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Dichiarazione infedele: condanna confermata per contabilità parallela e accordi su prestazioni senza fattura

Dichiarazione infedele (Art. 4)

Cassazione penale sez. III, 11/04/2024, n.26527

In tema di adeguatezza della motivazione, non è censurabile in sede di legittimità la sentenza del giudice di appello che fondi il giudizio di colpevolezza sul principio del cui prodest, qualora sia supportato da elementi di fatto ulteriori, di sicuro valore indiziante. (Fattispecie relativa a delitto di dichiarazione infedele, in cui la Corte ha ritenuto corretta la motivazione di condanna che aveva valorizzato il rinvenimento di contabilità parallela in "nero" e numerose testimonianze su accordi tra imputato e clienti per prestazioni senza fattura).

Ridefinizione del reato di dichiarazione infedele: limiti di punibilità e sottofatturazione

Dichiarazione infedele: errore sulla norma tributaria non esclude il dolo, salvo incertezza inevitabile"

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Dichiarazione infedele: mancata compilazione dei quadri RG/RF rilevante ai fini del reato ex art. 4 D.Lgs. 74/2000

Dichiarazione infedele: reato istantaneo perfezionato con la presentazione della dichiarazione annuale

Dichiarazione infedele: esclusa l'applicazione del falso innocuo o grossolano per reati tributari

Dichiarazione infedele IRPEF: reato configurabile anche su redditi illeciti, salvo sequestro o confisca nello stesso periodo

Sequestro preventivo per dichiarazione infedele: necessità di motivazione specifica sul fumus commissi delicti

Non sussiste il rapporto di specialità tra il reato di dichiarazione infedele e gli illeciti amministrativi del D.Lgs. n. 471/1997

Dichiarazione infedele: reato istantaneo perfezionato con la dichiarazione annuale, irrilevante la comunicazione IVA

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 28 giugno 2023, la Corte d'Appello di Milano dichiarava non doversi procedere nei confronti di Go.Ca. in relazione alla condotta riferibile al periodo di imposta 2011, per essere il reato estinto per prescrizione, rideterminando, per l'effetto, la pena inflitta in 1 anno e 6 mesi di reclusione, così confermando nel resto l'appellata sentenza che lo aveva riconosciuto colpevole del reato di dichiarazione infedele (art. 4, D.Lgs. n. 74 del 2000), relativamente agli anni di imposta dal 2012 al 2014, per aver indicato nelle relative dichiarazioni dei redditi elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, reato commesso secondo le modalità esecutive e spazio - temporali meglio descritte nell'imputazione, e con assoluzione per insussistenza del fatto quanto all'annualità 2015 e proscioglimento per prescrizione quanto all'annualità 2010. 2. Avverso la sentenza impugnata nel presente procedimento, il predetto ha proposto ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo tredici motivi, di seguito sommariamente indicati. 2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all'art. 220, disp. Att. cod. proc. pen. quanto all'attività di verifica fiscale ed ai contenuti del PVC 14.10.2016 della Guardia di Finanza di Cittadella. In sintesi, si duole la difesa del ricorrente sostenendo che, come già eccepito in appello, tutti i materiali dell'indagine, compresi quelli informatici, acquisiti nel corso della verifica fiscale, avrebbero dovuto essere ritenuti inutilizzabili nel processo. Ed invero, nonostante l'imputato fosse già stato iscritto nel RGNR in data 14.12.2015, le attività di verifica sfociate nella redazione del PVC non avrebbero tenuto conto di quanto previsto dall'art. 220, disp. Att., cod. proc.pen. acquisito in data 14.10.2016. Si censura l'ordinanza di rigetto, sostenendo che l'affermazione della Corte d'Appello - secondo cui la prova informatica sarebbe utilizzabile in quanto acquisita in sede di indagine penale - sarebbe erronea, atteso che i giudici avrebbero dovuto vagliare non l'oggetto del sequestro in data 16.02.2016, cioè il dato informatico, bensì tutte le attività poste in essere dalla GdF nella fase successiva a tale data, ciò in quanto tutta l'attività di interpretazione, raffronto, riscontro sarebbe stata posta in essere nel corso di una verifica fiscale, ossia senza le garanzie del procedimento penale, ricostruendo in particolare i presunti importi non contabilizzati interpretando e raffrontando il contenuto di "dati informatici" con i dati della contabilità ufficiale del contribuente, attività però svolta unilateralmente dalla GdF. Si osserva che, a seguito della perquisizione e sequestro del 16.02.2016, era stata acquisita copia del contenuto del programma gestionale in uso alla clinica di Cittadella, successivamente utilizzato secondo quanto descritto dai testi Ta., Di. e Gr. sentiti in dibattimento, venendo nominato un consulente tecnico, tale Clemente, che non avrebbe verbalizzato le proprie attività né avrebbe partecipato a quelle verbalizzate dalla GdF. L'attività svolta dai verbalizzanti sui dati informatici non sarebbe