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Sul concorso nel delitto di bancarotta impropria da aumento fittizio del capitale sociale

Bancarotta societaria

Marzo 2024 - Cassazione penale sez. V, 01/03/2024, n.21854

Configura concorso nel delitto di bancarotta impropria da aumento fittizio del capitale sociale, la condotta dell'esperto estimatore che, investito della valutazione di un bene conferito dall'amministratore unico in dissesto, lo sovrastimi falsamente e in misura rilevante nella consapevolezza dell'altrui progetto delittuoso, nonché della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Catanzaro, con la sentenza emessa il 28 novembre 2022, confermava quella del Tribunale di Crotone, che aveva accertato la responsabilità penale di Mi.Al. in ordine al concorso nel delitto di bancarotta impropria da reato societario, in particolare da falso in bilancio e aumento fittizio di capitale sociale, ex art. 223, comma 2, n. 1) legge fall. A Mi.Al. veniva contestato l'aver concorso quale estraneo nel menzionato delitto, in quanto avrebbe redatto una falsa perizia giurata di stima, con la quale aveva attribuito il valore di oltre 8 milioni di euro ad un marchio che Sp. - coimputato non ricorrente e amministratore di diritto della Kroton Gres 2000 Industrie Ceramiche Srl - aveva acquistato per il valore di soli 10 mila euro. Tale perizia era stata depositata da Sp. nel corso dell'assemblea dei soci della menzionata società, poi fallita, in relazione al conferimento che lo stesso amministratore di diritto, quale socio, operava del marchio così stimato: ciò determinava l'aumento di capitale per la somma di euro 7.900.000,00 e oltre 223mila euro vennero posti a riserva, con conseguenti false appostazioni di bilancio, che consentivano alla società di mascherare al pubblico la situazione di dissesto già in atto, aggravandolo. 2. Il ricorso per cassazione proposto nell'interesse di Mi.Al. consta di tre motivi, enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, secondo quanto disposto dall'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 3. Il primo motivo deduce violazione di legge in relazione agli artt. 125,546 cod. proc. pen. e 24 e 111 Cost., oltre che vizio di motivazione. Il ricorrente si duole dell'omessa motivazione, ritenendola apparente, a fronte di motivi specifici, essendosi la sentenza impugnata limitata, a riportarsi o a riprodurre quella di primo grado, senza rinvenirvi il ricorrente alcuna autonoma motivazione. 4. Il secondo motivo lamenta violazione di legge in relazione agli artt. 110 cod. pen., 223, comma 2, legge fall, e agli artt. 2622 e 2632 cod. civ. La Corte territoriale avrebbe travisato il contenuto della consulenza di parte dell'esperto Es., che ha ritenuto la stima operata dall'imputato in linea con i principi in materia, ritenendo congruo il valore assegnato al marchio dal Mi.Al.. Per altro, la Corte di appello avrebbe utilizzato l'elaborato di Es. solo in funzione comparativistica rispetto alla stima operata da Mi.Al., mentre invece aveva la funzione di offrire un dato tecnico contabile che dimostrasse la congruità del valore attribuito al marchio dall'imputato. Anche l'elemento psicologico del delitto di bancarotta fraudolenta risulterebbe mal governato dalla sentenza impugnata, sia per la discrasia temporale fra l'acquisizione del marchio e la data in cui intervenne l'aumento del capitale, sia anche perché si palesa l'assoluta estraneità dell'imputato. Per Vextraneus occorrerebbe la prevedibilità che dalla propria azione possa derivare un a diminuzione delle garanzie per i creditori: la sentenza impugnata non avrebbe considerato che la dichiarazione di fallimento ebbe a intervenire tre anni dopo. Inoltre il ricorrente, richiamando la giurisprudenza in tema di fallimento causato da operazioni dolose, censura la sentenza perché per un verso Mi.Al. non aveva le competenze per poter attuare il progetto del concorrente, non svolgendo funzioni per la società; in secondo luogo non terrebbe in conto che Mi.Al. non era il tenutario delle scritture contabili, ruolo assunto dalla CED Srl con a capo Mi.Sa., fratello dell'attuale ricorrente, che quindi non era consapevole dello stato patrimoniale della società. Né risulta che l'imputato sia stato a conoscenza dell'intento fraudolento del cliente, abbia concorso con previo accordo con lo stesso, dando con la propria attività professionale un contributo causale alla lesione dei diritti dei creditori. Anche quanto al nesso di causalità, la motivazione della Corte di merito sarebbe apparente, in quanto la redazione della perizia di stima non poteva determinare in sé il fallimento della Kroton. 5. Il terzo motivo lamenta violazione di legge in relazione agli artt. 62-bis e 133 cod. pen., quanto all'omesso riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche: sarebbe apparente la motivazione, in quanto non ha in concreto valutato gli elementi positivi, individuati nella incensuratezza e nella condotta processuale, meramente riportandosi alla sentenza di primo grado. 