RITENUTO IN FATTO
1. La Corte d'appello di Trieste ha, con la sentenza impugnata, confermato quella emessa dal giudice di prima cura, che aveva condannato P.I. per bancarotta fraudolenta patrimoniale commessa quale amministratore di fatto della (OMISSIS) srl, dichiarata fallita il 7/10/2009.
Secondo la ricostruzione del giudicante l'imputato, operando nella qualità sopradetta, distrasse somme per 35.000 Euro, corrisposte, mediante assegni, da debitori della società e destinati a scopi diversi da quelli sociali (gli assegni erano stati incassati da terze persone, a cui P. li aveva fatti pervenire).
2. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per Cassazione il difensore dell'imputato con quattro motivi.
Col primo lamenta l'erronea applicazione della L. Fall., art. 216,artt. 42 e 43 c.p., derivante dal fatto che è stato ravvisato il dolo di bancarotta in condotte appropriative poste in essere allorchè gli esercizi economici della società risultavano positivi.
Sottolineato che le appropriazioni risalgono a (OMISSIS) e a (OMISSIS), mentre il fallimento è dell'ottobre 2009, deduce che gli esercizi 2005, 2006 e 2007 si erano conclusi positivamente (l'esercizio 2005 aveva avuto un utile di Euro 89; quello del 2006 una perdita di Euro 2.795; quello del 2007 un utile di Euro 21.000. Tanto in una situazione caratterizzata dall'aumento del fatturato). Questo fatto, indebitamente svalutato dalla Corte d'appello, dimostra che P. non aveva la consapevolezza di ledere la garanzia dei creditori, sicchè mancherebbe la prova del dolo richiesto dalla fattispecie. Di tanto è prova la circostanza che i giudici hanno assolto il coimputato B. (amministratore di diritto) dall'accusa di avere astenendosi dal richiedere il fallimento in proprio - aggravato il dissesto societario proprio perchè la consapevolezza dell'insolvenza societaria era stata collocata - in capo a B. - a ridosso della dichiarazione di fallimento, mentre P. è stato assolto dalla medesima imputazione perchè allontanato dalla società nel 2007.
Col secondo motivo lamenta la violazione dell'art. 649 c.p.p., giacchè per il medesimo fatto (l'appropriazione della somma di Euro 35.000) P. è già stato giudicato e assolto dal Tribunale di Pordenone con sentenze passate in giudicato il 24/7/2012 (il reato contestato era quello di cui all'art. 646 c.p.).
Col terzo motivo deduce un vizio di motivazione concernente il dolo di bancarotta. Sottolineato che la stessa sentenza ha confermato l'assoluzione di B. e P. - pronunciata dal primo giudice - per il reato di bancarotta semplice (l'aver aggravato il dissesto ritardando la dichiarazione di fallimento) ritenendoli inconsapevoli "circa una eventuale situazione di sofferenza dell'impresa", è contraddittorio affermare, poi, che fosse prevedibile, all'epoca delle appropriazioni, una situazione di insolvenza appalesatasi nell'ottobre 2009: vale a dire, dopo l'allontanamento di P. dalla società e a quasi quattro anni di distanza dalla appropriazioni.
Col quarto motivo si duole della motivazione concernente il fatto materiale dell'appropriazione, perchè in radicale contrasto con le risultanze dei procedimenti che si sono conclusi in senso favorevole all'imputato; il che farebbe venir meno la gravità degli indizi sulla cui base è stata affermata la responsabilità per la bancarotta.
CONSIDERATO IN DIRITTO
E' fondato il secondo motivo di ricorso, che riveste carattere pregiudiziale rispetto a tutti gli altri e va, pertanto, esaminato prioritariamente.
1. La questione posta dal ricorrente, rappresentata dal rapporto tra appropriazione indebita e "distrazione" (una volta dichiarato il fallimento) degli stessi beni, ha trovato, com'è noto, differenti soluzioni nella giurisprudenza di questa Corte, giacchè si è fatto riferimento, per risolvere le problematiche scaturenti dal divieto di un secondo giudizio, posto dall'art. 649 c.p.p., alternativamente alle figure del concorso formale e del reato complesso, per affermare, nell'uno e nell'altro caso, che un giudizio, celebrato e comunque concluso, per il reato di cui all'art. 646 c.p. non è di ostacolo - una volta intervenuto il fallimento - alla celebrazione di altro giudizio per bancarotta (invero, come si dirà, è stata ritenuta praticabile anche la soluzione inversa).
