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Bancarotta fraudolenta patrimoniale: il gruppo di imprese può essere costituito anche da enti con differente natura giuridica

Infragruppo

Cassazione penale sez. V, 06/03/2018, n.31997

In tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale è configurabile un "gruppo di imprese" - rilevante ai fini della ipotizzabilità di eventuali "vantaggi compensativi" - anche tra enti che abbiano differente natura giuridica (società ed associazioni senza fini di lucro), purchè tra loro si instauri un rapporto di direzione nonché di coordinamento e controllo delle rispettive attività facente capo al soggetto giuridico controllante. (Fattispecie in cui la Corte ha escluso, in concreto, l'esistenza di un "gruppo di imprese" per l'assenza di attività di direzione da parte dell'associazione senza fini di lucro indicata comecontrollante, nonchè di un centro unico di coordinamento delle attività e di un piano di azione imprenditoriale comune con le società fallite ad essa collegate).

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza impugnata, emessa il 16 ottobre 2015 e depositata in data 18 febbraio 2016, la Corte d'Appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Firenze del 23 dicembre 2013, appellata dal pubblico ministero, dalla parte civile e dagli imputati: ha assolto S.M. dal reato a lui ascritto al capo 7) della contestazione, per non aver commesso il fatto; ha assolto B.M. dal reato di cui al procedimento riunito n. 1792/09 perchè il fatto non è più previsto come reato; ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di V.C. e S.M. per il reato di cui al capo 5), estinto per prescrizione; di conseguenza il giudice d'appello ha rimodulato le pene, condannando S. ad anni tre e mesi quattro di reclusione; V. ad anni quattro e mesi quattro di reclusione; B. ad anni tre e mesi sei di reclusione. In accoglimento dell'appello del pubblico ministero, ha condannato C.G. alla pena di anni tre e mesi sei di reclusione. Per il resto, ha confermato la citata sentenza di primo grado, condannando S.P. e A.M. al pagamento delle spese del giudizio d'Appello; C. al pagamento delle spese di entrambi i gradi di giudizio; la parte civile alle spese alle quali ha dato causa. I reati contestati agli imputati riguardavano, inizialmente, la costituzione di un'associazione a delinquere (della quale avrebbero fatto parte tutti gli imputati e contestata al capo 10), finalizzata all'appropriazione di somme di denaro di proprietà di alcune società "partecipate" della Associazione Confcommercio Firenze, attraverso la commissione di più reati di appropriazione indebita, bancarotta fraudolenta per distrazione, malversazione ai danni dello Stato (contestati agli imputati ai capi da 1 a 9 e al capo 11), che hanno viste coinvolte le società predette, attraverso lo sviamento di consistenti somme di denaro (per alcuni milioni di Euro) dalle casse degli enti consociati a quelle dell'Associazione Confcommercio Firenze, in maniera tale da poterle utilizzare per scopi estranei a quelli sociali ed anche per finalità e spese personali, così provocando il fallimento della (OMISSIS) s.r.l. ed il fallimento della (OMISSIS) s.r.l., dichiarati con sentenza del 28 marzo 2007; mentre l'Associazione Nazionale Confcommercio è stata dichiarata decaduta dall'affiliazione all'Associazione Nazionale Confcommercio il 13.12.2016 e successivamente è stata sciolta con esposizione debitoria superiore a 5.000.000 di Euro. Il reato di associazione per delinquere è stato ritenuto insussistente con la sentenza di primo grado, sul punto confermata da quella d'appello impugnata. Gli imputati coinvolti nelle contestazioni venivano prosciolti in primo grado anche dai reati di cui agli artt. 646 e 316-bis cod. pen., perchè prescritti, e assolti dai reati di bancarotta attinenti alla distrazione di un ramo d'azienda e di parte del patrimonio clienti della s.r.l. (OMISSIS) fallita (capi 3 e 4). Con la sentenza d'appello veniva dichiarata la prescrizione anche del reato di cui al capo 5), con la conseguente rideterminazione della pena per gli imputati V.C. e S.M., il quale veniva, altresì, assolto dal reato di cui al capo 7) per non aver commesso il fatto; si assolveva, infine, l'imputato B.M. dal reato di cui al procedimento riunito n. 1792/09 perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato (D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-bis come modificato dal D.Lgs. n. 158 del 2015, art. 7), essendo state rimodulate in senso più favorevole le soglie di punibilità previste per la condotta di omesso versamento di ritenute. Il contesto di accadimento dei fatti è quello dei rapporti economici tra le società di servizi operanti per conto della Confcommercio (in particolare, le due fallite (OMISSIS) e (OMISSIS), entrambe s.r.l.) e l'Associazione commerciale fiorentina stessa. 2. Avverso la citata sentenza della Corte d'Appello di Firenze sono stati proposti differenti ricorsi per cassazione. 3. Ricorre l'imputato S.P. con due distinti atti, depositati tramite i suoi difensori: avv. Tullio Padovani e Antonio D'Avirro. 3.1. Nel ricorso proposto dal solo avv. D'Avirro si espongono sei motivi. 3.2. Con il primo ed il secondo motivo si deduce violazione di legge per manifesta illogicità della motivazione con riferimento al capo 1), seconda parte, ed al capo 2) dell'imputazione: il primo capo, relativo ad una serie di condotte distrattive di somme di danaro ai danni della s.r.l. (OMISSIS) dal 2000 al 2006, che le erogava a favore dell'Associazione Confcommercio di Firenze senza alcuna giustificazione, nonchè in favore della moglie del coimputato A. e della società Heil Sistem riconducibile ad S.E. ed in favore del S. stesso; il secondo capo, riferito ad analoghe condotte poste in essere a vantaggio di numerose società, tra le quali la (OMISSIS) s.r.l. poi anch'essa fallita, e della Confcommercio, ancora una volta con fondi ingiustificati della (OMISSIS). S. era coinvolto nella contestazione per la sua qualità di Presidente della Giunta dell'Associazione Confcommercio dal giugno 2000 fino ad ottobre 2003. Si afferma che la sentenza d'appello, ripetendo un errore già commesso nella motivazione di quella di primo grado, riferisce l'entità diminuita della distrazione al capo 2) della contestazione, mentre è solo alle condotte di cui al capo 1), seconda parte, che il teste m.llo B. collega la diversa ricostruzione circa il fatto che parte della contestata distrazione di danaro sia in realtà stata giustificata da costi sostenuti dalla (OMISSIS) nell'interesse dell'Associazione Confcommercio. Si riproducono i motivi d'appello ai quali, secondo il ricorrente, la Corte di secondo grado non avrebbe dato risposta, confondendo le condotte distrattive di cui ai capi 1 e 2 e generando, pertanto, difetto di motivazione in relazione ad entrambi i capi di imputazione. Nel secondo motivo, altresì, ci si sofferma anche nel contestare la mancanza di elementi di fatto dai quali ricavare la prova che i costi sostenuti dalla (OMISSIS), indicati nel capo 2), sarebbero, invece, imputabili a Confcommercio. 3.3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta manifesta illogicità della motivazione con riferimento anche alla prima parte del capo 1) dell'imputazione, poichè non sarebbero stati distinti i periodi in cui S. aveva ricoperto il ruolo di Presidente di Confcommercio rispetto al tempo in cui le somme erano state erogate, sicchè gli sarebbero state ascritte condotte distrattive per importi diversi e superiori da quelli reali. Si propone il corretto calcolo dell'entità delle distrazioni addebitabili all'imputato, ricostruendo il bilancio e le operazioni reciproche tra (OMISSIS) e Confcommercio (Euro 209.000, dato dalla differenza tra Euro 415.000 versati dalla (OMISSIS) a Confcommercio nell'effettivo periodo di presidenza S. e la somma di Euro 206.118 costituita dalle restituzioni fatte da Confcommercio a (OMISSIS) nel periodo). Nello stesso motivo si evidenzia, altresì, che mancherebbe anche la prova certa dell'effettiva riferibilità al periodo di presidenza S. dell'intera ingiustificata elargizione della società fallita alla Confcommercio fiorentina. 3.4. Con il quarto motivo di ricorso si deduce manifesta illogicità della motivazione con riferimento al capo 7) dell'imputazione, ancora una volta per un errore in cui sarebbe incorsa la sentenza d'appello, ripetitiva di quella di primo grado sul punto, che non tiene conto dei rapporti economici reciproci tra la Associazione Confcommercio fiorentina e la sua società di servizi, poi fallita, (OMISSIS) s.r.l.; in particolare, non si considera che, per (OMISSIS), così come per (OMISSIS), la Confcommercio avesse svolto una serie di servizi. Anche per (OMISSIS), come per (OMISSIS), infatti, si sarebbe verificato uso promiscuo di personale, sicchè le presunte distrazioni sarebbero invece rimborsi di somme dovute dalle società fallite alla Confcommercio per i costi da quest'ultima sostenuti nell'interesse di (OMISSIS) e (OMISSIS). Ne costituirebbe prova anche la circostanza che i dipendenti della Confcommercio che avevano prestato la loro attività per la società (OMISSIS) siano stati assunti formalmente da tale secondo ente solo nel 2004, sicchè, fino al 2003, per il lavoro svolto a favore di (OMISSIS), essi vennero pagati da Confcommercio, dalla quale dipendevano: per questo, correttamente, i costi erano stati poi rimborsati all'associazione commerciale fiorentina dalla società (OMISSIS). 3.5. Con il quinto motivo di ricorso si rappresenta inosservanza ed erronea applicazione di legge in relazione alla L. fall., artt. 216 e 223. Citando giurisprudenza della Corte di cassazione - la pronuncia Sez. 5, n. 47502 del 24/9/2012, Corvetta, Rv. 253493 - il ricorrente propone la tesi che la sentenza di fallimento sarebbe elemento costitutivo del reato, quale evento della fattispecie penale, e non condizione obiettiva di punibilità, collegando a tale assunto la necessità che tra il fallimento e la condotta distrattiva sussista un nesso causale. Da tali premesse, posto che, secondo la ricostruzione prospettata, il reato di bancarotta contestato al S. e riferito all'art. 223, comma 1, L. fall. è reato di evento e non di pericolo, che necessariamente implica la sussistenza del nesso causale tra condotta ed evento-fallimento, si nega che la prova di tale nesso sia stata raggiunta in relazione alla condotta del ricorrente. Infatti, secondo lo stesso curatore fallimentare della (OMISSIS), confermato dal consulente della difesa, il fallimento della società sarebbe attribuibile principalmente a rilevanti crediti inesigibili non pagati (di entità pari quasi a 4 milioni di Euro) ed alla cessione dell'attività di promozione del credito svolta dalla fallita, che le fruttava quasi 1 milione di Euro di ricavi annuali, tutti fatti collocabili in un periodo, peraltro, in cui S. era ormai uscito dall'amministrazione di Confcommercio. 