6. Il ricorso è stato trattato senza intervento delle parti, ai sensi dell'art. 23, comma 8, d.l. n. 137 del 2020, disciplina prorogata sino al 31 dicembre 2022 per effetto dell'art. 7, comma 1, d.l. n. 105 del 202, la cui vigenza è stata poi estesa in relazione alla trattazione dei ricorsi proposti entro il 30 giugno 2023 dall'articolo 94 del decreto legislativo 10 ottobre 2022, come modificato dall'art. 5-duodecies d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito con modificazioni dalla l. 30 dicembre 2022, n. 199, nonché entro il 30 giugno 2024 ai sensi dell'art. 11, comma 7, del d.l. 30 dicembre 2023, n. 215, convertito in legge 23 febbraio 2024, n. 18. 7. Il Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale dott. Nicola Lettieri, ha depositato requisitoria e conclusioni scritte - ai sensi dell'art. 23 comma 8, d.l. 127 del 2020 - con le quali ha chiesto rigettarsi il ricorso, rappresentando come, senza l'artificiosa attribuzione di un falso valore al marchio indicato in contestazione, sarebbe stato rappresentato un capitale sociale al di sotto del minimo legale, che avrebbe comportato l'obbligo di ripianare le perdite o, in alternativa, di sciogliere la società (art. 2484 n. 4 c.c.): da qui il rapporto di causalità tra la sopravvalutazione del marchio con conseguenti artifici contabili, da un lato, e il dissesto della società fallita, dall'altro. Per altro la fattispecie in esame è quella delle operazioni dolose, per le quali il fallimento è l'effetto di una condotta volontaria, ma non intenzionalmente diretta a produrre il dissesto fallimentare, pur se il soggetto attivo dell'operazione abbia accettato il rischio della stessa, potendo l'evento fallimento essere una possibilità prevedibile. Infine, in sentenza risulta ben delineato il nesso eziologico tra operazioni dolose e il fallimento, nonché la consapevolezza dell'imputato in relazione al possibile effetto causale sul dissesto o sul suo aggravamento. 8. Il difensore, avvocato Giuseppe Napoli, ha replicato alla Procura generale, chiedendo accogliersi il ricorso e chiarendo che Mi.Al. non aveva consapevolezza della situazione contabile della società, sia perché non rivestiva alcun ruolo a riguardo, sia anche perché non conosceva le scritture contabili, sia infine per il tempo trascorso, fra il momento in cui fu effettuata la stima del marchio e l'assemblea ove lo stesso fu conferito. In sostanza, difetterebbe il dolo in quanto Mi.Al. non era a conoscenza dell'intento fraudolento dell'amministratore, difettando la prevedibilità in concreto del dissesto, richiesta per le operazioni dolose in contestazione. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è infondato. 2. Quanto al primo motivo deve evidenziare questa Corte come la motivazione offerta dalla sentenza impugnata sia in parte reiterativa, a mezzo di rinvio, di quella di primo grado, per altra parte sia esplicitamente offerta in risposta alle censure di appello, come ben può apprezzarsi dall'esame dei motivi di impugnazione e dal dispiegarsi delle argomentazioni in ordine a tali censure, quindi in questo caso espressione di una valutazione autonoma delle ragioni di censura, non riproponendo l'incedere della sentenza di primo grado. Pertanto, non si incorre in caso di motivazione omessa né apparente, in quanto in tema di vizio della motivazione delle sentenze, la motivazione apparente e, dunque, inesistente è ravvisabile soltanto quando sia del tutto avulsa dalle risultanze processuali o si avvalga di argomentazioni di puro genere o di asserzioni apodittiche o di proposizioni prive di efficacia dimostrativa, cioè, in tutti i casi in cui il ragionamento espresso dal giudice a sostegno della decisione adottata sia soltanto fittizio e perciò sostanzialmente inesistente (Sez. 5, n. 24862 del 19/05/2010, Mastrogiovanni, Rv. 247682 - 01; in applicazione del principio, è stata annullata la sentenza di condanna che si era limitata ad affermare che la fonte di prova era costituita dalle dichiarazioni della P.O., senza indicarne il contenuto, né le ragioni della ritenuta attendibilità). Diversamente, la sentenza della Corte di appello, qui impugnata, risulta ampiamente correlata ai motivi di appello e offre percorsi logico argomentativi pertinenti e non apodittici. Il motivo è pertanto generico, in quanto non specifica in quali parti non vi sarebbe adeguata risposta della Corte di appello. 3. Il secondo motivo è articolato in plurime censure. 3.1 La prima deduce il travisamento della consulenza di parte, redatta dall'esperto Es.. La Corte di appello evidenzia come debba condividersi la prima sentenza, che conduceva a ritenere anche quest'ultima proponente una stima non adeguata. E ciò non solo in sé, ma l'inadeguatezza risultava anche nella validazione dei criteri utilizzati da Mi.Al. per la propria stima. A tal proposito, la sentenza di appello chiarisce al fol. 4 come la consulenza di parte utilizzi criteri diversi da quelli della stima Mi.Al., così smentendo l'operato dell'imputato. La Corte di appello, senza aporie logiche e in replica ai motivi analizzati compiutamente, evidenzia anche l'infondatezza della censura di travisamento, che viene qui replicata in modo sostanzialmente aspecifico, senza confrontarsi con le argomentazioni spese dalla sentenza qui