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Cash pooling e bancarotta preferenziale

Infragruppo

Cassazione penale sez. V, 05/04/2018, n.34457

In materia di bancarotta tra società infragruppo, i pagamenti in favore della controllante non configurano il reato di bancarotta preferenziale e possono eventualmente essere ricondotti all'operatività del contratto cosiddetto di "cash pooling" - che consiste nell'accentrare in capo ad un unico soggetto giuridico l'amministrazione delle disponibilità finanziarie di un gruppo societario, operando tramite la gestione di un conto corrente unico sul quale vengono riversati i saldi dei conti correnti periferici di ciascuna consociata - solo qualora ricorra la formalizzazione di tale contratto di conto corrente intersocietario, con puntuale regolamentazione dei rapporti giuridici ed economici interni al gruppo. (Nella fattispecie, la Corte ha respinto i ricorsi degli imputati volti a ricondurre i pagamenti preferenziali nell'ambito del contratto di "cash pooling", rilevando che dai documenti della società fallita non risultava alcun formale contratto di tal genere, ma solo una prassi del gruppo societario tesa alla gestione delle risorse finanziare del gruppo nella maniera più utile per affrontare situazioni di criticità economica comuni).

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1.Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Milano confermava la sentenza emessa dal Tribunale di Como in data 28/05/2013, con cui C.C.M. ed A.M.E. erano stati condannati a pena di giustizia in relazione ai reati di cui: a) R.D. n. 267 del 1942, art. 217, comma 1, n. 4, art. 224 n. 2, poichè, in concorso tra loro e con B.R.A.P.C., presidente del CdA, il C. nella qualità di amministratore delegato e la A. nella qualità di consigliere della AFI s.p.a., dichiarata fallita dal Tribunale di Como con sentenza del 23/03/2009, nella conduzione di una gestione economica non accorta, con inosservanza degli obblighi imposti dalla legge, aggravavano il dissesto della società, astenendosi dal richiedere la dichiarazione di fallimento nell'anno 2007, nonostante la chiusura dell'esercizio al 31/12/2007 con una perdita di Euro 726.201,00 che, congiuntamente alle perdite registrate negli esercizi precedenti, facevano diminuire il capitale sociale di oltre un terzo, e causando poi, con la chiusura dell'esercizio al 31/12/2008, una perdita di Euro 4.532.865,00 ed un patrimonio netto negativo (deficit patrimoniale) pari ad Euro 477.445,00 che, alla data del fallimento, si aggravava ulteriormente arrivando ad un importo pari ad Euro 1.593.914,00 (considerata l'ulteriore perdita del periodo 01/01/209 - 27/03/2009 di Euro 1.103,270,00); b) R.D. n. 267 del 1942, art. 216, comma 3, art. 223, comma 2, n. 1, poichè, nelle suddette qualità, eseguivano pagamenti preferenziali a favore della società controllante Casti s.p.a. allo scopo di favorirla a danno dei creditori; in particolare, approfittando della confusione tra la gestione finanziaria della fallita e quella delle altre società del Gruppo Casti, nonostante l'esistenza di creditori muniti di privilegio per oltre Euro 12.000.00,00, nel corso dell'anno 2008 rimborsavano alla predetta società finanziamenti per un importo complessivo pari ad Euro 10.124.126,45, mediante cessioni di crediti che la società fallita vantava nei confronti di altre società del gruppo; in Como, sentenza di fallimento del 23/03/2009. 2. Con ricorso depositato in data 17/03/2017 C.C.M., a mezzo del difensore di fiducia Avv.to Cesare Cicorella, ricorre per: 2.1. vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. e), avendo la Corte territoriale riprodotto acriticamente le considerazioni del primo giudice che, a sua volta aveva, altrettanto acriticamente, recepito le considerazioni del curatore fallimentare; in ogni caso, le argomentazioni della sentenza impugnata - riprodotte in ricorso - oltre a non aver considerato i rilievi difensivi posti a fondamento del gravame, appaiono contraddittorie e lacunose: la scelta di non proporre istanza di fallimento in proprio, infatti, non era radicata in un ingiustificato ottimismo, tale da integrare gli estremi della colpa grave, bensì era sostenuta da elementi oggettivi, idonei a legittimare la convinzione di poter proseguire l'attività, avendo la società agito sul fronte della ricerca, al fine di fronteggiare la crisi settoriale derivante dalla concorrenza dei paesi emergenti, ed avendo sviluppato un nuovo prodotto, il block fitting, ottenendo nel 2004 e nel 2005 le necessarie certificazioni; quindi, la società aveva ceduto le giacenze di magazzino alla società Fischer, realizzando un corrispettivo di Euro 4.894.664,00, riducendo, in tal modo, le perdite di esercizio, operazione ignorata dai giudici di merito; l'impresa aveva, inoltre, continuato la propria attività di ricerca, in particolare nel settore tecnologico per la fusione della componentistica per autoveicoli - tecnologia lost foam - ch e, una volta realizzata, avrebbe consentito l'abbattimento dei costi, così come era in corso, del 2007, la trattativa per la cessione di una significativa porzione immobiliare del Gruppo Casti, concessa in locazione alla AFL s.p.a., che avrebbe determinato una significativa riduzione del canone di locazione, così come la liquidazione di parte dell'attivo immobilizzato aveva consentito alla holding di finanziare AFL s.p.a. nella produzione di nuovi prodotti; nè la Corte territoriale avrebbe considerato le vicende dei crediti erariali della società, come emerse all'esito dell'istruttoria dibattimentale, che ha dimostrato come la società vantasse crediti IVA per 