3.6. Con il sesto ed ultimo motivo si deduce violazione di legge con riferimento alla dosimetria della pena, poichè, con motivazione contraddittoria, si sarebbero escluse le circostanze attenuanti generiche nei confronti di S., per il ruolo rilevante che egli avrebbe svolto nei fallimenti delle società (OMISSIS) e (OMISSIS) e la gravità delle distrazioni riferibili al periodo della sua presidenza. La contraddittorietà deriverebbe dalla constatazione che la sentenza impugnata, da un lato, ritiene la rilevante entità delle distrazioni per escludere le attenuanti generiche, dall'altro evidenzia la necessità di ridimensionare tali importi alla luce delle circostanze di fatto emerse in dibattimento ed apprezzate in sentenza. 4.Nel ricorso dell'avv. Tullio Padovani nell'interesse dell'imputato S. si ritrova un unico motivo con cui si deduce violazione degli artt. 40 e 43 cod. pen., nonchè art. 216, comma 1 e art. 223 L. fall., in relazione alla ritenuta sussistenza del dovere di impedire i reati di cui ai capi 1, 2 e 7, che si assumono commessi da V.C., coimputato e vero artefice della vicenda di dissesto collegata alla Associazione Confcommercio fiorentina. Si deduce, altresì, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Il ricorso rappresenta la illogicità della motivazione anzitutto sul punto della riferibilità all'imputato S., quale concorrente "extraneus" nel reato di bancarotta per distrazione, del fallimento della società (OMISSIS), avvenuto ben tre anni dopo la cessazione di questi dalla carica di Presidente della Giunta dell'Associazione Confcommercio fiorentina. Ed infatti, nonostante l'esclusione in sentenza della esistenza di un "gruppo di società" tra la Confcommercio e le due società di servizi ad essa riferibili, poi fallite, nulla si dice sulla circostanza che da tale esclusione dovrebbe derivare anche la conseguente negazione di qualsiasi posizione di garanzia del Presidente della Giunta dell'Associazione Confcommercio fiorentina, nella sua qualità di mero legale rappresentante del socio dei due enti commerciali falliti, quale è la Confcommercio. Quindi, da un lato si esclude la sussistenza di un "gruppo", con l'evidente finalità di escludere la sussistenza di vantaggi compensativi infragruppo e, dunque, il reato stesso; dall'altro, si individua in capo a S. una posizione di soggetto investito di poteri di direzione ed amministrazione (anche) delle due società fallite, configurando per lui una responsabilità da omessa vigilanza, con evidente contraddittorietà di motivazione. La motivazione sarebbe incongrua anche perchè elude l'onere di argomentare sulla prova della condotta di concorso nel reato, che andava ancorata al ruolo ed ai poteri del S. sulle società controllate e fallite, nonchè alla sua qualità di Presidente della controllante Confcommercio, e non già riferita - come, invece, è stato fatto - al dolo del reato di bancarotta, costruito quasi che l'imputato fosse "direttamente" socio delle società fallite. Inoltre, la sentenza impugnata erra nel configurare una posizione di garanzia in capo al S., fatta derivare dal ruolo di Presidente della Giunta di Confcommercio, rispetto al direttore dell'Associazione Confcommercio - V.C. - cui vengono riferite le condotte distrattive effettivamente poste in essere; ed infatti, il contenuto di tale posizione di garanzia sarebbe stato in motivazione illegittimamente collegato ad un insussistente obbligo di impedire la commissione di reati da parte di V., direttore ed amministratore di fatto dell'associazione Confcommercio, nonchè reale "dominus" delle società fallite (OMISSIS) e (OMISSIS). In sintesi, si lamenta sotto più profili la confusione fatta dalla sentenza impugnata tra i problemi finanziari dell'associazione Confcommercio fiorentina - accertati da un'ispezione e noti al ricorrente - e quelli delle società di servizi di cui Confcommercio era socia, poi fallite: la loro conoscenza non implica necessariamente la consapevolezza da parte di S. del dettaglio dei rapporti economici con le società controllate e poi fallite e dello stato economico di queste ultime, nè tantomeno la consapevolezza che le rimesse di danaro, considerate ex post distrattive, non fossero giustificate e del tutto legittimamente corrisposte. Si evidenzia ancora la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata là dove essa collega il dolo di bancarotta in capo al S., quale extraneus, alla deduzione logica, ispirata alla giurisprudenza di legittimità, secondo cui chi riceve denaro dall'ente in difficoltà economiche, sapendo di non poter restituire, "distrae". Infatti, tale argomentazione è contraddetta dalle stesse risultanze fattuali condivise in sentenza, sulla base delle quali si è accertato che, invece, alcune restituzioni sono state compiute dalla Confcommercio, ed anche di rilevante entità, dandosi atto che le somme oggetto della condotta di distrazione sono sensibilmente diverse ed inferiori, rispetto agli importi inizialmente contestati. Infine, si deduce come incomprensibile la differente conclusione raggiunta in sentenza per le posizioni dei membri della giunta dell'associazione Confcommercio fiorentina - tutti assolti nel processo per non aver commesso il fatto - e quella del S., il quale, nonostante la sua funzione non sia stata in alcun modo differenziata, in termini di concreti poteri e responsabilità, da quella di costoro, è stato invece condannato solo sul presupposto della sua consapevolezza delle difficoltà economiche in cui versavano Confcommercio e le società poi fallite, dimenticando che l'esclusivo ruolo gestionale dell'Associazione di commercio fiorentina era affidato al solo V. (che cumulava gli incarichi di direttore dell'Associazione e suo amministratore di fatto, nonchè di consigliere di amministrazione delle società (OMISSIS) e (OMISSIS), fino al fallimento di queste ultime). 5. Propone ricorso l'imputato V.C., attraverso il suo difensore avv. Massimiliano Annetta, mediante tre motivi. 5.1. Con il primo motivo si deduce violazione di legge con riferimento agli artt. 216,217 e 223 L. fall. nonchè all'art. 2634 cod. civ., poichè la sentenza di appello, seguendo l'impostazione di quella di primo grado, non ha ritenuto che nella vicenda di bancarotta per distrazione contestata si fosse, invece, in presenza di un fenomeno di vantaggi compensativi tra società facenti parte di un medesimo "gruppo", con conseguente insussistenza dei reati contestati. Si propone una dettagliata ricostruzione dal punto di vista economico-giuridico della teoria dei cd. "vantaggi compensativi", da questa facendo derivare la sussistenza, nel caso di specie, della loro configurabilità nell'ambito di una dinamica infragruppo e, di conseguenza, l'erroneità delle conclusioni raggiunte dalla sentenza impugnata, che ha omesso, ai fini dell'affermazione della responsabilità degli amministratori delle società fallite controllate e della associazione controllante, qualsiasi richiamo motivazionale sulla prova che le operazioni poste in essere fossero dirette al depauperamento del patrimonio delle controllate o che queste ultime avessero subito un danno e di quale entità, ovvero che il pregiudizio conseguente a dette operazioni non fosse stato compensato da vantaggi derivati dall'appartenenza al gruppo. 5.2. Con il secondo motivo si deduce contraddittorietà ed illogicità della motivazione con riferimento alla prova della condotta distrattiva. Partendo dall'erronea, ritenuta inconfigurabilità di un gruppo societario, la sentenza impugnata avrebbe mal interpretato le risultanze istruttorie, concludendo per l'insussistenza di vantaggi compensativi attraverso un non consentito canone di inversione dell'onere della prova: non si afferma, infatti, l'insussistenza dei vantaggi compensativi, bensì che gli imputati non hanno fornito prova della sussistenza di questi, dimenticando che sarebbe stato doveroso dar conto non soltanto della distrazione dalle controllate alla controllante, ma anche dell'insussistenza di un riequilibrio della situazione finanziaria tra le società. Si rappresenta, altresì, l'insufficienza dei parametri utilizzati per escludere la configurabilità di un'ipotesi di "gruppo" di società nel caso di specie, esclusione fondata, dalla Corte d'Appello, sul dato formale della natura di associazione della Confcommercio, che la renderebbe inidonea ad assumere la veste di "holding", e dall'inesistenza di un piano imprenditoriale comune adeguatamente sviluppato. Di contro, sono stati ignorati i dati sostanziali, messi in luce dalla difesa nel giudizio d'appello tramite il proprio consulente (e richiamati espressamente nel ricorso), che, invece, provano senza dubbio la configurabilità di una dinamica infragruppo e di vantaggi compensativi nelle condotte contestate al V. ed ai coimputati. In sintesi, si afferma che sussisterebbe l'ipotesi di "gruppo" societario nel caso di specie poichè le società (OMISSIS) e (OMISSIS) erano funzionali all'esercizio dell'attività di Confcommercio fiorentina, tanto che, una volta cessata quest'ultima, esse cessano a loro volta; l'avviamento delle controllate era garantito da Confcommercio, che determinava l'indotto di clientela nei confronti delle sue due società di servizi, tramite lo svolgimento di attività sindacale, associativa e promozionale; i ricavi generati dai servizi prestati dalle controllate venivano interamente incamerati da queste ultime, a fronte dell'accollo, da parte della controllante, delle spese relative alla fornitura di servizi. La conclusione circa la sussistenza di un "gruppo" societario sarebbe stata raggiunta anche dai curatori fallimentari, che ragionano del "mondo Confcommercio" in un'ottica di gruppo. Pertanto, si richiede la derubricazione delle condotte ritenute distrattive nel reato previsto dall'art. 217 l. fall.. 5.3. Con l'ultimo motivo si lamenta contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione quanto alla responsabilità del V. per i reati a lui contestati, in relazione al suo ruolo all'interno del gruppo Confcommercio. Posto che il dissesto della Confcommercio ha portato alla decozione delle società controllate poi fallite, detto dissesto fu causato principalmente, secondo la ricostruzione degli stessi giudici di merito, dalla gestione malaccorta dell'associazione, con spese che superavano i ricavi e con l'omessa svalutazione dei crediti inesigibili. In tale gestione dell'associazione Confcommercio il V. non aveva - secondo il ricorso - reale autonomia ma solo mansioni ragionieristiche e contabili, mentre il bilancio veniva discusso ed approvato dalla Giunta e dall'Assemblea della Confcommercio; erano dunque gli organi politici ad avere la reale gestione del gruppo e non il V.. 5.4. Con motivi aggiunti depositati in data 15.2.2018 il ricorrente propone una analisi della più aggiornata giurisprudenza di legittimità in tema di vantaggi compensativi e bancarotta fraudolenta patrimoniale, in ambito di dinamiche infragruppo societario, per poi passare a ribadire l'esclusione che il dissesto delle fallite, accertato in sentenza, sia ricollegabile alle condotte di trasferimento indebito di denaro alla associazione Confcommercio; quindi riprende il motivo riferito al fatto che non vi sarebbe prova di alcuna condotta di gestione autonoma da parte del V. delle società fallite e della Confcommercio fiorentina, non avendo egli, peraltro, rivestito ruoli realmente apicali, ma essendo mero esecutore della volontà della giunta di Confcommercio, come emerge dalle dichiarazioni testimoniali che vengono dettagliatamente richiamate. 