impugnata che, pur prendendo atto che Es. giunge a una stima sovrapponibile a quella offerta da Mi.Al., evidenzia però l'assenza di dati oggettivi come base della stima, la diversità di metodo utilizzato dai due stimatori, la mancata valutazione degli elementi di debolezza del marchio, con l'utilizzo di quelli "di forza", pur se non supportati da dati certi. Pertanto, la censura qui proposta risulta reiterativa e aspecifica, e chiede una rivalutazione del contenuto della consulenza Es. che è stata già effettuata con esiti sovrapponibili in doppia conforme. Va richiamato a riguardo il principio per cui che nel caso di cosiddetta "doppia conforme", il vizio del travisamento della prova, per utilizzazione di un'informazione inesistente nel materiale processuale o per omessa valutazione di una prova decisiva, può essere dedotto con il ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 606, comma primo, lett. e) cod. proc. pen. solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti - con specifica deduzione - che il dato probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (Sez. 3, n. 45537 del 28/09/2022, M., Rv. 283777 - 01; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016 - dep. 20/02/2017, La Gumina e altro, Rv. 26921701). Il che nel caso in esame non si è verificato. Per altro l'accertamento peritale può essere oggetto di esame critico da parte del giudice solo nei limiti del travisamento della prova, che sussiste nel caso di assunzione di una prova inesistente o quando il risultato probatorio sia diverso da quello reale in termini di "evidente incontestabilità" (Sez. 1, n. 47252 del 17/11/2011, Rv. 251404 - 01: in applicazione del principio, la Corte ha dichiarato infondato il motivo di ricorso con cui si contestava un risultato di una perizia fonica, proponendosi una diversa possibile lettura, sulla scorta degli esiti della consulenza di parte): nel caso in esame non si rinviene la diversità evidente fra il risultato probatorio tratto della consulenza di parte come riportato nelle sentenze di merito e l'effettivo risultato probatorio, tanto più che l'articolazione della censura avrebbe richiesto, come da orientamento consolidato, il rispetto della condizione della specifica indicazione degli "altri atti del processo", con riferimento ai quali, l'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., configura il vizio di motivazione denunciabile in sede di legittimità: tale condizione può essere soddisfatta nei modi più diversi quali, ad esempio, l'integrale riproduzione dell'atto nel testo del ricorso, l'allegazione in copia, l'individuazione precisa dell'atto nel fascicolo processuale di merito, purché detti modi siano comunque tali da non costringere la Corte dì cassazione ad una lettura totale degli atti, dandosi luogo altrimenti ad una causa di inammissibilità del ricorso, in base al combinato disposto degli artt. 581, comma 1, lett. d), e 591 cod. proc. pen (Sez. 4, n. 3937 del 12/01/2021, Centofanti, Rv. 280384 - 01; mass. conf. N. 43322 del 2014 Rv. 260994 - 01, N. 3360 del 2010 Rv. 246499 - 01). Nel caso in esame, invece, la censura propone brani della sentenza di appello, non allegando invece l'atto che si ritiene travisato dalla sentenza d'appello, non consentendo a questa Corte la valutazione della doglianza, non avendo il Collegio accesso agli atti. Ciò che residua, quindi, è la richiesta di una valutazione di maggiore o minore attendibilità della consulenza di parte, dei criteri utilizzati dall'esperto Es., alla quale però osta la circostanza che la Corte di cassazione non deve stabilire la maggiore o minore attendibilità scientifica delle acquisizioni esaminate dal giudice di merito e, quindi, se la tesi accolta sia esatta ma solo se la spiegazione fornita sia razionale e logica; essa, infatti, non è giudice delle acquisizioni tecnico-scientifiche, essendo solo chiamata a valutare la correttezza metodologica dell'approccio del giudice di merito al relativo sapere, che include la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all'affidabilità delle informazioni utilizzate ai fini della spiegazione del fatto; ne deriva che il giudice di legittimità non può operare una differente valutazione degli esiti della prova suddetta, trattandosi di un accertamento di fatto, insindacabile in sede di legittimità, se congruamente argomentato (Sez. 1, n. 58465 del 10/10/2018, Centofanti, Rv. 276151 - 01). E nel caso in esame l'apparato logico argomentativo delle due sentenze di merito, risulta privo di manifesti vizi logici, nella parte in cui valuta il metodo e l'esito della consulenza Es. comparandola anche con la perizia di stima operata dall'imputato. Ne consegue la natura non consentita della censura. 