17.159.735,00 nel quinquennio 2003-2008, per i quali aveva presentato istanze di rimborso pari ad Euro 13.358.999,00, il cui pagamento è avvenuto solo parzialmente e con anni di ritardo, per cui il convincimento della Corte territoriale - secondo cui l'ammontare complessivo dei crediti non legittimava previsioni favorevoli - appare del tutto illogica, atteso che il pignoramento del credito, risalente alla fine del 2007, di fatto si era concretato in una compensazione fra credito e debito di imposta, e l'ammontare del credito vantato era assolutamente proporzionato al debito, comprensivo di quello nei confronti degli istituti previdenziali, quantificato in Euro 15,8 milioni di Euro. Ne consegue che nessuna negligenza poteva ascriversi agli amministratori della società, come rilevato dal consulente di parte, dott. Co.; detti amministratori, al contrario, avevano operato in una prospettiva basata su dati oggettivi, rispetto ad una potenziale ripresa economica della società o, comunque, in un'ottica di riduzione delle passività; 2.2. vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. e), in relazione al reato sub b), atteso che la motivazione della Corte territoriale si baserebbe su di un acritico recepimento della tesi accusatoria, omettendo un'effettiva valutazione dell'andamento del debito di AFL s.p.a. nei confronti della capoGruppo Casti s.p.a., che, come si evince anche dalla relazione del curatore, segue una linea altalenante, elemento indicativo della gestione infragruppo adottata. In particolare, l'insostenibilità della tesi della bancarotta preferenziale discenderebbe dal fatto che nel 2008, anno dei supposti rimborsi in favore del gruppo, i debiti di AFL s.p.a. verso il gruppo erano aumentati quasi del doppio (da 2.638,713,21 Euro a 4.015.437,79), con contemporanea decrescita dei debiti verso i terzi, passati da Euro 10.699.448,74 ad Euro 8.981.234,55, con la conseguenza che il dubbio della Corte territoriale circa la possibilità di configurare la gestione finanziaria come cash pooling, non avrebbe considerato il dato emerso dall'istruttoria dibattimentale, ossia che la capogruppo fungeva da tesoreria del gruppo, in essa confluendo le partite di dare ed avere, al fine di evitare il ricorso ad istituti di credito, con i costi relativi; in particolare, le società del gruppo cedevano alla controllante Casti s.p.a. tutti i loro crediti ed i loro debiti e, a seguito di compensazione, a ciascuna società del gruppo veniva imputato il saldo, operazione pienamente legittima, che si è verificata anche nel caso della cessione da parte di AFL s.p.a., a chiusura esercizio 2008, a Casti s.p.a., dei crediti e dei debiti; la Casti s.p.a., quale pooler, quindi, aveva provveduto ad effettuare le compensazioni delle partite. Ne conseguirebbe che nessuna violazione della par condicio creditorum si fosse realizzata attraverso il descritto meccanismo della compensazione, essendo necessario che l'imprenditore abbia dato vita ad un nuovo rapporto obbligatorio, in modo da creare le condizioni per consentire al creditore di eccepire la compensazione (Sez. 5, sentenza 26/06/2009, n. 31894). Anche l'aspetto dei vantaggi compensativi, inoltre, avrebbe dovuto essere considerato nella logica infragruppo, in particolare se, ed entro quali limiti, sussista un interesse sociale di gruppo idoneo a giustificare operazioni che, considerate in relazione alle singole imprese, parrebbero integrare gli estremi del fatto penalmente tipizzato, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità civile e come derivante dalla riforma della materia societaria intervenuta nel 2003; in sostanza, deve verificarsi se l'operazione possa ritenersi inoffensiva, in ragione dell'esistenza di compensazioni comunque realizzate in conseguenza della partecipazione al gruppo, secondo la logica dei vantaggi compensativi, e se vi siano benefici, tratti dal far parte di un gruppo di imprese legate da un rapporto di natura sinallagmatica, con l'atto di disposizione della fallita; in detta prospettiva non può che considerarsi l'interesse sotteso alle operazioni, alla luce dell'art. 2634 c.c., comma 3, che ha trovato anche attuazione positiva nel nuovo art. 2497 c.c., comma 1, e, soprattutto, nel comma quarto del citato articolo - laddove è prevista la responsabilità solidale della capogruppo con l'amministratore della società fallita per il ristoro del pregiudizio provocato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale, nonchè all'integrità del patrimonio della controllata fallita - che attribuisce una significativa efficacia riequilibratrice agli interessi dei creditori della società insolvente soggetta ad eterodirezione, dando loro la possibilità di soddisfarsi sul patrimonio della holding, il che si concreta nella rimozione dell'ostacolo rappresentato dall'autonomia patrimoniale delle singole società aggregate al gruppo; detto concetto, quindi, consente di superare la giurisprudenza precedente la riforma societaria, aprendo ad un'applicazione anche al settore del diritto penale fallimentare del principio dei vantaggi compensativi, come affermato da pronunce più recenti. In ogni caso, i vantaggi compensativi non possono non riflettersi anche sul piano dell'elemento soggettivo, in quanto l'aver agito con la fondata previsione di conseguire vantaggi futuri, idonei a compensare il pregiudizio conseguente all'atto di disposizione, esclude la configurabilità del dolo di distrazione; ne consegue che, in riferimento a condotte poste in essere nell'ambito di un gruppo di imprese, è necessario attribuire rilievo al dato economico complessivo, non potendosi isolare la singola operazione; ciò