6. Propone ricorso per cassazione anche l'imputato B.M. con atto depositato dal suo difensore avv. Sigfrido Fenyes ed articolato in tre motivi. 6.1. Con il primo motivo si deduce illogicità manifesta della motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità del ricorrente, che è stato dichiarato colpevole per i reati di bancarotta di cui ai capi 1, 2 e 7 dell'imputazione, per il suo ruolo di componente della giunta della Associazione Confcommercio e poi di Presidente di essa dal giugno ad ottobre 2006 (capi 1 e 2) e di Presidente del consiglio di amministrazione della s.r.l. (OMISSIS). La motivazione della sentenza sarebbe solo apparente perchè, nonostante le deduzioni svolte in appello, omette di individuare le operazioni distrattive effettivamente riconducibili al ricorrente, operando, invece, un generico richiamo a tutta l'attività istruttoria svolta. Inoltre, non è stato neppure esattamente individuato il carattere distrattivo dei passaggi di danaro dalle società fallite all'associazione Confcommercio, limitandosi, la sentenza impugnata, ad escludere, dal punto di vista della possibilità formale, l'esistenza di un "gruppo" societario, che non potrebbe avere una "associazione" come ente capofila, senza comunque preoccuparsi di verificare se si fosse in presenza, dal punto di vista sostanziale, di un "interesse di gruppo" con riferimento ai passaggi di risorse tra società controllate e Confcommerio controllante. Interesse economico sicuramente, invece, palese nei rapporti tra (OMISSIS) e l'associazione Confcommercio, rispetto alla quale il primo ente si trovava in posizione definita "ancillare", dimostrata anche dal fatto che, nonostante la (OMISSIS) non soffrisse un passivo irrimediabile, tale società comunque aveva cessato di esistere perchè inscindibilmente collegata all'attività dell'associazione capofila ed al parco clienti costantemente da questa garantito. Mancherebbe, infine, la prova dell'elemento soggettivo del reato di bancarotta in capo all'imputato, il quale risulta, anzi - in atteggiamento di aperto contrasto con un'eventuale sua volontà decettiva - aver collaborato con i vertici nazionali di Confcommercio per sanare la situazione, concordando con diversi istituti di credito il loro intervento, al fine di un risanamento della situazione e disponendo anche la restituzione del finanziamento fatto alla Confcommercio fiorentina dalla (OMISSIS). 6.2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione di legge con riferimento all'art. 216, comma 1, n. 1, art. 219, commi 1 e 2, L. fall. perchè si sarebbe confusa in sentenza la coscienza e volontà da parte degli imputati, e del ricorrente in particolare, di porre in essere le singole operazioni finanziarie contestate come distrattive con il dolo di appropriazione e, dunque, di bancarotta. 6.3. Con il terzo ed ultimo motivo si deduce carenza di motivazione in relazione alla mancata concessione delle attenuanti generiche al ricorrente, collegata dalla Corte d'Appello non alla personalità dell'imputato o alle circostanze di fatto della condotta, bensì alla entità già mite della pena inflitta in primo grado, nonchè alla durata della sua condotta distrattiva quale Presidente della (OMISSIS) s.r.l., continuata anche dopo l'accertamento del rilevante deficit della Confcommercio; non si tiene conto, inoltre, dei dati positivi di condotta del ricorrente, dei quali pure si dà atto nella sentenza impugnata, collegati al tentativo di ripianare la situazione debitoria della Confcommercio fiorentina nell'ultimo periodo coincidente con la Presidenza da parte sua della Giunta del citato ente. 7. Propone ricorso l'imputato A.M., tramite il proprio difensore avv. Valerio Valignani, deducendo nullità della sentenza per manifesta illogicità e mancanza della motivazione. Il ricorrente, sindaco della (OMISSIS) ed estensore dei bilanci di detta società nonchè delle altre società-satellite della Confcommercio fiorentina, è stato condannato per la piena consapevolezza da parte sua della distrazione continua di risorse dalle società poi fallite alla associazione di commercio controllante; in realtà, egli non aveva contezza di quanto stava avvenendo, ad opera, invece, del V., il quale era l'unico "dominus" della vicenda di trasferimenti di denaro dalle società fallite all'associazione Confcommercio. La Corte avrebbe omesso la valutazione di alcune fondamentali prove orali a discarico dell'imputato, dalle quali emerge la sua inconsapevolezza. 8. Anche l'imputato C.G. ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte d'Appello di Firenze già richiamata, tramite il proprio difensore avv. Francesco Maresca, deducendo la nullità della sentenza di appello che aveva omesso di dichiarare, a sua volta, la nullità della pronuncia di primo grado per l'indicazione della pena inflitta nei suoi confronti solo nella motivazione e non nel dispositivo. La Corte d'Appello avrebbe errato nel considerare che in tale ipotesi non si dovesse far luogo ad annullamento della sentenza e nel procedere essa stessa alla correzione dell'errore secondo la procedura prevista dall'art. 130 cod. proc. pen., ritenendo altresì non concedibili le attenuanti generiche nei confronti dell'imputato. Un ulteriore motivo di ricorso lamenta la manifesta illogicità della motivazione quanto alla sussistenza del dolo del delitto di bancarotta nei confronti del ricorrente, rimasto provato al di sotto della soglia del ragionevole dubbio. L'intera motivazione sarebbe basata su un inaccettabile criterio di responsabilità formale collegato al ruolo societario ricoperto dall'imputato (presidente del consiglio di amministrazione della s.r.l. (OMISSIS) dal 2002 al 2004). Infine, si propone questione di legittimità costituzionale dell'art. 216, u.c., l. fall., in relazione all'art. 3 Cost., comma 1, art. 4 Cost., art. 27 Cost., comma 3 e artt. 41,111 e 117 Cost., con riferimento alla misura fissa e predeterminata della pena accessoria dell'inabilitazione per dieci anni all'esercizio di impresa commerciale ed incapacità ad esercitare uffici direttivi in qualsiasi impresa, pena inflitta al ricorrente. Si dà atto che la questione è stata già dichiarata inammissibile con sentenza della Corte costituzionale n. 134 del 2012, ma si richiama tale pronuncia nella parte di motivazione in cui, con un monito al legislatore, ritiene la necessità che il sistema delle pene accessorie della bancarotta sia reso pienamente compatibile con i principi della Costituzione ed in particolare con l'art. 27 Cost., comma 3; si conclude, dunque, per la riproponibilità ed ammissibilità della questione, di fronte all'inerzia del legislatore. 9. Propone ricorso, infine, l'imputato S.M. tramite il proprio difensore avv. Filippo Cei, con atto articolato su quattro motivi. La prima doglianza attiene alla nullità della sentenza per violazione di legge, con riferimento agli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. ed al principio di correlazione tra accusa e sentenza relativamente ai capi 1 e 2 della contestazione. L'imputazione era riferita alla responsabilità del ricorrente, nella sua qualità di Presidente p.t. della società (OMISSIS) (dal 2005 e poi liquidatore; in precedenza aveva il ruolo di componente del consiglio di amministrazione), per la condotta di sottoscrizione di assegni che erogavano denaro ingiustificatamente dalle casse della società controllata poi fallita a quelle della associazione Confcommercio di Firenze. Nella sentenza impugnata, non essendosi raggiunta la prova a suo carico, la Corte d'Appello lo riteneva responsabile per la diversa condotta di omessa vigilanza sulla gestione della società di cui è stato Presidente nel periodo di interesse, dando per assiomatica la sua consapevolezza dei versamenti di danaro effettuati. Il mutamento radicale dell'imputazione (da condotta attiva a condotta omissiva) avrebbe reso necessaria una nuova contestazione, ai sensi dell'art. 516 cod. proc. pen., in mancanza della quale i giudici di secondo grado, piuttosto che pronunciarsi, avrebbero dovuto restituire gli atti al pubblico ministero ex art. 521 cod. proc. pen. Con un secondo ed un terzo motivo il ricorrente deduce violazione di legge in relazione all'art. 223, commi 1 e 2, l. fall. e contraddittorietà ed illogicità manifesta della motivazione per mancanza di prova dell'elemento psicologico del reato e della stessa condotta materiale. La motivazione, da un lato, individuerebbe nel V. - ed al più nel commercialista delle società coinvolte - gli unici soggetti realmente artefici delle rimesse reciproche di denaro tra enti della "galassia" Confcommercio, dall'altro, dà per scontato che il ricorrente sapesse quanto stava avvenendo e si rappresentasse il pericolo per la conservazione della garanzia patrimoniale e la tutela dei creditori, basando la presunzione sulla qualifica ed il ruolo formale rivestito dallo S.. Egualmente, non vi sono indicazioni concrete sulla condotta materiale posta in essere dall'imputato per realizzare il reato: il mero riferimento all'incarico di Presidente basta alla Corte d'Appello per fondare la responsabilità di S.; ci si dimentica come risulti dalla stessa sentenza che la contabilità fosse formata esclusivamente, e con aggiustamenti "di comodo", dal V. e dall' A., circostanza quest'ultima che esclude qualsiasi possibilità di configurare un obbligo, omesso, di concreta vigilanza da parte dei Presidenti del consiglio di amministrazione delle società fallite, necessariamente ignari di quanto stava accadendo. Sarebbe stato, dunque, corretto escludere la responsabilità di questi ultimi, così come è stato fatto per i componenti dei consigli di amministrazione. Con un quarto motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, negate in ragione della durata delle distrazioni e della loro entità, senza tener conto del comportamento processuale ed extraprocessuale dell'imputato. CONSIDERATO IN DIRITTO La trattazione dei ricorsi, per ragioni di chiarezza espositiva, deve avvenire necessariamente in modo separato, sulla base dei motivi proposti dai diversi ricorrenti. 