3.2 Venendo agli ulteriori profili di doglianza, va da subito evidenziato che la contestazione e la responsabilità penale dell'imputato è stata ritenuta dalle sentenze di merito in doppia conforme quanto all'art. 223, comma 2, n. 1, legge fall., che punisce gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori di società dichiarate fallite, i quali abbiano cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, commettendo alcuno dei fatti previsti dagli articoli 2621,2622,2626,2627,2628,2629,2632,2633 e 2634 del codice civile, con chiara distinzione rispetto all'ipotesi del n. 2 dello stesso comma, relativa al caso in cui l'agente abbia cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società, norma invece richiamata erroneamente dalle part nelle conclusioni e nel ricorso. Infatti, in modo coerente con l'imputazione, la sentenza di primo grado chiarisce quali siano i delitti in contestazione (fol. 22-24), indicando i reati societari delle false comunicazioni sociali e dell'aumento fittizio di capitale. Va qui condiviso l'orientamento- da ultimo ribadito efficacemente da Sez. 5, n. 47900 del 13/10/2023, Rigotti, Rv. 285558 - 03, alla quale ci si riporta - che: a) il reato di bancarotta impropria da reato societario sia reato proprio (non esclusivo) o a "soggettività ristretta" (come la gran parte dei reati fallimentari), nel senso che richiede la partecipazione di almeno un soggetto rientrante nelle categorie codificate dalla norma. In forza dell'art. 110 cod. pen. anche Vextraneus (es. dipendente, collaboratore, professionista esterno) può concorrere nel reato con il soggetto qualificato, fornendo un consapevole contributo morale (es. istigazione, determinazione, rafforzamento dell'altrui proposito criminoso) o materiale (es. predisposizione del bilancio falso) alla realizzazione dell'illecito, in presenza della necessaria componente soggettiva; b) i reati societari specificamente indicati - i quali, a loro volta, sono reati propri - rappresentano un elemento costitutivo della fattispecie di bancarotta in esame (cfr. Sez. 5, n. 37264 del 19/06/2023, Austa, n.m.) che è reato autonomo (Sez. 5, n. 15062 del 02/03/2011, Siri, Rv. 250092); c) il reato societario presupposto dalla condotta di bancarotta contestata deve perfezionarsi in tutte le sue componenti, oggettive e soggettive: il richiamo dei reati societari, quali "fatti", deve intendersi riferito alla "tipicità" del reato, vale a dire l'insieme degli elementi fattuali descritti dal legislatore nell'ambito di una singola disposizione incriminatrice, all'interno della quale, dunque, trova posto anche il dolo (vedi in motivazione Sez. 5 n. 28508 del 12/04/2013, Mannino; Sez. 5, n. 46689 del 30/06/2016, Coatti); d) il reato di bancarotta impropria da reato societario è reato di evento, nel senso che - a differenza delle ipotesi di bancarotta fraudolenta impropria di cui al primo comma dell'art. 223 legge fall., che sono reati di pericolo - è il dissesto l'evento del reato che, come tale, deve essere causalmente ricollegabile ai reati presupposti e investito del necessario elemento soggettivo: non di meno, l'evento è integrato anche solo dall'aggravamento del dissesto, se già in atto nella società (Sez. 5, n. 29885 del 09/05/2017, Merlo, Rv. 270877 - 01; Sez. 5, n. 15613 del 05/12/2014, dep. 15/04/2015, Geronzi, Rv. 263803 - 01; mass. conf. N. 16259 del 2010 Rv. 247254 - 01, N. 17021 del 2013 Rv. 255090 - 01); e) quanto al coefficiente soggettivo si è affermato che, in tema di bancarotta impropria da reato societario, il dolo presuppone una volontà protesa al dissesto, da intendersi non già quale intenzionalità di insolvenza, bensì quale consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico (tra le altre Sez. 5, n. 23091 del 29/03/2012, Baraldi, Rv. 252804; Sez. 5, n. 42257 del 06/05/2014, Solignani, Rv. 260356; Sez. 5, n. 35093 del 04/06/2014, Sistro, Rv. 261446; Sez. 5, n. 50489 del 16/05/2018, Nicosia, Rv. 274449). 3.3 Vanno poi richiamati gli elementi essenziali delle due condotte di reato societario contestate con il reato di bancarotta impropria. 3.3.1 La prima è quella delle false comunicazioni sociali, in danno della società e dei creditori, come prevista nel 2015, anno della condotta in contestazione, dall'art. 2622 cod. civ., poi rifluito nell'art. 2621 cod. civ. a seguito delle modifiche apportate dalla I. n. 69/2015. La modifica ha determinato una piena continuità normativa, fra la precedente fattispecie e l'ipotesi di nuovo conio che "innanzi tutto (ha) ampliato l'ambito di operatività dell'incriminazione delle false comunicazioni sociali, avendo comportato, come evidenziato, l'eliminazione dell'evento e delle soglie previste dal precedente testo dell'art. 2622 c.c., mantenendo invece nella sostanza identico il profilo della condotta tipica. In tal senso l'odierno fenomeno successorio assume caratteristiche opposte a quello generato dal D.Lgs. n. 61/2002, che aveva invece ristretto gli orizzonti applicativi della fattispecie tracciati nell'originario testo della disposizione del codice civile. Ma non è in dubbio che tra la fattispecie previgente e quella di nuova configurazione nell'art. 2621 cod. civ. sussista un evidente rapporto di continuità normativa" (cfr. Sez. 5, n. 37570 del 08/07/2015, Fiorini, Rv. 265020 - 01, in motivazione al punto. 