stata dettagliata nemmeno nel PVC in atti acquisito, non essendovi alcuna precisazione di quale fossero le modalità tecniche di intervento né esisterebbe un verbale redatto dall'ausiliario tecnico di PG, aggiungendosi come i testi assunti in dibattimento sarebbero stati vaghi e anche contraddittori nel descrivere le attività dei due ausiliari informatici. Difetterebbe, poi, qualsiasi contraddittorio e il doveroso coinvolgimento dell'imputato, nonché la violazione di "ogni" regola tecnica di acquisizione, verbalizzazione e conservazione die dati informatici. Parte del contenuto dei supporti informatici sarebbe stato materialmente trascritto dai verbalizzanti, con il rischio che gli "elementi informatici" non trovino esatta corrispondenza nelle trascrizioni manualmente effettuate dagli operanti. In definitiva, dalla violazione dell'art. 220 citato, a discenderebbe l'inutilizzabilità del contenuto del PVC della GdF, con conseguente travolgimento della sentenza di condanna che ha fondato l'esistenza di maggiori ricavi sui contenuti della verifica fiscale illegittimamente valorizzata prima dal Tribunale, poi dalla Corte d'Appello. 2.2. Deduce, con il secondo, il terzo ed il quarto motivo - i quali meritano congiunta illustrazione attesa l'intima connessione dei profili di doglianza ad essi sottesa -, il vizio di violazione di legge in relazione all'art. 192, cod. proc. pen. e degli artt. 54 e 109,D.P.R. 917/1986 in relazione all'art. 4, D.Lgs. n. 74 del 2000 quanto al lamentato difetto di prova dell'esistenza dei maggiori ricavi per ciascuna delle annualità di imposta 2012/2014, nonché vizio di violazione di legge in relazione all'art. 192, cod. proc. pen. circa l'attendibilità del teste Br. in merito all'avvenuto incasso di maggiori ricavi e quanto alla prova dell'incasso di maggiori ricavi, pur a fronte di rateazioni e morosità confermate dai testimoni. In sintesi, si duole il ricorrente per aver la Corte d'Appello respinto il terzo ed il quarto motivo di appello con cui si contestava la mancanza di prova circa l'esistenza dei maggiori ricavi dai quali è stata desunta la violazione dell'art. 4, D.Lgs. n. 74 del 2000 in relazione alle dichiarazioni Irpef per gli anni di imposta 2012/2014. Poiché l'imputazione a carico del ricorrente troverebbe sostegno probatorio nelle sole risultanze informatiche acquisite il 16.10.2016 che, come dedotto nel precedente motivo, sarebbero illegittime perché in violazione dell'art. 220, disp. Att., cod. proc. pen., ciò non consentirebbe di sorreggere l'accusa. In ogni caso, quand'anche si volessero ritenere utilizzabili, le conclusioni dei giudici di appello non sarebbero condivisibili in quanto violerebbero l'art. 192, comma 2, cod. proc. pen., non essendo infatti dimostrata l'esistenza di elementi reddituali nella misura contestata, e comunque al di sopra della soglia di punibilità in base all'art. 4, D.Lgs. n. 74 del 2000. I dati informatici, si osserva, sarebbero costituiti solo da elenchi di nomi, importi e date, e sarebbero stati utilizzati dai verbalizzanti ritenendo che laddove gli importi non risultino fatturati nella stessa data, corrispondano a presunti pagamenti effettuati dal cliente del professionista. Diversamente, sostiene la difesa, quanto viene dato per scontato, non avrebbe trovato alcuna conferma probatoria, atteso che, in base all'art. 54, D.P.R. n. 917 del 1986, i redditi dei professionisti vengono tassati per cassa e non per competenza, dunque la prova deve riferirsi all'effettivo pagamento dei corrispettivi e non alla loro semplice annotazione o maturazione. Censurabile, quindi, è l'affermazione dei giudici territoriali secondo cui non sarebbe necessaria né la prova bancaria dell'incasso né che i clienti dell'imputato abbiano confermato il pagamento, affermazione che colliderebbe con la predetta disposizione normativa, poiché, in caso di contribuenti tassati per cassa, l'art. 4, D.Lgs. n. 74 del 2000 richiederebbe l'accertamento della materiale percezione delle somme pagate, non essendo sufficienti artifici retorici come quelli impiegati dalla Corte d'Appello, posto che l'esistenza nel PC dell'imputato di annotazioni non è prova che a tali annotazioni corrispondano pagamenti. Né sarebbe sufficiente l'aver affermato, richiamando la deposizione del teste Ta., che sarebbe stato effettuato un controllo "a campione" circa la coerenza tra quanto annotato e quanto effettivamente corrisposto dai clienti, atteso che di ciò non risulterebbe alcuna documentazione in atti. Ove gli operanti avessero acquisito informazioni da qualche soggetto, gli eventuali testi avrebbero dovuto essere sentiti in contraddittorio in relazione a ciascuna delle annualità contestate, con conseguente violazione dell'art. 195, comma 4, cod. proc. pen. che vieta alla PG di riferire su quanto acquisto aliunde in sede di verifica amministrativa. Infine, non avrebbe alcun rilievo quanto scritto nel PVC secondo cui i dati informatici sarebbero stati raffrontati con la contabilità ufficiale e dimostrerebbero con certezza l'esistenza