1. Ricorso S. (avv. D'Avirro). I primi cinque motivi di ricorso sono inammissibili perchè manifestamente infondati e versati in fatto. Essi propongono deduzioni che implicano una rivalutazione nel merito della sentenza da parte di questa Corte, non consentita in sede di legittimità (Sez. 6, n. 27429 del 4/7/2006, Lobriglio, Rv. 234559; Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482). Ed infatti, è stato più volte ribadito che il giudice di legittimità non può sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di giudizio (Sez. 5, n. 39048 del 25/9/2007, Casavola, Rv. 238215; Sez. 6, n. 25255 del 14/2/2012, Minervini, Rv. 253099), restando esclusa la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o attendibilità delle fonti di prova (Sez. 2, n. 7380 del 11/1/2007, Messina, Rv. 235716). I primi quattro motivi, in particolare, sono anche afflitti da genericità di esposizione, vizio che si ritrova anche nei relativi motivi d'appello, specialmente con riferimento alla deduzione (quarto motivo di ricorso) secondo cui le distrazioni contestate sarebbero rimborsi di somme dovute dalle società fallite alla Confcommercio per i costi da quest'ultima sostenuti (anche per l'assunzione di dipendenti) nell'interesse di (OMISSIS) e di (OMISSIS); ebbene, la rappresentazione di tale diversa giustificazione delle distrazioni rilevate dall'impostazione di accusa si è tenuta sempre in forma assertiva e sostanzialmente apodittica, senza addurre specifici elementi fattuali che la indicassero. Del resto, i tre motivi di ricorso iniziali non tengono conto della coerenza della ricostruzione operata dalla motivazione d'appello, per quanto riguarda le somme effettivamente imputate alla condotta distrattiva di S.. Il quinto motivo erra quanto alla ricostruzione della giurisprudenza di legittimità in materia di bancarotta fraudolenta patrimoniale, adombrando anche una non meglio precisata incostituzionalità dell'art. 223 l. fall., questione, tuttavia, che non supera il vaglio di ammissibilità, essendo del tutto generica e mancante dei necessari, minimi riferimenti alle norme costituzionali asseritamente violate. Le ragioni del ricorrente muovono dall'analisi e dall'adesione alle affermazioni della sentenza Sez. 5, n. 47502 del 24/09/2012, Corvetta, Rv. 253493, che, traendo spunto dalla premessa che, nel reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, lo stato di insolvenza che dà luogo al fallimento costituisce elemento essenziale del reato, in quanto evento dello stesso, ha ritenuto che esso deve porsi in rapporto causale con la condotta dell'agente e deve essere, altresì, sorretto dall'elemento soggettivo del dolo. Deve chiarirsi che siffatta posizione è rimasta del tutto isolata nella giurisprudenza di legittimità, la quale, dopo la pronuncia Corvetta ha ritenuto, invece, opportuno ribadire che, ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, non è necessaria l'esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento (cfr. Sez. 5, n. 32352 del 07/03/2014, Tanzi, Rv. 261942; conf., ex plurimis, Sez. 5, n. 11095 del 13/02/2014, Ghirardelli, Rv. 262741; Sez. 5, n. 47616 del 17/07/2014, Simone, Rv. 261683; Sez. 5, n. 26542 del 19/03/2014, Riva, Rv. 260690; Sez. 5, n. 11793/14 del 05/12/2013, Marafioti, Rv. 260199; Sez. 5, n. 232 del 09/10/2012, Sistro, Rv. 254061), come anche ha affermato reiteratamente che il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è reato di pericolo a dolo generico per la cui sussistenza non è necessario che l'agente abbia consapevolezza dello stato di insolvenza dell'impresa, nè che abbia agito allo scopo di recare pregiudizio ai creditori (Sez. 5, n. 3229/13 del 14/12/2012, Rossetto, Rv. 253932; conf., ex plurirnis, Sez. 5, n. 21846 del 13/02/2014, Bergamaschi, Rv. 260407). Tale più corretto indirizzo interpretativo, al quale il Collegio intende aderire, ha ricevuto anche l'autorevole avallo delle Sezioni Unite, le quali, con la sentenza Sez. U, n. 22474 del 31/3/2016, Passarelli, Rv. 266804-266805 hanno riaffermato, da un lato, che l'elemento soggettivo del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è costituito dal dolo generico, per la cui sussistenza non è necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell'impresa, nè lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte; dall'altro, la non necessità di alcun nesso causale tra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento, ai fini della configurabilità del reato di bancarotta, essendo sufficiente che l'agente abbia cagionato il depauperamento dell'impresa, destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività. In motivazione, le Sezioni Unite hanno precisato che i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilievo in qualsiasi momento siano stati commessi e, quindi, anche se la condotta si è realizzata quando ancora l'impresa non versava in condizioni di insolvenza. Orbene, il dato interpretativo della non necessità di alcun nesso causale tra condotta distrattiva e fallimento è stato ribadito complessivamente dalla giurisprudenza di legittimità successiva alla sentenza Corvetta, a prescindere dalla questione dogmatica relativa alla natura della sentenza di fallimento: ovvero se essa costituisca condizione obiettiva di punibilità - come è stato affermato da una tesi recente (Sez. 5, n. 13910 del 8/2/2017, Santoro, Rv. 269388; Sez. 5, n. 53184 del 12/10/2017, Fontana, Rv. 271590; Sez. 5, n. 992 del 2018, Bonofiglio, Rv. 271920; Sez. 5, n.4400 del 6/10/2017, Cragnotti, Rv. 272256), coerente con la prospettiva entro la quale si muove la motivazione delle stesse Sezioni Unite Passarelli, nonchè con l'impostazione della dottrina maggioritaria sul tema - oppure elemento costitutivo del reato, secondo l'impostazione tradizionale (cfr. Sez. U, n. 2, del 25/1/1958, Mezzo, Rv. 098004; Sez. 5, n. 15850 del 2676/1990, Bordoni, Rv. 185883; Sez. 1, n. 4356 del 16/11/2000, dep. 2001, Agostini, Rv. 218250; Sez. 1, n. 1825 del 6/11/2006, dep. 2007, Iacobucci, Rv. 235793), ricalcata, o soltanto non avversata, da alcune pronunce recenti, tra le quali Sez. 5, n. 45288 del 11/5/2017, Gianesini, Rv. 271114; Sez. 5, n. 38396 del 23/6/2017, Sgaramella, Rv. 270763). La bancarotta, infatti, è reato di pericolo concreto (cfr., da ultimo, Sez. 5, n. 17819 del 24/3/2017, Palitta, Rv. 269562; Sez. 5, n. 50081 del 14/9/2017, Zazzini, Rv. 271437) e questa constatazione smentisce qualsiasi altra costruzione differente, che configuri la necessità di un nesso causale tra condotta e volontà distrattive, da un lato, e fallimento dall'altro, quasi si trattasse, invece, di reato di evento. Dunque, in ogni caso, nessun dubbio residua circa il fatto che la sentenza Corvetta citata dal ricorrente rappresenti una voce del tutto isolata e non corrispondente all'elaborazione interpretativa della Suprema Corte circa gli elementi di configurabilità del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale. L'errata prospettiva giuridica del ricorrente, pertanto, rende inesatte anche le sue deduzioni difensive, inficiandone la ricostruzione contraria a quella proposta dalla Corte d'Appello, che si presenta, peraltro, logica e ben argomentata con riferimento alla riconducibilità allo schema tipico del reato delle condotte distrattive poste in essere dal S. e dai coimputati coinvolti nelle contestazioni di bancarotta fraudolenta, con corretto e puntuale richiamo alla giurisprudenza di legittimità poc'anzi citata. L'ultimo motivo, riferito alla dosimetria della pena ed alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, è infondato. Il giudice d'appello ha applicato correttamente i parametri di cui all'art. 133 cod. peri. per determinare l'entità della sanzione nei confronti del ricorrente S. (tra i quali è contemplata anche la gravità del fatto: cfr. Sez. 3, n. 11963 del 16/10/2010, dep. 2011, Picaku, Rv. 249754; Sez. 6, n. 20818 del 23/1/2002, Bala, Rv. 222020), nè vi è contraddizione tra mancato riconoscimento delle attenuanti di cui all'art. 62-bis cod. pen. ed esatta determinazione della somma distratta da parte della sentenza impugnata, potendo la condotta rimanere di rilevante entità complessiva - tale da condurre ad un giudizio negativo sulla concedibilità delle circostanze attenuanti generiche - pur se ridimensionata. Del resto deve essere ribadita in questa sede la recente, chiara affermazione secondo cui, in tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purchè sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione delle attenuanti ex art. 62-bis cod. pen. (Sez. 5, n. 43952 del 13/4/2017, Pettinelli, Rv. 2.71269); senza necessità, dunque, di analizzare tutti gli elementi (anche quelli favorevoli) che possano incidere sul giudizio. 2. Ricorso S. (avv. Padovani e avv. D'Avirro). L'unico motivo di ricorso si presenta infondato e deve essere, pertanto, rigettato. In estrema sintesi, l'argomento difensivo si può racchiudere nella contestazione secondo cui la Corte d'Appello avrebbe sostanzialmente confuso la prova del dolo di bancarotta fraudolenta con la prova della condotta oggettiva di reato, eludendo quest'ultima e considerando l'imputato ricorrente quasi fosse un socio delle società fallite, circostanza non corrispondente alla realtà, poichè S. aveva semplicemente avuto un ruolo di responsabilità nella Confcommercio fiorentina. Si sarebbe erroneamente ricostruita la posizione di S. come quella di chi aveva l'obbligo giuridico di vigilare sulle fallite ed evitare che condotte illecite da parte degli amministratori delle società collegate alla Confcommercio determinassero il loro depauperamento, confondendo l'informazione certamente conosciuta dal ricorrente circa i problemi finanziari della Confcommercio fiorentina con la consapevolezza dello stato economico delle fallite e della mancanza di giustificazione ed illegittimità delle rimesse di denaro tra queste ultime e la Confcommercio. Ebbene, le doglianze sono infondate. La motivazione della Corte d'Appello sul coinvolgimento di S. nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale è logica, coerente ed adeguata e non fa leva su una mera condotta omissiva di mancata vigilanza da parte del S., omissione che comunque riecheggia, anche nello schema normativo adottato dal ricorrente (gli artt. 40 e 43 cod. pen.), una impostazione del reato di bancarotta come delitto di evento, rifiutata dalla giurisprudenza di legittimità prima e dopo l'unica sentenza difforme in tal senso (la pronuncia Corvetta del 2012, cit.), con una mole di pronunce alle quali il Collegio, come detto al punto 1, aderisce. Ciò che invece è stato accertato è costituito da condotte di gestione attiva, reale e concreta da parte del S. del denaro proveniente dalle società fallite, quale Presidente della Giunta dell'Associazione Confcommercio fiorentina dal 2000 al 2003; egli era ben consapevole che il denaro utilizzato da Confcommercio per spese sue proprie proveniva senza giustificazione (se non per una piccola parte di rimborsi per spese dovute a personale impiegato dall'associazione e utilizzato dalle fallite) dalle casse delle società di servizi (OMISSIS) e (OMISSIS): si tratta di spese protrattesi per anni e per il finanziamento della vita stessa dell'associazione, quali l'affitto dei locali sede della stessa a Firenze, il telefono, il riscaldamento, spese puntualmente elencate dal curatore del fallimento (OMISSIS), in particolare, ed attinenti anche agli anni della gestione S.. La registrata commistione tra l'utilizzo delle risorse delle società fallite e la gestione della vita associativa di Confcommercio è stata adottata dagli imputati tutti, ed anche dal S. - secondo la ricostruzione che ne fa la corretta e compiuta motivazione d'appello - in modo sistematico, per anni, senza che si possa ipotizzare che non fosse chiaro che tali condotte di distrazione pluriennali venivano effettuate per scopi privi di giustificazione dal lato delle società fallite ed a vantaggio della sola associazione. In sostanza, la Confcommercio fiorentina trattava le fallite come delle vere e proprie "casseforti" personali, dalle quali attingere risorse in denaro senza alcun titolo, al fine di effettuare pagamenti e quant'altro occorresse per la propria gestione. Il S., in tale contesto, ha ricoperto il ruolo di extraneus del reato e, secondo la convincente motivazione d'appello, che non presenta iati logici nè aporie argomentative, nella sua condotta si