3.1). A tale primo orientamento veniva ad aggiungersi la conferma delle Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli, Rv. 266803 - 01, che affermavano anche che il reato di false comunicazioni sociali, previsto dall'art. 2621 cod. civ., nel testo modificato dalla legge 27 maggio 2015, n. 69, è configurabile in relazione alla esposizione in bilancio di enunciati valutativi, se l'agente, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, se ne discosti consapevolmente e senza fornire adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni. Quanto al dolo richiesto, Sez. 5, n. 46689 del 30/06/2016, Coatti, Rv. 268673 - 01, ha chiarito che il tema di bancarotta impropria da reato societario di falso in bilancio, dove l'elemento soggettivo presenta una struttura complessa comprendendo il dolo generico (avente ad oggetto la rappresentazione del mendacio), il dolo specifico (profitto ingiusto) ed il dolo intenzionale di inganno dei destinatari, il predetto dolo generico non può ritenersi provato - in quanto "in re ipsa" - nella violazione di norme contabili sulla esposizione delle voci in bilancio, nè può ravvisarsi nello scopo di far vivere artificiosamente la società, dovendo, invece, essere desunto da inequivoci elementi che evidenzino, nel redattore del bilancio, la consapevolezza del suo agire abnorme o irragionevole attraverso artifici contabili. 3.3.2 II secondo reato societario, integrante la bancarotta contestata nel caso in esame, è quello previsto dall'art. 2632 cod. civ. che sanziona "(g)li amministratori e i soci conferenti che, anche in parte, formano od aumentano fittiziamente il capitale sociale mediante attribuzioni di azioni o quote in misura complessivamente superiore all'ammontare del capitale sociale, sottoscrizione reciproca di azioni o quote, sopravvalutazione rilevante dei conferimenti di beni in natura o di crediti ovvero del patrimonio della società nel caso di trasformazione (...)". Si tratta anche in questo caso di reato proprio - rispetto al quale è consentito, secondo le ordinarie regole, il concorso dell'extraneus - avente ad oggetto la tutela del valore reale del capitale, per consentire ai terzi e ai creditori di avere contezza della effettiva garanzia offerta dalla società, sulla quale incide la sopravvalutazione "rilevante" dei conferimenti di beni in natura o di crediti, posto che "gonfiare artificiosamente le stime dei beni, dei crediti o del patrimonio, dà vita ad un fenomeno (noto come ed. watering) di annacquamento del capitale sociale, in quanto soltanto illusoriamente incrementato a danno di coloro che hanno rapporti con la società" (cfr. Sez. 5, n. 39495 del 17/06/2021, Musarra, Rv. 282089 - 01, in motivazione). Quanto al dolo, è richiesto quello generico e consiste nella volontà di formare o aumentare fittiziamente il capitale sociale attraverso l'esecuzione di una delle condotte tipiche previste dall'art. 2632 cod. civ., anche nella forma del dolo eventuale, dovendo, nel caso in esame, relativo alla condotta di sopravalutazione dei conferimenti, emergere la consapevolezza da parte dell'agente della "rilevanza" della stessa. 3.4 Alla luce dei principi indicati, in relazione alle doglianze difensive, come anticipato nel caso in esame non occorre, quanto al coefficiente soggettivo, a differenza di quanto afferma il ricorrente, il dolo di cagionare il fallimento, previsto in una delle ipotesi del n. 2 dell'art. 223, comma 2, I. fall, (cagionamelo diretto del fallimento), né il dolo delle operazioni che possano condurre, con valutazione di prevedibilità dell'evento nella dinamica preterintenzionale, al fallimento. L'ipotesi di reato in contestazione, bancarotta impropria da reato societario, richiede il dolo di chi presupponga una volontà protesa al dissesto (e non al fallimento), come già evidenziato da intendersi non già quale intenzionalità di insolvenza, bensì quale consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico (Sez. 5, n. 42257 del 06/05/2014, Solignani, Rv. 260356 - 01; fattispecie relativa alla esposizione di fatti materiali non rispondenti al vero circa la situazione economica e finanziaria della società con conseguente dissesto della medesima ed induzione in errore dei creditori; nello stesso senso Sez. 5, n. 50489 del 16/05/2018, Nicosia, Rv. 274449 - 01, , in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva ritenuto sussistente l'elemento psicologico del reato in capo agli amministratori di fatto e di diritto, a fronte della esposizione di fatti materiali non rispondenti al vero sulla situazione economica e finanziaria della società, al fine di ottenere l'ammissione al concordato preventivo e, comunque, la continuazione dell'attività d'impresa mediante manipolazione dei dati contabili e conseguente falsa rappresentazione della situazione contabile ai creditori e agli organi della procedura). Analoga consapevolezza è richiesta anche per il concorrente extraneus Mi.Al. e, quanto alla stessa, a fronte delle censure di appello, la Corte territoriale chiarisce con puntualità e senza logiche aporie quali siano gli elementi probatori che comprovano il dolo richiesto (fol. 5 e ss.). In primo luogo, la Corte di appello precisa che Mi.Al. non era il responsabile dello studio commerciale che teneva la contabilità della fallita, bensì era il fratello del rappresentante legale: comunque prestava la sua attività professionale in quello studio ed il fratello non aveva escluso che l'imputato