degli incassi, in quanto si sarebbe in presenza di affermazioni tautologiche. Quanto, poi, alla testimonianza Br., si sostiene che sarebbe in palese contrasto con l'imputato per vicende lavorative pregresse, contestandosene dunque il giudizio di attendibilità espresso dalla Corte, sia perché non sarebbe stata in grado di riferire circa le tre sedi professionali dove ella non operava, sia perché si sarebbe trattato di una teste animata da sete di rivalsa e vendetta perché licenziata a seguito di accuse di indebita appropriazione di somme di denaro in sede lavorativa, tanto da recuperare a distanza 10 mesi dal suo licenziamento una password di accesso al sistema contabile che non poteva avere gestito prima della fine del rapporto di lavoro, Infine, si censura la sentenza impugnata laddove, nell'affermare che il PVC avrebbe dato atto di aver tenuto conto dei soli pagamenti realmente avvenuti, non avrebbe in realtà considerato la presenza nella contabilità extracontabile di importi previsti ma non pagati o in corso di rateazione. Quanto sopra sarebbe confermato dalla deposizione della teste Br. che aveva riferito come molti pazienti pagassero a rate il proprio debito e che in molti casi si sarebbero registrate morosità nei pagamenti, venendo indicati gli importi previsti e non incassati tra i dati del sistema gestionale. Tale circostanza sarebbe stata affermata da altri testi (tali Ta. e @7Pi@). Non sarebbe peraltro emersa nel corso delle perquisizioni alcuna traccia di denaro contante riferibile ai presunti incassi extracontabili, e, comunque, non sarebbe stato possibile giungere alla condanna del ricorrente su una molteplicità di annualità di imposta in ordine alle quali la prova del superamento della soglia di punibilità avrebbe dovuto essere raggiunta non per via induttiva, ma attraverso una ricostruzione analitica e riscontrata non solo mediante la presunzione dei verbalizzanti. 2.3. Deduce, con il quinto, il sesto ed il settimo motivo - i quali meritano congiunta illustrazione attesa l'intima connessione dei profili di doglianza ad essi sottesa -, il vizio di violazione di legge in relazione all'art. 54, comma 2, D.P.R. n. 917 del 1986 e all'art. 4, D.Lgs. n. 74 del 2000 quanto all'erronea individuazione dei maggiori redditi assoggettabili a tassazione al lordo dei maggiori costi non riconosciuti, per la mancata considerazione dei maggiori costi analiticamente ricostruiti dal consulente tecnico nonché, infine, in relazione agli artt. 48, D.Lgs. n. 546 del 1992 e dell'art. 54 citato, quanto al mancato adeguamento del giudice al riconoscimento dei maggiori costi da parte dell'Agenzia delle Entrate, anche alla luce dell'interpretazione adeguatrice della Corte costituzionale in ordine alla ricostruzione anche percentuale dei maggiori costi. In sintesi, si duole la difesa del ricorrente per avere la Corte d'Appello applicato erroneamente la normativa fiscale quanto alla determinazione dell'imponibile IRPEF e dell'imposta evasa, con particolare riferimento all'affermato superamento delle soglie di punibilità di cui all'art. 4, D.Lgs. n. 74 del 2000. Premesso quanto dispone l'art. 54, comma 2, D.P.R. n. 917 del 1986, secondo cui il reddito derivante dall'esercizio dell'attività professionale è costituito dalla differenza tra l'ammontare dei compensi in denaro percepiti nel periodo di imposta e quello delle spese sostenute nello stesso periodo, si censura la sentenza impugnata laddove ha ritenuto che sia stata correttamente calcolata l'imposta evasa in relazione al reddito imponibile, nel senso che tutti i costi sostenuti siano già stati contabilizzati. Diversamente, vengono riportati alcuni passaggi della motivazione in cui tale affermazione risulterebbe contraddittoria, venendo peraltro corroborata l'esistenza di costi in misura superiore a quella dichiarata sul piano testimoniale con modalità specifiche e non contraddittorie, richiamandosi nel ricorso alcuni stralci delle deposizioni dei testi Br., Lu., Mi. e @7Pi@, che avrebbero reso conto dell'esistenza di maggiori costi, in particolare quanto alla percezione di emolumenti "fuori busta" al personale medico, al personale dipendente ed ai fornitori dei materiali. Né sarebbe corretta l'affermazione dei giudici territoriali secondo cui i testimoni non avrebbero indicato la cifra asseritamente pagata, spettando all'imputato solo allegare l'esistenza del costo quantomeno sul piano del ragionevole dubbio. Quanto, poi, alla quantificazione dei costi sostenuti, si censura l'affermazione della Corte d'Appello che ha definito non convincente la c.t. della difesa laddove ha dimostrato che ai costi dichiarati dall'imputato debbano essere sommati costi ulteriori. Vengono riportati per stralcio alcuni passaggi della motivazione della sentenza che conterrebbero affermazioni contraddittorie e incompatibili, laddove la Corte avrebbe dapprima affermato che i maggiori costi esistono ma sarebbero stati già riconosciuti in verifica, poi affermando invece che solo una parte degli stessi sarebbe già stata inserita