1.1. La prima soluzione, fatta propria da una risalente pronuncia di questa Corte (sez. 2, n. 10472 del 4/3/1997, rv 209022), è imperniata sulla considerazione che all'unicità di un determinato fatto storico può far riscontro una pluralità di eventi giuridici (come si verifica, appunto, nell'ipotesi del concorso formale di reati), sicchè il giudicato formatosi con riguardo ad uno di tali eventi non impedisce l'esercizio dell'azione penale in relazione ad un altro evento (inteso sempre in senso giuridico), pur scaturito da un'unica condotta, quale che sia stato il reato giudicato per primo (in applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto che l'imputato, agente di cambio, già condannato per il reato di bancarotta fraudolenta - consistita, fra l'altro, nella sottrazione di titoli e denaro della clientela - potesse essere sottoposto a nuovo procedimento penale per il reato di appropriazione indebita in danno di un cliente). Questa impostazione non esclude del tutto, però, l'operatività dell'art. 649 c.p.p. e del principio del ne bis in idem, in esso trasfuso: ciò avviene quando nel primo giudizio sia stata dichiarata l'insussistenza del fatto o la mancata commissione di esso da parte dell'imputato, per ovvie ragioni di incompatibilità logica e per evitare il conflitto di giudicati (Cass., n. 11918 del 20/1/2016, rv 266382, riferita al rapporto tra truffa e sostituzione di persona).
1.2. La seconda soluzione, propugnata da una giurisprudenza più recente e più cospicua, afferma, invece, che l'appropriazione indebita e la bancarotta fraudolenta per distrazione sono in rapporto di contenuto a contenitore, dacchè la bancarotta fraudolenta integra una ipotesi di reato complesso, ai sensi dell'art. 84 c.p., sicchè solo l'avvio del procedimento per bancarotta esclude la possibilità di un secondo giudizio per l'appropriazione, e non viceversa. Tale impostazione fa leva sul fatto che gli elementi normativi descrittivi della bancarotta sono diversi e più ampi rispetto a quelli descrittivi dell'appropriazione, giacchè nella bancarotta assume rilevanza la pronuncia di fallimento, che manca all'altra figura di reato (si vedano, sul punto, Cass., n. 37298 del 9/7/2010, rv 248640; sez. 5, n. 4404 del 18/11/2008, rv 241887; sez. 5, n. 37567 del 4/4/2003, rv 228297. Una applicazione di tale principio si è avuta anche con la sentenza n. 2295 del 3/7/2015, che ha ritenuta legittima un'ipotesi di modifica dell'imputazione ex art. 516 c.p.p., operata in dibattimento dal pubblico ministero una volta intervenuta la sentenza di fallimento). Si tratta, all'evidenza, di una impostazione che valorizza, per la comparazione delle fattispecie (e, quindi, per valutare l'identità del fatto, preclusiva, per l'art. 649 c.p.p., del secondo giudizio), non solo la dimensione naturalistica, ma anche la configurazione giuridica delle fattispecie, per affermare la loro diversità strutturale e, quindi, la irriconducibilità all'idem factum.
2. La questione deve oggi essere risolta, ad avviso di questo Collegio, alla luce dei principi affermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 200 del 31/5/2016.
2.1. Come è noto, questa pronuncia ha escluso che l'art. 4 del protocollo n. 7 CEDU - secondo cui "nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato" - abbia un contenuto più ampio di quello dell'art. 649 c.p., per il quale "l'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto". La giurisprudenza stabilizzata della Corte EDU porta solo ad affermare, ha precisato la Corte Costituzionale, che - per i giudici di Strasburgo - la medesimezza del fatto va apprezzata alla luce delle circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio, col ripudio di ogni riferimento alla qualificazione giuridica della fattispecie. Non v'è nessuna ragione logica, ha però precisato la Corte Costituzionale, per concludere che il fatto, pur assunto nella sola dimensione empirica, si restringa, secondo il giudizio della Corte EDU, "all'azione o all'omissione, e non comprenda, invece, anche l'oggetto fisico su cui cade il gesto, se non anche, al limite estremo della nozione, l'evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell'agente".