risulta già affermato dalla Cassazione (Sez. 5, sentenza del 24/05/2006) con riferimento alla bancarotta per distrazione, ma può essere applicato anche alla bancarotta preferenziale, dovendosi, per poter stabilire se un atto di gestione abbia contenuto pregiudizievole, comunque non avere riguardo al suo effetto patrimoniale immediatamente negativo rispetto all'interesse della singola società che lo subisce, dovendosi considerare gli eventuali riflessi positivi derivati alla società in conseguenza della sua partecipazione ai vantaggi che quello stesso atto abbia procurato al gruppo nel suo complesso. Di ciò non vi sarebbe traccia nella sentenza impugnata, dovendo ribadirsi come gravi sulla pubblica accusa l'onere di provare che gli atti, nell'ambito del gruppo, sono meramente depauperatori, non potendo accedersi ad una logica di inversione dell'onere della prova, come sembra fare la sentenza impugnata. Nel caso in esame, l'interesse sociale del Gruppo Casti è insito nella scelta di ricorrere al cash pooling, e se poi si collega l'interesse del gruppo a quello di AFL s.p.a., appare chiaro come le scelte gestorie in questione, concretatesi anche nella cessione del debito, non abbiano affatto pregiudicato quest'ultima società, proprio per la compensazione in cui si sostanzia il cash pooling; la sentenza impugnata non avrebbe considerato nè i vantaggi della modalità di gestione in discorso, nè i riflessi della responsabilità solidale della capogruppo, in grado di compensare l'ipotetico pregiudizio descritto nel capo di imputazione, avendo AFL s.p.a. ceduto non solo i crediti vantati infragruppo, ma anche tutti gli oneri passivi; 2.3. violazione di legge, ex art. 606 c.p.p., lett. b), in riferimento al R.D. n. 267 del 1942, art. 217, comma 1, n. 4, e art. 224, n. 2, in relazione alla sussistenza dell'elemento oggettivo e di quello soggettivo del capo a), sia perchè, alla luce di quanto sin qui considerato, non appare sufficiente constatare, ex post, l'aggravamento del dissesto, ma verificare le ragioni sottese all'operato degli amministratori, che ben potrebbero aver agito nel ragionevole auspicio di evenienze di segno positivo, con la conseguenza che la loro scelta, di non effettuare la dichiarazione di fallimento alla fine del 2007, non può essere connotata da negligenza, atteso che la gestione di AFL s.p.a. negli anni 2003-2007 aveva consentito di contenere le perdite in corrispondenza di una significativa contrazione del mercato, essendo pacifico che, nel caso in esame, non possa configurarsi la richiesta colpa grave; 2.4. violazione di legge, ex art. 606 c.p.p., lett. b), in riferimento al R.D. n. 267 del 1942, art. 216, comma 3 e art. 223, comma 2, n. 1, in relazione alla sussistenza dell'elemento oggettivo e di quello soggettivo del capo b), non potendo ritenersi violata la par condicio creditorum nel caso di pagamenti effettuati mediante compensazione tra crediti e debiti infragruppo, come avvenuto nel caso in esame, in cui si era verificata la compensazione di fatture emesse per beni o servizi da società del gruppo verso altre società del gruppo, situazione ben diversa del caso di rimborsi di conferimenti ai soci, in quanto nel caso in esame la controllante non trattiene al suo interno i crediti, ma estingue le obbligazioni passive assunte dalla stessa AFL s.p.a. nei confronti delle altre società del gruppo, le quali, come fornitrici, hanno interesse a rientrare dei loro crediti, anche presentando richiesta di fallimento; come chiarito dalla Cassazione (sez. 5, sentenza n. 31168 del 20/05/2009), le operazioni che rientrano nella strategia di alleggerire la pressione dei creditori, in vista di un ragionevole equilibrio finanziario e patrimoniale, non sono compatibili con la bancarotta preferenziale; 2.5. vizio di motivazione, ex art. 606 c.p.p., lett. e), in relazione al principio dell'al di là di ogni ragionevole dubbio, difettando la motivazione di un vaglio completo degli elementi fattuali e contabili emersi nel corso del dibattimento. 3. Con ricorso depositato in data 17/03/2017 A.M.E., a mezzo dei difensori di fiducia Avv.to Carlo Enrico Paliero ed Avv.to Mario Aniello, ricorre per: 3.1. violazione di norme sancite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità, decadenza, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. c), in riferimento all'art. 521 c.p.p., comma 2, 522, comma 1, art. 604 c.p.p., comma 1, in relazione alla contestazione di cui al capo b) di imputazione, ossia le cessioni di credito attraverso cui erano stati rimborsati alla capoGruppo Casti s.p.a. gli effettivi finanziamenti, e che sono state qualificate come condotte di bancarotta preferenziale, in danno degli altri creditori, alcuni dei quali privilegiati. In relazione a detta vicenda la Corte territoriale ha ritenuto la sussistenza di un diverso fatto storico, avendo qualificato la condotta come bancarotta fraudolenta per distrazione, come si evince a pag. 9 della motivazione, in contrasto con le conclusioni del primo giudice ed in assenza di impugnazione del pubblico ministero. Senza alcun dubbio, la destinazione di risorse da una società all'altra può assumere valenza distrattiva, a condizione, però, che non si tratti di cessione di crediti effettivi e reali tra la cedente e la cessionaria, ipotesi, questa, del tutto diversa dalla destinazione di risorse priva di scopo sociale tra le stesse società; non a caso, la Corte territoriale, nel trattare il profilo afferente al sistema di cash pooling, ha citato una sentenza di legittimità sui vantaggi compensativi (n. 49787/2013, Rv. 247562), afferente a fattispecie del tutto diversa da quella in