potesse essersi occupato della contabilità della fallita. Da ciò emergeva, secondo la Corte di appello, in modo non manifestamente illogico, che Mi.Al. fosse stato scelto da Sp. proprio per la sua appartenenza a quel contesto professionale, in virtù del ruolo e dei rapporti di conoscenza con lo Sp. e ciò pur non essendo un esperto in tema di stima di marchi. D'altro canto, il motivo di appello n.2, che contesta la piena conoscenza da parte dello studio CED della situazione contabile della società, non si confronta con le dichiarazioni rese dallo stesso Sp. al curatore, richiamate a fol. 32 della sentenza di primo grado, dalla quale risulta che fu lo stesso Sp. a riferire che l'attuale imputato "aveva curato la contabilità aziendale e aveva mantenuto con questi della corrispondenza". La Corte di appello, inoltre, analizza anche la censura che richiama l'archiviazione che ha riguardato l'imputato in altro procedimento, rilevando con motivazione non illogica che il provvedimento riguardava l'appropriazione delle scritture della fallita da parte dell'attuale imputato, condotta diversa da quella oggetto di attuale contestazione. A riprova ulteriore delle ragioni della scelta di affidare l'incarico a Mi.Al. per la redazione della perizia di stima - e quindi quale prova della consapevolezza e volontà da parte di Mi.Al. della esorbitante sovrastima del marchio e della sua funzione di determinare il fittizio aumento del capitale - la Corte di appello richiama la circostanza che fu proprio Sp. a consegnare un prototipo di perizia di stima al professionista, che non era un esperto stimatore di marchi, oltre che la documentazione necessaria a riguardo, cosicché l'imputato si adagiava sulle sole informazioni fornite da Sp., senza ricercarne di ulteriori. In sostanza, osserva la Corte di appello "Mi.Al., nell'eseguire l'incarico affidatogli, non ha operato autonomamente" rinunciando anche ad acquisire ulteriori elementi che gli avrebbe consentito di dimensionare la stima in modo più realistico, il che, rileva la Corte di appello, smentisce l'asserita buona fede dell'imputato. A riprova di ciò deve aggiungersi anche quanto rilevato dalla sentenza di primo grado (fol. 25), che per un verso evidenzia come Mi.Al. non fosse iscritto nel registro dei revisori legali, come richiesto dall'art. 2465, comma 1, cod. civ. Si è osservato in dottrina che proprio la semplificazione prevista per le società a responsabilità limitata, che non importa più la nomina dello stimatore da parte del presidente del tribunale come accade per le società per azioni (art. 2343 cod. civ.) viene compensata dalla maggiore professionalità dell'esperto nominato dal conferente, appunto revisore legale, inoltre, altra dottrina rileva come oltre alla qualità tecnico professionale, assicurata dall'essere revisore legale e inesistente nel caso in esame, l'esperto è tenuto ai doveri di indipendenza e imparzialità, cosicché risultano ostativi all'espletamento dell'incarico i pregressi rapporti professionali con il conferente per rapporti c di collaborazione o consulenza, r ei caso in esame esistenti, a mezzo dello studio professionale CED nei termini accertati. Anche la tesi che Mi.Al. sarebbe stato all'oscuro del valore genetico di acquisto del marchio da parte di Sp. nella misura di 10 mila euro in data 3 gennaio 2009, a fronte della perizia di Mi.Al. che stimava in oltre 8 milioni di euro il marchio alla data antecedente di soli quattro giorni, il 31 dicembre 2008, risulta smentita dalla Corte territoriale: difatti la perizia reca l'indicazione della fattura di acquisto da parte di Sp., cosicché il dato della sproporzione esorbitante, non solo "rilevante" come richiede l'art. 2632 cod. civ., fra il valore di acquisto e quello stimato da Mi.Al., a distanza di soli quattro giorni, risultava a conoscenza dell'attuale imputato oltre che indicativo di una consapevole volontà di falsare la stima. D'altro canto, emerge anche dalla sentenza di primo grado che la società La Ceramica di Crotone Spa, che cedeva il marchio a Sp., risultava aver prodotto perdite strutturali al momento della cessione del marchio, essendo già in liquidazione, e se avesse potuto contare sul valore del marchio di oltre 8 milioni di euro avrebbe utilizzato tale valore per sanare la propria situazione, evitando il fallimento intervenuto nel 2010 (fol. 26). Inoltre, la Corte di appello ribadisce come Mi.Al. avesse piena contezza della finalità della perizia di stima, in quanto la stessa fu asseverata presso la cancelleria del Tribunale di Crotone ai sensi dell'art. 2465 cod. civ., quindi proprio per procedere al conferimento dei beni in natura per l'aumento di capitale: con tale argomento il ricorso non si confronta affatto. A riguardo va evidenziato, come sottolinea in modo condivisibile Sez. 5, n. 18473 del 2023, ric. Palazzolo, n.m, che non vi è dubbio che l'esperto investito della valutazione dei beni di cui all'art. 2465 cod. civ. agisca su nomina del conferente che lo sceglie, non è meno vero che egli non agisce nell'interesse esclusivo di quest'ultimo. "La previsione della stima risponde infatti ad una esigenza di certezza, per ragioni che trascendono