configurano i caratteri di responsabilità in concorso voluti dalla giurisprudenza di legittimità. Ed infatti, correttamente sono state richiamate le affermazioni di Sez. 5, n. 1706 del 12/11/2013, dep. 2014, Barbaro, Rv. 258950, secondo cui, in tema di concorso nel reato di bancarotta fraudolenta documentale, il dolo dell'extraneus nel reato proprio dell'amministratore consiste nella volontarietà della propria condotta di sostegno a quella dell'intraneus, con la consapevolezza che essa determina un depauperamento del patrimonio sociale ai danni dei creditori, non essendo, invece, richiesta la specifica conoscenza del dissesto della società (conformi, tra le molte, Sez. 5, n. 54291 del 17/5/2017, Bratomi, Rv. 271837; Sez. 5, n. 38731 del 17/5/2017, Bolzoni, Rv. 271123; Sez. 5, n. 12414 del 26/1/2016, Morosi, Rv. 267059). Dunque, neppure l'argomentazione fondata sulla rilevanza della inconsapevolezza in capo al ricorrente dello stato di dissesto o difficoltà economica della società depauperata ha pregio. Se l'unica consapevolezza richiesta all'extraneus è quella relativa alla natura distrattiva dei versamenti ricevuti ed alla potenziale incidenza di essi sulle condizioni finanziarie delle società depauperate, effettivamente la Corte d'Appello dà atto di come e perchè tale consapevolezza sussistesse nel S., il quale era a conoscenza del fatto che si trattava di prelievi senza giustificazione e che la Confcommercio versava in condizioni di difficoltà economica tali da far presumere di non poter essere in grado di operare eventuali restituzioni (l'imputato risulta con certezza coinvolto nelle procedure di ispezione della Confcommercio nazionale su quella fiorentina, proprio ricollegabili alla sua gestione a dir poco "disinvolta"). 3. Ricorso V. (avv. Annetta). Anche i motivi relativi al ricorso nell'interesse dell'imputato V. risultano infondati. 3.1. Il primo ed il secondo motivo possono essere trattati unitariamente e riguardano un'eccezione, che si ritrova comune anche ad altri ricorsi: la sussistenza di un gruppo societario tra le fallite e la Confcommercio fiorentina e, conseguentemente, la relativa possibilità di ipotizzare ragioni di "vantaggi compensativi" nei rapporti economici tra le società in decozione e l'associazione sindacale locale. La sentenza della Corte d'Appello di Firenze ha escluso, così come del resto aveva fatto anche il giudice di primo grado, che tra le due società fallite e la Associazione Confcommercio di Firenze sussistesse un rapporto giuridico-economico del tipo "gruppo imprenditoriale", in cui la seconda figurasse come holding e le altre due società fossero i collegati enti-satellite. Si sono rilevati come elementi ostativi, da un lato, la natura meramente associativa e non di società commerciale della Confcommercio (nei confronti della quale, infatti, il Tribunale di Firenze aveva respinto la richiesta di fallimento), dall'altro, la mancanza di un fine comune e di un piano imprenditoriale che regolasse i rapporti economici tra i diversi enti. La Corte d'Appello sottolinea, di contro, che nel processo si è accertato come fosse invalsa negli anni la prassi di attingere dai conti correnti delle società fallite per pagare le spese della associazione, senza tenere alcuna programmazione, nè rendicontazione, e senza giustificazioni e fatturazioni, con una pressochè totale confusione della contabilità che ha impedito anche di ricostruire in modo preciso i flussi di danaro dalle une all'altra: tale stato di cose rappresenta senza dubbio - secondo la Corte d'Appello un ostacolo alla configurabilità di qualsiasi forma di "gruppo" di imprese tra le fallite e la Confcommercio fiorentina. Anche le testimonianze raccolte vengono indicate in motivazione come di ostacolo alla ipotizzabilità di un "gruppo di imprese": dai racconti dei dipendenti è risultato, infatti, evidente che i rapporti economici tra società poi fallite ed associazione fossero del tutto estemporanei e tutti, completamente, a vantaggio della Confcommercio, che prelevava il denaro da una delle due società secondo le sue necessità, limitandosi a verificare quale di esse avesse sufficiente disponibilità di fondi, senza preoccuparsi, se non in poche occasioni, che vi fosse una giustificazione in rimborso per tale prelievo. In ogni caso, inoltre, la sentenza impugnata dà atto che non vi è stata prova alcuna di "vantaggi compensativi" che giustificassero le erogazioni dalle due società alla associazione: non era certo che vi fossero incrementi di clientela per le società fallite derivanti dall'associazione, nè che vi fossero state (e quali fossero) spese della associazione in favore delle fallite. In realtà, ciò che emerge è il fatto che la associazione "vivesse" al di sopra delle sue possibilità, con spese e personale non rapportabili al numero - non elevato - degli iscritti. La Corte d'Appello ha centrato in fatto la questione, pur dovendosi proporre alcunc necessarie precisazioni in relazione al fenomeno giuridico-economico noto come "gruppo", per l'inquadramento più corretto della questione sottoposta al Collegio. Ebbene, l'unico indicatore certo, attualmente desumibile dall'ordinamento, per individuare un "gruppo" di imprese può essere rinvenuto nell'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento della controllante sulla controllata, nota come "direzione unitarià', mancando una definizione normativa del fenomeno giuridico-economico in quanto tale. L'art. 2634 cod. civ. fa riferimento al "gruppo" di imprese solo per indicare la possibilità che in tal caso si possano configurare i cd. "vantaggi compensativi", senza tuttavia dare alcuna nozione in senso tecnico-giuridico di esso. L'art. 2359 cod. civ., nel definire le società controllate e quelle collegate, egualmente non offre aiuto quanto alla nozione di "gruppo" di imprese. Non soccorre neppure la giurisprudenza della Cassazione civile, che rimarca l'assenza di una nozione normativa di "gruppo" di imprese ed esclude la possibilità, a legislazione invariata, di ipotizzare procedure di concordato "di gruppo". In particolare, Sez. 1, n. 19014 del 31/7/2017, Rv, 645174 ha affermato in motivazione che, nell'ambito del codice civile, il "gruppo di società" costituisce oggetto di un riconoscimento solo indiretto, senza formule definitorie. Tale riconoscimento è insito negli artt. 2497 e ss. cod. civ., ove si rinviene la disciplina della responsabilità da direzione e coordinamento. All'atto della crisi d'impresa, il riferimento al "gruppo" è legittimo in quanto correlato desumibile dalla suddetta disciplina - della direzione e del coordinamento tra società -, in modo da potersi propriamente discorrere di "gruppo" in quelle (sole) dinamiche in cui una di tali società (la capogruppo) esercita la propria attività d'impresa dirigendo e coordinando le altre. Pertanto il (vero) concordato di gruppo non corrisponde alla fattispecie nella quale l'unitarietà della proposta e del piano era intervenuta all'interno di una situazione di crisi gestita da parte dì singole società, mediante forme di aggregazione di distinto segno sostanzialmente limitate a (meri) conferimenti di beni e all'accollo di debiti. La sentenza afferma ancora che la non corrispondenza tra i concetti di "gruppo" e le forme di aggregazione che "gruppo" non sono è oggi confortata dal progetto di riforma organica della disciplina della crisi d'impresa e dell'insolvenza, culminato nello schema di disegno di legge all'esame del Parlamento al momento dell'analisi compiuta dalla pronuncia in esame. Anche questa sentenza, dunque, si muove nella direzione di ipotizzare un "gruppo" solo quando sussiste una "direzione" ordinata e programmata della società controllante sulle controllate. Del resto, la miglior dottrina sottolinea come lo schema tradizionale del "controllo" da parte di una società su un'altra non esaurisce il tema e non comporta automaticamente l'esistenza di un "gruppo" di imprese, ma ne costituisce mero indice di presunzione quello che rileva, invece, è l'attività di direzione e coordinamento svolta dalla capogruppo o holding che ha in ogni caso valenza solo sul piano delle finalità organizzative d'impresa, ma non pone alcun vincolo giuridico per gli amministratori delle società controllate. Si prende atto che l'ordinamento giuridico italiano, dopo aver a lungo volutamente ignorato il fenomeno dell'aggregazione d'imprese, a fronte della sua incontenibile affermazione come modulo di organizzazione aziendale, ha finito per disciplinarne alcuni aspetti, soprattutto al fine di correggerne eventuali effetti distorsivi. Si è detto, infatti, che, a partire dagli anni settanta, la produzione normativa ha cercato di tradurre il fenomeno in termini giuridici, seguendo, peraltro, un approccio che ha in radice rinunziato all'elaborazione di una disciplina unitaria e organica, privilegiando invece la frammentaria modulazione di norme finalizzate a comporre gli specifici problemi proposti al diritto comune dall'aggregazione tra imprese. L'intervento legislativo di maggior respiro è rappresentato dall'aver introdotto nel codice civile, con il D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, il nuovo Capo 9^ del Titolo 5 del Libro quinto, che, sotto la rubrica "Direzione e coordinamento di società ", ha collocato, agli artt. 2497 e ss., una disciplina tesa a regolamentare sotto diversi profili (responsabilità, pubblicità ecc.) gli effetti della riconosciuta esistenza di aree di aggregazione tra imprese caratterizzate per l'appunto da una unitarietà dell'indirizzo gestionale e organizzativo. Il soggetto titolare dell'attività direzionale viene identificato dall'art. 2497-sexies cod. civ., in via presuntiva, in quello che esercita il controllo (organico o di fatto) sulle altre componenti del gruppo. Sebbene tali norme costituiscano il più evoluto strumento di "interpretazione" del fenomeno dei gruppi presente nel nostro ordinamento, esse non hanno introdotto uno "statuto" dei gruppi, nè hanno operato una esatta e compiuta perimetrazione di tale fenomeno, non evocandosi mai, negli artt. 2497 e ss. cod. civ., il termine "gruppo". Si è detto, dunque, che il legislatore ha inteso disciplinare le conseguenze di una situazione di fatto determinata dall'effettivo esercizio dell'attività di direzione e controllo (senza tuttavia esplicitarne gli elementi identificativi), con la volontà di catalogare il fenomeno dei gruppi di fatto attraverso quello che ne è ritenuto un elemento rivelatore, e cioè, per l'appunto, l'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento. Ciò perchè la legittimazione di tale fenomeno, come è stato ben osservato, trova la sua primaria fonte nella libertà di iniziativa economica sancita dall'art. 41 Cost., che consente all'imprenditore di scegliere, tra l'altro, anche il tipo di organizzazione col quale esercitare l'attività di impresa. Forse anche per questo il legislatore italiano non ha cercato di ingabbiare il fenomeno in forme giuridiche eccessivamente rigide, ma piuttosto ha rinunciato alla creazione di una fattispecie legale tipica ed alla definizione giuridica di "gruppo". In tale prospettiva la più evidente interferenza generata dalle dinamiche dei gruppi riguardi le società di capitali. Tuttavia, se si analizza l'attuale