluso la responsabilità del Collegio sindacale, di cui L. faceva parte, con riguardo alle delibere degli affidamenti ai grandi gruppi imprenditoriali.
La difesa ha rilevato che le sanzioni irrogate in via amministrativa al Collegio sindacale avevano riguardo ai fatti di cui al capo a) d'imputazione, per i quali era intervenuta l'assoluzione in esito al giudizio di appello, e non quelli di cui al capo b).
4.3. Con il quarto motivo si deducono violazione di legge e vizi motivazionali in relazione all'individuazione della funzione e del ruolo dei componenti del Collegio sindacale nell'attività ispettiva di controllo dell'azienda bancaria, anche in relazione all'art. 48 c.p..
Si evidenzia, a tale proposito, che la mancata corretta comunicazione di dati al Collegio sindacale, da parte del Direttore generale e dei dirigenti dell'istituto di credito, esclude il dolo in capo ai componenti del Collegio sindacale, che hanno versato in un errore di fatto ingenerato dall'altrui inganno.
Per altro verso, la scelta della politica del credito è da ritenere esclusa dalle materie soggette alla funzione di vigilanza dei Sindaci e non vi sarebbe prova alcuna di un nesso causale fra il presunto mancato controllo e l'ipotetico pericolo di danno.
4.4. Con il quinto motivo si deducono vizi motivazionali laddove la sentenza impugnata avrebbe ignorato le risultanze processuali relative ad interventi ispettivi interni da parte del Collegio sindacale.
4.5. Il sesto motivo denunzia violazione di legge e vizi motivazionali con riguardo:
- al contributo causale nella verificazione dell'evento fallimentare;
- alla mancata prova della cosciente volontarietà del danno per scopi estranei all'impresa;
- alla corretta configurabilità dei reati di bancarotta per distrazione o bancarotta semplice.
Gli argomenti trattati sono in larga misura comuni a quelli, già riportati, dei ricorsi O.M. e M..
4.6. Con il settimo motivo si deduce l'inapplicabilità dell'aggravante del danno di rilevante gravità, in considerazione del mancato accertamento dell'entità del danno, visto che non risulta che la massa creditoria non sia stata soddisfatta e che, a quanto emerge dalla relazione dei liquidatori, sono stati realizzati incassi per un importo superiore a quello dei crediti ammessi al passivo.
Peraltro, l'entità del danno non dovrebbe essere calcolata in relazione al totale degli affidamenti.
Si prospetta, anche in questo caso, l'inapplicabilità dell'art. 219 alle fattispecie di cui all'art. 223.
4.7. Con l'ottavo motivo si eccepisce l'intervenuta prescrizione del reato ove i fatti siano riqualificati ai sensi dell'art. 217 o si provveda all'esclusione dell'aggravante. Si sostiene, inoltre, che la prescrizione dovrebbe decorrere dalla data della liquidazione coatta amministrativa (5.9.97), in quanto, a quell'epoca, Sicilcassa aveva già manifestato tutti i segni della crisi irreversibile che avrebbe portato alla dichiarazione di insolvenza.
4.8. Con il nono motivo si svolgono censure in ordine alla determinazione del trattamento sanzionatorio, in assenza totale di motivazione e con motivazione apparente quanto al diniego delle attenuanti generiche.
Ci si duole, infine, della concessione della provvisionale.
5. Il ricorso proposto nell'interesse di Mo. si articola su cinque motivi.
Il primo, e più articolato, deduce violazione di legge e vizi motivazionali in relazione all'inosservanza dei principi giuridici relativi alla fattispecie del concorso dell'extraneus nel reato proprio ed all'illogicità della motivazione circa la natura distrattiva o dissipativa delle operazioni contestate.
Premesso che Mo. era stato direttore della sede di Catania della CRVE dall'1.11.89 al 26.10.92 e che aveva proposto soltanto 15 delle 123 operazioni di finanziamento a grandi gruppi, oggetto della imputazione, si sottolinea che la possibilità di configurare il reato di bancarotta fraudolenta a carico dell'extraneus presuppone che la condotta realizzata in concorso con l'autore proprio sia stata efficiente per la produzione dell'evento e che il terzo concorrente abbia operato con la consapevolezza e volontà di aiutare l'autore a frustrare gli adempimenti a tutela dei creditori dell'impresa.
Sotto tale profilo, si rileva che le condotte contestate a Mo. risalgono a circa otto anni prima della dichiarazione dello stato di insolvenza e che nessuna norma vigente all'epoca dei fatti impediva la concessione, da parte degli istituti di credito, di finanziamenti ad imprese solo potenzialmente insolventi (anzi, trovandosi un argomento di segno contrario nell'art. 1956 c.c.).
Circa il ruolo della dichiarazione di fallimento nell'ambito del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, il ricorrente sposa la tesi della sentenza n. 47502/12, Corvetta, che qualifica il fallimento ed il dissesto ad esso sotteso come evento del reato e, dunque, le fattispecie di bancarotta come reati causalmente orientati.
In ogni caso, si sostiene, i fatti dovrebbero essere collegati all'agente su piano della colpevolezza (art. 42 c.p.) il che involge un collegamento psicologico fra l'autore ed il fallimento.
Si afferma, nel ricorso, che anche volendo aderire ai principi enunciati nella sentenza n. 3710/14, Geronzi, così come ha fatto la Corte d'Appello, le circostanze di fatto accertate - quindi, il numero limitato di operazioni, fra quelle oggetto dell'imputazione, proposte dal ricorrente, la circostanza che fossero tutte formalmente regolari e soltanto ex post siano state ritenute contrarie alle regole di sana e prudente gestione bancaria, peraltro introdotte dal TUB in epoca successiva ai fatti, ed infine il lungo lasso temporale trascorso fra le operazioni e la dichiarazione di insolvenza - avrebbero dovuto indurre ad escludere il dolo.
La Corte, oltretutto, avrebbe omesso qualunque motivazione in ordine alla consapevolezza, in capo al Mo., del supposto stato di grave crisi in cui versava l'istituto bancario all'epoca in cui propose le operazioni di finanziamento.
Sotto il profilo oggettivo, si afferma che l'offesa provocata dal reato non consiste nel mero impoverimento dell'asse patrimoniale dell'impresa, ma si restringe alla diminuzione della consistenza patrimoniale idonea a danneggiare le aspettative dei creditori; in tale prospettiva l'azione distrattiva che ricada sui rinnovi di affidamenti finalizzati al rientro di esposizioni debitorie non riduce l'oggettiva consistenza del patrimonio dell'impresa e non è idonea ad integrare il reato.
Quanto alla necessaria incidenza causale della condotta dell'extraneus nella causazione dell'evento, la Corte avrebbe erroneamente ritenuto di escludere la necessità di un nesso causale fra i singoli fatti di distrazione ed il successivo fallimento, ravvisandola nella mera circostanza che l'agente abbia cagionato il depauperamento dell'impresa destinandone le risorse ad impieghi improduttivi o anomali o estranei all'attivita.
A questo proposito si stigmatizza il diverso trattamento riservato a Mo. rispetto al coimputato Z., direttore della sede di (OMISSIS), assolto.
5.1. Con il secondo motivo si deducono violazione di legge e vizi motivazionali in ordine alla mancata riqualificazione dei fatti nell'ipotesi di bancarotta semplice. Gli argomenti svolti sono analoghi a quelli sviluppati nei precedenti ricorsi.
5.2. Con il terzo motivo si censura la mancata concessione delle attenuanti generiche e, con il quarto, la mancata applicazione dell'attenuante di cui all'art. 114 c.p..
5.3. Con il quinto motivo si deduce l'erronea applicazione della circostanza aggravante del danno di particolare gravità e si rileva la prescrizione del reato, in termini analoghi a quelli già indicati ai paragrafi precedenti.
5.4. Con il sesto motivo si deduce l'erroneità delle statuizioni civili a carico del ricorrente, posto che fra esso e i legali rappresentanti di Sicilcassa è intervenuta una transazione, in sede di conciliazione sindacale, con chiusura definitiva e reciproca di qualunque pretesa presente e futura relativa all'intercorso rapporto di lavoro.
Con tale accordo le parti hanno inteso rinunciare ad azioni aventi ad oggetto pretese contrattuali ed extracontrattuali, sicchè del tutto illegittima sarebbe la condanna del ricorrente al risarcimento dei danni in favore di Sicilcassa.
6. Le difese O.M., M. e L. hanno presentato motivi nuovi e la difesa Mo. ha chiesto l'assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.
6.1. Nell'interesse di O.M. si è nuovamente affrontato il tema dei recuperi, assumendo, da un lato, la necessità di analizzare ogni singola operazione al fine di accertare la rilevanza causale di ciascuna di esse rispetto ad una diminuzione dell'attivo e, dall'altro, che soltanto la determinazione dei recuperi, effettuati sia prima che dopo la dichiarazione di insolvenza, avrebbe consentito di valutare l'effettiva rischiosità delle operazioni e la loro idoneità ad influire sull'attivo. Si tratta di temi con diretta incidenza anche in ordine alla possibilità di ritenere integrata l'aggravante del danno patrimoniale di rilevante entità, di cui si contesta l'applicabilità sia in fatto che in diritto.
Si ribadisce, altresì, la censura relativa alla genericità della motivazione, che non avrebbe affrontato, con la dovuta specificità, le doglianze dell'appello sui punti partitamente indicati.
6.2. Nell'interesse di M.F. si è dedotta l'intervenuta prescrizione del reato assumendo che la data della consumazione deve essere individuata in quella di adozione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa e ciò in base ad alcune considerazioni:
- il TUB introdotto con D.Lgs. n. 305 del 1993 ha natura di legge speciale e prevale su tutte le altre norme, compresa la legge fallimentare, esso richiama la regola posta dall'allora vigente L. Fall., art. 203 che sanciva espressamente l'applicabilità delle norme penali con effetto dal provvedimento di liquidazione coatta. La nuova disciplina, conseguente all'abrogazione dell'ultimo periodo dell'art.203, non avrebbe alcuna valenza giuridica, perchè entrata in vigore successivamente al TUB.
- la individuazione del "periodo sospetto" ai fini dell'azione revocatoria decorre dal decreto di liquidazione;
- lo stato di insolvenza viene accertato dal decreto di liquidazione;
- L. Fall., art. 196 nel regolare il concorso fra liquidazione coatta e fallimento, adotta il criterio della prevalenza fra i due, con ciò parificandone i poteri e gli effetti. Vengono riproposte ed approfondite le tesi per cui non vi sarebbe continuità giuridica fra CRVE e Sicilcassa e sarebbe, al più, configurabile l'ipotesi di bancarotta semplice e non di bancarotta fraudolenta.
6.3. Nell'interesse di L.A. si è nuovamente affrontata la problematica dei recuperi, della loro mancata determinazione e rilevanza, si è puntualizzato che il ricorrente non è mai stato sanzionato dalla Banca d'Italia in ordine ai fatti per cui è stato condannato in sede penale, si è ribadita l'erroneità dell'operazione di unitaria valutazione delle condotte da parte della Corte d'Appello, senza valutare l'effettiva valenza distrattiva di ciascuna di esse.
Sotto quest'ultimo profilo, si analizzano nel dettaglio le operazioni indicate nell'imputazione contestando, per ciascuna di esse, che siano state commesse le violazioni addebitate dall'accusa.
Vengono, infine, ribadite l'erronea qualificazione dei fatti, essendo, al più, ravvisabile l'ipotesi di bancarotta semplice, e l'erronea applicazione della circostanza aggravante, la cui sussistenza avrebbe dovuto essere verificata in ragione del danno arrecato in concreto dalle singole condotte.
6.4. La difesa di Mo. ha chiesto l'assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite individuando un contrasto giurisprudenziale sul tema della necessità della consapevolezza, da parte dell'extraneus, del concreto rischio di insolvenza dell'impresa al fine di affermarne il dolo di concorrente nel reato proprio.
7. Ha presentato una memoria di replica il difensore della parte civile Sicilcassa s.p.a..
I temi affrontati attengono:
- al concorso dell'extraneus nel delitto di bancarotta, con particolare riguardo all'elemento soggettivo ed alla non necessità della conoscenza dello stato di dissesto dell'impresa;
- alla posizione degli imputati Mo. e L., anche con riferimento alle risultanze in fatto evidenziate dai giudizi di merito a dimostrazione dell'elemento soggettivo del reato e, quanto al componente del collegio sindacale, al mancato esercizio dei poteri di controllo, intervento e censura (per qanto riguarda L. si ribadisce che con decreto del Ministero del Tesoro gli vennero irrogate sanzioni amministrative);
- alla natura della bancarotta come reato di pericolo concreto; alla confutazione della tesi che vede la dichiarazione di fallimento come evento del reato e necessario oggetto del dolo; alla irrilevanza, soprattutto a fronte degli elementi di fatto evidenziati nella sentenza impugnata, della dimensione quantitativa dello iato temporale fra condotta e dissesto;
- alla successione fra CRVE e Sicilcassa, con conseguente esclusione di cesure fra la gestione dell'ente pubblico creditizio ed il nuovo soggetto privato;
- alla determinazione del danno ed all'irrilevanza delle questioni dedotte in merito ai recuperi, al computo degli interessi, al rientro dei fidi ed allo storno in sofferenza;
- all'applicabilità dell'aggravante del danno di rilevante gravità;
- all'impossibilità di individuare quale dies a quo per il computo della prescrizione il decreto di liquidazione coatta amministrativa in luogo della dichiarazione di insolvenza.
7.1. Da ultimo ha depositato brevi note di replica ai ricorsi anche la difesa della parte civile Banca d'Italia.
Si contesta la tesi difensiva volta ad anticipare la data di consumazione del reato e la decorrenza del termine di prescrizione al decreto che dispone la liquidazione coatta amministrativa, confutando, in termini specifici, gli argomenti addotti nella memoria M..
Si affronta il tema della successione fra CRVE e Sicilcassa, sottolineandone la continuità operativa e le dinamiche sottese alla trasformazione degli istituti di credito in società per azioni pubblici ai sensi della L. "Amato".
