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Bancarotta fraudolenta per distrazione: sussiste in caso di prelievo di somme dalle casse sociali

Bancarotta fraudolenta patrimoniale

Giugno 2024 - Cassazione penale sez. V, 05/06/2024, n.33063

Integra il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione la condotta dell'amministratore della società fallita che prelevi somme dalle casse sociali, pur se destinate al pagamento di un dipendente a titolo di trattamento di fine rapporto, ovvero al pagamento delle rate, conseguenti ad un contratto di finanziamento stipulato dal dipendente, in favore della società finanziaria a seguito della cessione di credito, essendo tali somme a tutti gli effetti parte del patrimonio della fallita.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Ancona, con la sentenza emessa il 12 settembre 2023, riformava parzialmente quella del Tribunale di Ascoli Piceno, che aveva ritenuto la responsabilità penale degli attuali ricorrenti in ordine ai delitti di bancarotta societaria patrimoniale fraudolenta per distrazione (capo A) nonché documentale specifica (capo B). La Corte territoriale riqualificava la condotta sub capo B), per il solo Ro.Do., ai sensi dell'art. 217, comma 2, L. Fall., e dichiarava l'estinzione del reato per prescrizione, mentre confermava nel resto la prima decisione. In relazione alla fallita HI - MEC Srl, Da.Fl. rispondeva quale amministratore unico sino alla data del 1 marzo 2012 e Ro.Do. quale amministratore unico da tale data alla sentenza di fallimento. La condotta di bancarotta patrimoniale contestata consisteva nella distrazione della somma complessiva di Euro 19.342,00, pari alla somma delle rate dei finanziamenti e del trattamento di fine rapporto indebitamente trattenuti dalle buste paga (a partire dal mese di ottobre 2011 sino al mese di luglio 2012) del dipendente Ca.Ca., importi non versati alle finanziarie: in particolare Euro 990.00 per le menzionate rate da ottobre 2011 a giugno 2012 ed Euro 621,00 da aprile a giugno 2012; Euro 17.731,00, corrispondenti alla retribuzione ed al t.f.r. trattenuti nel mese di luglio 2012 di cui Euro 17.181,00 quale "rimborso prestito" ed Euro 550,00 quale "rimborso prestito TI". La condotta di bancarotta documentale specifica riguardava la sottrazione e l'omessa consegna di tutte le scritture contabili. 2. I ricorsi per cassazione proposto nell'interesse di Ro.Do. e Da.Fl. risultano articolati rispettivamente in uno e tre motivi, enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, secondo quanto disposto dall'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 3. Il motivo proposto dal ricorso nell'interesse di Ro.Do. lamenta violazione di legge. Richiama le due pronunce delle Sezioni Unite, ricorrenti Li Calzi e Orlando, che avevano escluso che l'omesso versamento delle trattenute potesse integrare il reato di appropriazione indebita e dunque non fosse configurabile il delitto di bancarotta contestato. Risulterebbe inoltre viziata la sentenza impugnata, anche perché il contratto di cessione del quinto da parte del dipendente risaliva all'ottobre 2021, quindi era antecedente al marzo 2012, data del subingresso del ricorrente quale amministratore della società fallita. 4. Il ricorso nell'interesse di Da.Fl. si articola in tre motivi. 4.1 Il primo motivo deduce violazione di legge in relazione agli artt. 157 e 81 cod. pen., nonché 217 L. Fall., oltre che vizio di motivazione, in quanto la sentenza impugnata ha omesso di dichiarare l'estinzione per prescrizione, anche per il ricorrente, quanto al reato di bancarotta documentale, riqualificato per Ro.Do. in bancarotta semplice. 