2.2. Parimenti, ha proseguito la Corte Costituzionale, nemmeno il contesto normativo in cui si colloca l'art. 4 del Protocollo CEDU depone per una lettura restrittiva dell'idem factum, da condurre attraverso l'esame della sola condotta. Anzi, ha aggiunto la Corte Costituzionale, la lettura delle varie norme della Convenzione (tra cui proprio l'art. 4 del Protocollo 7, che permette la riapertura del processo penale se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni sono in grado di mettere in discussione una sentenza - favorevole all'imputato - già passata in giudicato) rende palese che, allo stato, il testo convenzionale impone agli Stati membri di applicare il divieto di bis in idem in base ad una concezione naturalistica del fatto, ma non di restringere quest'ultimo nella sfera della sola azione od omissione dell'agente.
2.3. Al contrario, ha concluso la Corte Costituzionale, sono costituzionalmente corretti gli approdi della giurisprudenza di legittimità, per la quale l'identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Cass., SU, n. 34655 del 28/6/2005, rv 231799).
Tanto, precisa la Corte costituzionale, a condizione che, nell'applicazione pratica, tutti gli elementi del reato siano assunti nella loro dimensione empirica, sicchè anche l'evento non potrà avere rilevanza in termini giuridici, ma assumerà significato soltanto quale modificazione della realtà materiale conseguente all'azione o all'omissione dell'agente. In questo modo è assicurato il massimo dispiegarsi della funzione di garanzia sottesa all'art. 649 c.p.p. - senza compromissione di altri principi di rilievo costituzionale - e si evita che la valutazione comparativa - cui è chiamato il giudice investito del secondo giudizio - sia influenzata dalle sempre opinabili considerazioni sulla natura dell'interesse tutelato dalle norme incriminatrici, sui beni giuridici offesi, sulla natura giuridica dell'evento, sul ruolo che ha un medesimo elemento all'interno delle fattispecie, sulle implicazioni penalistiche del fatto e su quant'altro concerne i singoli reati.
3. Alla luce di tali criteri deve censurarsi la sentenza impugnata, la quale ha escluso che il giudicato formatosi sull'appropriazione indebita sia ostativo alla celebrazione di un secondo giudizio (per la bancarotta patrimoniale), perchè, è detto in sentenza, "alla apparente unicità della condotta non corrisponde l'unicità del fatto". Invero, prosegue la sentenza, "anche se la condotta è unica, come si potrebbe ritenere nel caso in esame, gli eventi possono essere plurimi e possono dare ontologicamente luogo a fatti che possono essere separatamente perseguiti" (pagg. 26-27). La spiegazione, evidentemente tautologica, si appoggia, in realtà, alla giurisprudenza richiamata al punto 1.2., per la quale la declaratoria di fallimento, pur non integrando - per pacifica giurisprudenza - un evento del reato, qualifica la fattispecie di cui all'art. 216 L. Fall. nella sua specificità offensiva, per il fatto che attualizza l'offesa al bene giuridico protetto, rappresentata dalla garanzia che il patrimonio dell'imprenditore costituisce per i creditori.
Vero è, poi, che la Corte d'appello di Trieste ha inteso rafforzare la conclusione cui è pervenuta attraverso la valorizzazione di un dato che è proprio del fallimento: in ogni caso, aggiunge infatti la sentenza, dopo la formazione del precedente giudicato è sopraggiunto un fatto nuovo, da intendere come evento in senso naturalistico, costituito dal dissesto/insolvenza della società.
4. Ritiene il Collegio che nè l'impostazione della Corte d'appello di Trieste, nè quelle che l'hanno preceduta possano essere condivise.
4.1. Anche se si dovesse ritenere che l'appropriazione indebita e la bancarotta integrino una ipotesi di concorso formale di reati (cosa decisamente dubbia, per le ragioni limpidamente esposte nella sentenza n. 37298/2010, sopra richiamata), la possibilità di procedere per la bancarotta dopo la formazione del giudicato sull'appropriazione è, ora - dopo la sentenza n. 200/2016 della Corte Costituzionale, sopra richiamata, la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 649 c.p.p., nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale - condizionata alla possibilità di leggere, nella bancarotta, un fatto diverso rispetto all'appropriazione, sulla base degli elementi identitari del reato, tradizionalmente compendiati nella triade condotta, nesso causale, evento. Dopo questa pronuncia, infatti, la problematica posta dall'impatto del ne bis in idem sul concorso reale di norme va risolta alla stregua dei criteri enunciati in precedenza, secondo cui un nuovo giudizio è consentito solo se il fatto che si vuole punire sia, naturalisticamente inteso, diverso, e non già perchè con la medesima condotta sono state violate più norme penali e offeso più interessi giuridici. Il che impedisce di far riferimento all'istituto del concorso reale di norme per dirimere la problematica posta dal sopravvenire del fallimento alla pronuncia di appropriazione.