Si ripercorrono le regole di tecnica bancaria, affermando che il canone di sana e prudente gestione non è stato introdotto ex novo nell'ordinamento dal TUB del 1993 ma risponde ad un insieme di principi ricavabili da norme di rango secondario sulla vigilanza bancaria, già esistenti, e dalle stesse norme del regolamento interno dell'Istituto bancario.
Vengono poi elencate le principali irregolarità riscontrate nelle pratiche di concessione di finanziamento.
Si precisa, infine, la condotta tenuta dalla Banca d'Italia, rappresentando: che gli esiti delle ispezioni furono tutt'altro che favorevoli a CRVE e Sicilcassa, che non è mai stato dimostrato che i principali finanziamenti siano sempre stati autorizzati dalla Banca d'Italia e, comunque, tale circostanza sarebbe del tutto irrilevante, posto che l'eventuale autorizzazione sarebbe avvenuta sulla base di informazioni, trasmesse dalla banca, del tutto inattendibili sullo stato dei crediti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. E' preliminare il tema della successione fra la CRVE e Sicilcassa s.p.a. e stabilire in che misura la dichiarazione di insolvenza di quest'ultima società valga a ritenere penalmente rilevanti, sotto il profilo dei reati fallimentari, le condotte poste in essere durante l'operatività dell'ente pubblico economico.
Come si è detto nella parte espositiva, le difese lo contestano evidenziando: la diversa natura dell'ente pubblico economico, non suscettibile di dichiarazione di insolvenza, rispetto alla società per azioni; il tipo di successione prodotta a seguito dell'entrata in vigore della L. "Amato", qualificata come successione a titolo particolare conseguente a cessione di azienda dalla unanime giurisprudenza di legittimità; la possibilità di ipotizzare eventualmente una continuità soltanto fra l'ente pubblico economico e la Fondazione, detentrice delle quote di maggioranza della società per azioni, con la conseguente impossibilità di fare retroagire gli effetti della dichiarazione di insolvenza di quest'ultima all'ente originario.
1.1. Pare opportuno premettere alcuni brevi cenni sulle modalità attraverso le quali si è verificato il passaggio dagli enti pubblici economici alle società per azioni nel settore bancario.
La L. 30 luglio 1990, n. 218, nota come L. Amato-Carli, ed il successivo D.Lgs. 20 novembre 1990, n. 356 di attuazione, non hanno determinato automaticamente la trasformazione degli enti pubblici in società per azioni ma hanno invece attribuito agli enti pubblici creditizi la facoltà di chiedere alla Banca d'Italia e al Ministro del Tesoro la necessaria autorizzazione.
La L. Amato, art. 1 nell'indicare le diverse modalità di realizzazione della ristrutturazione, parla di "Fusioni, trasformazioni e conferimenti".
Nel caso in cui il fondo di dotazione dell'ente fosse stato conferito da più soggetti pubblici, era possibile attuare una trasformazione del conferimento in partecipazione azionaria, che attribuiva al nuovo soggetto la possibilità di finanziarsi sul mercato mediante gli strumenti di diritto comune delle società per azioni.
Gli enti con struttura di fondazione potevano invece accedere esclusivamente al diverso processo di ristrutturazione consistente nel conferimento dell'azienda.
La trasformazione degli enti creditizi si è potuta realizzare anche attraverso operazioni di fusione, regolate in via speciale dal decreto di attuazione, che potevano altresì portare alla formazione di gruppi creditizi polifunzionali, rispetto ai quali l'ente pubblico conferente si sarebbe posto come holding o capogruppo.
Il D.Lgs. n. 356 del 1990 ha altresì regolato la dismissione del controllo pubblico stabilendo che la maggioranza delle azioni con diritto di voto nell'assemblea ordinaria dovesse appartenere, direttamente o indirettamente, ad enti pubblici. Con L. 30 luglio 1994, n. 474 e con una successiva direttiva del ministro del Tesoro concernente le fondazioni bancarie, tale regola è infine venuta meno, pur prevedendosi che dovesse restare attribuita allo Stato e ad altri enti pubblici la nomina di almeno un amministratore (o di un numero di amministratori non superiore a un quarto dei membri del consiglio) delle società per azioni soggette ad operazioni di dismissione da parte degli enti pubblici medesimi.
1.2. Tale quadro normativo è stato oggetto di interventi chiarificatori ad opera della giurisprudenza di legittimità in sede civile, che ha sancito, sin dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 185 del 27/02/1998 (Rv. 513092 - 01), che "Il conferimento, ai sensi della L. 30 luglio 1990, n. 218 e del successivo D.Lgs. n. 356 del 1990, di un'azienda bancaria in un'altra non ha comportato una successione universale e quindi nè l'estinzione, nè l'incorporazione della conferente, ma il solo trasferimento dell'azienda stessa, così configurando, sotto il profilo processuale, una ipotesi di successione a titolo particolare nel diritto controverso, disciplinata dall'art. 111 c.p.c.".
Si tratta di un principio riaffermato, fra le altre, da Sez. 1, Sentenza n. 17586 del 31/08/2005 (Rv. 582996 - 01), secondo cui il conferimento, ai sensi della L. 30 luglio 1990, n. 218 e del successivo D.Lgs. n. 356 del 1990, di un'azienda bancaria in una s.p.a. non comporta l'estinzione dell'ente conferente (nella specie, una Cassa di risparmio), configurandosi, sotto il profilo processuale, una ipotesi di successione a titolo particolare nel diritto controverso, disciplinata dall'art. 111 c.p.c. (in termini, anche Sez. 1, n. 10653 del 03/05/2010 - Rv. 613303-01 - e Sez. 3, n. 18258 del 26/08/2014 - Rv. 632304 - 01).
Vanno particolarmente menzionate alcune pronunce che, al di là del principio generale affermato, scendono nel dettaglio sugli effetti concreti di esso e sui punti di interesse nella vicenda processuale all'esame di questo Collegio.
La sezione Lavoro con la sentenza n. 6573 del 1998, in tema di procura alle liti, nel rigettare un motivo di ricorso in cui si denunziava la violazione e falsa applicazione degli artt. 2498,1662 c.c. e segg., art. 2697 c.c., anche in relazione alla L. n. 218 del 1990, artt. 1 e 2 e del D.Lgs. n. 365 del 1990, artt. 1, 2, 3, 4, 6, 7, 16 e segg., 24 e segg. sostenendo che, in luogo dell'originario istituto pubblico, si è costituito un gruppo creditizio per cui si è realizzata nella specie una successione a titolo non già universale, ma particolare, non essendo pertanto riconducibili alla società per azioni tutte le situazioni ex lege facenti capo al "vecchio" istituto di credito di diritto pubblico, ha affermato che "in tema di società ogni specie di trasformazione comporta il solo mutamento formale di una organizzazione societaria già esistente, ma non la creazione di un nuovo ente che si distingua dal precedente, con la conseguenza che l'ente trasformato, pure se consegue la personalità giuridica di cui era per l'innanzi sprovvisto, non si estingue per rinascere sotto altra forma, nè da luogo ad un centro di imputazione di rapporti giuridici, ma sopravvive alla vicenda modificativa senza soluzione di continuità e senza perdere la sua identità soggettiva" ed ha ritenuto applicabile tale principio anche alle società bancarie risultanti dalle trasformazioni o da altre operazioni descritte nell'art. 1 (fusioni, conferimenti), che succedono nei diritti, nelle attribuzioni e nelle situazioni giuridiche dei quali gli enti originari erano titolari in forza di leggi o di provvedimenti amministrativi, D.Lgs. n. 356 del 1990, ex art. 16 sostituendosi pertanto agli enti preesistenti.
Ancora la Sezione Lavoro, nella pronuncia n. 2008 del 30/01/2006, Rv. 587039 01, sempre in tema di successione delle società per azioni nelle posizioni giuridiche degli enti pubblici creditizi, ha richiamato del D.Lgs. n. 365 del 1990, art. 16, comma 1 secondo cui "le società bancarie risultanti dall'operazione di cui all'art. 1 succedono nei diritti, nelle attribuzioni e nelle situazioni giuridiche dei quali gli enti originari erano titolari in forza di leggi e di provvedimenti amministrativi", per desumerne che l'ampiezza del dettato normativo è tale da ricomprendere l'esonero dalla contribuzione relativa agli assegni familiari ed ha affermato che "La terminologia adottata mira proprio a garantire, senza residui, il subentro della nuova compagine societaria esattamente nella posizione dell'ente pubblico onde evitare il sorgere di dubbi collegati alla qualificazione dell'oggetto della successione".
Analoghi principi sono ricavabili nelle sentenze che hanno esaminato la portata dell'art. 58 TUB - affermando che "In tema di cessione di azienda in favore di una banca, il D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 58 prevedendo il trasferimento delle passività al cessionario, in forza della sola cessione e del decorso del termine di tre mesi dalla pubblicità notizia di essa (secondo quanto previsto dallo stesso art. 58, comma 2), e non la semplice aggiunta della responsabilità di quest'ultimo a quella del cedente, deroga alla norma di cui all'art. 2560 c.c., sulla quale prevale in virtù del principio di specialità. Ne consegue che, in caso di cessione di azienda bancaria, alla cessionaria si trasferisce anche l'obbligazione sanzionatoria ricompresa tra i debiti della banca cedente, inclusi nella cessione stessa, e già sorta per effetto dell'illecito compiuto dai soggetti ad essa appartenenti". (Sez. 2, Sentenza n. 22199 del 29/10/2010, Rv. 614833 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 18258 del 26/08/2014, Rv. 632303 - 01)).
In particolare, si è affermato come conseguenza del principio sopra enunciato che, in caso di cessione di azienda bancaria, alla cessionaria si trasferisce anche l'obbligazione sanzionatoria solidale già sorta per effetto dell'illecito compiuto dai soggetti ad essa appartenenti. (Sez. 2 -, Sentenza n. 2523 del 31/01/2017, Rv. 642492 - 01).
1.3. La giurisprudenza richiamata mina la granitica certezza espressa dalle difese in merito alla impossibilità di configurare una responsabilità del board di Sicilcassa in ordine alle condotte illecite realizzate, dallo stesso gruppo di imputati, durante la gestione di CRVE, in applicazione del principio per cui la successione fra i due enti è qualificabile come successione a titolo particolare sorta da una cessione di azienda. E, al di là di quanto correttamente esposto nelle sentenze di merito, se ne trova la puntuale conferma proprio nella pronuncia della Corte di Cassazione che ha definito la vicenda relativa all'azione di responsabilità promossa contro gli amministratori di Sicilcassa anche per le condotte tenute nella gestione CRVE.
Si tratta della sentenza della Prima Sezione civile n. 13765 del 12/06/2007 (Rv. 601318 - 01), la quale ha affermato il principio secondo cui "Il conferimento, ai sensi del D.Lgs. n. 356 del 1990, artt. 1 e 16 di un'azienda bancaria (nella specie una Cassa di Risparmio) in una società per azioni determina la successione a titolo particolare della totalità dei crediti dell'azienda trasferita da parte della società conferitaria senza esclusione di quelli derivanti dal diritto al risarcimento dei danni provocato al patrimonio aziendale dalla "mala gestio" degli organi amministrativi e di controllo dell'ente conferente, in quanto componenti della "universitas" aziendale".
Nell'accurata motivazione, pur aderendo all'indirizzo giurisprudenziale sopra ricordato, per cui, sul piano processuale, il conferimento di una azienda bancaria ai sensi della L. n. 218 del 1990 e del D.Lgs. n. 356 del 1990 comporta un fenomeno di successione a titolo particolare nel diritto controverso e pur negando che il D.Lgs. n. 356 del 1990, all'art. 16, comma 1 equipari totalmente, quanto agli effetti successori, il conferimento di azienda ad una trasformazione dell'ente conferente nel conferitario, si sostiene "che tale impostazione non esclude che la titolarità dei diritti di credito per risarcimento dei danni spettanti all'ente conferente per atti di mala gestio dei propri amministratori o dirigenti, agevolati dall'omesso controllo dei sindaci, si trasferisca unitamente all'azienda in capo alla società conferitaria, senza bisogno di postulare alcuna deroga della normativa speciale ai principi generali vigenti nella materia. Si è in presenza di una successione a titolo particolare, comprensiva della totalità degli elementi che compongono l'universitas aziendale" ...."L'applicazione di questo principio ad un caso come quello in esame, in cui la cessione dell'azienda, piuttosto che esser disciplinata da un atto di volontà negoziale di privati, trova il suo fondamento in un meccanismo normativo retto dalle disposizioni di legge dianzi richiamate, ed in cui è dichiarata la volontà del legislatore di provocare l'integrale subentro di un nuovo soggetto nella titolarità dell'azienda bancaria che prima costituiva l'oggetto precipuo dell'attività dell'ente conferente, non può che condurre ad una conclusione: che tutti i crediti inerenti all'azienda ceduta - ossia quelli che trovano causa in atti o in comportamenti aventi ad oggetto singoli beni o il patrimonio aziendale nel suo insieme - sono destinati a transitare in capo alla società conferitaria dell'azienda. Se ne trae conferma, per quanto occorra, anche dal citato art. 16, che con riguardo alle situazioni giuridiche derivanti dalla legge o da provvedimenti amministrativi mira a garantire, senza residui, il subentro della nuova compagine societaria esattamente nella posizione dell'ente pubblico, per evitare il sorgere di dubbi collegati alla qualificazione dell'oggetto della successione (in questi termini Cass., 30 gennaio 2006, n. 2008), così appunto ribadendo la volontà del legislatore di realizzare una sostituzione integrale della società conferitaria in tutto quanto si riferisce all'azienda bancaria ad essa trasferita. Nulla quindi consente di dubitare che, tra i crediti inerenti all'azienda bancaria, siano compresi anche quelli per il risarcimento dei danni provocati al patrimonio dell'azienda medesima dai componenti degli organi amministrativi e di controllo, i quali abbiano violato i doveri loro imposti dalla carica, al pari di qualsiasi analogo credito risarcitorio che la società possa vantare verso terzi o verso chiunque altro." Risulta quindi superata l'impostazione difensiva secondo cui il tipo di successione fra CRVE e Sicilcassa escluderebbe, a priori, la ricaduta di responsabilità per le condotte illecite.