dall'imputato in dichiarazione ed, infine, che i maggiori costi non esisterebbero in quanto già interamente dichiarati dall'imputato. A tal fine, nel sesto motivo di ricorso, viene svolta una complessa ed articolata censura, muovendo dai dati rilevanti ai fini dell'applicazione degli studi di settore dichiarati dal ricorrente negli anni 2012 - 2015 (da cui risulta un'incidenza annua dei costi variabili sui ricavi superiore alla percentuale massima degli studi di settore, avendo per tale ragione la Corte d'Appello ritenuto illogico riconoscere l'esistenza di ulteriori costi non dichiarati), attraverso il richiamo alla relazione del proprio c.t. che giustificava tale superiore incidenza come apparente, in quanto spiegabile essendo dato collegato al particolare rapporto che legava l'attività professionale del ricorrente alla società Hospitadella Srl che gestiva le cliniche di Cittadella, Bassano del Grappa e Milano, oltre che, per un breve, periodo anche la gestione di quella di Riese Pio X. Operando un raffronto tra i maggiori ricavi contestati ai costi variabili al netto dei costi fissi sia personali del ricorrente che della predetta Srl (cfr. pagg. 39/47 del ricorso), si sostiene, alla luce delle risultanze della consulenza tecnica, che se al ricorrente è stato contestato negli anni 2010/2014 il conseguimento di presunti maggiori ricavi derivanti dall'attività di odontoiatra, è logico affermare che egli abbia sopportato altresì maggiori costi e, nella specie, maggiori costi variabili, rimanendo quelli fissi immutati qualsiasi sia la quantità di beni o servizi prodotta, aumentando invece i costi variabili in modo direttamente proporzionale proprio all'incrementare della quantità di beni o servizi forniti, costi ulteriori rispetto a quelli già dichiarati e che, applicando l'incidenza media dei costi variabili sui maggiori ricavi complessivamente accertati, individuata nella misura del 72,31%, considerando anche i maggiori compensi per personale dipendente e professionisti odontoiatri, consentirebbe di calcolare la maggior imposta Irpef asseritamente evasa con importi sottosoglia (secondo la tabella proposta a pag. 48 del ricorso) rispetto a quella prevista dall'art. 4, D.Lgs. n. 74 del 2000, fissata negli anni 2012/2014 in 150.000 Euro perché più favorevole. Non sarebbe quindi convincente l'affermazione della Corte d'Appello che avrebbe semplicemente sostenuto che il rapporto con la richiamata Srl, essendo rimesso alla discrezionalità dell'imputato, dovrebbe ritenersi per ciò stesso comprensivo dei costi correlati ai maggiori ricavi, non essendosi avveduti i giudici territoriali del fatto che la ricostruzione del c.t. eliminava qualsiasi possibilità di "arbitraggio" dell'imputato, ricostruendo in autonomia i costi variabili ed eliminando i costi fissi riconducibili alla Srl, così potendosi apprezzare l'allineamento o meno dei dati dichiarati agli studi di settore. Infine, nel settimo motivo, collegato ai precedenti, si censura l'affermazione della Corte territoriale che avrebbe ritenuto non rilevante il riconoscimento dei maggiori costi rispetto a quelli dichiarati nella misura del 40% dei maggiori ricavi da parte dell'Agenzia delle Entrate in sede conciliativa, in base al rilievo che tale definizione non potrebbe essere svilita ad una scelta processuale dell'Amministrazione di mera opportunità. Diversamente, si osserva in ricorso, l'Ufficio per giungere a riconoscere tali maggiori costi avrebbe utilizzato criteri oggettivi di calcolo cui agganciare la determinazione del maggior dovuto, ossia l'individuazione da parte del contribuente della componente variabile agganciata alla remunerazione del personale medico e la percentuale di redditività media degli studi odontoiatrici con volume superiore al milione di euro, dunque elementi oggettivi e non di convenienza transattiva. Il giudice penale, del resto, aggiunge la difesa del ricorrente, pur essendo autonomo nella quantificazione dell'imposta evasa dovrebbe tener conto delle determinazioni dell'Ufficio, in particolare con riferimento alla determinazione dei costi non contabilizzati, soprattutto dopo quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 10 del 2023 che ha riaffermato la necessità che i contribuenti siano tassati al netto dei costi correlati ai maggiori ricavi. 2.4. Deduce, con l'ottavo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all'art. 603 cod. proc. pen. quanto alla mancata rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per l'assunzione della perizia in ordine alla quantificazione dei maggiori costi. In sintesi, si duole la difesa per essere stata respinta dal giudice d'appello la richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello per il conferimento di un incarico peritale finalizzato a verificare se dalle risultanze documentali ed istruttorie emergessero costi professionali superiori a quelli contabilizzati, in misura corrispondente a quella individuata dal c.t.p. o dall'Agenzia delle Entrate in sede conciliativa, ovvero in misura superiore o inferiore anche ai fini della verifica in ordine all'effettivo superamento della soglia di punibilità. In particolare, si espone a censura l'affermazione della Corte d'Appello secondo cui la rinnovazione non era necessaria essendo la Corte in grado di decidere allo stato degli atti. Si richiama, a tal proposito, giurisprudenza della sezione tributaria di questa Corte che richiederebbe in consimili ipotesi l'affidamento di una perizia per la determinazione dei costi e le asserite contraddizioni in cui la Corte sarebbe incorsa nel ritenere sussistenti i maggiori costi. 