4.2 Il secondo motivo lamenta violazione di legge, in relazione all'art. 216 L. Fall., e vizio di motivazione, avendo la Corte di appello ritenuto ammissibile la costituzione di parte civile di Ca.Ca., dipendente della fallita, pur se lo stesso aveva ricevuto tutte le somme che aveva preteso. Inoltre, la Corte di appello non avrebbe valutato l'estinzione per prescrizione del reato di appropriazione indebita, che doveva essere configurato in luogo della bancarotta patrimoniale. 4.3 Il terzo motivo lamenta vizio di motivazione, sempre in relazione all'art. 216 L. Fall., in quanto la Corte di appello erroneamente fa riferimento alla sentenza di primo grado, travisando il contenuto della deposizione di Ci., che avrebbe attestato la consegna a Ro.Do. da parte di Da.Fl. della documentazione societaria, omettendo poi ogni valutazione della missiva dell'avvocato D'Angelo, prodotta in dibattimento. 5. Il ricorso è stato trattato senza intervento delle parti, ai sensi dell'art. 23, comma 8, D.L. n. 137 del 2020, disciplina prorogata sino al 31 dicembre 2022 per effetto dell'art. 7, comma 1, D.L. n. 105 del 202, la cui vigenza è stata poi estesa in relazione alla trattazione dei ricorsi proposti entro il 30 giugno 2023 dall'art. 94 del D.Lgs. 10 ottobre 2022 n. 150, come modificato dall'art. 5-duodecies D.L. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito con modificazioni dalla L. 30 dicembre 2022, n. 199, nonché entro il 30 giugno 2024 ai sensi dell'art. 11, comma 7, del D.L. 30 dicembre 2023, n. 215, convertito in legge 23 febbraio 2024, n. 18. 6. Il Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale dott. Tomaso Epidendio, ha depositato requisitoria e conclusioni scritte - ai sensi dell'art. 23 comma 8, D.L. 127 del 2020 - con le quali ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso nell'interesse di Da.Fl., in quanto inediti e versati in fatto i motivi secondo e terzo, mentre il primo motivo è manifestamente infondato in quanto la distrazione è configurabile per la sottrazione di denaro destinato al dipendente; quanto a Ro.Do., invece, fondato risulterebbe il motivo in relazione alla carenza di motivazione quanto all'amministrazione di fatto svolta dallo stesso. 7. L'avvocato Alessandro Angelozzi per Da.Fl. ha concluso chiedendo accogliersi il ricorso. 8. L'avvocato Francesco Voltattorni, nell'interesse di Ro.Do., ha concluso evidenziando come il delitto di bancarotta per distrazione non sia configurabile in relazione alle trattenute, in quanto, a differenza di quanto ritenuto dalla Procura generale, le stesse non sono state conferite e confuse con il patrimonio del datore di lavoro: si argomenta che non ogni omesso pagamento di t.f.r. al dipendente, in caso di fallimento dell'impresa datrice di lavoro, determina una distrazione, in ordine alla quale le sentenze di merito non indicano le fonti di prova. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso nell'interesse di Da.Fl. è inammissibile, quello di Ro.Do. è infondato. 2. Quanto a tale ultimo ricorso, che deduce violazione di legge, deve evidenziarsi come la corretta lettura delle sentenze delle Sezioni Unite richiamate dal ricorrente esclude la configurabilità del delitto di appropriazione indebita, per l'amministratore di società che trattenga indebitamente il denaro da versare per conto del lavoratore dipendente, ma non anche la condotta distrattiva, anzi la comprova. 