1.4. Ad analoghe conclusioni si perviene analizzando il problema sotto un profilo più strettamente penalistico.
In proposito, vanno ricordate due recenti pronunce di questa Sezione che hanno affrontato il tema della fusione fra società e, più in generale, della successione fra soggetti giuridici e dei risvolti in ambito fallimentare penale.
La prima è la sentenza Sez. 5, n. 6904 del 04/11/2016, Rv. 269106, che ha affermato il seguente principio di diritto: "In tema di reati fallimentari, nell'ipotesi di fusione di società per incorporazione, l'amministratore della società incorporante risponde dei fatti di bancarotta della società incorporata, in quanto detta fusione è frutto della scelta degli organi societari delle società partecipanti, tenuti a valutare il complesso dell'operazione anche sotto l'aspetto del rischio derivante dalle condizioni finanziarie negative della società incorporata e la possibilità della società incorporante di farvi fronte per evitare la verificazione dello stato di dissesto".
In motivazione, la Corte ha svolto considerazioni assolutamente valide anche nel caso che ci occupa, sostenendo che "non si configura, in tal caso, una sorta di fenomeno successorio in malam partem, atteso che, al contrario, proprio l'interpretazione difensiva finirebbe per introdurre nell'ordinamento una forma anomala, sicuramente non prevista, di estinzione di fattispecie penali, con conseguente azzeramento della tutela dei creditori societari. Che il fenomeno successorio, poi, non si traduca affatto in una interpretazione in malam partem risulta evidente dalla considerazione che il fenomeno della fusione tra società non comporta nessun automatismo sotto il profilo dell'accertamento dei reati fallimentari, dovendosi, tuttavia, considerare che la fusione rappresenta una scelta degli organi societari che, ovviamente, sono tenuti a valutare il complesso dell'operazione anche sotto l'aspetto della consapevole accettazione del rischio, eventualmente derivante dalle condizioni finanziarie negative della società incorporata, e le corrispondenti capacità della incorporante di farvi fronte e di poter risolverle, evitando la verificazione di un irreversibile stato di dissesto".
Due sono i principi che vale la pena di sottolineare:
- attribuire effetti impeditivi della responsabilità penale a soluzioni di continuità formali nella successione fra soggetti comporterebbe l'introduzione di una anomala forma di estinzione delle fattispecie penali, che priverebbe di tutela i creditori sociali;
- la valutazione della responsabilità penale deve seguire le consuete regole di attribuibilità delle condotte, senza essere condizionata dai fenomeni successori eventualmente verificatisi.
Analoga esigenza di una tutela sostanziale dei creditori, emerge anche dalla sentenza Sez. 5 del 6.10.17 n.4400 (dep.2018), Cragnotti e altri; si doveva decidere della rilevanza penale dei fatti commessi nella gestione di società incorporate mai dichiarate fallite; a fronte della tesi dei ricorrenti, secondo cui le operazioni di fusione per incorporazione avrebbero determinato la cessazione della società incorporata, che avrebbe potuto essere dichiarata fallita entro un anno dalla cessazione ai sensi della L. Fall., art. 10 (tesi richiamata anche nel nostro processo), sicchè, per i fatti commessi nella gestione delle incorporate prima delle fusione non ricorrerebbe la condizione obiettiva di punibilità (dichiarazione di insolvenza) per i reati contestati, si è affermato che deve essere verificato se l'operazione di fusione abbia natura reale e non meramente fittizia valorizzando- ed è un punto nodale ai nostri fini - l'elemento della continuità fra le società coinvolte, che non appare incompatibile con la riferibilità della dichiarazione di insolvenza anche sulla società incorporata.
Se talune condotte, che realizzano un distacco di beni dal patrimonio societario per finalità estranee a quelle imprenditoriali, rappresentano un pericolo concreto per gli interessi dei creditori, è proprio il trasferimento del patrimonio nel suo complesso, che rende rilevanti, anche per il nuovo soggetto subentrato nelle posizioni giuridiche, attive e passive, del precedente, gli effetti della condotta distrattiva realizzata prima del subentro, perchè continua ad esporre a pericolo le ragioni dei creditori del nuovo soggetto.
Opportunamente, quindi, i giudici di merito hanno fatto riferimento, per rigettare le obiezioni formulate dalle difese, al D.Lgs. n. 365 del 1990, art. 16, comma 1 che ha garantito il subentro della nuova compagine societaria esattamente nella posizione dell'ente pubblico, marcando una linea senza soluzione di continuità fra il prima e il dopo la successione.
La dichiarazione di insolvenza del soggetto conferitario, Sicilcassa, determina, perciò, la rilevanza penale, in termini di bancarotta, delle condotte che si assume essere state distrattive o dissipatrici da parte dei soggetti che hanno governato l'istituto di credito, pur se poste in essere in epoca antecedente il conferimento.
In quest'ambito, e per quanto già si è detto con riguardo all'assenza di automatismi ed alla necessità di applicare le consuete regole sulla responsabilità penale, ha avuto fondamentale importanza, del resto ben evidenziata nelle sentenze di merito, il permanere dei medesimi soggetti nelle posizioni apicali.
Costoro, come si è visto, sono stati ritenuti i naturali destinatari dell'azione di responsabilità e sono eventualmente individuabili quali autori del reato di bancarotta.
1.5. Non ha miglior sorte la tesi difensiva secondo cui una netta separazione fra la gestione CRVE e la gestione Sicilcassa, tale da determinare l'irrilevanza delle condotte tenute nell'ambito della prima gestione, sarebbe costituita dalla relazione di stima redatta dai periti F., S. e Sa. - aggiornata al 26.12.91 - in occasione del conferimento a Sicilcassa del patrimonio netto di CRVE.
Secondo i difensori, questa relazione di stima certificherebbe l'assenza, a quella data, di operazioni irregolari o dissipatrici in quanto, diversamente, il Ministero del Tesoro, la Banca d'Italia e la Regione Sicilia non avrebbero mai consentito alla trasformazione di CRVE in Sicilcassa.
Si tratta di un argomento smentito dalla Corte d'Appello alle pagine 44 e seguenti della motivazione, là dove si rileva che i periti avevano effettuato l'analisi dei crediti segnalando, già all'epoca, che la quota di crediti anomali ammontava a 947 miliardi di lire (a fronte di un patrimonio netto di poco più di 760 miliardi di lire), pari al 15,37% dei crediti verso la clientela e, per il credito fondiario, i crediti anomali ammontavano a 542 miliardi di lire, pari al 25,20% del totale.
1.6. Sono quindi infondati il primo motivo dei ricorsi O.M. e M., il secondo motivo del ricorso M. e dei motivi nuovi, il primo motivo preliminare del ricorso L..
2. Un altro motivo di ricorso comune a quasi tutte le difese censura i termini nei quali è stata ritenuta la responsabilità degli imputati per il reato di bancarotta, attraverso la contestazione di 123 operazioni singolarmente individuate che, tuttavia, non sono state esaminate specificamente, al fine di provare che ciascuna di esse era stata condotta con modalità illegittime ed aveva avuto l'effetto di ridurre il patrimonio a garanzia dei creditori.
Va detto che il Tribunale, dopo avere riconosciuto che alcune delle 123 operazioni di finanziamento enunciate nell'imputazione non si sono rivelate distrattive ex se, le ha ritenute comunque rilevanti, ai fini dell'integrazione del reato di bancarotta fraudolenta, nella misura in cui hanno contribuito al fenomeno della concessione di credito ai grandi gruppi, fenomeno che, per l'entità dei finanziamenti, le modalità della loro erogazione e successiva gestione, ha determinato la dissipazione delle risorse aziendali, ed ha profuso un enorme impegno motivazionale perchè, da pagina 105 a pagina 363, ha analizzato nei dettagli le singole operazioni contestate. La Corte d'Appello dopo avere premesso che la parcellizzazione delle varie operazioni, risultante dagli atti di appello, tende a far perdere di vista l'omogeneità strutturale e giuridica della condotta contestata al capo b), ha ritenuto che le plurime operazioni contestate nell'imputazione abbiano inciso, inscindibilmente l'una dall'altra, rispetto allo stesso bene giuridico, costituito dall'integrità del patrimonio aziendale bancario e dalla sua fisiologica destinazione alla salvaguardia degli interessi dei creditori, ed al pericolo di depauperarlo.
In quest'ottica è l'insieme delle operazioni, indipendentemente dalla circostanza che abbiano comportato perdite immediate per l'Istituto, che consente di comprendere, anche sotto il profilo del dolo, le dinamiche e le motivazioni di altre decisioni da cui sono scaturite, invece, perdite ingenti.
Le 123 operazioni sono state, quindi, valutate unitariamente al fine di verificare la complessiva natura distrattiva o dissipatrice della condotta degli amministratori e degli altri imputati.
Si tratta di una operazione logica pienamente legittima, posto che nella bancarotta distrattiva non è richiesto un nesso eziologico fra il singolo atto dispositivo e il venir meno della consistenza patrimoniale.
La decisione non è in contrasto con i principi affermati nella sentenza Sez. U, n. 21039 del 27/01/2011, Rv. 249665, Loy, che, in motivazione ha rilevato "E' il caso delle condotte di distrazione, occultamento, dissimulazione, distruzione o dissipazione di cui al comma primo n. 1, le quali, se hanno ad oggetto lo stesso bene, sono, per così dire, in rapporto di "alternatività formale", di "alternatività di modi", nel senso cioè che le diverse condotte descritte dalla legge sono estrinsecazione di un unico fatto fondamentale e integrano un solo reato, anche se vengono poste in essere, in immediata successione cronologica, due o più di tali condotte, che, essendo omogenee tra loro, ledono lo stesso bene giuridico (integrità del patrimonio del debitore insolvente): in tal caso, l'atto conforme al tipo legale resta assorbito dalla realizzazione, in contiguità temporale, di altro atto di per sè stesso tipico".
La rilevanza pratica del problema posto è comunque minima, visto che il Tribunale ha esaminato tutte le operazioni ed ha concluso, nella stragrande maggioranza dei casi, per la loro natura distrattiva.
L'eventuale mutamento dell'imputazione da bancarotta fraudolenta per distrazione a bancarotta fraudolenta per dissipazione non muterebbe i termini della questione, visto che la giurisprudenza ha ripetutamente escluso che in questo caso si configuri una violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p. (Sez. 5, n. 37920 del 05/07/2010 Rv. 248505).
L'osservazione svolta dai difensori, secondo cui i giudici di merito avrebbero avvallato, nella sostanza, l'accusa di bancarotta per dissipazione, serve alle difese per introdurre l'argomento della sussistenza, invece, della meno grave ipotesi di cui alla L. Fall., art. 217, comma 1, n. 2, tesi che, come si vedrà, è radicalmente infondata.
3. Un altro argomento comune sviluppato nei ricorsi è rappresentato dalla impossibilità di configurare come attività distrattiva o dissipatrice l'attività normale di un istituto di credito che, funzionalmente, eroga finanziamenti rispetto ai quali deve subire l'alea del mancato rientro.
Basterà qui osservare, per poi riprendere il tema più avanti nella valutazione dell'elemento soggettivo del reato, che non possono essere ritenuti penalmente irrilevanti comportamenti che si pongono in contrasto con le finalità del corretto esercizio del credito e che vi è una profonda differenza fra il rischio fisiologico d'impresa, che qualifica i contratti in genere ed alcuni in particolare, in relazione alla struttura ed al paradigma normativo, rispetto al rischio riconducibile alla patologia del rapporto, poichè eccede i limiti previsti e si situa entro parametri anomali di carattere oggettivo (si vedano sul punto le attente considerazioni svolte in un caso analogo a quello per cui si procede in Sez. 5, n. 15850 del 26/06/1990).
4. Molte delle censure svolte attengono alla struttura del reato di bancarotta fraudolenta ed alle ricadute che, l'adesione alle diverse tesi sul punto, determina ai fini del riconoscimento della responsabilità dei ricorrenti.
Senza alcun intento didattico ma allo scopo di chiarire il quadro normativo e giurisprudenziale a cui questa Corte intende fare riferimento, va detto che:
- nel reato di bancarotta, l'evento storico naturalistico va ravvisato nella diminuzione patrimoniale eziologicamente connessa alla condotta, l'evento normativo è rappresentato dalla lesione degli interessi della massa dei creditoria;
- la destinazione di beni dell'impresa al di fuori dei fini della stessa, con l'implicita preventiva accettazione del risultato negativo di tale condotta nei confronti della massa dei creditori, costituisce distrazione;
- la distrazione è il compimento di qualsiasi atto di disposizione patrimoniale, affetto da anomalie genetiche o funzionali, dal quale deriva una diminuzione patrimoniale oggettivamente certa e prevedibile; in tale definizione sono distinguibili, da un lato, la condotta materiale, vale a dire il compimento dell'atto negoziale e, dall'altro, l'effetto di tale condotta, cioè la diminuzione patrimoniale.
Si tratta di principi autorevolmente ribaditi, da ultimo, da Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016 Passarelli, e già fissati, in casi del tutto analoghi a quello per cui si procede, da Sez. 5, n. 15850 del 26/06/1990, Bordoni, già citata e da Sez. 5, n. 8327 del 22/04/1998, Bagnasco, Rv. 21136601.
La giurisprudenza di questa Corte si è da tempo orientata nell'affermare che nel reato di bancarotta fraudolenta "i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilevanza penale in qualunque tempo essi siano stati commessi, e quindi anche se la condotta si è realizzata quando ancora l'impresa non versava in condizioni di insolvenza. Tutte le ipotesi alternative previste dalla norma si realizzano mediante condotte che determinano una diminuzione del patrimonio, diminuzione pregiudizievole per i creditori: per nessuna di queste ipotesi la legge richiede un nesso causale o psichico tra la condotta dell'autore e il dissesto dell'impresa, sicchè nè la previsione dell'insolvenza come effetto necessario, possibile o probabile, dell'atto dispositivo, nè la percezione della sua preesistenza nel momento del compimento dell'atto, possono essere condizioni essenziali ai fini dell'antigiuridicità penale della condotta. E del resto, quando il legislatore ha ritenuto necessaria l'esistenza di un tal nesso lo ha previsto espressamente nell'ambito della L. Fall., all'art. 223, distinguendo le condotte previste dall'art. 216 (L. Fall., art. 223, comma 1) da quelle specificamente volte a cagionare il dissesto economico della società (L. Fall., art. 223, comma 2), per modo che solo in tali ultime fattispecie delittuose è previsto un nesso causale o psichico tra condotta ed evento" (Cass., Sez. 5, n. 39546 del 15/07/2008, Bonaldo).