esame, dovendosi ritenere che i vantaggi di cui all'art. 2634 c.c., comma 3 possono assumere rilievo solo nel caso in cui l'operazione economica sia stata conclusa senza apparente corrispettivo, circostanza mai contestata nel caso in esame e, pertanto, introdotta dalla Corte di Appello in aperta lesioni dei diritti di difesa dell'imputata. Ciò è, sotto altro profilo, dimostrato da ulteriori passaggi motivazionali della sentenza impugnata: alla pag. 1, ove si considerano i termini di prescrizione in riferimento alla bancarotta fraudolenta impropria; alla pag. 11, in cui, in tema di trattamento sanzionatorio, si considera la pena base della bancarotta fraudolenta distrattiva. Peraltro, la difesa si era concentrata nella dimostrazione della insussistenza della fattispecie di bancarotta preferenziale, affermando che i pagamenti erano finalizzati ad estinguere alcune obbligazioni passive assunte nei confronti delle altre società del gruppo, condotta attuata attraverso il meccanismo del cash pooling, con modalità del tutto lecita, come affermato anche da una recente pronuncia di legittimità (Sez. 5, sentenza n. 4790 del 05/02/2016), oltre che in contrasto con la giurisprudenza di legittimità in riferimento alla violazione del principio della corrispondenza tra accusa e sentenza (Sez. 5, sentenza n. 9347 del 30/01/2013 ed altre citate in ricorso), anche alla luce della lettura costituzionalmente orientata che del principio deve essere data in riferimento all'art. 6, comma 3, lett. a) e b), della Convenzione EDU, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità al'esito della sentenza Drassich c. Italia del 2007; 3.2. violazione di legge e vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in riferimento al trattamento sanzionatorio, in quanto con i motivi di gravame si era chiesta la rideterminazione della pena, in quanto il primo giudice si era discostato dai minimi edittali previsti per la bancarotta preferenziale, senza fornire adeguata motivazione, avendo la Cote territoriale apoditticamente affermato che la pena base si era attestata nel minimo edittale, evidentemente confondendo il minimo edittale previsto per la bancarotta preferenziale con quello previsto per la bancarotta per distrazione; 3.3. vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. e), in riferimento all'elemento soggettivo del reato ascritto alla ricorrente al capo a) di imputazione, avendo la sentenza impugnata riprodotto la motivazione del primo giudice, senza effettuare alcun vaglio del concetto di colpa grave dell'imprenditore in relazione alla fattispecie di cui all'art. 217, comma 1, n. 4, L. Fall., alla luce dei motivi di gravame, che, sul punto, avevano richiamato i principi affermati da plurime sentenze di legittimità (Sez. 5, sentenza n. 21386 del 23/05/2016; sentenza n. 192 del 09/01/2007), e la necessità di un giudizio maggiormente individualizzante nei casi di bancarotta semplice che, nel caso di specie, tenesse conto dei segnali di ripresa della capacità finanziaria della società, come evidenziati già nei motivi di ricorso del coimputato C.. CONSIDERATO IN DIRITTO I ricorsi sono entrambi inammissibili. Va premesso che processi connotati, come quello in esame, da più imputati e dalla proposizione di questioni comuni, impongono al redattore della motivazione della sentenza una preliminare organizzazione e razionalizzazione dei temi devoluti all'esame della Corte, per evitare inutili ripetizioni e rispettare la funzione della sentenza quale documento di sintesi che, per espresso dettato normativo (artt. 544 c.p.p. e segg., richiamati, in quanto applicabili, dall'art. 617 c.p.p., comma 1, del medesimo codice), deve comprendere la concisa esposizione dei motivi su cui si fonda, nel rispetto del canone dialettico del ragionamento decisorio, correlato alla struttura del giudizio come processo di parti, da svolgere in condizioni di parità davanti al giudice terzo, come prescritto dall'art. 111 Cost., comma 2. 1. Per quanto riguarda la vicenda di bancarotta descritta al capo A), di cui all'art. 217, comma 1, n. 4 e art. 224 L. Fall. - consistente nell'aver aggravato, da parte degli imputati, il dissesto della società per essersi astenuti dal richiedere la dichiarazione di fallimento - la sentenza impugnata ha descritto accuratamente la situazione economico-finanziaria della AFI s.p.a., affermando che già nel 2007 vi erano state istanze di fallimento, sussistendo un debito di oltre 5.000.000,00 di Euro verso l'agente della riscossione, Equitalia, che erano state fronteggiate sempre richiamandosi ai crediti di imposta della società; tuttavia le istanze di fallimento erano proseguite nel 2008, aumentando fino ad oltre 8.000.000,00 di Euro, sempre per debiti di natura fiscale; l'INPS, inoltre, aveva ottenuto condanna al pagamento per importi sostenuti già nel 2006, e dalla contabilità societaria risultavano debiti per contributi non versati di circa 1.000.000,00 di Euro per ciascun esercizio, dal 2004 al 2008; infine, nel 2007, il credito IVA era stato pignorato dall'Agenzia delle Entrate ed assegnato dal Giudice dell'Esecuzione, e l'anno successivo, nel 2008, risultavano in atto otto procedure esecutive mobiliari e cinquantuno decreti ingiuntivi, per oltre 2.000.000,00 di Euro. Dal verbale delle riunioni del Collegio Sindacale traspariva, non a caso, una situazione allarmante, che evidenziava la riduzione dei ricavi da 35.000.000,00 a 14.000.000,00 di Euro tra il 2003 ed il 2008, e debiti superiori ai ricavi per ogni esercizio. A fronte di detta situazione, globalmente considerata, il curatore aveva prudenzialmente stimato il patrimonio netto, al 31/12/2007, negativo