sistema normativo, non si rinvengono ostacoli giuridici alla considerazione che un gruppo di imprese possa essere costituito anche da "entità" economiche non costituite in forma societaria (cfr. l'art. 2497 cod. civ., sulla responsabilità per l'attività di coordinamento di società, e l'art. 2497-sexies cod. civ., sull'attività di coordinamento della capogruppo, che si riferiscono alla società o all'ente che "controlla"). Ciò che costituisce "gruppo", in ultima analisi, non è tanto la natura societaria di tutti i suoi componenti (o la loro assoggettabilità ad identica disciplina giuridica quanto meno in ordine alla sottoposizione alla procedura fallimentare in caso di decozione, come ipotizzato dalla Corte d'Appello), quanto piuttosto la relazione economico-imprenditoriale tra i soggetti imprenditoriali componenti del gruppo e la presenza di un ente con funzioni di coordinamento e direzione. Ciò posto, sia pur in estrema sintesi, deve affermarsi che, in astratto e nell'attuale stato normativo, è possibile ipotizzare che un "gruppo" di imprese possa essere costituito da soggetti anche con natura giuridica "mista" - società e associazioni senza fini di lucro - purchè tra loro si instauri un rapporto di direzione, coordinamento e controllo nelle attività di gestione, e ciò anche nel caso in cui tale attività di direzione spetti alla associazione, nonostante la sua impossibilità di essere sottoposta a procedura fallimentare in caso di decozione. Dunque, nel caso di specie, un "gruppo" avrebbe potuto costituirsi, sebbene in concreto non si sia costituito, per l'assenza di una reale attività di direzione da parte della associazione Confcommercio fiorentina, ed anzi non essendovi un centro unico di coordinamento della politica imprenditoriale e neppure un piano di azione imprenditoriale comune con le società di servizi fallite. Piuttosto, i rapporti tra associazione e società fallite erano improntati ad uno statico legame di "proprietà" di quote (si rammenti che risulta dalla sentenza impugnata che Confcommercio fiorentina era titolare del 100% delle quote della s.r.l. (OMISSIS), la quale a sua volta era proprietaria al 100% delle quote della s.r.l. (OMISSIS)) e non già ad una dinamica di "gruppo", che presuppone attività di gestione sotto la direzione ed il controllo di una capogruppo. Ed invece, nel caso di specie, l'associazione Confcommercio fiorentina si è limitata (si fa per dire) ad utilizzare le risorse delle fallite come proprie, trattando le società partecipate come serbatoi di risorse economiche, in modo totalmente estemporaneo e disordinato (con confusione di personale, prelievi dalle casse delle fallite senza giustificazioni). In tale situazione, in assenza di un "gruppo" economico costituito in concreto, non sussiste alcun problema di verifica di "vantaggi compensativi", i quali, ai sensi dell'art. 2634, come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. 5, n. 49787 del 5/6/2013, Bellemans, Rv. 257562), escludono la rilevanza penale dell'atto depauperatorio, qualora di essi la società apparentemente danneggiata abbia fruito o sia in grado di fruire in ragione della sua appartenenza proprio ad un più ampio gruppo di società. Nè, per escludere la natura distrattiva di un'operazione infragruppo, invocando il maturarsi di vantaggi compensativi, è sufficiente allegare, peraltro, la mera partecipazione al gruppo, ovvero l'esistenza di un vantaggio per la società controllante, dovendo invece l'interessato dimostrare il saldo finale positivo delle operazioni compiute nella logica e nell'interesse del gruppo, elemento indispensabile per considerare lecita l'operazione temporaneamente svantaggiosa per la società depauperata (cfr., tra le tante, Sez. 5, n. 46689 del 30/6/2016, Coatti, Rv. 268675; Sez. 5, n. 44963 del 27/9/2012, Bozzano, Rv. 254519). In sintesi, la natura distrattiva di un'operazione infra-gruppo può essere esclusa in presenza di vantaggi compensativi che riequilibrino gli effetti immediatamente negativi per la società fallita e neutralizzino gli svantaggi per i creditori sociali (Sez. 5, n. 16206 del 2/3/2017, Magno, Rv. 269702). Nulla di tutto quanto individuato dalla giurisprudenza per essere "vantaggio compensativo" può dirsi realizzato nel caso di specie, neppure in fatto ed a prescindere dalla configurabilità di un "gruppo" tra Confcommercio fiorentina e società partecipate fallite: le distrazioni accertate, come detto, sono spesso prive di giustificazione; a volte anche realizzate per spese personali delle rappresentanze di Confcommercio fiorentina; la "confusione" del personale tra fallite e Confcommercio non spiega eventuali vantaggi compensativi, ma attesta solo una situazione giuridica ed economica di totale promiscuità patrimoniale tra le fallite e l'associazione del commercio loro unica socia. Dunque, ed infine, nessun "gruppo" economico risulta costituito nel caso di specie, sicchè in radice va esclusa la possibilità di configurare vantaggi compensativi, i quali, peraltro, neppure sotto un profilo meramente materiale, possono dirsi realizzati. Anche il motivo inerente all'onere di dimostrazione dei vantaggi compensativi è infondato. Anzitutto, l'aver escluso in radice la possibilità di configurare vantaggi compensativi nell'ipotesi di specie, ed in relazione ai rapporti economici intercorrenti tra l'associazione dei commercianti di Firenze e le società (OMISSIS) e (OMISSIS), rende ovviamente inutile la deduzione riferita all'onere della prova della dimostrazione di essi, onere che, tuttavia, in ogni caso sarebbe gravato sul ricorrente interessato a dimostrare il saldo finale positivo delle operazioni compiute nella logica e nell'interesse del gruppo, elemento, quest'ultimo, indispensabile per considerare lecita l'operazione temporaneamente svantaggiosa per la società depauperata (cfr. Sez. 5, n. 8253 del 26/6/2015, dep. 2016, Moroni, Rv. 271149; Sez. 5, n. 48518 del 6/10/2011, Plebani, Rv. 251536). 3.3. L'ultimo motivo riferito alla insussistenza di reale capacità gestoria in capo al V. è completamente versato in fatto e, pertanto, secondo quanto già in precedenza affermato, inammissibile, oltre che nel merito manifestamente infondato, avendo la Corte d'Appello dato atto, con motivazione congrua e convincente, della ascrivibilità delle condotte distrattive (anche) al V.. 3.4. Infine, i motivi aggiunti si presentano sostanzialmente riproduttivi delle deduzioni difensive riportate nei motivi principali, sicchè anche in relazione ad essi deve concludersi complessivamente per una decisione di rigetto. 4. Ricorso B. (avv. Fenyes). Il ricorso si articola in tre motivi, che risultano tutti infondati, ai limiti dell'inammissibilità. 4.1. Con il primo ed il secondo motivo (che possono essere trattati insieme, attenendo entrambi alla configurabilità dell'elemento oggettivo e soggettivo del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale), si deduce anzitutto vizio di motivazione apparente quanto alla effettiva responsabilità del ricorrente per le condotte distrattive (egli è stato componente della giunta della associazione Confcommercio e poi Presidente della stessa dal giugno ad ottobre 2006; inoltre, ha rivestito il ruolo di Presidente del consiglio di amministrazione della società (OMISSIS) s.r.l. dal 2003 al fallimento). Si contesta, altresì, la mancata configurazione nella fattispecie di un "gruppo" societario e l'assenza di motivazione sull'eventuale interesse di gruppo per i passaggi di risorse tra società controllate e Confcommercio controllante, interesse che invece la difesa ritiene sussistente. Infine, si evidenzia che non sarebbe stata raggiunta la prova dell'elemento soggettivo del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale. Ebbene, quanto alle ultime due ragioni argomentative, già si è chiarito per quale motivo è corretta la non configurabilità di un "gruppo" di imprese nel caso di specie, sicchè non sussiste alcun interesse di gruppo in nome del quale siano stati operati i finanziamenti dalle società fallite alla Confcommercio. Il dolo della bancarotta (oggetto principale della deduzione del secondo motivo, in cui si fa questione di errata interpretazione della disciplina di legge in merito) è, poi, stato ampiamente e coerentemente motivato dalla Corte d'Appello che ha evidenziato quanto e perchè l'imputato fosse a conoscenza dello stato di debitore insolvente della Confcommercio, che versava in gravi difficoltà economiche, come attestato da una verifica di contabilità sollecitata nel 2006 proprio da B., nonchè delle dazioni di danaro senza causa che (OMISSIS) s.r.l. e (OMISSIS) s.r.l. effettuavano a vantaggio della associazione (per la (OMISSIS) esse addirittura veniva contabilizzate palesemente con la voce "finanziamenti infruttiferi"), il che rende evidente la sussistenza del dolo del reato; si è già evidenziato come, infatti, la giurisprudenza di legittimità abbia reiteratamente affermato, anche attraverso una recente pronuncia delle Sezioni Unite, che l'elemento soggettivo del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è costituito dal dolo generico, per la cui sussistenza non è necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell'impresa, nè lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (cfr. Sez. U, n. 22474 del 31/3/2016, Passarelli, Rv. 266805). Del resto, il percorso motivazionale svolto dalla Corte d'Appello si inscrive correttamente nei criteri dettati dalla più recente giurisprudenza della Suprema Corte per l'indagine sulla condotta e sul dolo del delitto di cui all'art. 216 l. fall.. Si è, infatti, affermato che, in tema di bancarotta fraudolenta per distrazione, l'accertamento dell'elemento oggettivo della concreta pericolosità del fatto distrattivo e del dolo generico deve valorizzare la ricerca di "indici di fraudolenza", rinvenibili, ad esempio, nella disamina della condotta alla luce della condizione patrimoniale e finanziaria dell'azienda, nel contesto in cui l'impresa ha operato, avuto riguardo a cointeressenze dell'amministratore rispetto ad altre imprese coinvolte, nella irriducibile estraneità del fatto generatore dello squilibrio tra attività e passività rispetto a canoni di ragionevolezza imprenditoriale, necessari a dar corpo, da un lato, alla prognosi postuma di concreta messa in pericolo dell'integrità del patrimonio dell'impresa, funzionale ad assicurare la garanzia dei creditori, e, dall'altro, all'accertamento in capo all'agente della consapevolezza e volontà della condotta in concreto pericolosa (Sez. 5, n. 38396 del 23/6/2017, Sgaramella, Rv. 270763). Ebbene, non vi è dubbio che tutti gli elementi indicatori di fraudolenza individuati concorrano, nel caso di specie, a rivelare nella condotta dell'imputato il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, sorretto dall'elemento soggettivo doloso richiesto: è innegabile, infatti, la irriducibile estraneità a canoni di ragionevolezza imprenditoriale dei fatti di squilibrio del rapporto attività-passività della (OMISSIS) s.r.l. amministrata dal B., là dove si effettuavano dazioni di danaro senza giustificazioni ad un'associazione palesemente insolvente e in gravi difficoltà economiche. Da tale dato emerge pacificamente, per gli elementi ben individuati nella sentenza impugnata, che il ricorrente era ben consapevole del pericolo cui in tal modo esponeva il patrimonio societario (coerentemente a tale impostazione, cfr. anche Sez. 5, n. 17819 del 24/3/2017, Palitta, Rv. 269562 che ha ben riaffermato la natura di reato di pericolo concreto della bancarotta fraudolenta patrimoniale prefallimentare, in cui l'atto di depauperamento deve risultare idoneo ad esporre a pericolo l'entità del patrimonio della società in relazione alla massa dei creditori e deve permanere tale fino all'epoca che precede l'apertura della procedura fallimentare; conforme, Sez. 5, n. 50081 del 14/9/2017, Zazzini, Rv. 271437). L'analisi sin qui condotta porta a ritenere del tutto infondato anche l'argomento difensivo della motivazione apparente sulla responsabilità del ricorrente, che, invece, è stata ben enucleata, con dovizia di particolari e riferimento alle prove raccolte nelle diverse fasi di giudizio a suo carico, sicchè pare evidente che non si deduca in ricorso un vizio motivazionale, bensì si chieda a questa Corte una differente, e non consentita, rivalutazione delle ragioni di fatto della sentenza, proponendosi una diversa lettura nel merito della complessa vicenda contestata. 