E' stato altresì affermato che "il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è reato di pericolo, ed è pertanto irrilevante che al momento della consumazione l'agente non avesse consapevolezza dello stato d'insolvenza dell'impresa per non essersi lo stesso ancora manifestato" (Cass., Sez. 5, n. 44933 del 26/09/2011, Pisani, Rv 251214).
Il precedente evocato dalle difese, secondo cui "nel reato di bancarotta fraudolenta per distrazione lo stato di insolvenza che da luogo al fallimento costituisce elemento essenziale del reato, in qualità di evento dello stesso e pertanto deve porsi in rapporto causale con la condotta dell'agente e deve essere, altresì, sorretto dall'elemento soggettivo del dolo" (Cass., Sez. 5, n. 47502 del 24/09/2012, Corvetta, Rv 253493) è rimasto isolato ed è stato superato da tutte le pronunce successive (Sez. 5, n. 232 del 09/10/2012 Rv. 254061; Sez. 5, n. 7545 del 25/10/2012, Lanciotti, Rv 254634; Sez. 5, n. 27993 del 12/02/2013, Di Grandi; Sez. 5, n. 16579 del 24/03/2010, Fiume, Rv 246879; Sez. 5 n. 38325 del 03/10/2013, Rv. 260378; Sez. 5, n. 11739 del 05/12/2013 dep. 11/03/2014 Rv. 260199; Sez. 5, n. 11095 del 13/02/2014 Rv. 262741; Sez. 5, n. 32352 del 07/03/2014 Rv. 261942; Sez. 5, n.26542 del 19/03/2014 Rv. 260690).
Si deve, perciò, ribadire che la condotta sanzionata dalla L. Fall., art. 216 - e, per le società, dall'art. 223, comma 1 - non è quella di avere cagionato lo stato di insolvenza o di avere provocato il fallimento, bensì quella di depauperamento dell'impresa, consistente nell'averne destinato le risorse ad impieghi estranei all'attività dell'impresa medesima.
La fattispecie è disegnata come reato di pericolo e, più propriamente, reato di pericolo concreto; l'imprenditore deve considerarsi sempre tenuto ad evitare l'assunzione di condotte tali da esporre a possibile pregiudizio le ragioni dei creditori, non nel senso di doversi astenere da comportamenti che abbiano in sè margini di potenziale perdita economica, ma da quelli che comportino diminuzione patrimoniale senza trovare giustificazione nella fisiologica gestione dell'impresa (Sez. 5, n. 38325del 03/10/2013, Rv. 260378; e per un'ampia disamina del problema Sez. 5, n. 38396 del 23/06/2017 Sgaramella e altro, Rv. 27076301).
4.1. Orbene, i giudici di merito hanno ritenuto che la distrazione dei beni della banca sia stata realizzata attraverso la concessione reiterata ed indiscriminata di credito, per somme ingiustificate ed ingentissime, a vari importanti gruppi imprenditoriali siciliani, in violazione delle regole di sana e prudente gestione bancaria, con correlativa dissipazione delle risorse patrimoniali e finanziarie della banca, che la portava al dissesto.
I destinatari di tali finanziamenti erano titolari di imprese non affidabili, avevano presentato piani aziendali improbabili ed erano gravati da posizioni già incagliate o in sofferenza che non potevano essere in grado di ripianare fisiologicamente, attraverso le normali dinamiche banca/cliente; gli ingenti importi delle rispettive esposizioni debitorie si incrementavano, così, in una spirale perversa senza plausibili aspettative di rientro.
I fatti così come accertati rientrano quindi perfettamente nel paradigma normativo, per come è stato precisato dalla giurisprudenza ampiamente e correttamente richiamata nella sentenza impugnata, senza che in alcun modo valgano a scalfire tale ricostruzione le censure mosse dai ricorrenti, anche in relazione alla problematica dei recuperi.
4.2. Una larga parte dei motivi di ricorso è stata dedicata alle contestazioni circa gli esiti dell'istruttoria dibattimentale e, in particolare, della perizia svolta in sede di incidente probatorio e della successiva audizione, ai sensi dell'art. 507 c.p.p. del teste P..
Si è detto che la perizia e la deposizione testimoniale non hanno chiarito in che misura le operazioni di finanziamento ritenute distrattive o dissipatorie abbiano, in realtà, cagionato un danno, tenuto conto del fatto che in alcuni casi non vi era stata l'erogazione del finanziamento, in altri vi era stato un rientro, in altri ancora il finanziamento era assistito da garanzie reali che avevano determinato il soddisfacimento del credito.
Premesso che l'impostazione a cui si è aderito, che vede il reato di bancarotta fraudolenta come reato di pericolo, ancorchè concreto, e non di danno, comporta una scarsa rilevanza del problema dei recuperi ed evidenziato, altresì, che dalle motivazioni dei giudici di merito emerge un fenomeno distrattivo/dissipativo delle risorse della banca di tale ampiezza da indurre a ritenere assolutamente marginale l'argomento dei recuperi (si vedano sul punto i dati riportati a pagina 93 della sentenza impugnata), va detto che il tema è stato trattato esaustivamente nella sentenza impugnata con argomenti appropriati e non scalfiti dalle contrarie deduzioni dei ricorrenti.
Si è infatti osservato, da parte dei giudici di appello:
- che le garanzie che la banca richiede ai clienti affidati non devono mai servire per integrare una valutazione del merito creditizio insufficiente per mancanza di redditi, ma servono solo, quando ormai si è sconfinato nella patologia, a facilitare il recupero del credito, allorchè il medesimo sia andato in contenzioso a causa del mancato rimborso;
- le garanzie sui cespiti presentati dai gruppi affidati non erano congrue, vuoi perchè i medesimi cespiti garantivano più posizioni, vuoi perchè la stima si era rivelata inadeguata.
Ma soprattutto è stato evidenziato che non ha alcuna valenza giuridica esimente, nell'ambito di una fattispecie quale la bancarotta dissipativa, la circostanza che i crediti, a moltissimi anni dalla loro erogazione e fuori dai termini di fisiologico adempimento, siano in tutto o in parte rientrati.
In tema di bancarotta "riparata", si è affermato che si configura, determinando l'insussistenza dell'elemento materiale del reato, quando la sottrazione dei beni venga annullata da un'attività di segno contrario, che reintegri il patrimonio dell'impresa prima della soglia cronologica costituita dalla dichiarazione di fallimento, così annullando il pregiudizio per i creditori o anche solo la potenzialità di un danno. Sussistono, pertanto, gli estremi della bancarotta per distrazione, e non quelli della bancarotta "riparata", qualora l'attività restitutoria o riparatoria sia posta in essere in epoca successiva alla dichiarazione di fallimento per iniziativa del curatore(Sez. 5, n. 17384 del 16/03/2005Rv. 231853;Sez. 5, n. 39635 del 23/09/ 2010 Rv 248658; Sez. 5, n. 8402 del 03/02/2011 Rv. 249721; Sez. 5, n. 52077 del 04/11/2014 Rv. 261347; Sez. 5, n. 17084 del 09/12/2014, Rv. 263243; Sez. 5,n. 4790 del 20/10/2015, Rv. 266025).
Tale affermazione trova il suo logico presupposto nel fatto che nella bancarotta fraudolenta patrimoniale "l'elemento oggettivo è costituito dal distacco - con qualsiasi forma e con qualsiasi modalità esso avvenga - del bene dal patrimonio dell'imprenditore, con conseguente possibilità di depauperazione patrimoniale nei confronti dei creditori. Anche il recupero o la possibilità di recupero del bene è ininfluente sulla sussistenza del detto elemento materiale, in quanto la fattispecie si perfeziona al momento del distacco del bene dal patrimonio, anche se il reato viene ad esistenza giuridica con la dichiarazione di fallimento, mentre il recupero della "res" rappresenta solo un "posterius", equiparabile alla restituzione della refurtiva dopo la consumazione del furto" (Sez. 5, n. 4739 del 23/03/1999 Rv. 213120).
Le sentenze di merito hanno dato conto, con motivazione ampia, esaustiva ed in termini perfettamente logici, che l'attività recuperatoria è stata modesta, è stata attuata in epoca successiva alla dichiarazione di insolvenza e, soprattutto, che il mancato conseguimento di risultati più elevati nella riscossione dei crediti è stato determinato dagli illeciti commessi dagli imputati, che avevano concesso finanziamenti irregolari a soggetti privi di capacità di rientro (si vedano sul punto le pagine 167 e seguenti).
Infine, la circostanza che, negli anni, qualcosa sia stato recuperato dai debitori è assolutamente ininfluente al fine di modificare la valutazione circa la possibilità di percepire ex ante la natura distrattiva o dissipativa delle operazioni di finanziamento, in quanto i giudici di merito hanno illustrato, con dovizia di argomenti ed in relazione a ciascuna operazione, le ragioni per cui dette operazioni erano ampiamente irregolari e tale irregolarità era manifesta sin dal loro sorgere. Il rilievo secondo cui gran parte delle esposizioni registrate a carico dei grandi gruppi sia dipeso non già dall'ammontare dei finanziamenti ma dalle modalità di calcolo degli interessi, appare del tutto ininfluente, considerando che, come ampiamente rilevato dai giudici di merito, la banca utilizzava, di norma, il conto corrente con scopertura liberamente utilizzabile per importi di grande valore in luogo di strumenti più appropriati quali i fidi a medio o lungo termine; in tal modo i crediti chirografari si sono ampliati a dismisura così come l'ammontare degli interessi passivi.
La condotta ed il risultato che ne è conseguito non possono certamente essere esclusi dall'addebito di bancarotta.
4.3. Le osservazioni svolte consentono di ritenere infondate le questioni poste dalla difesa O.M. nei punti preliminari.
Il primo punto è del tutto generico, in quanto non è specificato in che misura gli atti a cui la difesa non avrebbe avuto accesso, peraltro mai indicati, abbiano avuto una incidenza dirimente sulla decisione e, in ogni caso, vale quanto si è detto in ordine alla tematica dei recuperi.
La censura rispetto alla mancata audizione di testi è infondata, attesa la completezza dell'istruttoria dibattimentale e dei risultati che ne sono conseguiti, così come evidenziato nei precedenti paragrafi, laddove si sono esaminati la problematica delle singole operazioni rispetto al complessivo contesto dell'imputazione ed il tema dei recuperi.
Per gli stessi motivi è irrilevante la richiesta di acquisizione del libro di G.D., la cui valenza probatoria è nulla, e sono infondate le censure relative alla deposizione P., che, diversamente da quanto sostenuto dal difensore, è stata perfettamente esaustiva nell'ottica di giudizio del Tribunale e della Corte d'Appello.
La completezza e l'esaustività del quadro di prova sono ben sottolineati alle pagine 122 e 123 della sentenza impugnata.
Sono parimenti infondati, in virtù delle osservazioni sopra svolte, il secondo ed il terzo motivo del ricorso O.M., il terzo motivo del ricorso M., il secondo motivo preliminare del ricorso L., gran parte delle doglianze contenute nei motivi nuovi proposti nell'interesse di L., O.M. e M..
4.4. Il quarto motivo del ricorso M. affronta il tema della incidenza causale della crisi della imprenditoria siciliana, che avrebbe alterato l'equilibrio nei rapporti di debito con le banche, in termini analoghi a quelli ripresi anche in altri ricorsi. Si tratta di una censura in fatto che, oltretutto, non si confronta con la puntuale osservazione svolta dalla Corte d'Appello a pagina 106, secondo cui gli organi di vigilanza bancaria si determinarono a concedere l'autorizzazione alla trasformazione da CRVE a Sicilcassa proprio per salvaguardare, con il contributo della Regione siciliana e di soci privati, il patrimonio della banca dissestata.
Ciò significa che la crisi dell'imprenditoria siciliana era stata ben tenuta presente nell'evoluzione dell'istituto ma che, tuttavia, non aveva potuto arginare le perdite determinata dalla dissennata gestione dei finanziamenti in favore dei grandi gruppi.
4.5. Va infine considerato, e tale argomento vale a rigettare tutte le censure volte ad una ricostruzione dei fatti in termini diversi, denunziando vizi motivazionali o travisamento della prova, che ci troviamo dinnanzi ad una conforme decisione di condanna in primo e secondo grado, sicchè "il vizio di travisamento della prova, desumibile dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo purchè specificamente indicati dal ricorrente, è ravvisabile ed efficace solo se l'errore accertato sia idoneo a disarticolare l'intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio, fermi restando il limite del "devolutum" in caso di cosiddetta "doppia conforme" e l'intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio" (Sez. 6, Sentenza n. 5146 del 16/01/2014 Rv. 258774; Sez. 5, n. 18975 del 13/02/2017 Rv. 26990601).
5. I ricorrenti si sono lungamente soffermati nelle critiche relative alle responsabilità soggettive, con particolare riguardo, quanto a O.M. e M., alla loro posizione di componenti del consiglio di amministrazione privi di deleghe, quanto a L., di componente del collegio sindacale e, quanto a Mo., di extraneus.
Si è poi contestata la presenza di indici di allarme che potessero in qualche modo indurre negli imputati la consapevolezza delle irregolarità nella gestione dei finanziamenti e, in quest'ambito, si sono esaminati gli interventi della Banca d'Italia e di altri organi tecnici che ebbero modo di analizzare lo stato dell'istituto. Va detto che il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è reato di pericolo a dolo generico, per la cui sussistenza non è necessario che l'agente abbia consapevolezza dello stato di insolvenza dell'impresa nè che abbia agito allo scopo di recare pregiudizio ai creditori (Sez. 5 n.3229/13 del 14.12.12 Rv. 253932; Sez.5 n.21846 del 13.2.14 Rv.260407; Sez.5 n.44933 del 26.9.11, Rv.251214).