2.5. Deduce, con il nono motivo, il vizio di violazione di legge ed il correlato vizio di motivazione quanto alla ritenuta sussistenza del dolo specifico richiesto dal reato di cui all'art. 4, D.Lgs. n. 74 del 2000. In sintesi, si censura la sentenza impugnata laddove ha ritenuto di individuare il dolo specifico di evasione in comportamenti non accertati, né riferibili all'imputato. I giudici di appello, al pari di quello del primo grado, avrebbero mancato di dimostrare l'effettiva riconducibilità all'imputato della creazione della contabilità parallela. I testi assunti in dibattimento non avrebbero riferito della riconducibilità all'imputato del sistema e della gestione informatica del programma di contabilità, non risultando che il Go.Ca. se ne sia mai occupato, essendo pertanto arbitraria l'imputazione al medesimo dell'esistenza e della gestione di tale sistema informativo. Richiamati alcuni stralci di deposizioni testimoniali (in particolare riferibili ai testi Mi. e @7Pi@), si sostiene che non sarebbe stato dimostrato che l'utilizzo del sistema informatico da parte del personale amministrativo della clinica fosse stata una scelta del ricorrente, in quanto del tutto compatibile con autonome scelte gestionali e tecniche da parte del personale amministrativo preposto. Inoltre, il presunto comportamento successivo all'accertamento fiscale consistente nella rimozione dei sigilli della contabilità non sarebbe stato dimostrato né sul piano oggettivo né su quello della riferibilità al ricorrente. 2.6. Deduce, con il decimo e l'undicesimo motivo - che meritano congiunta illustrazione, attesa l'intima connessione dei profili di doglianza ad essi sottesa -, il vizio di violazione di legge in relazione alla mancata applicazione del principio del ne bis in idem sanzionatorio, con riferimento agli artt. 4, protocollo 7 CEDU, 50 CDFUE e 649, cod. proc. pen. nonché con riferimento al trattamento sanzionatorio contrario al predetto principio, attesa la mancata compensazione e la violazione del criterio di proporzionalità. In sintesi, si duole la difesa del ricorrente sostenendo di aver documentato in sede di appello che l'Agenzia delle Entrate aveva irrogato a titolo definitivo sanzioni nella misura del 90% di tali imposte ai sensi dell'art. 1, D.Lgs. n. 471/1997, avendo infatti l'imputato definito in via conciliativa ogni pretesa dell'Ufficio, sanzioni comprese. La sanzione amministrativa irrogata risulterebbe pari a 646.183,00 euro, che, ragguagliata ex art. 135 cod. pen., corrisponderebbe ad una pena di oltre 7 anni di reclusione. Trattandosi di sanzione sostanzialmente penale in base alla giurisprudenza della Corte EDU e trattandosi dello "stesso fatto" giudicato sia davanti al giudice tributario che davanti al giudice penale, il ricorrente non avrebbe potuto essere giudicato e condannato due volte per lo stesso fatto dichiarativo. Si censura quanto affermato dalla Corte d'Appello secondo cui, pur essendovi identità del fatto e la irrogazione delle sanzioni tributarie cui viene riconosciuta natura penale, sussisterebbe tuttavia tra i due procedimenti una connessione sostanziale e temporale che consentirebbe di ritenere compatibili le due sanzioni perché della prima sanzione tributaria si deve tenere conto nel trattamento sanzionatorio finale. Si tratterebbe di motivazione censurabile non spiegando la sentenza in quali termini sussisterebbe connessione tra i due procedimenti, essendosi trattato nel caso in esame di giudizi del tutto autonomi per svolgimento, istruttoria e tempistica, senza alcun collegamento e coordinamento. In ogni caso, con l'ulteriore motivo, la difesa rileva di aver chiesto con l'atto di appello che venisse garantito un meccanismo di compensazione che consentisse di tener conto, in sede di irrogazione della seconda sanzione penale, degli effetti di quella amministrativa - tributaria, così da evitare che quella complessivamente irrogata fosse sproporzionata. Pur avendo la Corte territoriale riconosciuto che della prima sanzione dovesse tenersi conto in sede di irrogazione della sanzione penale, tuttavia tale riconoscimento, nella realtà, sarebbe stato posto nel nulla. Premesso che quella irrogata al contribuente - imputato, pari ad oltre 646.000 euro, corrispondente "ad una pena di 23 anni e 6 anni di reclusione o comunque di oltre 7 anni di reclusione" ragguagliati ex art. 135, cod. pen., avrebbe un'innegabile componente afflittiva, si sostiene che quella irrogata