quelle della società e dei soci, sulla effettiva ed integrale formazione del capitale al fine di garantire che il conferitore possa disporre di beni il cui valore complessivo è pari almeno al "numero" indicato a capitale all'atto della sua costituzione o dell'aumento dello stesso. Ed in tal senso la disposizione citata, pur non replicando per le società a responsabilità limitata le forme previste per le società per azioni, impone comunque all'esperto prescelto di rilasciare una relazione giurata contenente l'attestazione che il valore attribuito ai beni oggetto di conferimento "è almeno pari a quello ad essi attribuito ai fini della determinazione del capitale sociale". Osserva Sez. 5, Palazzolo, che "l'esperto è dunque portatore di obblighi di verità nell'espletamento dell'incarico che trascendono la relazione con il suo committente ed infatti, attraverso il rinvio operato dal citato art. 2645 al secondo comma dell'art. 2343 cod. civ., risponde autonomamente dei danni cagionati a causa del suo operato anche nei confronti dei terzi e, sempre in forza del citato rinvio che si estende alla disposizione di cui all'art. 64 cod. proc. civ., risponde anche penalmente delle false dichiarazioni o attestazioni rese, nonché per colpa grave nell'esecuzione dell'incarico". A tal riguardo va anche evidenziato che Mi.Al., come osserva la sentenza di primo grado, non provvide alla necessaria descrizione del bene, come anche all'attestazione richiesta dall'art. 2645, comma 1, cod. civ. che il valore del marchio in conferimento fosse "almeno pari a quello ad essi attribuito ai fini della determinazione del capitale sociale". Oltre agli elementi comprovanti il dolo di Mi.Al., fin qui richiamati dalla Corte di appello, deve aggiungere questa Corte che anche alla doglianza, qui riproposta con la memoria difensiva, relativa al distacco temporale fra le varie fasi della vicenda, la Corte territoriale offre una risposta non manifestamente illogica, che risulta anche rilevante ai fini della prova del dolo. La sentenza ora impugnata ricapitola come il 3 gennaio 2009 intervenne l'acquisto del marchio al prezzo di 10 mila euro da parte di Sp.; il 10 agosto 2009 la redazione della stima da parte di Mi.Al., per il valore di euro 8.123.450,97, che però andava riferito alla data del 31 dicembre 2008 (quindi antecedente di solo di quattro giorni al precedente acquisto, avvenuto al prezzo di 10 mila euro); il 9 novembre 2009 il conferimento in natura del marchio da parte di Sp., in sede di assemblea dei soci, con allegazione della perizia giurata redatta da Mi.Al.. Per la Corte di appello non si tratta di una serie cronologica 'anomala', anche rispetto al fallimento intervenuto nel 2011, piuttosto fisiologica rispetto a tali eventi, proprio perché la finalizzazione dell'operazione di aumento di capitale fittizio a mezzo della perizia giudiziaria, e con la falsificazione del bilancio, doveva servire a prolungare la vita della società e a spostare in avanti il prevedibile fallimento, risultato in effetti ottenuto: ciò a fronte di una situazione di erosione del capitale alla data dell'aumento di capitale, in precedenza di euro 100,000, che lo vedeva già eroso dalle perdite ammontanti a 1.453.676,64 nel medesimo esercizio (fol. 30 della sentenza di primo grado). In tal senso, l'aumento fittizio del capitale e il falso in bilancio evitavano a Sp. di convocare l'assemblea sussistendo il nesso eziologico fra i reati societari e il dissesto allorché l'aumento fittizio e il mendacio celino una perdita del capitale sociale al di sotto del minimo legale ex art.2463, comma 1, n. 4), cod. civ., così impedendo l'emergere di una causa di scioglimento della società di capitali ai sensi dell'art. 2484, comma 1, n. 4, cod. civ., nonché eludendo gli obblighi dell'amministratore di provvedere "senza indugio" a fronte della causa di scioglimento ai sensi dell'art. 2485, comma 1, cod. civ., così provocando ulteriori perdite, conseguenti al protrarsi della gestione in regime non liquidatorio. Quanto a Mi.Al. la motivazione non è contraddittoria né illogica, comprova congruamente il dolo richiesto, fondato su una serie di elementi sintomatici - a cominciare da una macroscopica diversità di valore a distanza pochi giorni fra la prima vendita e la data della stima, come pure le ragioni dell'accordo previo, oltre che le modalità di redazione della perizia, accettata da Mi.Al. pur non potendola espletare, anche in violazione dei doveri di imparzialità - che, senza aporie logiche correttamente inducono la Corte territoriale a ritenere che Mi.Al., per altro commercialista, quindi tecnicamente attrezzato a riguardo, abbia agito consapevole dell'effetto che tale falsità nella stima avrebbe determinato per l'aumento di capitale fittizio, al quale la perizia era funzionale - tanto da essere stata dallo stesso Mi.Al. fatta asseverare nelle forme necessarie a procedere al conferimento del marchio per l'aumento del capitale sociale - oltre che sulla falsificazione dei bilanci della società, con consapevole volontà in ordine ai profili di dolo propri dei rispettivi delitti. Pertanto, le censure, in tema di difetto di motivazione o