2.1 A ben vedere Sez. U., n. 37954 del 25/05/2011, Orlando Rv. 250974 - 01 hanno affermato che non integra il reato di appropriazione indebita, ma mero illecito civile, la condotta del datore di lavoro che, in caso di cessione di quota della retribuzione da parte del lavoratore, ometta di versarla al cessionario. Le Sezioni Unite hanno chiarito che la regola dell'acquisizione per confusione del denaro e delle cose fungibili nel patrimonio di colui che le riceve non opera ai fini della nozione di altruità accolta nell'art. 646 cod. pen. Non potrà, pertanto, ritenersi responsabile di appropriazione indebita colui che non adempia obbligazioni pecuniarie cui avrebbe dovuto far fronte con quote del proprio patrimonio non conferite e vincolate a tale scopo (nello stesso senso Sez. U., n. 1327 del 27/10/2004, dep. 19/01/2005, Li Calzi, Rv. 229634 - 01, in relazione al mancato versamento alla Cassa edile delle somme "trattenute" dal datore di lavoro sulla retribuzione del dipendente per ferie, gratifiche natalizie e festività). E bene, illuminante a tal proposito risulta quanto Sez. U., Orlando evidenzia al punto 10 della pronuncia - occupandosi del caso, analogo a quello in esame, di un finanziamento a un dipendente, con cessione del credito vantato dal dipendente verso il datore di lavoro in favore della finanziaria - richiamando anche la sovrapponibile fattispecie delle trattenute da versare all'ente previdenziale, analizzata da Sez. U., Li Calzi: "la cessione negoziale riguarda, anche in questo caso, una quota della retribuzione che pacificamente eccede i limiti della quota impignorabile, insequestrabile e incedibile, quindi giuridicamente indisponibile o intangibile, della retribuzione; è stata effettuata dalla dipendente all'istituto di credito contestualmente alla anticipazione da parte di questo di una somma per il pagamento di un suo debito; come ogni contratto di sconto, ha comportato il trasferimento della titolarità del credito ceduto con i privilegi, le garanzie e gli accessori suoi propri, in capo all'ente finanziatore contestualmente all'erogazione dell'anticipazione, indipendentemente dalla notificazione o dalla accettazione della cessione, che, avvenute, hanno semplicemente perfezionato la condizione di opponibilità del negozio al ceduto, rilevante ai fini della sua liberazione all'eventuale atto del pagamento. Nulla consente di distinguere perciò, come già rilevava la sentenza Li Calzi, l'omesso pagamento al cessionario della quota di stipendio trattenuta da quanto versato a titolo di retribuzione al lavoratore, dall'omesso pagamento, integrale e parziale, della retribuzione al lavoratore. In relazione a un inadempimento di tal fatta del datore di lavoro non è possibile considerare già appartenente al patrimonio del lavoratore la somma corrispondente alla retribuzione a lui dovuta, mai uscita e separata dal patrimonio del datore di lavoro, specie quando comunque ecceda le quote intangibili, non essendo prevista ad opera dei datori di lavoro di alcun tipo la costituzione, ex lege o volontaria, di fondi o patrimoni separati deputati al pagamento delle retribuzioni, neppure ai limitati fini dell'assolvimento degli obblighi di tutela prescritti dall'art. 36 Cost. Sicché non v'è modo di configurare, allo stato della legislazione vigente, il delitto di appropriazione indebita (su tale conclusione in relazione al mancato pagamento delle retribuzioni pareva già convenire, peraltro, anche Sez. U., Silvestri)". In sostanza, le Sezioni Unite chiariscono che il denaro non versato alla società finanziaria, come alla cassa previdenziale, non risulta essere già 'altrui', cioè del lavoratore, per la sola sussistenza dell'obbligazione - al quale è tenuto il datore di lavoro - di versare tale importo, analogamente a ciò che accade nel caso in cui non al creditore ceduto, ma allo stesso lavoratore debba essere versato lo stipendio. Ed è altrettanto evidente che appartenendo il denaro alla società, perché mai separato dal patrimonio della società/datrice di lavoro, la sottrazione dello stesso integri la distrazione, non essendo tale denaro un bene altrui, né tantomeno un bene solo detenuto in via precaria dalla fallita. Nello stesso senso argomentava anche Sez. U., Li Calzi, richiamando il caso del datore di lavoro-sostituto d'imposta, sovrapponibile a quello del datore di lavoro che effettua le trattenute