Il dolo generico si atteggia nella consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa rispetto alle finalità dell'impresa e di compiere atti che possano cagionare o cagionino danno ai creditori e questo anche nel caso in cui l'agente, pur non perseguendo direttamente il risultato, tuttavia lo preveda e, ciò nonostante, agisca, consentendo, in tal modo, il suo realizzarsi, così integrando il dolo eventuale (fra le tante Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016 Rv. 266805; Sez. 5, n. 52077 del 04/11/2014 Rv. 261348; Sez. 5 n.12897 del 6.10.99 Rv. 214863 sul tema specifico del dolo eventuale) e presuppone la rappresentazione, da parte dell'agente, del rischio di lesione degli interessi creditori tutelati dalla norma incriminatrice (Sez.5 n.15613/15 del 5.12.14, Geronzi).
L'elemento soggettivo del reato non si atteggia diversamente ove si tratti di bancarotta societaria: "L'elemento soggettivo del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale impropria, di cui alla L. Fall., art. 216 e art. 223, comma 1, non comprende la previsione ed accettazione del fallimento, ma solo la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa rispetto alla finalità dell'impresa e di compiere atti che cagionino, o possano cagionare, danno ai creditori" (Sez. 5, n.35093 del 04/06/2014 Rv. 261446).
In questa prospettiva deve essere risolta la problematica, affrontata da tutte le difese, relativa al trascorrere di un rilevante lasso temporale fra il compimento delle condotte e la dichiarazione di insolvenza.
Pur ritenendo che il dolo generico nel delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione implichi la consapevolezza e volontà di determinare, con il proprio comportamento distrattivo o dissipativo, un pericolo di danno per i creditori, si deve considerare che vi sono fattispecie concrete che danno conto, in termini di immediata evidenza dimostrativa, della "fraudolenza" della condotta non soltanto con riferimento all'elemento materiale ma anche con riguardo al dolo, in ragione di vari fattori, quali il collocarsi del singolo fatto in una sequenza di condotte di spoliazione dell'impresa (Sez. 5, n. 38396 del 23/06/2017 Rv. 270763 in motivazione).
5.1. Ciò premesso, va sviluppato l'argomento del come tali principi si coniughino con la peculiare attività di un istituto di credito.
Va, in primo luogo, ribadito quanto più sopra osservato circa la profonda differenza che corre fra il rischio fisiologico, che qualifica i contratti in genere e, in particolare, alcuni - e i contratti di finanziamento presso banche fra questi - in ragione del paradigma normativo, e quello patologico che eccede i limiti previsti in presenza di elementi anomali di natura oggettiva.
Questi elementi anomali di natura oggettiva che comportano il superamento del rischio fisiologico vanno ricercati nelle anomalie genetiche nella concessione del credito o, meglio ancora, nell'iter del procedimento decisionale.
L'erogazione di finanziamenti irregolari comporta, da un punto di vista soggettivo, l'assunzione del rischio della diminuzione patrimoniale subita dalla banca.
Se la sussistenza del reato è legata all'eventualità che il rimborso del finanziamento non avvenga, ciò significa che il soggetto agisce anche a costo che il rimborso non avvenga e quindi ne accetta il rischio; in questi termini è configurabile il dolo eventuale, vale a dire la consapevolezza che gli atti posti in essere ledano o possano ledere l'interesse patrimoniale dei creditori e, quindi, nella volontà proiettata direttamente o indirettamente a tale scopo, cui la dichiarazione di insolvenza conferisce rilevanza penale (sentenza Bordoni già citata).
La distrazione fallimentare è certamente configurabile anche a titolo di dolo eventuale nell'ipotesi in cui si realizzi mediante l'erogazione di finanziamenti concessi dagli amministratori della banca in violazione delle regole di sana e prudente gestione bancaria, concetto sui cui si ritornerà più oltre; in questo caso, infatti, gli amministratori agiscono accettando il rischio della perdita patrimoniale e della conseguente lesione dei diritti dei creditori.
Nel concreto, gli estremi del dolo debbono essere individuati nella consapevolezza, da parte degli amministratori, della prassi invalsa e delle anomalie nella gestione dei finanziamenti.
Tale consapevolezza è tanto più intensa quanto più è duratura nel tempo l'anomala gestione dei finanziamenti e, sotto questo profilo, i giudici di merito hanno sottolineato che gli amministratori condannati avevano ricoperto tale carica per un decennio.
A rigore, non si potrebbe evocare, nel caso di specie, la problematica della responsabilità degli amministratori inerti, perchè è vero che O.M. e M. non erano amministratori delegati ma semplici componenti del consiglio di amministrazione, tuttavia le delibere di finanziamento ai grandi gruppi erano approvate da tutto il consiglio di amministrazione (vedi pagina 76 sentenza appello), sicchè costoro non debbono rispondere di un omesso controllo sull'operato degli amministratori delegati ma di una propria condotta che, attraverso l'assenso all'erogazione di finanziamenti irregolari, ha determinato la diminuzione patrimoniale subita dalla banca.
Va, comunque, osservato che il prolungato sistema distrattivo/dissipativo tratteggiato dai giudici di merito non avrebbe potuto realizzarsi, se non altro in ragione dei numeri e della durata, se non vi fosse stata la piena adesione degli organi operativi nella loro interezza.
I componenti del consiglio di amministrazione sono responsabili degli atti di gestione, anche quando rientrino nelle attribuzioni proprie del comitato esecutivo o dell'amministratore delegato, in virtù dell'art. 2392 c.c., vigente all'epoca dei fatti, che impone a tutti i componenti di vigilare sul generale andamento della gestione e di fare ciò che è in loro potere per impedire il compimento o attenuare le conseguenze di atti pregiudizievoli dei quali vengano a conoscenza.
5.2. Sul punto, le difese hanno sostenuto che le complesse istruttorie che precedevano le delibere di finanziamento fornivano ai componenti del consiglio di amministrazione dei dati che essi non potevano approfondire più di tanto, forse addirittura ingannatori, sicchè i ricorrenti non potevano avere la consapevolezza delle presunte irregolarità nella gestione del credito.
La Corte d'Appello, in piena adesione a quanto già rilevato dal Tribunale, ha smentito l'assunto difensivo, in buona parte ripreso nei ricorsi, in primo luogo facendo riferimento agli esiti delle tre ispezioni della Banca d'Italia, che sono stati interpretati in modo difforme rispetto alle tesi difensive.
Gli esiti delle tre ispezioni (la prima degli anni 1985/86; la seconda degli anni 1991/92; la terza degli anni 1995/96) sono dettagliatamente analizzati alle pagine 99 e seguenti della sentenza impugnata.
Poichè la terza ispezione è avvenuta a ridosso della liquidazione coatta e della dichiarazione di insolvenza, è evidente che sono i risultati delle prime due ispezioni ad essere rilevanti quali "segnali d'allarme" che gli amministratori non potevano avere ignorato.
I difensori sostengono che queste prime due ispezioni non avevano segnalato irregolarità nella gestione del credito; al contrario, la Corte d'Appello ha evidenziato che la relazione finale della prima ispezione si era lungamente soffermata su tutte le patologie riscontrate nella erogazione del credito, sotto forma di pessima attività istruttoria, deterioranti anomalie nella gestione del credito, subordinazione agli interessi dei gruppi affidatari piuttosto che attenzione ai recuperi, scarsa o nulla conoscenza effettiva della solidità e della capacità di rientro degli affidati.
Si era stigmatizzata, in quella sede, la ritenuta equivalenza fra garanzie patrimoniali e capacità di rientro ed, altresì, la scelta di finanziare iniziative economiche fumose e futuribili, mai attuate e sovvenzionate con ingenti scoperture di conto corrente e scoperture temporanee (produttive di interessi smisurati) che fungevano da vere e proprie linee di credito non garantito permanenti.
Nella seconda relazione si segnalava la crescita continua di incagli e sofferenze, la prassi di concedere fondi in istruttorie di affidamento condotte pessimamente, sulla base di dati patrimoniali del richiedente incompleti e non aggiornati, le perdite fisiche di bilancio, le percentuali minime di disincaglio dei crediti, la crescita delle sofferenze e lo scollamento contabile fra gli ammontare di partite anomale e di partite a sofferenza rispetto ai casi segnalati.
La terza relazione dava conto delle ingenti perdite che, di lì a poco, avrebbero condotto alla liquidazione coatta ed alla dichiarazione di insolvenza.
Va detto che circa l'interpretazione data alle relazioni della Banca d'Italia, in esito alle tre ispezioni, le due sentenze di merito sono concordi, sono motivate in termini logici ed aderenti ai dati riportati (si veda anche l'ampia esposizione ed i dati numerici evidenziati alle pagine 46 seguenti della sentenza impugnata), sicchè è inammissibile il tentativo delle difese di introdurre, in sede di legittimità, una diversa interpretazione fondata su un preteso travisamento della prova.
In particolare, i giudici di merito hanno evidenziato come, dalle prime due relazioni della Banca d'Italia si potesse ricavare che all'origine della crisi di liquidità dell'istituto vi era un dissennato sistema di gestione del credito, che favoriva i grandi gruppi imprenditoriali locali impegnati in attività edilizie, appalti pubblici e attività speculative, gravati da cospicue previsioni di perdita con correlata incapacità di recupero delle posizioni anomale.
Parimenti si segnalava che la concessione del credito avveniva prevalentemente in base alla consistenza patrimoniale dei soggetti da affidare piuttosto che alla loro capacità reddituale, con riferimento, peraltro, a valori commerciali e non di realizzo del patrimonio, in assenza o quasi di indagini riguardo alla situazione finanziaria ed alle prospettive reddituali degli affidati (pag. 54).
5.3. Si è già detto, al precedente punto 1.5., che alla perizia effettuata in occasione della trasformazione da CRVE a Sicilcassa non può essere riconosciuto il valore di certificazione di una bontà gestionale e solidità economica dell'istituto, in primo luogo perchè era una perizia di stima patrimoniale e non aveva esaminato nel dettaglio il problema del credito ed inoltre perchè aveva comunque evidenziato una difficile situazione dell'istituto di credito, tanto da avere determinato l'aumento del coefficiente di solvibilità al 10% in luogo di quello ordinario dell'8%.
Il tema è stato ampiamente trattato alle pagine 105 e seguenti della sentenza impugnata e nulla dei rilievi svolti dalle difese si confronta utilmente con gli argomenti sviluppati.
5.4. Ugualmente, i ricorrenti non possono allegare l'affidamento, da parte loro, alle valutazioni di altri soggetti professionalmente incaricati di certificare lo stato di solidità dell'azienda.
La Corte d'Appello ha, infatti, evidenziato che le certificazioni della società di revisione Deloitte & Touche si fondavano su dati forniti dagli uffici interni della banca, senza approfondire il merito della gestione, delle scelte e delle politiche creditizie della banca, sicchè rimaneva del tutto estranea alla loro valutazione la gestione del credito.
I giudici di merito hanno, tuttavia, sottolineato come anche da questo parzialissimo angolo di visuale, i revisori avessero evidenziato delle problematiche negli affidamenti a grandi gruppi (pagina 114).
Si può, quindi, definitivamente concludere che i segnali di allarme contenuti nelle relazioni ispettive della Banca d'Italia non siano stati neutralizzati nè dalla perizia di stima fatta all'epoca della trasformazione nè dalle certificazioni delle società di revisione.
Infondata e irrilevante l'affermazione, peraltro indimostrata, secondo cui tutte le delibere di finanziamento indicate nell'imputazione siano state autorizzate dalla Banca d'Italia, poichè tali autorizzazioni, se esistenti, si fondavano sui dati trasmessi dall'Istituto bancario e la valutazione degli elementi assunti alla base di concessione di fidi era demandata alla esclusiva responsabilità delle aziende di credito.
6. Quanto finora osservato sull'esistenza di segnali d'allarme, risalenti alla prima ispezione della Banca d'Italia e quindi al 1985/86 e divenuti sempre più marcati negli anni successivi, circa la scorretta gestione del sistema di finanziamento ai grandi gruppi imprenditoriali e lo stato di sofferenza dell'azienda, consente di superare la problematica afferente l'individuazione della c.d. "zona di rischio penale", cioè il parametro spazio-temporale entro il quale l'apprezzamento di uno stato di crisi, conosciuto all'agente, è destinato ad orientare la lettura di ogni sua iniziativa di distacco dei beni.
Il concetto di "zona di rischio penale" (di cui vi è traccia in Sez. 5, n. 16579 del 24/03/2010 Fiume e altro, Rv. 246879) non vale a superare il principio, recentemente ribadito dalle Sezioni Unite con la sentenza Passarelli prima citata, secondo cui i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilevanza penale in qualsiasi momento siano stati commessi e quindi anche se la condotta si è realizzata quando ancora l'impresa non versava in condizioni di insolvenza; in tale prospettiva, quindi, la nozione di "zona di rischio penale" può valere ad escludere la rilevanza penale della condotta soltanto quando l'azione addebitata non sia, per le sue caratteristiche intrinseche, idonea a determinare l'esposizione a pericolo del patrimonio e non sia collocabile in un contesto di condotte che abbiano determinato il dissesto.
Nella ricostruzione operata dai giudici di merito, tutte le concessioni di credito descritte nel capo b) d'imputazione, succedutesi nell'arco di un decennio, sono connotate da una sistematica violazione delle regole che presiedono alla corretta gestione del credito e tutte hanno prodotto un negativo impatto sul patrimonio dell'azienda, sicchè le tesi proposte dai ricorrenti sono infondate anche sotto l'angolo visuale di una recente giurisprudenza citata nei ricorsi (Sez. 5, n. 17819 del 24/03/2017 Palitta, Rv. 269562).
Una volta accertato che le relazioni ispettive della Banca d'Italia costituiscono "segnali d'allarme", cioè dati da cui desumere un evento pregiudizievole per l'impresa o almeno il rischio del suo verificarsi (in questi termini Sez. 5, Sentenza n. 23000 del 05/10/2012, dep. 28/05/2013, Rv. 256939), una volta provato che gli amministratori, ancorchè privi di delega, ne erano a conoscenza ed abbiano volontariamente omesso di attivarsi per scongiurarlo (circostanza che nessuna delle difese ha messo in dubbio), nessun ostacolo si pone all'affermazione di penale responsabilità (vedi anche Sez. 5, n. 32352 del 07/03/2014 Tanzi e altri, Rv. 261938).