per oltre 5.000.000,00 di Euro, mentre i debiti reali sopravanzavano quelli esposti in bilancio di oltre 9.000.000,00 di Euro; inoltre, nel solo esercizio 2008, ed in parte nell'esercizio 2009, i debiti si erano incrementati di circa 5.600.000,00 di Euro, senza che fosse stata neanche convocata l'assemblea societaria per le determinazioni di cui all'art. 2246 cod. civ.. La Corte territoriale ha altresì valutato detta situazione confrontandola con gli elementi a cui sarebbe stata connessa la ragionevole aspettativa di ripresa ossia il sistema del block fitting e quello di lost foam -, affermando che detti elementi erano stati genericamente evocati dalla difesa, senza alcuna specifica determinazione di quale sarebbe stata l'aspettativa di maggiore redditività ed i tempi della stessa; il dato costituito dal credito IVA, poi, è stato valutato come del tutto fragile, posto che detti crediti, come visto, sin dal 2007 erano stati pignorati ed assegnati all'Erario, ciò a fronte di debiti verso l'Erario e verso enti previdenziali pari ad oltre 15.800.000,00 di Euro alla data del fallimento, di cui 13.300.000,00 ammessi al passivo, ed il resto non insinuato, ma comunque risultanti dalla contabilità; infine, le sanzioni INPS, di cui era stata chiesta la riduzione poco prima del fallimento, ammontavano ad 1.200.000,00 di Euro, e non avevano alcuna speranza di essere ripianate, in quanto la loro dilazione dipendeva dal saldo immediato del debito capitale, pari ad oltre 5.000.000,00 di Euro. Quanto al risparmio derivante dalla cessazione dei rapporti di locazione relativi all'Area Porto, dismessa e ceduta dal gruppo, la sentenza impugnata ha considerato che si trattava di un bene sostanzialmente indisponibile e del tutto infruttifero, visto che detto complesso immobiliare era stato pignorato dai creditori della società sin dal 2003, come spiegato dal curatore. Sulla scorta di detti elementi, quindi, la Corte territoriale ha escluso la sussistenza di oggettivi elementi di cauto ottimismo, come già sostenuto con i motivi di gravame, rilevando come, al contrario, la descritta situazione fondasse la colpa grave legata alla scelta degli imputati di proseguire l'attività, pur a fronte di tale conclamato contesto di crisi irreversibile, omettendo di richiedere il fallimento in proprio. I motivi di ricorso inerenti il capo A), quindi, appaiono meramente reiterativi del gravame, non tenendo in alcun conto la motivazione, specifica ed articolata, della sentenza impugnata; gli argomenti difensivi, inoltre, si basano su circostanze di fatto meramente evocate e su elementi documentali, quali la consulenza tecnica di parte, non conosciuta da questa Corte di legittimità. I ricorsi, quindi, sotto detto aspetto, si palesano anche come non rispettosi del principio di autosufficienza, ma, in ogni caso, a prescindere da detto aspetto, essi palesano evidente la loro sostanziale inammissibilità, in quanto richiedono alla Corte di legittimità di ripercorrere, sotto l'aspetto valutativo, aspetti già considerati da entrambi i giudici di merito e, come tali, non rilevabili in questa sede, in quanto non appare possibile una sovrapposizione, da parte del giudice di legittimità, di valutazioni probatorie assistite da una motivazione congrua e non affetta da vizi di illogicità. Appare evidente come, anche in seguito alla novella codicistica introdotta con la L. n. 46 del 2006, il vizio di motivazione debba risultare, per essere rilevante, dal testo del provvedimento impugnato, sicchè grava sul ricorrente l'onere specifico, a pena di inammissibilità, di dimostrare che l'iter argomentativo della decisione impugnata è assolutamente carente sul piano logico, a nulla potendo rilevare la sottoposizione alla Cassazione del compendio probatorio, finalizzata alla adozione di altre letture di detto materiale, pur egualmente corrette sul piano logico. Detta opzione, infatti, trova la propria, unica e fisiologica sede, nei successivi gradi del giudizio di merito, restando strutturalmente ed ontologicamente estranea a quella del giudizio di legittimità (Sez. 6, sentenza n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 1, sentenza n. 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv. 235507; Sez. 6, sentenza n. 37270 del 17/10/2006, Ouardass, Rv. 235506). La motivazione della sentenza impugnata, inoltre, appare del tutto coerente con la giurisprudenza di legittimità anche sotto l'aspetto della esplicita valutazione della colpa grave, analizzata con giudizio immune da vizi logici. Nel reato di bancarotta semplice per mancata tempestiva richiesta di fallimento, come più volte ribadito da questa Corte regolatrice, oggetto di punizione è l'aggravamento del dissesto, dipendente dal semplice ritardo nell'instaurare la concorsualità, non essendo richiesti ulteriori comportamenti concorrenti, atteso che la scelta di ritardare la dichiarazione di fallimento in proprio deve essere in sè stessa determinata da un atteggiamento gravemente colposo (Sez. 5, sentenza n. 28609 del 21/04/2017, Andriollo, Rv. 270874; Sez. 5, sentenza n. 38077 del 15/07/2015, Preatoni, Rv. 264743). La motivazione della sentenza impugnata, per come sinteticamente descritta in precedenza, appare rispettosa del canone ermeneutico indicato, avendo ampiamente descritto la condotta anche sotto detto profilo. Le censure formulate in riferimento all'imputazione sub A), quindi, appaiono inammissibili. 