sulle retribuzioni per riversarle alla Cassa edile, e, a maggior ragione, a quella del datore dì lavoro che effettua le ritenute dei contributi previdenziali. In ciascuno di detti casi, difatti, si è in presenza di un "accantonamento" di una somma determinata di denaro, con un fine determinato, da versarsi al terzo alle scadenze stabilite. Tali ipotesi - proseguivano le Sezioni Unite - sono accomunate dalla caratteristica dell'obbligo del datore di lavoro di corrispondere al lavoratore la retribuzione al netto di "ritenute" a vario titolo effettuate ("per debito di imposta, per contributi previdenziali, in forza di accordi economici o di contratti collettivi"), e sono inoltre tutte egualmente connotate dalla circostanza che "il denaro oggetto dell'appropriazione è rappresentato da una quota ideale del "patrimonio" del possessore, indistinta da tutti gli altri beni e rapporti che contribuiscono a costituirlo": "La somma trattenuta o ritenuta resta, in altri termini, nella esclusiva disponibilità del datore di lavoro-possessore, non soltanto perché non è mai materialmente versata al lavoratore, ma soprattutto perché mai può esserlo, avendo il dipendente soltanto il diritto di percepire la retribuzione al netto delle trattenute effettuate alla fonte dal datore di lavoro. Le "trattenute", perciò, si risolvono "in una operazione meramente contabile diretta a determinare l'importo della somma che il datore di lavoro è obbligato a versare, in base ad una norma di legge o avente forza di legge, alla scadenza pattuita in conseguenza della corresponsione della retribuzione". Al contrario, in tutti i casi trattati dalla giurisprudenza e pacificamente ritenuti riconducibili all'appropriazione indebita, il denaro o la cosa mobile di cui l'agente si appropria, "non fanno mai parte ab origine del patrimonio del possessore", ma vi entrano "ab extrinseco", e con esso patrimonio non si confondono perché connotati da una vincolo specifico di destinazione; sicché di tali beni può dirsi che restano di "proprietà" diretta od indiretta di altri, in virtù della deroga ai principi del diritto civile in tema di acquisto della proprietà delle cose fungibili (Sez. 2, n. 2445 del 17/06/1977, Pomar, Rv. 137092)". Pertanto, il motivo è infondato, in quanto le somme destinate alla società finanziaria o all'ente previdenziale, fanno parte a tutti gli effetti del patrimonio dell'impresa fallita, cosicché la relativa sottrazione integra una condotta distrattiva. Quanto alla doglianza di Ro.Do., pertanto, proposta sotto forma di violazione di legge, al di là dell'errato argomentare della sentenza di appello che ha ritenuto configurabile l'appropriazione indebita, a differenza della corretta motivazione della sentenza di primo grado, risulta comunque corretta la decisione. 2.2 Deve pertanto affermarsi che integra il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione la condotta dell'amministratore della società fallita che prelevi somme dalle casse sociali, pur se destinate al pagamento di un dipendente a titolo di trattamento di fine rapporto, ovvero al pagamento delle rate, conseguenti ad un contratto di finanziamento stipulato dal dipendente, in favore della società finanziaria a seguito della cessione di credito, essendo tali somme a tutti gli effetti parte del patrimonio della fallita". 