7. Le difese hanno anche fortemente contestato i parametri in base ai quali i giudici di merito hanno ritenuto che le operazioni di finanziamento fossero irregolari, affermando che il criterio della sana e prudente gestione bancaria fu introdotto soltanto con il TUB del 1993 e non era ancora entrato in vigore nell'epoca in cui vennero deliberate la maggior parte delle operazioni contestate.
A quell'epoca, si sostiene, vigeva il diverso criterio della vigilanza bancaria, per cui le operazioni dovevano ritenersi regolari ove non esplicitamente censurate dagli organi di vigilanza.
L'assunto è infondato e la sentenza impugnata lo ha detto in chiari termini, rispetto ai quali i motivi di ricorso non fanno altro che ripetere gli argomenti del gravame, senza confrontarsi con la motivazione d'appello.
In particolare, si è sostenuto che l'approdo al TUB del 1993, con la delineazione del quadro regolativo della gestione prudenziale di un istituto di credito, era stato preceduto da una lettura costituzionalmente orientata, rispetto al dettato dell'art. 47 Cost., dei precetti della L. bancaria del 1936 e, in ogni caso, la materia della prevenzione del rischio del credito era disciplinata da norme di rango secondario in materia di organizzazione e controlli interni nelle banche.
Le istruzioni di vigilanza per gli organi creditizi, citati a pagina 117 della sentenza impugnata, contenevano e contengono tuttora, nelle versioni aggiornate, prescrizioni sulle dichiarazioni che i richiedenti un fido devono rilasciare sulle proprie condizioni economiche e patrimoniali e sulla conseguente attenzione che gli enti creditizi debbono riservare alle pratiche di affidamento sia nel corso dell'istruttoria preliminare, che deve essere esauriente, sia in costanza di svolgimento del rapporto, al fine di monitorare costantemente il rischio di credito, attraverso informazioni aggiornate.
La Corte ha sostenuto che dal complesso delle istruzioni di vigilanza si poteva trarre fin da allora l'esigenza del rispetto della regola, ancorchè non codificata, della sana e prudente gestione bancaria, consistente nella scrupolosa ed attenta acquisizione di ogni documento conoscitivo atto ad agevolare l'esame del merito creditizio della clientela.
Si è, infine, fatto rinvio alla elencazione, redatta dai periti, di tutte le norme in materia bancaria, sia primarie che secondarie, formalmente vigenti all'epoca di consumazione delle condotte e che erano state sistematicamente violate nell'adozione delle delibere di finanziamento, anche a prescindere dal TUB.
Va ricordato, inoltre, che lo stesso regolamento interno di Sicilcassa prevedeva una serie di regole, nella valutazione e deliberazione dei fidi, sistematicamente disattese (vedi pagina 129).
Gli argomenti sviluppati sul punto dalle difese sono, quindi, infondati, in quanto i giudici di merito hanno ben chiarito quali fossero le fonti che imponevano agli amministratori di un istituto bancario regole di prudenza nella gestione del credito ancora prima dell'entrata in vigore del TUB.
D'altro canto, va osservato che l'argomento non è dirimente, in quanto non ci troviamo di fronte ad un addebito colposo per cui è indispensabile individuare la regola prudenziale violata, ma ad un atteggiamento doloso dell'agente, volto a dare al patrimonio sociale una destinazione diversa rispetto alle finalità dell'impresa ed a compiere atti che possano cagionare o cagionino danno ai creditori.
Nel nostro caso, la sistematica violazione delle norme primarie e secondarie, oltre che delle regole interne all'istituto, non fonda l'elemento soggettivo ma rappresenta un'ulteriore prova del dolo, sicchè non hanno alcuna rilevanza le questioni svolte nei ricorsi in ordine alla possibilità o meno di pronunciare una sentenza di condanna per fatti commessi in violazione di norme regolamentari.
Evidentemente suggestivo e parimenti infondato, in questa prospettiva, è l'argomento svolto dai ricorrenti secondo cui la contestazione dell'avere violato regole di sana e prudente gestione bancaria sarebbe idonea, per sua stessa natura, a fondare soltanto un addebito di colpa.
I finanziamenti anomali costituiscono un'attività di per sè pregiudizievole degli interessi dei creditori ed il nucleo dell'accusa non è costituito dall'avere violato regole di prudenza ma di avere deliberato tali finanziamenti nonostante la consapevolezza della complessiva situazione finanziaria dei soggetti nei confronti dei quali si erogava credito.
7.1. A questo proposito, e per sgombrare il campo dalle prospettazioni difensive secondo cui sarebbe configurabile il reato di bancarotta semplice, va chiarito che "La fattispecie di bancarotta fraudolenta per dissipazione si distingue da quella di bancarotta semplice per consumazione del patrimonio in operazioni aleatorie o imprudenti, sotto il profilo oggettivo, per l'incoerenza, nella prospettiva delle esigenze dell'impresa, delle operazioni poste in essere e, sotto il profilo soggettivo, per la consapevolezza dell'autore della condotta di diminuire il patrimonio della stessa per scopi del tutto estranei alla medesima" (Sez. 5, n. 47040 del 19/10/2011 Rv. 251218; Sez. 5, n. 5317 del 17/09/2014Rv. 262225; Sez. 5, n. 34836 del 30/0 5/2017 Rv. 270784).
Se l'agente pone in essere operazioni imprudenti rilevanti ai sensi della L. Fall., art. 217, agisce in modo imprudente ma sempre nell'interesse dell'impresa; nelle operazioni distrattive, invece, l'azione è dolosa ed è caratterizzata dalla consapevolezza e volontà di porre in essere atti incompatibili con la salvaguardia del patrimonio aziendale e in contrasto con gli interessi dei creditori alla conservazione delle garanzia patrimoniali.
Valgono ad escludere qualunque possibilità di una diversa qualificazione giuridica, le puntuali osservazioni, in fatto, formulate dalla Corte d'Appello alle pagine 129-130 e 131 circa l'ampiezza del fenomeno, assolutamente incompatibile con un atteggiamento soltanto incauto.
7.2. Per le considerazioni svolte, sono, quindi, infondati il quarto motivo del ricorso O.M., il quinto motivo del ricorso M., il terzo dei motivi nuovi presentati dalla difesa M..
8. Tematiche particolari sono affrontate nel ricorso presentato nell'interesse di Mo. che, in qualità di direttore della sede di Catania di Sicilcassa, concorre nel reato di bancarotta fraudolenta come extraneus.
Nel dettaglio e a quanto si legge a pagina 172 della sentenza impugnata, Mo. è stato direttore della sede di Catania dal 1989 al 1992, direttore della sede di Palermo sino al 1994 e titolare del servizio crediti, nonchè direttore centrale dal 1994 al 1996; tanto per saggiare la consistenza della sua posizione all'interno della banca.
Al fine di configurare la responsabilità dell'extraneus per concorso nel reato proprio - e, nel caso che ci occupa, del funzionario di una banca nel delitto di bancarotta fraudolenta commesso dagli amministratori- sono sufficienti: l'incidenza causale dell'azione dell'extraneus, la sua consapevolezza del fatto illecito e della qualifica del soggetto attivo che ha posto in essere il fatto tipico.
Molte delle osservazioni contenute nel ricorso, volte a sminuire il ruolo di Mo. nel mare magnum delle operazioni ritenute distrattive, non considerano che il nesso di causa e l'elemento soggettivo relativi all'extraneus non debbono essere valutati in rapporto al fatto distrattivo in sè ma bensì in rapporto alla condotta dell'agente proprio con cui l'extraneus concorre.
E', quindi, fuorviante l'accenno al numero limitato di operazioni di finanziamento curato da Mo., in quanto non si tratta di verificare in che misura esse abbiano contribuito al depauperamento della impresa, quanto piuttosto se la condotta di costui abbia concorso con quella distrattiva posta in essere dagli amministratori.
8.1. La conoscenza dello stato di dissesto dell'impresa da parte dell'extraneus che concorra nel compimento di operazioni distrattive non è necessaria al fine di integrare il dolo del delitto di bancarotta.
In tal senso è orientata la prevalente giurisprudenza di legittimità. Tra le pronunce più recenti Sez. 5, n. 54291 del 17/05/2017 Rv. 271837: "In tema di concorso in bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, il dolo dell'"extraneus" è configurabile ogniqualvolta egli apporta un contributo causale volontario al depauperamento del patrimonio sociale, non essendo richiesta la consapevolezza dello stato di dissesto della società"; Sez. 5, n. 12414 del 26/01/2016 Rv. 267059: "In tema di concorso nel delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione, il dolo del concorrente "extraneus" nel reato proprio dell'amministratore consiste nella volontarietà della propria condotta di apporto a quella dell'"intraneus", con la consapevolezza che essa determina un depauperamento del patrimonio sociale ai danni dei creditori, non essendo, invece, richiesta la specifica conoscenza del dissesto della società"; e precedenti conformi: N. 10941 del 1996 Rv. 206542, N. 9299 del 2009 Rv. 243162, N. 16579 del 2010 Rv. 246879, N. 1706 del 2014 Rv. 258950, N. 51715 del 2014 Rv. 261739, N. 12414 del 2016 Rv. 267059, N. 38731 del 2017 Rv. 271123.
Si tratta di affermazioni che trovano un loro fondamento logico nel fatto che gli atti distrattivi assumono rilevanza anche se non vi sia stata, nell'agente, la rappresentazione del fallimento, in quanto, come si è detto, l'evento del reato non è costituito dal fallimento ma dalla lesione dell'interesse patrimoniale dei creditori.
In tale contesto, la conoscenza dello stato di dissesto può costituire un elemento sintomatico della consapevolezza del terzo di arrecare danno ai creditori, ma ciò non significa che tale consapevolezza non possa essere ricavata da altri fattori, quali l'entità delle operazioni economiche e la loro negativa incidenza sul patrimonio dell'impresa (Sez. 5, n. 16579 del 24/03/2010 Rv. 246879).
L'orientamento giurisprudenziale di segno diverso a cui si fa cenno nella memoria della difesa Mo., volta ad ottenere l'assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite perchè decidano sulla questione di diritto che si ritiene essere controversa, è minoritario e risalente nel tempo (Sez. 5, n. 27367 del 26/04/2011 Rv. 250409; Sez. 5, n. 41333 del 27/10/2006 Rv. 235766).
La citazione della sentenza Sez. 5 n. 16000 del 10.2.12, Daccò, non è neppure del tutto in termini perchè, in quel caso, si parlava del concorso di un soggetto del tutto estraneo all'impresa.
Non è, quindi, ravvisabile un contrasto di giurisprudenza attuale che determini la necessità di investire della questione le Sezioni Unite.
8.2. Ciò premesso, va detto che la Corte d'Appello non si è sottratta all'obbligo motivazionale illustrando alle pagine 179 e seguenti il livello di consapevolezza di Mo. in ordine agli scopi che si intendevano conseguire con la concessione dei finanziamenti ai grandi gruppi.
Si è, così, sottolineato che Mo. era stato nominato direttore della sede di Catania all'indomani della prima ispezione della Banca d'Italia che aveva determinato la rimozione del precedente direttore, in quanto responsabile di gravi anomalie gestionali sempre nel campo dell'erogazione del credito a quei grandi gruppi catanesi ai quali il nuovo direttore aveva continuato ad erogare credito, pur consapevole degli esiti di quella ispezione e delle irregolarità accertate.
Nè si può ritenere che il ricorrente vada esente da responsabilità essendosi limitato a proporre operazioni che altri -il consiglio di amministrazione - attuava, in quanto proprio in ciò si sostanzia l'apporto causale del concorrente.
In ogni caso, a pagina 182, la Corte d'Appello enumera una serie di operazioni illegittime poste in essere direttamente dal Mo. e, di seguito, riassume le cifre ed i termini delle operazioni distrattive realizzate su imput del ricorrente.
Al di là del fatto che, come si è detto, la valutazione dell'efficienza causale della condotta dell'extraneus non va compiuta in relazione al dissesto ma con riguardo alla condotta dell'agente proprio, sicchè anche una sola azione del Mo. potrebbe determinarne la responsabilità penale in presenza dei presupposti per un concorso punibile con la condotta degli amministratori, va rilevato che il ruolo da costui svolto negli anni (compiutamente analizzato anche alle pagine 396 ss. della sentenza di primo grado) ed il livello di conoscenza delle condizioni dell'istituto rendono del tutto infondate le censure contenute nel ricorso.
9. Considerazioni in parte analoghe debbono essere svolte con riferimento alla posizione del sindaco L..
I principi giurisprudenziali a cui fare riferimento sono stati affermati, anche di recente ed in linea con un orientamento risalente nel tempo, da Sez. 5 n. 18985 del 14/01/2016 Rv. 267009: "I componenti del collegio sindacale concorrono nel delitto di bancarotta commesso dall'amministratore della società anche per omesso esercizio dei poteri-doveri di controllo loro attribuiti dagli artt. 2403 c.c. e ss., che non si esauriscono nella mera verifica contabile della documentazione messa a disposizione dagli amministratori ma, pur non investendo in forma diretta le scelte imprenditoriali, si estendono al contenuto della gestione sociale, a tutela non solo dell'interesse dei soci ma anche di quello concorrente dei creditori sociali"; e da Sez. 5, n. 14045 del 22/03/2016 Rv. 266646: "Nei reati di bancarotta il concorso dei componenti del collegio sindacale nei reati commessi dall'amministratore della società può realizzarsi anche attraverso un comportamento omissivo del controllo sindacale che non si esaurisce in una mera verifica formale o in un riscontro contabile della documentazione messa a disposizione dagli amministratori, ma comprende il riscontro tra la realtà e la sua rappresentazione". Precedenti conformi: Sez. 5, n. 10186 del 04/11/2009 - dep. 12/03/2010, Rv. 246911; Sez. 5, n. 31163 del 01/07/2011, Rv. 250555; N. 15850 del 1990, N. 8327 del 1998 Rv. 211368, N. 17393 del 2006 Rv. 236630, N. 31163 del 2011 Rv. 250555.
E' vero che la vigilanza e il controllo del Collegio sindacale non devono sconfinare nel merito e nella politica aziendale; debbono, tuttavia, essere considerate le norme del codice civile (artt. 2403 e 2407) che disciplinano i doveri dei Sindaci, nel senso che essi debbono controllare l'amministratore, vigilare sull'osservanza della legge, accertare la regolare tenuta della contabilità, intervenire quando ravvisino la violazione della legge penale e, quindi, anche per impedire distrazioni.