4.2. Nemmeno l'impostazione più recente della giurisprudenza di legittimità può essere seguita. Essa fa leva sul fatto che appropriazione indebita e bancarotta per distrazione sono strutturalmente diverse, perchè la bancarotta ha, in più, l'elemento specializzante della dichiarazione di fallimento, che "attualizza" l'offesa insita nell'appropriazione. Occorre considerare, però, che il diritto penale punisce i fatti dipendenti dall'azione o dall'omissione dell'agente; perciò, anche se nel "fatto" vanno ricompresi - secondo l'insegnamento della Corte Costituzionale e delle Sezioni Unite - le conseguenze della condotta (l'evento) e il nesso che le lega alla condotta, deve trattarsi pur sempre di elementi dipendenti dall'agire del soggetto, perchè possano essergli addebitati. La dichiarazione di fallimento è, invece, per generale opinione, indipendente dalla volontà dell'agente, perchè consegue all'iniziativa dei creditori o del Pubblico Ministero ed è legata alle valutazione del Tribunale fallimentare, sicchè non può essere annoverata tra gli elementi che concorrono alla identificazione del "fatto", nella accezione assunta dal giudice delle leggi e che qui rileva. D'altra parte, la recente giurisprudenza di questa sezione (cfr. Sez, 5, n. 13910 del 9/2/2017, rv 269388 e 269389, nonchè, sez. 5, n. 4400 del 6/10/2017, Cragnotti, n.m.), sviluppando consequenzialmente le premesse poste da S.U., n. 22474 del 27/9/2016, Passarelli, ha ritenuto che la dichiarazione di fallimento costituisca, nei confronti del delitto di bancarotta distrattiva pre-fallimentare, condizione obbiettiva di punibilità (contra, però, sez. 5, n. 17819 del 24/3/2017, rv 269562). Vale a dire che, in tale figura criminosa, la condotta si perfeziona con la distrazione, ma la punibilità è subordinata - secondo lo schema dell'art. 44 c.p. - alla dichiarazione di fallimento. E dunque, se l'agente è già stato giudicato con carattere di definitività per il delitto di cui all'art. 646 c.p., nel caso di condanna egli sarà assoggettato alla sanzione penale stabilità dal giudice; nel caso di assoluzione, non si vede come la medesima condotta potrebbe essere contraddittoriamente valutata penalmente rilevante.
Depurata, dunque, di questo elemento (id est, la dichiarazione di fallimento), la bancarotta per distrazione non si differenzia in nulla dall'appropriazione indebita (quando, beninteso, abbiano lo stesso oggetto), sicchè non presenta la diversità necessaria a superare il divieto del bis in idem. La profonda diversità della bancarotta per distrazione, rispetto all'appropriazione indebita, sta, in realtà, nell'offesa che essa reca all'interesse dei creditori, per la diminuzione della garanzia patrimoniale che è ad essa collegata; ma si tratta dì una diversità che, stando al dictum della Corte Costituzionale, non rileva ai fini della identificazione del "fatto", perchè attiene - insieme all'oggetto giuridico, alla natura dell'evento, ecc. - ad elementi della fattispecie che, per la loro opinabilità, non devono concorrere a segnare l'ambito della garanzia costituzionale e convenzionale del ne bis in idem.
4.3. Evidentemente, proprio perchè avvertita della fragilità della costruzione prima richiamata, la Corte d'appello di Trieste ha inteso far leva sulle conseguenze dell'appropriazione, individuate, questa volta, nel dissesto/insolvenza della società. In pratica, il fallimento della società - intesa, questa volta, non come formale dichiarazione di fallimento, ma come sostanziale dissesto - costituirebbe, nella specie, l'evento del reato, perchè collegato causalmente con la distrazione della somma di Euro 35.000 da parte dell'amministratore. Pur riconoscendosi, in via teorica, che la distrazione di somme (evidentemente, di importo rilevante) possa determinare, nella pratica, il fallimento dell'impresa e rappresentare, quindi, un evento ulteriore, da prendere in considerazione per valutare l'identità del fatto, si deve osservare che, nella specie, non si tratta dell'accusa mossa a P. (al quale non è contestata la bancarotta impropria ex art. 223, comma 2, L. Fall., ma quella distrattiva ex art. 216), nè che sono comunque rinvenibili, in sentenza, elementi de cui desumere che il fallimento della (OMISSIS) srl sia stato conseguenza della distrazione contestata all'imputato, sicchè anche l'argomento speso, da ultimo, dal giudice d'appello si rivela inidoneo a superare le criticità insite nella conclusione cui è pervenuto.