2.3 Anche infondata è la doglianza relativamente alla circostanza che Ro.Do., divenuto amministratore unico dal 1 marzo 2012 al fallimento, interverrebbe nella gestione della società solo dopo la stipula del contratto di finanziamento dell'ottobre 2021. A riguardo, la Corte di appello al fol. 10, chiarisce che le rate Carifin risultavano impagate dal mese di ottobre 2011, e quelle Ge Capital dall'aprile 2012. In questo secondo caso, quindi, proprio a partire dal periodo di gestione di Ro.Do., il che esclude la fondatezza dell'argomento difensivo; comunque le rate venivano lasciate impagate fino all'agosto 2012, come anche il t.f.r. non veniva erogato all'atto del licenziamento nello stesso mese (cfr. fol. 10 della sentenza impugnata). In sostanza non rileva se al momento del sorgere della obbligazione fra il dipendente e la finanziaria l'imputato non ancora fosse 'in carica', in quanto decisiva è la distrazione intervenuta, nei termini descritti, nel periodo di amministrazione del Ro.Do., per l'omesso rinvenimento degli importi nelle casse sociali. Deve ribadirsi come la prova della distrazione o dell'occultamento dei beni della società dichiarata fallita possa essere desunta dalla mancata dimostrazione, ad opera dell'amministratore, della destinazione dei suddetti beni (Sez. 5, n. 8260/16 del 22 settembre 2015, Aucello, Rv. 267710; Sez. 5, n. 19896 del 7 marzo 2014, Ranon, Rv. 259848; Sez. 5, n. 11095 del 13 febbraio 2014, Ghirardelli, Rv. 262740; Sez. 5, n. 22894 del 17 aprile 2013, Zanettin, RV. 255385; Sez. 5, n. 7048/09 del 27 novembre 2008, Bianchini, Rv. 243295; Sez. 5, n. 3400/05 del 15 dicembre 2004, Sabino, Rv. 231411). Né tanto meno la difesa ha contestato la preesistenza dei beni nel patrimonio sociale, rappresentando che non siano intervenuti i doverosi accantonamenti degli importi, ritenuti infatti comprovati dalla sentenza di primo grado (fol. 21). Ne consegue l'infondatezza complessiva del motivo di ricorso. 3. Quanto al ricorso nell'interesse di Da.Fl., il primo motivo non si confronta con la motivazione della sentenza di primo grado, che in vero ha riqualificato la sola condotta di bancarotta documentale fraudolenta in semplice per Ro.Do. e non anche per Da.Fl., cosicché non sussistevano i presupposti per dichiarare l'estinzione per prescrizione del reato. Inoltre, venendo al terzo motivo, si richiamano risultanze probatorie che si affermano sostanzialmente travisate, ma le stesse non appaiono decisive, anche perché il motivo di ricorso non si confronta con la smentita di Ci. alla tesi di Da.Fl., in ordine alla circostanza che quest'ultimo avesse consegnato la documentazione societaria al subentrante Ro.Do., in occasione del rogito notarile. Ci. ha del tutto escluso di poter testimoniare a riguardo, non avendo presenziato a tale atto. Per il resto il motivo sollecita una rilettura del materiale probatorio non consentita in questa Sede, non rilevandosi nel caso di specie manifeste illogicità motivazionali. Infine, il secondo motivo è inedito, in quanto non proposto con l'atto di appello, dal che l'inammissibilità ex art. 606 comma 3 cod. proc. pen. (così Sez. 2, n. 32780 del 13/07/2021, De Matteis, Rv. 281813; Sez. 2, n. 19411 del 12/03/2019, Furlan, Rv. 276062, in motivazione; in senso conforme, ex plurimis, v. Sez. 2, n. 34044 del 20/11/2020, Tocco, Rv. 280306; Sez. 3, n. 27256 del 23/07/2020, Martorana, Rv. 279903; Sez. 3, n. 57116 del 29/09/2017, B., Rv. 271869; Sez. 2 2, n. 29707 del 08/03/2017, Galdi, Rv. 270316; Sez. 2, n. 8890 del 31/01/2017, Li Vigni, Rv. 269368). Pertanto, i motivi non sono consentiti e il ricorso è inammissibile. 4. Ne consegue il complessivo rigetto del ricorso nell'interesse di Ro.Do., con condanna alle spese processuali del ricorrente, mentre va dichiarata l'inammissibilità del ricorso nell'interesse di Da.Fl., il che determina la condanna della parte ricorrente, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen. al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende. P.Q.M. Rigetta il ricorso di Ro.Do., che condanna al pagamento delle spese processuali. Dichiara inammissibile il ricorso di Da.Fl. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il 5 giugno 2024. Depositata in Cancelleria il 23 agosto 2024.
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