di malgoverno dei principi in materia di coefficiente psicologico, risultano manifestamente infondate, a fronte di una compiuta argomentazione della Corte di appello, che trae dagli elementi in precedenza indicati la prova di un accordo fra Sp. e Mi.Al., con la riprova di un contributo consapevole da parte del secondo al primo. Le esposte ragioni altresì dimostrano come non sia manifestamente illogico aver ritenuto che Mi.Al. si fosse rappresentato - anche nella forma del dolo eventuale - la ragionevole probabilità che la sovrastima eterodiretta del marchio concorresse a aggravare il dissesto - già maturato per altro (cfr. fol. 5 della sentenza) - posticipando gli adempimenti, quali lo scioglimento della società o un aumento effettivo del capitale, conducendo così la società alla riduzione delle garanzie per i creditori, che vedevano nominalmente il capitale di oltre 7 milioni di euro, non rispondente al valore reale. D'altro canto, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che integra il reato di bancarotta impropria da reato societario la condotta dell'amministratore che espone nel bilancio dati non veri al fine di occultare la esistenza di perdite e consentire quindi la prosecuzione dell'attività di impresa in assenza di interventi di ricapitalizzazione o di liquidazione, con conseguente accumulo di perdite ulteriori, poiché l'evento tipico di questa fattispecie delittuosa comprende non solo la produzione, ma anche il semplice aggravamento del dissesto (tra le altre Sez. 5, n. 42811 del 18/06/2014, Ferrante, Rv. 261759; Sez. 5 n. 1754 del 20/09/2021, dep. 2022, Bevilacqua, Rv. 282537). Tornando al dolo richiesto, deve ritenersi la motivazione della sentenza impugnata in linea con quanto richiesto in relazione al delitto di bancarotta impropria da reato societario, concorrendo in qualità di "extraneus" nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, il professionista che, consapevole dei propositi dell'amministratore di una società in dissesto, svolga un'attività diretta a rafforzare, con il proprio ausilio e con le proprie preventive assicurazioni, l'altrui progetto delittuoso (cfr. Sez. 5, n. 18677 del 08/02/2021, Angeletti, Rv. 281042 - 01; vedi anche Sez. 5, n. 8276 del 06/11/2015, dep. 29/02/2016, Curtopelle, Rv. 267724 - 01). 3.5 Ciò vale anche in relazione all'aumento fittizio del capitale, per il quale è richiesto il dolo generico: pertanto deve affermarsi che in terna di bancarotta impropria da reato societario ex art. 223, comma 2, lett. a), I. fall., commesso in relazione al reato di aumento fittizio del capitale sociale, previsto dall'art. 2622 cod. civ., concorre quale extraneus con l'amministratore unico e socio, che conferisca un bene in natura, l'esperto stimatore investito della valutazione dei beni di cui all'art. 2465 cod. civ. in relazione ad una società a responsabilità limitata, il quale sovrastimi il bene falsamente e in misura rilevante, se consapevole dei propositi dell'amministratore della società in dissesto, contribuendo così a rafforzare, con il proprio ausilio, l'altrui progetto delittuoso, e rappresentandosi la probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico (ex multis Sez. 5, n. 50489 del 16/05/2018, Nicosia, Rv. 274449; Sez. 5, n. 42257 del 06/05/2014, Solignani, Rv. 260356; Sez. 5, n. 23091 del 29/03/2012, Baraldi, Rv. 252804). 3.6 Quanto al nesso di causalità, anche oggetto di censura con il motivo di ricorso, la Corte di appello chiarisce in modo corretto che il surrettizio utilizzo della perizia di stima non rispondente al reale valore del marchio, costituisce un contributo causale decisivo alla condotta di bancarotta impropria da reato societario dell'amministratore che, esponendo nel bilancio dati non corrispondenti al vero, evita che si manifesti la necessità di procedere ad interventi di rifinanziamento o di liquidazione, in tal modo consentendo alla fallita la prosecuzione dell'attività di impresa con accumulo di ulteriori perdite negli esercizi successivi (Sez. 5, n. 1754 del 20/09/2021, dep. 17/01/2022, Bevilacqua, Rv. 282537 - 01; mass. conf. N. 28508 del 2013 Rv. 255575 - 01, INI. 42272 del 2014 Rv. 260394 - 01, N. 17021 del 2013 Rv. 255089 - 01, N. 42811 del 2014 Rv. 261759 - 01). E proprio la funzionalizzazione della stima all'aumento di capitale rende non fondata la doglianza difensiva, che si appunta sulla inadeguatezza causale del contributo del professionista in sé: per quanto evidenzia la sentenza impugnata, la perizia era funzionale esclusivamente all'aumento di capitale, per la quale fu utilizzata, con piena consapevolezza da parte di Mi.Al. e risultava contributo decisivo a tale condotta, con l'effetto di aggravare il dissesto già in atto, come osserva la sentenza impugnata al fol. 5, risultando tale operazione un modo per Sp. per prolungare la vita della società. Anche queste doglianze risultano quindi infondate. 4. Ne consegue il complessivo rigetto del ricorso, con condanna alle spese processuali del ricorrente. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, l'1 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2024.
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