In conclusione, nessuna delle impostazioni passate in rassegna regge all'impatto coi principi enunciati dalla Corte Costituzionale nella sentenza più volte richiamata, nè si profilano, nella specie, situazioni da cui dedurre che la bancarotta rappresenti un fatto diverso dal reato per cui vi è pronuncia passata in giudicato, sicchè va escluso che P. potesse essere nuovamente sottoposto a procedimento penale.
5. Peraltro, alla medesima conclusione bisogna giungere per altra via. E' generalmente riconosciuta l'esistenza, nell'ordinamento, del giudicato parziale, che può riguardare uno dei fatti di cui un soggetto sia contemporaneamente accusato, ovvero un elemento del fatto a lui addebitato. Tale giudicato si forma a seguito dell'accertamento giudiziale contenuto in un provvedimento definitivo del giudice penale e poggia su una imprescindibile ragione di ordine logico, non potendosi ammettere che sulle medesime circostanze di fatto - che possono riguardare anche la sola condotta del soggetto - siano emesse pronunce contraddittorie, con frustrazione degli scopi della giurisdizione. Infatti, proprio per evitare un corto circuito logico, è ammessa la revisione della sentenza quando i fatti stabiliti a fondamento di una pronuncia di condanna non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un'altra sentenza irrevocabile. E proprio in applicazione di tale principio è stato costantemente affermato che - se la preclusione di cui all'art. 649 c.p.p. non può essere invocata qualora il fatto, in relazione al quale sia già intervenuta una pronuncia irrevocabile, configuri un'ipotesi di "concorso formale di reati" (impostazione ancora valida, col limite introdotto dalla richiamata sentenza della Corte costituzionale) - tanto non vale allorchè il secondo giudizio si ponga in una situazione di incompatibilità logica con il primo: ciò che potrebbe verificarsi allorchè nel primo giudizio sia stata dichiarata l'insussistenza del fatto o la mancata commissione di esso da parte dell'imputato (Cass., n. 11918 del 20/1/2016, rv 266382; sez. 3, n. 50310 del 18/9/2014; sez. 3, n. 25141 del 15/4/2009).
Ciò che vale per il concorso reale di norme incrimimnatrici vale, stante l'identità di ratio, per il reato complesso (a cui, si è visto, viene ricondotta, da parte di alcune pronunce, la sequenza appropriazione-bancarotta), che si caratterizza per la presenza di elementi riconducibili ad altre fattispecie delittuose, su cui potrebbe essere senz'altro intervenuto - prima dell'avvio dell'azione penale per il reato complesso - un accertamento giudiziale con efficacia di giudicato.
Ebbene, P. è stato assolto - con sentenze del Tribunale di Pordenone, passate in giudicato il 24/7/2012 - dall'accusa di essersi appropriato della somma di 35 mila Euro, che è anche alla base della contestazione di bancarotta. Pur ammettendo (in ipotesi) che, agli effetti dell'art. 649 c.p.p., appropriazione indebita e bancarotta siano fatti diversi, per la presenza, nella bancarotta, di un elemento naturalisticamente diverso dall'appropriazione, deve riconoscersi che l'unica condotta che ha dato origine ad entrambi i procedimenti era stata, prima dell'avvio del procedimento per il reato fallimentare, oggetto di accertamento in sede penale, con esito liberatorio per l'imputato, sicchè su di esso si era formato il giudicato. Anche per tale motivo, quindi, la seconda azione penale non avrebbe potuto essere promossa.
6. In conclusione, la sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione dei principi in materia di ne bis in idem, sicchè, ravvisandosi, nella specie, sulla base di quanto sopra esposto, una preclusione derivante da precedente giudicato, va annullata senza rinvio.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè l'azione penale non poteva essere promossa per precedente giudicato.
Così deciso in Roma, il 15 febbraio 2018.
Depositato in Cancelleria il 6 giugno 2018