in sede penale (anni 1 e mesi 6 di reclusione, muovendo da una pena base di 1 anno e 7 mesi di reclusione) sarebbe stata sproporzionata, in quanto la pena base indicata (1 anno e 7 mesi di reclusione), avuto riguardo alla forbice edittale riferita al momento della commissione dell'illecito sarebbe pari ad oltre la metà della pena massima prevista dall'art. 4, D.Lgs. n. 74 del 2000. La sentenza, pertanto, sarebbe illegittima, in quanto, pur affermando che la pena non deve essere sproporzionata, non avrebbe motivato la scelta di individuare la pena base in misura così elevata, senza quindi applicare quel meccanismo di compensazione che avrebbe evitato che la sanzione complessivamente irrogata potesse considerarsi sproporzionata. Secondo la difesa si sarebbe dovuto tener quindi conto della sanzione tributaria già irrogata in misura corrispondente ad anni 23 e mesi 6 di reclusione, che, in aggiunta alla pena detentiva inflitta, avrebbe comportato l'irrogazione di una pena di 25 anni di reclusione, del tutto abnorme sul piano della proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatolo inflitto per il medesimo fatto. I giudici di merito avrebbero dovuto invece individuare la pena base al di sotto del minimo edittale, tenendo conto delle sanzioni già irrogate in sede tributaria, richiamando a tal proposito giurisprudenza di questa Corte (Cass., n. 5899/2023), anche valorizzando il comportamento processuale dell'imputato che aveva definito le pendenze tributarie con l'Agenzia delle Entrate estinguendo il debito erariale. 2.7. Deduce, con il dodicesimo motivo, il vizio di violazione di legge ed il correlato vizio di motivazione con riferimento al mancato riconoscimento dei benefici di legge di cui agli artt. 163 e 175, cod. pen. In sintesi, si censura la sentenza impugnata per aver la Corte d'Appello negato il riconoscimento degli invocati benefici di legge valorizzando l'esistenza di un precedente penale. Diversamente, si sostiene in ricorso, non risulterebbero precedenti a carico del Go.Ca., che sarebbe incensurato, come del resto emergerebbe dal certificato del casellario, che viene allegato al ricorso. 2.8. Formalizza, con il tredicesimo ed ultimo motivo, la richiesta di restituzione dei beni in sequestro. In sintesi, si rileva che il PM non avrebbe ancora provveduto all'esecuzione della sentenza di primo grado che ha disposto la restituzione dei beni ancora in sequestro. I giudici di appello avrebbero erroneamente ritenuto che la statuizione sarebbe divenuta esecutiva con il passaggio in giudicato della sentenza. Diversamente da quanto sostenuto dai giudici territoriali, non essendo stata impugnata la statuizione di primo grado dal PM, la sentenza sarebbe già sul punto divenuta irrevocabile e, quindi, esecutiva, chiedendosi pertanto l'immediata esecuzione. 3. Il Procuratore Generale presso questa Corte, in sede di discussione orale, ha chiesto il rigetto del ricorso. 4. In data 26 marzo 2024 è pervenuta memoria dell'Avv. Michele Tiengo cui è allegata l'ordinanza della Corte d'Appello di Milano del 12 gennaio 2024, che ha dichiarato l'efficacia immediata del provvedimento di dissequestro disposto dal Tribunale di Milano in data 22.06.2022, disponendo darsi corso all'esecuzione del provvedimento di restituzione agli aventi diritto. Vi è, quindi, rinuncia al motivo di ricorso n. 13. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso, trattato oralmente a seguito del tempestivo deposito della richiesta di discussione orale ex art. 24, D.L. n. 137 del 2020 e successive modd. ed integrazioni, è fondato limitatamente al motivo sul trattamento sanzionatorio, dovendosi invece dichiarare inammissibile nel resto. 2. È anzitutto inammissibile il primo motivo perché manifestamente infondato. È, indubbio che, a norma dell'art. 220 disp. att. cod. proc. pen., quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergano indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale debbano essere compiuti con l'osservanza delle disposizioni del codice. Il processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di finanza, in quanto atto amministrativo extraprocessuale, costituisce prova documentale anche nei confronti di soggetti non destinatari della verifica fiscale (la cui natura non muta sia che venga acquisito quale atto irripetibile, come ritenuto da una risalente pronuncia, Sez. 3, n. 36399 del 18/05/2011, Aponte, Rv. 251235, ovvero quale prova acquisibile ex art. 234 cod. proc. pen., come affermato in epoca più recente da Sez. 3, n. 6881 del 18/11/2008, Ceragioli, Rv. 242523). Tuttavia, qualora emergano indizi di reato, occorre procedere secondo le modalità previste dall'art. 220 disp. att., giacché altrimenti la parte del documento redatta successivamente a detta emersione non può assumere efficacia probatoria e, quindi, non è utilizzabile (Sez. 3, n. 15372 del 10/02/2010, Fiorillo, Rv. 246599; Sez. 3, n. 6881 del 18/11/2008, Ceragioli, Rv. 242523). Ne consegue che la parte di documento compilata prima dell'insorgere degli indizi, ha