2. Per quanto riguarda la fattispecie di cui al capo B) - bancarotta preferenziale in favore della controllante Casti s.p.a. -, va premesso che il contratto di cash pooling consiste nell'accentrare in capo ad un unico soggetto giuridico la gestione delle disponibilità finanziarie di un gruppo societario, allo scopo di gestire la tesoreria aziendale in riferimento ai rapporti tra le società aderenti al gruppo e gli istituti di credito, ed ha la finalità di evitare squilibri finanziari per le singole società, attraverso una gestione unitaria della situazione finanziaria del gruppo; in tal modo il contratto permette di compensare i saldi attivi di conto corrente di alcune società con i saldi negativi di altre, realizzando un risparmio di interessi passivi, ottenendo il risultato indiretto di finanziare le società che presentano una posizione debitoria nei confronti degli istituti di credito. Si tratta, pertanto, di un contratto atipico, ai sensi dell'art. 1322 c.c., fondato sull'accordo, stipulato autonomamente da tutte le consociate di un gruppo, con la società capogruppo, che funge quale centro di tesoreria; detto contratto ha per oggetto la gestione di un conto corrente unico ed accentrato, sul quale vengono riversati i saldi dei conti correnti periferici di ciascuna consociata. La dottrina prevalente riconduce detto contratto ad una particolare modalità di conto corrente non bancario, con elementi propri dei contratti di finanziamento, ove la causa mista e unitaria viene individuata specificatamente nella gestione della tesoreria di gruppo. Infatti, mentre il contratto di conto corrente segue lo schema di uno strumento per la gestione di crediti originati da un rapporto sottostante, distinto da quello di conto corrente, il cui oggetto, pertanto, è costituito dalla disciplina dei rapporti futuri ed eventuali, che potranno sorgere tra le parti, in virtù di altri atti giuridici, al contratto di cash pooling si aggiungono anche gli elementi tipici di un prestito in denaro, che viene attuato tramite il trasferimento di risorse finanziarie dai singoli conti periferici al conto corrente accentrato, gestito dal pooler. Ne consegue che il fondamento causale del negozio non è più solo la gestione dei rapporti che potranno sorgere tra le parti in virtù di altri atti giuridici, ma anche la gestione della tesoreria, secondo modalità tali da compensare, sebbene temporaneamente, le carenze di liquidità di taluni partecipanti con le disponibilità degli altri, al fine di evitare o ridurre il ricorso all'indebitamento bancario, il che costituisce, senza dubbio, la caratteristica di un negozio di finanziamento. Appare dunque innegabile che nella fattispecie in esame si verifichi, sia pure con effetto collaterale, un'operazione di finanziamento a favore delle società del gruppo, che vedrebbero coprire le loro passività di conto per effetto della gestione accentrata delle liquidità del gruppo medesimo. Le società interessate, pertanto, devono deliberare il contenuto dell'accordo di cash pooling nei rispettivi Consigli di amministrazione, definendone in particolare l'oggetto, la durata, i limiti di indebitamento, le aliquote relative agli interessi attivi e passivi e le commissioni applicabili. Quindi, tali clausole devono essere formalizzate in un contratto di conto corrente intersocietario tra le società del gruppo e la società incaricata di gestire la tesoreria, in cui le società conferiscono mandato alla società capogruppo - individuata come pooler o pool leader - per la gestione della tesoreria del gruppo; la società capogruppo, ovvero pooler o pool leader, a sua volta, stipula un contratto con un istituto di credito, ovvero un pool account, su cui andranno a confluire tutti i movimenti che interessano le posizioni di conto corrente delle singole società. In base, poi, ai singoli contratti di conto corrente non bancario stipulati dalla società pooler con le società del gruppo, con cadenza predeterminata i saldi attivi e passivi dei singoli conti, facenti capo alle singole società, vengono trasferiti sul pool account della capogruppo o pooler. La vera ragione che sottende a tale contratto è, evidentemente, quella che, attraverso l'accentramento di risorse finanziarie, consente alla società pooler di gestire in modo ottimale i flussi di liquidità provenienti dalle varie società del gruppo, concedendo finanziamenti a tassi convenienti alle altre società. Ne consegue che la corretta gestione del cash pooling non possa prescindere da una puntuale regolamentazione contrattuale dei rapporti interni al gruppo, per l'esatta qualificazione giuridica degli accordi e del conseguente trattamento tributario, ai fini della determinazione del reddito d'impresa. Infatti, il contratto deve contenere, necessariamente, le indicazioni relative alle modalità e ai termini con cui i saldi dei conti correnti periferici delle consociate devono essere trasferiti al conto corrente accentrato, nonchè alle modalità e ai termini entro i quali il pooler deve restituire la liquidità ricevuta sul conto accentrato di cui è titolare, ed anche all'ammontare dei tassi in base ai quali maturano gli interessi attivi e passivi, sui crediti annotati nel conto comune, alle modalità con cui gli interessi verranno corrisposti ed all'eventuale commissione spettante al pooler per lo svolgimento dell'attività di tesoriere. In concreto, quindi, l'operatività del meccanismo prevede il trasferimento cadenzato del saldo del conto corrente bancario di ogni società del gruppo al conto corrente intestato alla società capogruppo; in caso di saldo passivo, la società pooler accrediterà una somma di pari importo, mentre, in caso di saldo attivo, il relativo importo verrà reciprocamente trasferito alla società pooler. Evidentemente, la trasmissione dei fondi può avvenire solo se le parti hanno conferito un mandato alle rispettive banche, atteso