4.2. Il terzo motivo attiene al vizio di motivazione in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, ricollegata dal provvedimento impugnato alla entità già mite della pena inflitta in primo grado ed alla durata della condotta distrattiva posta in essere dal ricorrente. Qualche perplessità effettivamente sussiste sulle ragioni della sentenza utilizzate per escludere le attenuanti generiche quanto al confronto con la pena già inflitta; tuttavia, deve evidenziarsi che la motivazione fa espresso riferimento alla condotta dell'imputato - grave nel suo protrarsi - che, implicitamente ma con chiara desumibilità, per la Corte ha comportato una connotazione negativa della sua personalità. Ciò è sufficiente a far ritenere motivato il diniego, alla luce della giurisprudenza di legittimità secondo cui la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai fini dell'art. 62-bis cod. pen. è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, non sindacabile in sede di legittimità, purchè non contraddittoria e congruamente motivata, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell'interesse dell'imputato (Sez. 6, n. 42688 del 24/9/2008, Caridi, Rv. 242419). E difatti, in tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purchè sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/4/2017, Pettinelli, Rv. 271269, Sez. 3, n. 28535 del 19/3/2014, Lule, Rv. 259899; Sez. 1, n. 12496 del 21/9/1999, Guglielmi, Rv. 214570). Dunque, nel caso di specie, ferma la non sindacabilità in cassazione del giudizio di fatto sulla concedibilità delle attenuanti generiche, se motivato in modo coerente, deve sottolinearsi la sufficienza, a tali fini motivazionali, dell'aver posto in risalto alcuni particolari significativi della condotta distrattiva, quali la sua lunga durata come Presidente della (OMISSIS) s.r.l., l'entità delle distrazioni in danno di quest'ultima e la mancanza di resipiscenza dimostrata, proseguendo nel depauperamento sociale pur dopo l'accertamento del rilevantissimo deficit della associazione Confcommercio verso la quale venivano dirottati senza causa i fondi patrimoniali della fallita da lui amministrata. 5. Ricorso A. (avv. Valignani). L'unico motivo del quale è composto il ricorso, basato sulla inconsapevolezza di quanto stava avvenendo, opera, invece, tutta del coimputato V., reale dominus dell'attività della società, risulta infondato, ai limiti dell'inammissibilità. Ed infatti, sia pure sotto le vesti del vizio motivazionale, ciò che si propone al Collegio è una rilettura nel merito della sentenza impugnata, non consentita in sede di legittimità, per far passare una propria e differente ricostruzione in fatto della vicenda (Sez. 6, n. 27429 del 4/7/2006, Lobriglio, Rv. 234559; Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482). E' stato più volte ribadito che il giudice di legittimità non può sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di giudizio (Sez. 5, n. 39048 del 25/9/2007, Casavola, Rv. 238215; Sez. 6, n. 25255 del 14/2/2012, Minervini, Rv. 253099), restando esclusa la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o attendibilità delle fonti di prova (Sez. 2, n. 7380 del 11/1/2007, Messina, Rv. 235716). In ogni caso, le ragioni difensive risultano nel merito prive di qualsiasi pregio. Il ricorrente, commercialista di lunga esperienza, è stato il Presidente del collegio sindacale della s.r.l. (OMISSIS), incaricato di gestire tutta la sua contabilità e di catalogarne nei bilanci i rapporti con Confcommercio fiorentina e con le società ad essa collegate. La Corte d'Appello ha ragionevolmente motivato sul perchè della sua ritenuta responsabilità, facendo riferimento al suo prolungato incarico contabile e di controllo bilanci in riferimento alla (OMISSIS) ed alle altre società gravitanti nell'area economica di Confcommercio fiorentina ed alla prova del suo pieno coinvolgimento nell'attività distrattiva, basata sulle relazioni del curatore fallimentare, che ha sottolineato come i sindaci delle società coinvolte non abbiano svolto il loro compito di vigilanza e controllo e come A. avesse, in tale contesto, il ruolo principale, chiarito da numerose testimonianze di dipendenti (OMISSIS) e Confcommercio, i quali hanno evidenziato lo stretto rapporto intercorrente tra V. ed il ricorrente, anche e proprio in relazione all'esigenza di "adeguare" i bilanci alle rischiose operazioni di finanziamento senza causa dalla fallita in favore dell'associazione, operazioni alle quali egli, ben consapevole della loro natura indebita, non si è mai opposto, anzi ha diretto ed avallato, nonostante sapesse la critica situazione economica in cui versava l'associazione locale di Confcommercio. Sussistono, pertanto, senza dubbio, a carico del ricorrente, i caratteri della condotta di reato già enucleati e che rendono configurabile nei suoi confronti la bancarotta fraudolenta patrimoniale, sicchè deve essere rigettato il motivo di ricorso sotto questo profilo. 6. Ricorso C. (avv. Maresca). Il ricorrente, presidente del consiglio di amministrazione di (OMISSIS) dal 2002 al 2004, deduce tre motivi di ricorso. 6.1. Con il primo motivo si rappresenta che la pena non sia stata indicata nel dispositivo di primo grado, ma solo in motivazione, e che la Corte d'Appello, su impugnazione del pubblico ministero abbia ritenuto non già, come sarebbe stato corretto, di dover annullare sul punto la sentenza ma di dover provvedere ad individuare essa stessa la pena, traendo spunto da quanto previsto dall'art. 604 cod. proc. pen.. Il provvedimento impugnato compie tale operazione, peraltro, indicando la misura già proposta dal Tribunale nella sua motivazione e "dimenticata" nel dispositivo. Ebbene, non vi è stata alcuna "reformatio in peius" da parte della Corte d'Appello, in presenza di appello del pubblico ministero sul punto. E' vero, infatti, quanto affermato nella motivazione impugnata circa il fatto che l'art. 604 cod. proc. pen. prevede tassativamente i casi di annullamento in appello con restituzione della sentenza (cfr. Sez. 6, n. 58094 del 30/11/2017, Amorico, Rv. 271735, in relazione alla mancanza assoluta di motivazione, che non dà luogo a nullità della sentenza, poichè non ricompresa nell'elenco tassativo di casi e su cui, in precedenza, si erano espresse anche Sez. U, n. 3287 del 2009, Rv. 244118) e che, tra questi, non è contemplata l'ipotesi in esame. Nel caso di specie il giudice d'appello ha correttamente letto l'art. 604 cod. proc. pen., là dove non consente di dichiarare la nullità della sentenza per il contrasto tra dispositivo e motivazione, e, d'altra parte, traendo ragione dall'appello proposto dal pubblico ministero sul punto, ha riproposto la motivazione sulla pena e l'ha inserita nel proprio dispositivo, nella misura, peraltro, già chiaramente individuata dal primo giudice in motivazione e ben nota al ricorrente. La giurisprudenza della Suprema Corte ha già segnalato, infatti, con principio che si ribadisce nella fattispecie in esame, come vi sia necessità che il giudice d'appello decida nel merito e non annulli la sentenza nei casi di contrasto tra dispositivo e motivazione, non rientranti nell'elenco tassativo dell'art. 604 cod. proc. pen., essenzialmente attinenti alla violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza e alla rilevazione di nullità assolute o di ordine generale non sanate, i quali, soli, legittimano l'esercizio del potere di annullamento della sentenza di primo grado (Sez. 5, n. 19051 del 19/2/2010, Dicandia, Rv. 247252). Ne consegue che, ricorrendo un'ipotesi di discrasia tra dispositivo e motivazione (ancorchè dovuta ad una dimenticanza nel dispositivo), il giudice deve prendere atto, nei limiti dell'effetto devolutivo, della differenza e, quindi, procedere alla valutazione dei motivi di appello. Dunque, nessuna violazione del principio di reformatio in peius emerge dall'operato dei giudici d'appello, i quali hanno aderito alle richieste della parte pubblica. La decisione è coerente, peraltro, a quella giurisprudenza di legittimità secondo cui, se è vero che l'omessa indicazione nel dispositivo della sentenza di primo grado delle statuizioni di carattere civile non può essere emendata ricorrendo alla procedura di correzione dell'errore materiale, nè il giudice d'appello può porvi rimedio, decidendo nel merito onde evitare così l'annullamento della sentenza, qualora manchi l'impugnazione della parte civile (Sez. 2, n. 28168 del 24/6/2010, Maggiore, Rv. 248149), tuttavia, detta omissione, quantunque dovuta a mera dimenticanza, può essere emendata dal giudice d'appello che, entro i limiti del devoluto, può decidere nel merito sulle richieste della parte civile senza necessità di annullare il provvedimento impugnato (Sez. 6, n. 7643 del 22/10/2009, dep. 2010, Tessitore, Rv. 246165; Sez. 6, n. 11267 del 7/10/1998, Del Fonso, Rv. 211750). Ciò vale nel caso di impugnazione della parte civile e, ovviamente, nell'ipotesi - come quella di specie - in cui ad impugnare sia stata la parte pubblica del pubblico ministero. Del resto, è stato correttamente affermato, con ragioni che il Collegio condivide, che, in caso di contrasto tra dispositivo e motivazione non contestuali, il carattere unitario della sentenza, in conformità al quale l'uno e l'altra, quali sue parti, si integrano naturalmente a vicenda, non sempre determina l'applicazione del principio generale della prevalenza del primo in funzione della sua natura di immediata espressione della volontà decisoria del giudice; invero, laddove nel dispositivo ricorra un errore materiale obiettivamente riconoscibile, il contrasto con la motivazione è meramente apparente, con la conseguenza che è consentito fare riferimento a quest'ultima per determinare l'effettiva portata del dispositivo, individuare l'errore che lo affligge ed eliminarne gli effetti, giacchè essa, permettendo di ricostruire chiaramente ed inequivocabilmente la volontà del giudice, conserva la sua funzione di spiegazione e chiarimento delle ragioni fondanti la decisione (ex multis