sempre efficacia probatoria ed è utilizzabile, mentre non è tale quella redatta successivamente, qualora non siano state rispettate le disposizioni del codice di rito. Il presupposto per l'operatività dell'art. 220 disp. att. c.p.p., cui segue il sorgere dell'obbligo di osservare le disposizioni del codice di procedura penale per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire ai fini dell'applicazione della legge penale, è costituito dalla sussistenza della mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall'inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata (Sez. 3, n. 15372 del 10/02/2010, Fiorillo, Rv. 246599; Sez. Un., 28.11.2004, n. 45477, Raineri, Rv 220291; Sez. 2, 13/12/2005, n. 2601, Cacace, Rv. 233330). Non di meno, come già affermato da questa Corte (Sez. 3, n. 54379 del 23/10/2018, Rv. 274131 - 01), la violazione dell'art. 220 disp. att. cod. proc. pen. non determina automaticamente l'inutilizzabilità dei risultati probatori acquisiti nell'ambito di attività ispettive o di vigilanza, ma è necessario che l'inutilizzabilità o la nullità dell'atto sia autonomamente prevista dalle norme del codice di rito a cui l'art. 220 disp. att. rimanda (Sez. 3, n. 6594 del 26/10/2016, Pelini, Rv. 269299). Diversamente opinando, si giungerebbe a ritenere l'inutilizzabilità di tutti i risultati probatori e gli altri risultati della verifica dopo la comunicazione della notizia di reato, situazione, all'evidenza priva di fondamento. Non, dunque, la generica violazione dell'art. 220 disp. att. cod. proc. pen. può essere dedotta, occorrendo la specifica indicazione della violazione codicistica che avrebbe determinato l'inutizzabilità con riguardo ai singoli atti compiuti dalla Guardia di Finanza e riportati nel processo verbale di constatazione redatto dalla medesima. Difettando, nel caso di specie, tale specifica indicazione nel motivo di ricorso, che genericamente evoca - senza nemmeno curarsi di indicarle - presunte violazioni (mancato coinvolgimento dell'indagato in "tutte" le attività di acquisizione, copia ed utilizzo dei dati informatici; mancata verbalizzazione delle attività poste in essere dai verbalizzanti e dagli ausiliari tecnici), articolando poi esclusivamente sulla violazione dell'art. 220, disp. Att. cod. proc. pen. la sua censura circa l'inutilizzabilità della ricostruzione contabile operata dai verbalizzanti in sede di redazione del PVC del 14.10.2016 "nella più totale assenza di coinvolgimento dell'indagato nelle attività di polizia tributaria svolte dal 20.07.2016 al 14.10.2016", il motivo si espone al giudizio di inammissibilità. 3. Manifestamente infondati sono il secondo, il terzo ed il quarto motivo, già congiuntamente illustrati. 3.1. La Corte d'Appello risponde all'identica doglianza, replicata senza alcun elemento di novità critica in sede di legittimità, alle pagg. 27/30. I giudici hanno chiarito come le risultanze istruttorie avessero dato prova che il ricorrente teneva una contabilità parallela per le prestazioni non fatturate. Dai dati informatici risultava che il ricorrente aveva ricevuto dei pagamenti "in nero", ulteriori rispetto a quelli "in bianco", ovvero con emissione di regolare fattura. I primi, quelli non fatturati, risultavano dagli elenchi di nomi, importi e date, ammontanti, per ciascuna annualità, alle cifre indicate nel capo di imputazione. L'eccezione difensiva, secondo cui l'indicazione di detti importi non fatturati non dimostrerebbe l'effettiva percezione degli stessi, in assenza di verifiche bancarie o dell'audizione di clienti, è stata ritenuta, con argomentazione non manifestamente illogica, irrilevante dalla Corte d'Appello, evidenziando che si trattava di pagamenti per contante verosimilmente non transitati da cc/cc bancari, come irrilevante è stata ritenuta la mancata audizione dei clienti, in quanto i dati informatici da cui risultano i pagamenti provengono direttamente dai PC in uso al ricorrente, non necessitando gli stessi di riscontri esterni. 3.2. Circa il rilievo difensivo secondo cui ciò colliderebbe con quanto stabilisce l'art. 54, D.P.R. n. 917 del 1986, di cui viene eccepita la violazione, è sufficiente evidenziare che si tratta di violazione di legge non dedotta espressamente con i motivi di appello, che pertanto si espone al giudizio di inammissibilità di cui all'art. 606, comma 3, cod. proc. pen. In ogni caso, l'eccezione difensiva è palesemente infondata. In base al comma 1 dell'art. 54, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 il reddito derivante dall'esercizio di arti e professioni è costituito dalla differenza tra l'ammontare dei compensi in denaro o in natura percepiti nel periodo di imposta, anche sotto forma di partecipazione agli utili, e quello delle spese sostenute nel periodo stesso nell'esercizio dell'arte o della professione, salvo quanto stabilito nei successivi commi dell'art. 54. La lettera della norma è chiara e non ammette interpretazioni diverse da quella secondo la quale i compensi vanno sottoposti a tassazione in relazione