La vigilanza per impedire la commissione di reati è concetto ben diverso dalla ingerenza in scelte di politica aziendale e, in questo senso, è infondata la tesi del ricorrente volta a ridimensionarne il ruolo.
Ciò detto in linea generale, il ruolo del componente del Collegio Sindacale in una banca è ben illustrato nella sentenza Sez. 5, n. 8327 del 22/04/1998 Rv. 211368, la cui motivazione, nella parte che interessa, è riportata alle pagine 150 e 151 della sentenza impugnata.
Analogamente a quanto già affermato nella sentenza Sez. 5 del 26.6.90, Bordoni, relativa al fallimento della banca Sindona (già citata), la Corte enuncia i limiti e i caratteri del controllo devoluto ai Sindaci richiamando la giurisprudenza civile formatasi sull'art. 2043 c.c. e, in particolare, il potere e dovere dei Sindaci di chiedere agli amministratori notizie su determinate operazioni quando queste possano suscitare perplessità, per le modalità della loro scelta o della loro esecuzione.
In quest'ambito, non può essere contestato che ai Sindaci faccia capo l'obbligo di impedire che gli amministratori compiano atti contrari alla legge ed agli interessi della società e dei soci.
Sul punto specifico degli obblighi di vigilanza facenti capo al Collegio Sindacale di un istituto bancario, la Corte ha osservato che, "se questo è il quadro di riferimento generale dell'estensione dell'obbligo di vigilanza dei sindaci per tutte le società, esso assume peculiari connotazioni che ne esaltano l'ampiezza, allorquando la società è preposta, come nel caso in esame, alla gestione di una banca, in quanto alla normativa generale, predisposta dal codice civile, si aggiunge quella bancaria, sensibile alle peculiari caratteristiche delle funzioni che essa deve assolvere ed agli interessi generali che deve perseguire.
Già si è affermato, in relazione ai compiti degli amministratori, che la normativa bancaria, attraverso la predisposizione di tutta un'attività di capillare vigilanza, limita la discrezionalità amministrativa. E, d'altronde, la gestione di una banca non sarebbe neppure concettualmente immaginabile se dissociata dall'obbligo del rispetto di una particolare prudenza: operazioni che in una comune società finanziaria sarebbero definite brillanti escogitazioni di chi è pronto ad accollarsi un alto coefficiente di rischio nella prospettiva di ottenere ottimali risultati, e quindi rilevanti profitti, assumono i connotati negativi dell'imprudenza se riferiti ad una banca, la cui funzione impone la conservazione costante della possibilità concreta di far fronte agli impegni assunti, e quindi della non dispersione delle proprie risorse finanziarie. Ne consegue che alla specificità delle funzioni amministrative di una banca non può che corrispondere un'analoga specificità del controllo sindacale che con la prima si armonizzi, come un'attenta dottrina ha già avuto modo di porre in evidenza nell'illustrare il quadro normativo di riferimento dell'attività sindacale quando questa deve svolgersi sull'amministrazione di una banca. E di tale realtà si è reso interprete il nuovo testo unico in materia bancaria e creditizia, stabilendo con quali specifiche modalità si deve attuare un costante raccordo funzionale tra il controllo interno dei sindaci e quello esterno della Banca d'Italia, prevedendo addirittura specifiche sanzioni penali per la mancata osservanza delle modalità con le quali tale raccordo funzionale deve attuarsi, perchè ogni irregolarità sia tempestivamente segnalata alla Banca d'Italia.
In questa specifica materia non è, come pur da taluno si è affermato, che varia il grado di diligenza che si richiede al collegio sindacale di una banca rispetto a quello che in generale è riconducibile nell'ambito della previsione dell'art. 1176 c.c., comma 2 ma vero è invece che lo stesso ordinamento pur senza modificare la disciplina generale, ha aggiunto obblighi e responsabilità specifiche che sono indissociabili dalla speciale disciplina di tale delicato settore dell'economia che, più di ogni altro, è sensibile alla connotazione pubblica degli interessi in gioco: ed è per questo che nelle banche la specificità e la profondità del controllo sindacale è strettamente connessa alla presenza della normativa altrettanto specifica sulla vigilanza esterna della Banca d'Italia: l'oggetto del controllo e le modalità del suo esercizio ne risultano ampliate, proprio perchè l'uno e le altre debbono adeguarsi alle disposizioni delle autorità creditizie, e sovrintende sempre alla regolare gestione della banca, con la conseguenza che il controllo dev'essere penetrante e capillare, perchè soltanto in tal modo può essere efficace per prevenire ogni evento che esponga a rischio l'attività dell'azienda e le legittime aspettative dei soci e dei creditori".
9.1. Indipendentemente dal fatto che L. sia stato o meno sanzionato proprio in relazione alle illegittime operazioni di finanziamento dei grandi gruppi enunciate nell'imputazione di cui al capo b), risulta comunque che egli è stato raggiunto da sanzioni amministrative, irrevocabili, per gravi carenze nell'azione di controllo (pag.152 sentenza Corte d'Appello).
E', quindi, infondato, il terzo motivo di ricorso.
9.2. L'infondatezza del quarto motivo di ricorso discende dalle osservazioni sopra svolte e dalla constatazione che il ricorrente non indica in termini precisi quali sarebbero state le condotte decettive che avrebbero tratto in inganno il L. circa la reale situazione dei finanziamenti ai grandi gruppi.
Gli argomenti già affrontati in tema di elemento soggettivo del reato e circa la esistenza di "segnali di allarme" sulla corretta gestione del credito, implicano necessariamente il rigetto della tesi della inconsapevolezza, da parte del L., per un decennio componente del Collegio Sindacale, delle operazioni illecite commesse dagli amministratori.
Il quinto motivo di ricorso è generico.
Il sesto motivo è infondato, alla luce delle considerazioni svolte ai paragrafi 3, 4 e 5.
10. Tutti i ricorrenti hanno censurato la ritenuta sussistenza dell'aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità, sotto un duplice profilo: da un lato, in quanto la L. Fall., art. 219, comma 1 non sarebbe applicabile alle fattispecie di bancarotta impropria di cui all'art. 223, in assenza di un espresso richiamo a tale norma e, dall'altro, in quanto difetterebbero le condizioni per definire "di rilevante gravità" il danno causato alla procedura.
10.1. La giurisprudenza di legittimità è unanime nel ritenere che la circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità di cui alla L. Fall., art. 219, comma 1 sia applicabile, con interpretazione estensiva, anche ai fatti di bancarotta impropria, considerato il rinvio operato dalla medesima norma a tutti i reati di bancarotta propria ed il richiamo dell'art. 223, comma 1 alle pene stabilite nell'art. 216.
Si è, infatti, osservato che l'art. 223, comma 1, prevedendo che agli amministratori di società dichiarate fallite, i quali abbiano commesso alcuno dei fatti previsti dalla L. Fall., art. 216, si applicano le pene ivi stabilite, rinvia in ordine alla determinazione della pena per i reati commessi ai sensi dell'art. 223, comma 1, alle pene previste dalla L. Fall., art. 216 per la bancarotta propria, pene che si determinano tenendo conto non solo dei minimi e dei massimi edittali contemplati dalla L. Fall., art. 216, ma anche delle attenuanti e aggravanti speciali previste per tali reati, con la conseguenza che il rinvio in ordine alla determinazione della pena deve ritenersi integrale e basato sul presupposto della identità oggettiva delle condotte (Sez. 5, n. 127 del 08/11/2011, dep. 09/01/2012, Rv. 252664). In senso conforme: Sez. 5, n. 38978 del 16/07/2013 Rv. 257762; Sez. 5, n. 2903 del 22/03/2013, dep. 22/01/2014 Rv. 258446; Sez. 5, n. 18695 del 21/01/2013 Rv. 255839; Sez. 5, n. 44933 del 26/09/2011 Rv. 251215; Sez. 5, n. 30932 del 22/06/2010 Rv. 247970; Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010 Rv. 247320.
Si tratta di una linea argomentativa che si fonda su una interpretazione estensiva, non già analogica - che sarebbe vietata in questo campo- e che evita, evidentemente, una ingiustificata disparità di trattamento fra l'imprenditore individuale fallito e l'amministratore di una società fallita.
Il ritenere che si tratti di una interpretazione estensiva, e non analogica, supera le obiezioni dei ricorrenti fondate sulla sentenza S.U. 21039/2011, Loy.
Il precedente citato dai ricorrenti, Sez. 5, n. 8829 del 18/12/2009 Ud, dep. 05/03/2010 Rv. 246155, non porta, in realtà, a differenti conclusioni e non si discosta dalla linea interpretativa già riportata.
10.2. Per quanto riguarda la sussistenza dei presupposti, in fatto, di operatività dell'aggravante, si è affermato che "In tema di reati fallimentari, l'entità del danno provocato dai fatti configuranti bancarotta patrimoniale va commisurata al valore complessivo dei beni che sono stati sottratti all'esecuzione concorsuale, piuttosto che al pregiudizio sofferto da ciascun partecipante al piano di riparto dell'attivo, ed indipendentemente dalla relazione con l'importo globale del passivo " (Sez. 5, Sentenza n. 49642 del 02/10/2009 Rv. 245822).
Più recentemente, il tema è stato ripreso da Sez. 5, n. 48203 del 10/07/2017 Rv. 271274, nella cui motivazione sono indicate con estrema chiarezza le premesse della decisione: "L'orientamento oggi prevalente è nel senso che, mentre la bancarotta fraudolenta patrimoniale è reato di pericolo e non richiede - nell'azione del fallito - la dimostrazione di un danno reale ai creditori, essendo integrata anche soltanto con la mera messa in pericolo degli interessi creditori, senza necessità di un pregiudizio, questo - ove sussistente in termini di rilevante gravità - può integrare l'aggravante in esame (Sez. 5, n. 11633 del 08/02/2012 - dep. 26/03/2012, Lombardi Stronati, Rv. 252307). In questa prospettiva, si è affermato che, ai fini dell'applicazione, della L. Fall., art. 219, "la valutazione del danno va effettuata con riferimento non all'entità del passivo o alla differenza tra attivo e passivo, bensì alla diminuzione patrimoniale cagionata direttamente ai creditori dal fatto di bancarotta; pertanto, il giudizio relativo alla particolare tenuità - o gravità del fatto non si riferisce al singolo rapporto che passa tra fallito e creditore ammesso al concorso, nè a singole operazioni commerciali o speculative dell'imprenditore decotto, ma va posta in relazione alla diminuzione - non percentuale ma globale - che il comportamento del fallito ha provocato nella massa attiva che sarebbe stata disponibile per il riparto, ove non si fossero verificati gli illeciti" (Sez. 1, n. 12087 del 10/10/2000 - dep. 23/11/2000, Di Muni, Rv. 217403; conf. Sez. 5, n. 8690 del 27/04/1992 - dep. 04/08/1992, Bertolotti, Rv. 191565). Infatti, la L. Fall., art. 219 "in funzione aggravante o attenuante considera il danno patrimoniale, il quale, ancorchè misurato al tempo del fallimento, è solo quello che consegue ai fatti di bancarotta" (Sez. 5, n. 15613/15 del 05/12/2014, Geronzi). Tale orientamento si è poi consolidato ribadendo il principio di diritto in forza del quale, in tema di reati fallimentari, l'entità del danno provocato dai fatti configuranti bancarotta patrimoniale va commisurata al valore complessivo dei beni che sono stati sottratti all'esecuzione concorsuale, piuttosto che al pregiudizio sofferto da ciascun partecipante al piano di riparto dell'attivo, ed indipendentemente dalla relazione con l'importo globale del passivo (Sez. 5, n. 49642 del 02/10/2009 - dep. 28/12/2009, Olivieri, Rv. 245822; conf. Sez. 5, n. 8037 del 03/06/1998 - dep. 07/07/1998, Urso G, Rv. 211637; Sez. 5, n. 13285 del 18/01/2013 - dep.21/03/2013, Pastorello, Rv. 255063).
10.3. Tale essendo il contesto normativo e giurisprudenziale di riferimento, la decisione dei giudici di merito ne è pienamente conforme.
Alle pagine 489 e seguenti della sentenza di primo grado è stato analiticamente esposto il metodo di determinazione del danno in tre passaggi fondamentali:
- lo stato patrimoniale della Sicilcassa al 6.09.97 (data di trapasso delle attività e passività al Banco di Sicilia, chiusura della gestione commissariale ed inizio della liquidazione) presentava un patrimonio netto negativo di lire 1.895 miliardi;
- Sicilcassa, quindi, trasferiva tutte le attività e passività al Banco di Sicilia, ad eccezione di crediti e altre poste di minor rilievo per circa 1.200 miliardi di lire;
- sia il Banco di Sicilia che Sicilcassa riconoscevano successivamente minori attività e maggiori passività per altri 1.100 miliardi di lire, cosicchè il patrimonio netto negativo andava a 2.895 miliardi, che rappresentava, secondo i periti, il danno patrimoniale subito da Sicilcassa a seguito degli atti di distrazione/dissipazione delle risorse della banca;
- il Fondo Interbancario di Tutela Depositi aveva disposto l'erogazione, a favore del Banco di Sicilia, di 1.000 miliardi di lire a sostegno dell'operazione di cessione di attività e passività di Sicilcassa e l'erogazione della somma era stata deliberata sulla base del deficit accertato.
Il Tribunale non ha calcolato, nel determinare il danno, i recuperi intervenuti successivamente alla dichiarazione di insolvenza, facendo riferimento ai principi espressi, fra l'altro, da Sez. 5, n. 8402 del 03/02/2011 Rv. 249721, Sez. 5, n. 39635 del 23/09/2010 Rv. 248658 e già richiamati al paragrafo 4.
E' stato opportunamente evidenziato che eventuali recuperi potrebbero, al limite, incidere sull'entità del danno risarcibile e che, comunque, si tratta di importi assai modesti.
Nella sentenza di primo grado si rileva, quindi, in termini conclusivi, che "il danno, comunque, non può essere inferiore a quello conseguito alle operazioni illecite compiute, visto che il danno minimo accertato derivante dalla sommatoria dei crediti non riscossi descritti al capo b) ammonta ad un importo di quasi 1.500 miliardi".