Sez. 1, n. 47576 del 9/9/2014, Savini, Rv. 261402; conf. Sez. 6, n. 1397 del 15/9/2015, dep. 2016, Loielo, Rv. 266495; Sez. 4, n. 43419 del 29/9/2015, Forte, Rv. 264909; Sez. 2, n. 23343 del 1/3/2016, Ariano, Rv. 267082). Addirittura, si è detto che, in caso di discrasia sulla quantificazione della pena tra dispositivo e motivazione, qualora essa dipenda da un errore nella materiale indicazione della pena nel dispositivo e dall'esame della motivazione emerga in modo chiaro ed evidente la volontà del giudice, potendosi ricostruire il procedimento seguito per determinare la sanzione, la motivazione prevale sul dispositivo con la conseguente possibilità di rettifica dell'errore in sede di legittimità, secondo la procedura prevista dall'art. 619 cod. proc. pen., non essendo necessarie, in tal caso, valutazioni di merito (Sez. 4, n. 26172 del 19/5/2016, Ferlito, Rv. 267153; Sez. 2, n. 13904 del 9/3/2016, Palumbo, Rv. 266660; vedi anche, sulla concessione del beneficio della sospensione condizionale, erroneamente omesso in dispositivo, da parte della stessa Corte di cassazione, Sez. 2, n. 3186 del 28/11/2013, dep. 2014, Fu Fenglou, Rv. 258533). Invero, non si ignora che sul tema vi sono state alcune pronunce difformi (Sez. 2, n. 20958 del 15/5/2012, Musumeci, Rv. 252837; Sez. 3, n. 19537 del 10/2/2015, Attardi, Rv. 263638; Sez. 3, n. 11047 del 13/2/2016, dep. 2017, Bonaiuto, Rv. 269172), volte a dare prevalenza al dispositivo sempre e comunque, le quali, tuttavia, si sono espresse in relazione soprattutto alla inapplicabilità della procedura di correzione di errore materiale di cui all'art. 130 cod. proc. pen., non ritenendo sufficiente il richiamo alla motivazione per "sanare" la nullità. 6.2. Anche il secondo motivo proposto dal ricorrente è infondato e deve essere rigettato, presentando caratteri ai limiti della declaratoria di inammissibilità, essendo rivolto ad una richiesta di rivalutazione nel merito della vicenda da parte di questa parte, non consentita in sede di giudizio di legittimità, come più volte già ribadito. La motivazione d'appello, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, non basa le sue conclusioni solo sulla qualifica formale ed il ruolo gestionale dell'imputato presidente del consiglio di amministrazione di (OMISSIS) dal 2002 al 2004 - ma su dati di fatto, sia quanto alla condotta distrattiva posta in essere che quanto alla consapevolezza da parte del ricorrente dell'effetto di ingiustificato depauperamento del patrimonio sociale derivante dalle elargizioni senza giustificazione economica (se non limitatissima) alla associazione Confcommercio fiorentina. Si evidenzia, in particolare, tra gli altri elementi di fatto, la palese formazione scorretta nel 2002 del bilancio della fallita, la cui consapevolezza in capo al C. viene portata dalla Corte d'Appello come parte significativa della prova del reato, anche in considerazione del ruolo di amministratore delle società partecipate da Confcommercio svolto dal ricorrente già da molti anni. Con il terzo motivo si propone questione di costituzionalità dell'art. 216, u.c., l. fall., in relazione all'art. 3 Cost., comma 1, art. 4 Cost., art. 27 Cost., comma 3, artt. 41,111 e 117 Cost., con riferimento alla misura fissa e predeterminata della pena accessoria dell'inabilitazione per dieci anni all'esercizio di impresa commerciale ed incapacità ad esercitare uffici direttivi in qualsiasi impresa, pena inflitta al ricorrente. L'eccezione deve dichiararsi manifestamente infondata, così come già argomentato da Sez. 5, n. 12360 del 1/2/2018. Non ignora il Collegio che altra sezione di questa Corte, con ord. Sez. 1, n. 52613 del 6 luglio 2017 (di cui l'eccezione in esame ricalca sostanzialmente i passaggi principali), ha effettivamente ritenuto rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli artt. 3,4,41 e 27 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, quest'ultimo in relazione all'art. 8 CEDU e art. 1, Protocollo n. 1 CEDU, la sollevata questione di legittimità costituzionale del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 216, u.c. e art. 223, u.c., nella parte in cui prevedono che alla condanna per uno dei fatti indicati in detti articoli conseguono obbligatoriamente, per la durata di dieci anni, le pene accessorie della inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e della incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa. Non di meno, deve osservarsi come analoga questione è stata già sottoposta all'attenzione del giudice delle leggi e da quest'ultimo ripetutamente dichiarata inammissibile con le ordinanze n. 134 e n. 208 del 2012 Corte cost., in quanto l'intervento richiesto (sostanzialmente l'introduzione nel tessuto della norma impugnata della precisazione che la durata di dieci anni della pena accessoria costituisce la mera indicazione del massimo edittale della medesima) sarebbe intervento riservato alla discrezionalità del legislatore, risolvendosi nella richiesta di una pronuncia additiva a contenuto costituzionalmente non obbligato, atteso che molteplici - e non solo quella suggerita nelle pronunzie che avevano dato impulso ai giudizi di costituzionalità e ribadita nell'ordinanza della Prima Sezione di questa Corte citata in precedenza - sono le soluzioni ipotizzabili per superare l'apparente conflitto tra la disposizione impugnata e il contesto costituzionale di riferimento. Se è vero che il giudice ordinario non è vincolato al suddetto responso di inammissibilità, è altrettanto vero che, condividendone le ragioni, ben può ritenere manifestamente infondata la questione ove riproposta laddove la stessa si traduca, come nel caso di specie, nella riproposizione di essa. Sotto altro profilo va altresì osservato come l'affermazione contenuta in alcune pronunzie della Corte Costituzionale circa la tendenziale contrarietà delle pene fisse al "volto costituzionale" dell'illecito penale (si veda in particolare la sentenza n. 50 del 1980), debba intendersi riferita - secondo quanto precisato dallo stesso giudice delle leggi (si veda ad esempio la sentenza n. 91 del 2008) - alle pene fisse nel loro complesso e non già ai trattamenti sanzionatori che coniughino articolazioni rigide ed articolazioni elastiche, i quali lasciano, invece, adeguati spazi alla discrezionalità del giudice, ai fini della determinazione della risposta punitiva rispetto alle singole fattispecie concrete. Appare dunque inammissibile in quanto generica la questione proposta nella misura in cui non precisa in che termini, attesa la natura meramente accessoria della sanzione di cui si tratta, la previsione della sua durata in termini fissi non sia compatibile con il contesto costituzionale evocato alla luce della complessiva risposta sanzionatoria contemplata per le fattispecie cui la suddetta sanzione si applica. Da ultimo deve ritenersi non necessario sospendere il procedimento, in attesa che la Corte Costituzionale si pronunzi sulla questione sollevata dalla Prima Sezione penale di questa Corte, posto che, anche qualora questa dovesse essere decisa nel senso prospettato dal ricorrente, l'eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma incidente sul trattamento sanzionatorio può sempre essere fatta valere dall'imputato dinanzi al giudice dell'esecuzione (Sez. U., n. 42858 del 29/5/2014, Gatto, Rv. 260697). 7. Ricorso S. (avv. Cei). Il ricorrente - Presidente del consiglio di amministrazione della (OMISSIS) dal 2004 (e prima ancora componente del consiglio di amministrazione), e poi suo liquidatore, nonchè vicepresidente dal 2004 al maggio 2005 di Confcommercio - deduce quattro motivi di ricorso, che si rivelano tutti infondati. 7.1. Quanto al primo motivo, attinente alla mancata correlazione tra accusa e sentenza, deve rigettarsi la tesi difensiva che fa leva su una inesatta configurazione della contestazione come incentrata sulla dazione e sottoscrizione di assegni con i quali si versavano somme dalla fallita alla associazione. Invero, come emerge dai capi di imputazione e dalla motivazione della sentenza d'appello, i giudici di secondo grado hanno soltanto evidenziato, come ben era nella loro possibilità, le ragioni motivazionali più ampie sulla base delle quali si è ritenuta la responsabilità di S.: e cioè la partecipazione consapevole a tutta l'attività gestionale della fallita e della associazione Confcommercio alla quale essa faceva riferimento, sottolineando come la prova del reato a suo carico non si esaurisse certo in una mera responsabilità "per posizione", ma agganciasse le sue ragioni a dati ed elementi di fatto, primi tra tutti la redazione ed approvazione dei bilanci di (OMISSIS), dai quali bene emergeva il drenaggio di risorse patrimoniali a favore della associazione Confcommercio, privo di giustificazione. Dunque, non una motivazione che ha mutato la condotta commissiva della elargizione di danaro dalla fallita alla associazione in condotta omissiva di mancata vigilanza su tali dazioni, bensì un argomentare ampio che ha ripreso in esame tutti i risultati probatori, ampliando lo spazio motivazionale della sentenza di primo grado, precisando i contorni della condotta e dell'agire illecito di S.. 7.2. Con il secondo e terzo motivo di ricorso si deducono vizi di motivazione che si risolvono in una richiesta di rivalutazione della vicenda nel merito, non consentita in sede di legittimità. Si lamenta, in particolare, oltre al fatto che mancherebbe la prova del reato in capo al ricorrente, anche che la motivazione avrebbe incentrato il suo argomentare sul ruolo di artefice delle rimesse di denaro tra enti collegati alla Confcommercio fiorentina rivestito dal coimputato V. e, al più, dal commercialista A., ma che ciò sarebbe in contraddizione con la consapevolezza ritenuta in capo a S. delle condotte distrattive e del pericoloso depauperamento che si stava provocando, in tal modo, nel patrimonio sociale della (OMISSIS) s.r.l.. Ebbene, si è già detto al par. 7.1., cui ci si riporta, al di là dei profili di inammissibilità di una simile richiesta di rivalutazione in fatto, della adeguatezza motivazionale del provvedimento impugnato nel configurare le ragioni della ritenuta colpevolezza di S.: la coerenza e logicità dei passaggi argomentativi formulati dal giudice di secondo grado escludono qualsiasi vizio motivazionale e risultano coerenti alla scansione dell'elemento oggettivo e di quello soggettivo del reato svolta dalla elaborazione giurisprudenziale della Suprema Corte e già prima delineata. 7.3. Infine, quanto alla mancata concessione delle attenuanti generiche, negate in ragione della durata delle condotte distrattive e della loro gravità, valgono le identiche considerazioni già svolte in relazione agli altri ricorrenti proponenti analogo motivo, secondo cui in tema di attenuanti ex art. 62-bis cod. pen., il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purchè sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/4/2017, Pettinelli, Rv. 271269; Sez. 3, n. 28535 del 19/3/2014, Lule, Rv. 259899; Sez. 1, n. 12496 del 21/9/1999, Guglielmi, Rv. 214570). P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 6 marzo 2018. Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2018
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