che il descritto trasferimento di fondi tra i conti correnti e il conto "accentrato" genera crediti reciproci tra le parti del contratto, che vengono annotati sul conto corrente non bancario. In conseguenza di tali operazioni, il saldo di ogni posizione di conto corrente, acceso dalle singole società presso il relativo istituto di credito, sarà necessariamente sempre pari a zero, avuto riguardo al trasferimento del relativo saldo in capo al rapporto intestato alla capogruppo. Il contratto, inoltre, deve prevedere che solo alla scadenza il pooler può liquidare i saldi derivanti dalle compensazioni delle reciproche rimesse, nonchè i relativi interessi maturati. In ogni caso, per detti servizi, il pooler provvederà ad addebitare le spese sostenute e le relative commissioni. Plurimi sono gli aspetti, vantaggiosi per le parti, che emergono da detta struttura contrattuale, che, nella dinamica organizzazione dei servizi di tesoreria, tiene conto delle esigenze specifiche delle singole società aderenti, con conseguente, immediato assolvimento delle esigenze di liquidità delle varie società da parte del pooler, con correlativa riduzione e controllo del margine di indebitamento del gruppo nel suo complesso, oltre che, infine, un significativo decremento del carico fiscale in capo alle società del gruppo. I connotati del contratto di cash pooling, in tal senso sommariamente descritti, non emergono dal compendio probatorio descritto dalla sentenza impugnata che, sul punto, qualifica la tesi difensiva come del tutto sprovvista di fondamento, nel senso che l'unica realtà emersa risulta, piuttosto, una prassi del gruppo tesa alla gestione delle limitate risorse del gruppo stesso nella maniera più utile, al fine di limitare le conseguenze negative delle situazioni critiche, presentando le società nella maniera più vantaggiosa al fine di ottenere credito bancario. La Corte territoriale, quindi, ha sottolineato come dai documenti della società non risultasse alcun contratto di cash pooling, escludendo, quindi, al di là di generici ed impropri richiami alla fattispecie, la possibilità di inquadrare nella menzionata categoria contrattuale i rapporti tra la AFL s.p.a. e la società capoGruppo Casti s.p.a.. In tal senso, quindi, le doglianze difensive sul punto appaiono una mera reiterazione del gravame, rispetto al quale non offrono alcun significativo elemento che possa indurre ad una riconsiderazione della motivazione offerta dalla Corte territoriale. Quanto ai vantaggi compensativi, occorre ricordare che, per pacifico insegnamento di questa Corte regolatrice, per invocare la sussistenza dei vantaggi compensativi, non è sufficiente allegare la mera partecipazione ad un gruppo societario, ovvero l'esistenza di un vantaggio per la società controllante, dovendo, invece, l'interessato dimostrare il saldo finale positivo delle operazioni compiute nella logica e nell'interesse del gruppo, elemento indispensabile per considerare lecita l'operazione temporaneamente svantaggiosa per la società depauperata (Sez. 5, n. 46689 del 30/06/2016, P.G. ed altro in proc. Coatti ed altri, Rv. 268675; Sez. 5, sentenza n. 8253 del 26/06/2015, dep. 29/02/2016, Moroni ed altri, Rv. 271149; Sez. 5, sentenza n. 49787 del 05/06/2013, Bellemans, Rv. 257562). Ciò posto, la sentenza impugnata, in aderenza a detto pacifico principio, ha affermato che nessuna dimostrazione, nel senso richiesto dalla giurisprudenza di legittimità, è stata fornita, nè, peraltro, diversamente viene opinato o allegato con i ricorsi, in cui si discute solo, del tutto genericamente, di vantaggi compensativi. Non a caso, infatti, a pag. 10 della motivazione, la Corte territoriale ha ricordato come non fosse stato dimostrato affatto che il saldo finale delle operazioni fosse obiettivamente positivo per il gruppo, nè, certamente, che lo fosse con riferimento alla posizione individuale della società fallita; ancor meno ha trovato dimostrazione un effettivo vantaggio per la società che aveva effettuato le disposizioni patrimoniali, compensativo dell'handicap di dismettere cespiti attivi in una situazione di elevata criticità dei propri conti. Senza contare - ha proseguito la Corte territoriale - che le poste coinvolte nelle operazioni in discorso, di cessione dei crediti, avevano assunto, sia nella contabilità della fallita sia in quella di Casti s.p.a., dichiarata natura di operazioni di finanziamento fra soci (essendo Casti s.p.a. socia al 99% di AFL s.p.a.), il che configurava tali operazioni come irregolari alla luce dell'art. 2467 cod. civ., che dispone la postergazione del rimborso per finanziamento soci alla soddisfazione degli altri crediti. La sentenza impugnata ha, infine, specificamente argomentato la sussistenza del dolo specifico della bancarotta preferenziale, rilevando che appare sufficiente che il fallito si rappresenti la possibilità di ledere i creditori non favoriti, secondo lo schema del dolo eventuale. Nel caso in esame l'andamento unidirezionale del rimborso del credito alla Casti s.p.a., mediante la cessione ad essa di crediti intrattenuti con altre consociate, tra cui, a mero titolo di esempio, viene citato il credito verso la Fonderie Alluminio s.p.a., pari ad oltre 8.000.000,00, la data della loro annotazione nella scheda contabile appena tre mesi prima della dichiarazione di fallimento, rappresentano, secondo l'insindacabile valutazione della Corte di merito, elementi tali da rendere evidente il descritto elemento soggettivo. Inoltre, non risultava chiarita la modalità con cui sarebbe stata effettuata l'opposta cessione dei debiti che, in chiave difensiva, avrebbe dovuto opporsi alla