Si tratta di considerazioni richiamate dalla Corte d'Appello a pagina 206 e che danno conto di un "dissesto di proporzioni comunque devastanti ", con motivazione congrua in punto di fatto e corretta in punto di diritto.
Sono, quindi, infondati il quarto motivo del ricorso O.M. - e il terzo dei motivi aggiunti - e il settimo motivo dei ricorsi M. e L..
11. I ricorrenti hanno eccepito l'intervenuta prescrizione, rilevando che la data di consumazione del reato deve essere fissata al 5.9.97, allorchè fu emanato il decreto del Ministero del Tesoro che dispose la liquidazione coatta amministrativa della banca.
Diversamente, i giudici di merito hanno ritenuto che il momento consumativo debba essere individuato nella pronuncia della sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza, emessa dal Tribunale di Palermo il 19.2.99.
Il tema è trattato in termini approfonditi nel primo dei motivi nuovi presentati nell'interesse di M..
L'art. 82 TUB, cioè il D.Lgs. n. 305 del 1993 entrato in vigore l'1.1.94, al comma 3, prevede che la dichiarazione di insolvenza prevista dai commi precedenti produce gli effetti indicati dalla L. Fall., art. 203 che, all'epoca, chiudeva il comma 1 con un periodo, successivamente abrogato dal D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 99 il quale così disponeva: "si applicano nei confronti degli amministratori, dei direttori generali, dei liquidatori e del componenti degli organi di vigilanza, le disposizioni degli artt. da 216 a 219 e 223 a 225".
Poichè, in base alla prima parte dell'art. 203, gli effetti dell'accertamento dello stato di insolvenza sono applicabili dalla data del provvedimento di liquidazione coatta, la difesa ritiene che in tale data e non nell'accertamento giudiziale dello stato di insolvenza si fissi il momento consumativo della bancarotta.
La successiva eliminazione dall'art. 223, dell'ultimo periodo del comma 1, non avrebbe, nel caso che ci occupa, alcuna valenza in quanto entrata in vigore successivamente al TUB che, quale norma speciale, manterrebbe inalterato il rimando alla vecchia formulazione dell'art. 223, senza essere toccata dalla successiva riforma del 1999.
Va tuttavia osservato che lo stato di insolvenza di Sicilcassa venne dichiarato il 19.2.99, cioè in epoca precedente la riforma della legge fallimentare intervenuta con D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, sicchè, anche senza voler entrare nel merito della correttezza dell'interpretazione proposta dalla difesa in merito alla successione delle disposizioni di legge ed al carattere di legge speciale del TUB, si deve semplicemente osservare che la situazione è del tutto analoga a quella considerata da Sez. 5, n.3229 del 14/12/2012, Rv. 253931, che ha affermato il seguente principio di diritto: "L'accertamento giudiziale dello stato d'insolvenza dell'impresa soggetta alla procedura di liquidazione coatta amministrativa è presupposto necessario e sufficiente per l'applicabilità delle norme incriminatrici in materia di bancarotta ancorchè effettuato in epoca antecedente alla modifica della L. Fall., artt. 203 e 237 ad opera del D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270".
In linea generale, ed in replica a quanto osservato anche dagli altri difensori, va affermato che la scelta del momento consumativo della bancarotta, fra decreto di liquidazione coatta e sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza, debba in ogni caso risolversi a favore di quest'ultima.
Valgono tuttora, anche se espresse con riferimento alla disciplina previgente rispetto alla riforma del 1999, le puntuali osservazioni svolte da Sez. 5, n. 2136 del 09/12/1999 Rv. 215477, nella cui motivazione si legge: "La L. Fall., art. 203, infatti stabilisce, che, accertato lo stato di insolvenza a norma degli artt. 195 e 202, sono applicabili con effetto dalla data del provvedimento che ordina la liquidazione le disposizioni del titolo II, capo III, sezione III, anche nei confronti dei soci a responsabilità illimitata. Le norme richiamate si riferiscono agli "effetti del fallimento per i creditori", ed in particolare "al divieto di azioni esecutive individuali", al "concorso dei creditori" etc.. Il legislatore ha tenuto conto del fatto che l'accertamento dei crediti verso l'impresa sottoposta a liquidazione coatta amministrativa inizia, in sede amministrativa a cura del commissario liquidatore, per effetto del decreto ministeriale. Ed ha opportunamente stabilito, per garantire la par conditio di tutti i creditori, che gli indicati effetti dell'accertamento giudiziario dello stato di insolvenza sono applicabili dalla data del provvedimento amministrativo. La retrodatazione di alcuni effetti giuridici non può essere automaticamente applicata ai reati di bancarotta.
Infatti, ostano all'interpretazione proposta dalla difesa due motivi. Il primo fa riferimento all'ermeneutica interpretativa formale, l'altro ha carattere sostanziale. La norma prevista dalla L. Fall., art. 203 va letta nella sua corretta formulazione letterale, che prevede varie disposizioni fra loro diverse. Al primo comma in particolare, dopo l'indicazione di applicabilità delle norme contenute nel titolo II capo III sezione III, della L. Fall., con decorrenza dalla data del provvedimento che ha ordinato la liquidazione, vi è la chiusura del periodo con un punto. Quindi inizia una nuova disposizione che stabilisce l'applicabilità delle norme penali previste dagli artt. 216, 219 e da artt. 223 a 225, senza precisare alcuna decorrenza particolare. La più corretta lettura non può non ritenere che la retrodatazione si riferisca soltanto al concorso fra i creditori, mentre le altre disposizioni seguano le normali indicazioni legislative. Sul piano del diritto penale sostanziale, deve tenersi conto del fatto che, il momento consumativo dei reati di bancarotta si perfeziona all'atto della pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento, cui va equiparata soltanto la sentenza di accertamento giudiziario dello stato di insolvenza, e non già il provvedimento amministrativo che la precede".
Si tratta di tesi riprese e confermate anche dalla giurisprudenza successiva: Sez. 5, n. 29915 del 09/04/2009 Rv. 244639, secondo cui "La data di commissione dei reati di bancarotta fraudolenta prefallimentare coincide, in caso di liquidazione coatta amministrativa, con quella dell'accertamento giudiziale dello stato di insolvenza" e da Sez. 5, Sentenza n. 32143 del 03/04/2013 Rv. 256086 "Le imprese bancarie sono soggette alle disposizioni penali fallimentari in relazione ai fatti dalle stesse previste commessi nel corso della gestione delle medesime, in quanto nei loro confronti si procede all'accertamento giudiziale dello stato d'insolvenza, atto equiparato dalla L. Fall., art. 237 alla dichiarazione di fallimento". Tale conclusione non può essere posta in dubbio nel caso di specie, in cui la liquidazione coatta ha preceduto la dichiarazione di insolvenza.
Facendo corretta e puntuale applicazione di tali principi, la Corte d'Appello ha indicato il termine di prescrizione del reato nel 10.4.18.
La prescrizione non è maturata e sono, quindi, infondati l'ottavo motivo del ricorso L. e il primo dei motivi nuovi presentati nell'interesse di M..
12. Un altro tema affrontato da tutti i ricorrenti è quello del trattamento sanzionatorio.
Va premesso che, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010 Rv. 248244).
Quanto alla determinazione della pena, deve ritenersi adempiuto l'obbligo di motivazione da parte del giudice di merito, allorchè siano indicati nella sentenza gli elementi ritenuti rilevanti o determinanti nell'ambito della complessiva dichiarata applicazione di tutti i criteri di cui all'art. 133 c.p. (Sez. 1, n. 3155 del 25/09/2013, dep. 23/01/2014, Rv. 258410).
Se così è, non è censurabile la motivazione addotta dalla Corte d'Appello per rigettare le censure relative al diniego delle attenuanti generiche, in cui si fa riferimento all'assenza di elementi positivi suscettibili di essere valutati in favore degli imputati ed alla gravità dei fatti, sintomatici di "sfrontatezza gestionale", nonchè alla loro reiterazione per un lungo periodo di tempo e nonostante la presenza di segnali sull'andamento fortemente negativo della gestione della banca (pagina 210).
Per quanto riguarda L., la mancata concessione delle attenuanti generiche è stata determinata anche dall'esistenza dei precedenti penali, in unione ai motivi già indicati, sicchè il semplice accenno a tali precedenti è idoneo a fondare il diniego.
La pena inflitta agli imputati, superiore ai minimi edittali, è stata ritenuta congrua in ragione della rilevanza dei fatti esaminati, della reiterazione nel tempo di azioni rivelatesi estremamente perniciose sia per la banca che per l'intera economia siciliana, viste le dimensioni economiche ma anche storico-sociali dell'istituto di credito.
Evidentemente, le considerazioni espresse a tale proposito a pagina 211 della sentenza impugnata danno conto delle ragioni che hanno indotto la Corte d'Appello a rideterminare le pene inflitte dal primo giudice, a seguito dell'assoluzione dal reato contestato al capo a), sicchè non sono ravvisabili i vizi denunziati nel ricorso L. in merito alla mancata esplicitazione del calcolo.
12.1. Ugualmente infondate le censure che mirano ad evidenziare il diverso trattamento sanzionatorio riservato ai coimputati che hanno definito la propria posizione processuale ai sensi dell'art. 444 c.p.p..
"In tema di ricorso per cassazione, non può essere considerato come indice del vizio di motivazione il diverso trattamento sanzionatorio riservato nel medesimo procedimento ai coimputati, anche se correi, salvo che il giudizio di merito sul diverso trattamento del caso, che si prospetta come identico, sia sostenuto da asserzioni irragionevoli o paradossali" Sez. 3, Sentenza n. 27115 del 19/02/2015 Rv. 264020.
"In tema di ricorso per cassazione, non può essere considerato come indice di vizio di motivazione il diverso trattamento sanzionatorio riservato ai coimputati la cui posizione sia stata definita mediante patteggiamento, perchè tale rito conduce ad una decisione che si fonda su valutazioni del tutto particolari, che tengono anche conto del risparmio processuale conseguente alla scelta di una forma di definizione del processo alternativa al dibattimento" (Sez. 6, n. 24402 del 12/03/2008 Rv. 240356).
12.2. La Corte d'Appello ha anche compiutamente analizzato la posizione di Mo. e la censura rispetto al mancato riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 114 c.p.. I giudici di merito hanno evidenziato che Mo. dirigeva la sede di Catania, cioè l'ufficio maggiormente interessato all'erogazione dei finanziamenti ai grandi gruppi imprenditoriali, sicchè la sua condotta ha fornito un contributo essenziale ed indefettibile al reato per cui è stata pronunciata condanna.
Il ruolo formalmente meno rilevante del Mo. è stato tenuto in considerazione con l'irrogazione di una pena meno elevata di quella inflitta agli altri ricorrenti.
Le contestazioni mosse nel ricorso proposto dalla difesa di Mo. costituiscono censure in fatto, volte a ridimensionare il ruolo del funzionario, inammissibili in questa sede.
I motivi sul trattamento sanzionatorio proposti da tutti i ricorrenti sono quindi infondati.
13. Le censure relative alla assegnazione della provvisionale contenute nel ricorso L. sono inammissibili.
Non è impugnabile con ricorso per cassazione la statuizione pronunciata in sede penale e relativa alla concessione e quantificazione di una provvisionale, trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente delibativa e non necessariamente motivata (Sez. 3, n. 18663 del 27/01/2015 Rv. 263486. Massime precedenti Conformi: N. 40410 del 2004 Rv. 230105, N. 5001 del 2007 Rv. 236068, N. 34791 del 2010 Rv. 248348, N. 32899 del 2011 Rv. 250934, N. 49016 del 2014 Rv. 261054, N. 50746 del 2014 Rv. 261536).
13.1. Le questioni relative alla condanna in favore delle parti civili svolte nel nono motivo del ricorso L. e nel sesto motivo del ricorso O.M. sono inammissibili per difetto di specificità.
L'analogo motivo del ricorso Mo. è più puntuale, in quanto si fonda sull'asserita esistenza di un accordo transattivo fra l'imputato e Sicilcassa, che avrebbe determinato la definizione di tutti i rapporti economici fra le parti non lasciando alcuna possibilità residua di intentare un'azione civile.
Il tema è stato affrontato dalla Corte d'Appello a pagina 189; esaminato l'accordo transattivo fra Mo. e Sicilcassa, la Corte ha rilevato che esso riguarda esclusivamente le pendenze e le controversie di natura lavoristica e di subordinazione del dipendente, in relazione alle quali Sicilcassa si impegna a non esigere altro dal lavoratore.
Evidentemente tale accordo non osta al riconoscimento dei danni, in favore di Sicilcassa, quale conseguenza dell'attività di rilevanza penale imputata al dipendente.
Osserva, peraltro, la Corte che la transazione è stata stipulata nel 2004, quando ancora non erano state iniziate le indagini che avrebbero portato al procedimento penale in esame, sicchè, anche sotto tale profilo, è impossibile ritenere che Sicilcassa abbia rinunciato ad esigere il risarcimento dei danni da reato di cui non si conosceva ancora l'esistenza.
Nel ricorso ci si limita a ribadire la tesi del gravame ed il contenuto dell'accordo, ivi richiamato, non contrasta certamente con l'interpretazione che ne ha dato il giudice di merito, in quando si parla sì di oneri di fonte contrattuale o extracontrattuale ma sempre con riferimento al rapporto di lavoro.
14. Il rigetto di tutti i ricorsi comporta la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonchè alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili nel presente grado di giudizio, che si liquidano, tenuto conto della complessità del caso e dell'impegno defensionale profuso, in complessivi Euro 5.000,00 oltre accessori di legge in favore di Sicilcassa, in liquidazione coatta amministrativa, ed in complessivi Euro 4.000,00 oltre accessori di legge in favore di Banca d'Italia.
P.Q.M.
rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonchè alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parti civili, che liquida in complessivi Euro 5.000,00 oltre accessori di legge in favore di Sicilcassa, in liquidazione coatta amministrativa, ed in complessivi Euro 4.000,00 oltre accessori di legge, in favore di Banca d'Italia.
Così deciso in Roma, il 22 febbraio 2018.
Depositato in Cancelleria il 30 aprile 2018