cessione dei crediti, al fine di delineare una più complessa operazione; infatti, l'esito della complessiva operazione era consistito nel diminuire l'attivo disponibile per i creditori del fallimento, liberando le società cedute dall'onere di pagare al fallimento circa 14.000.000,00 di Euro, e di pagare propri debiti alle altre società del gruppo, alle quali, quindi, era stato evitata l'insinuazione al passivo fallimentare e la soddisfazione in moneta fallimentare. Detta motivazione appare del tutto conforme alla giurisprudenza di questa Corte regolatrice in tema di elemento soggettivo, atteso che esso è ravvisabile quando l'atteggiamento psicologico del soggetto agente sia rivolto a preferire intenzionalmente un creditore, con concomitante riflesso, anche secondo lo schema tipico del dolo eventuale, nel pregiudizio per altri (Sez. 5, sentenza n. 673 del 21/11/2013, dep. 10/01/2014, Lippi, Rv. 257963); inoltre, del tutto incidentalmente, va rilevato che l'inquadramento della descritta condotta nella fattispecie di bancarotta preferenziale è stata effettuata a tutto vantaggio degli imputati, atteso che, pacificamente, integra distrazione rilevante ai fini della bancarotta fraudolenta, la cessione di un credito senza corrispettivo in favore di società appartenente al medesimo gruppo (Sez. 5, sentenza n. 28520 del 24/04/2013, Avesani ed altro, Rv. 257250). Alla luce delle indicate argomentazioni appare evidente come i ricorsi, sul punto, non si siano affatto confrontati con le specifiche argomentazioni della sentenza impugnata. 3. Proprio la citata motivazione fornita dalla Corte territoriale, a pag. 11 della sentenza impugnata, in tema di dolo del reato di bancarotta preferenziale qualificazione sicuramente più favorevole agli imputati - rende del tutto evidente come la sentenza impugnata non abbia in alcun modo mutato la qualificazione giuridica del fatto. Ed infatti il passaggio contenuto a pag. 10 della motivazione - secondo cui "....il concetto di Gruppo di società ha valenza solo finanziaria e programmatica, ma lascia intatta la distinzione giuridico-patrimoniale fra le diverse società, col che la destinazione di risorse da una società all'altra - sia pur collegata - integra perfettamente la violazione del vincolo patrimoniale nei confronti dello scopo strettamente sociale, e configura astrattamente la condotta del delitto di bancarotta distrattiva (o quanto meno preferenziale)" - contiene un indubbio richiamo alla bancarotta distrattiva, la cui economia nel contesto motivazionale è, del tutto palesemente, solo illustrativo della problematica. La Corte di merito, in altre parole, deve avere avuto ben presente come, secondo la giurisprudenza di legittimità in precedenza citata, la condotta di cessione di crediti infragruppo senza adeguato corrispettivo sia da inquadrare come bancarotta distrattiva e, ciò non dimeno - come si evince dall'inciso tra parentesi "(o quanto meno preferenziale)" -, nel caso in esame, ha valutato la fattispecie concreta ò quale bancarotta preferenziale, in aderenza alla contestazione elevata. Sotto detto aspetto, quindi, la doglianza contenuta in ricorso appare basata su una lettura incompleta della motivazione, e del tutto ultroneo appare il richiamo alla sentenza Drassich della Corte EDU, non essendosi verificato alcuna diversa qualificazione della fattispecie ritenuta in sentenza rispetto alla fattispecie contestata. 4. Quanto, infine, al rilievo avente ad oggetto la motivazione della sentenza circa la determinazione della pena, sicuramente coglie nel segno la critica secondo cui il minimo edittale della pena per la bancarotta preferenziale - ritenuto, nel caso in esame, reato più grave - non è quella di anni tre di reclusione, atteso che la forbice edittale della bancarotta preferenziale va da uno a cinque anni di reclusione. Tuttavia va considerato che il primo giudice non aveva in alcun modo individuato quale fosse la pena base per il più grave reato, essendosi limitato ad indicare quale reato più grave la bancarotta preferenziale e ad individuare la pena complessiva, esclusa la recidiva e ritenuta la continuazione, in quella di anni tre di reclusione, ridotta ad anni due di reclusione per la concessione delle circostanze attenuanti generiche ed ulteriormente ridotta ad anni uno mesi sei di reclusione per il riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 6. Non a caso, infatti, nessuna doglianza circa l'errata individuazione della pena base era contenuta nei motivi di gravame, in cui ci si limitava a dolersi, peraltro del tutto genericamente, della mancata individuazione della pena nel minimo edittale. In ogni caso, senza alcun dubbio la pena inflitta appare legale in riferimento alle fattispecie contestate, considerata la piena compatibilità tra la pena base per la bancarotta preferenziale, aumentata per effetto della continuazione con la bancarotta semplice, alla pena di anni tre di reclusione; ne consegue che la svista motivazionale evidenziata, senza alcun dubbio non ha avuto alcun riflesso sulla legalità della pena nè, tantomeno, sulla coerenza tra la fattispecie contestata con quella ritenuta in sentenza, essendosi concretata in una notazione del tutto priva di qualsivoglia effetto processuale. Peraltro le stesse doglianze contenute in ricorso non hanno evidenziato alcun effetto scaturente da detta svista motivazionale. Ne consegue, quindi, l'inammissibilità dei ricorsi, con condanna di ciascun ricorrente, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso in Roma, il 5 aprile 2018. Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2018
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