all'anno in cui sono stati percepiti. I redditi da lavoro autonomo, anche se assoggettati a ritenuta d'acconto, vanno dunque dichiarati secondo il principio di cassa e non di competenza (Cass. civ., 2 dicembre 2021, n. 37957). Il criterio di cassa vuole l'imputazione a periodo dei compensi con riferimento al momento in cui il professionista consegue la disponibilità delle somme: mentre in caso di pagamenti in contanti la disponibilità si ha al momento della percezione del denaro, in presenza di assegni bancari o circolari il momento rilevante è quello della loro consegna al ricevente. Allo stesso modo, per i bonifici bancari, considerato anche che l'esercente l'arte o professione non può conoscere il momento in cui il cliente ha dato l'ordine di effettuare il bonifico, si è attribuito rilievo al momento in cui la somma risulta posta a disposizione del professionista sulla base della cd. data disponibile che emerge dalla documentazione bancaria in suo possesso. Dunque, per l'imputazione dei componenti positivi conta il momento in cui il professionista che riceve il compenso acquisisce la disponibilità delle somme, mentre appare ininfluente l'eventuale diverso momento in cui la stessa viene persa da parte di chi effettua i pagamenti. Questi criteri interpretativi di carattere generale risultano ribaditi anche in circolari della Agenzia delle Entrate (cfr. ad es. la n. 38/E del 23.6.2010). Orbene, proprio facendo riferimento a quanto sopra, i compensi spettanti al ricorrente erano imponibili all'atto della loro percezione, percezione avvenuta sulla base dei controlli a campione in acconto e/o a saldo di prestazioni, senza emissione di fattura, e senza essere stati contabilizzati e dichiarati come compensi percepiti. L'esistenza e la percezione dei compensi "in nero", peraltro - al di là delle affermazioni del teste Ta. su cui si appuntano le censure puramente contestative della difesa che ha richiamato, peraltro, il divieto di riferire della PG su quanto assunto in sede di verifica amministrativa, benché si tratti di divieto nella specie inesistente, come più volte affermato da questa Corte proprio con riferimento a quanto appreso dai verbalizzanti nel corso di verifiche tributarie (si v., da ultimo: Sez. 3, n. 3050 del 14/11/2007, dep. 2008, Di Girolamo e altri, Rv. 238562) -, hanno trovato conferma nelle dichiarazioni della teste Br., in relazione alla cui attendibilità vengono perpetuate in questa sede di legittimità le critiche difensive svolte in appello, peraltro confutate con motivazione non manifestamente illogica dai giudici territoriali, come avvenuto anche con riferimento alla deposizione della teste Di., su cui invece nessun rilievo viene mossa dalla difesa in sede di ricorso per Cassazione. 3.3. Le censure alla testimonianza Br. unitamente a quella relativa alla presunta assenza di prova dell'incasso di maggiori ricavi pur a fronte di rateazioni e morosità confermate da alcuni testi, quindi, sono, da un lato, inammissibili laddove censurano la violazione dell'art. 192, cod. proc. pen., atteso che in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile il motivo con cui si deduca la violazione dell'art. 192 cod. proc. pen., anche se in relazione agli artt. 125 e 546, comma 1, lett. e), stesso codice, per censurare l'omessa o erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti o acquisibili, in quanto i limiti all'ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui alla lettera c) della medesima disposizione, nella parte in cui consente di dolersi dell'inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Rv. 280027 - 04). Dall'altro, sono inammissibili sotto il profilo del dedotto vizio motivazionale, sia per l'asserita mancata valutazione dell'inesistenza della neutralità della teste Br. che sarebbe entrata in contraddizione disvelando le proprie intenzioni ritorsive, che per l'asserita mancata valutazione dell'esistenza di rateazioni e morosità di alcuni clienti, atteso che, più che censurare vizi motivazionali, in realtà la difesa critica, sotto il primo profilo, la valutazione operata della fonte testimoniale da parte della Corte d'Appello, chiedendo a questa Corte di sostituirsi ai giudici di appello nel giudizio di attendibilità della testimonianza, mostrando tuttavia di non tener conto di quanto più volte affermato da questa Corte secondo cui non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti (Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011, Rv. 250362 - 01). E, sotto tale profilo, la giustificazione apportata dai giudici di merito, che hanno fatto leva sulla coerenza e assenza di contraddizioni, oltre che sulla mancanza di intenti ritorsivi (che in realtà vengono sollevati dalla difesa del ricorrente in assenza di riscontri oggettivi, in quanto fondati sul semplice "sospetto" che la stessa abbia voluto "vendicarsi" per essere stata licenziata ingiustamente), non merita censura, rilevandosi, anzi, che proprio la stessa ammissione della teste di essere entrata in contrasto con l'imputato (pag. 11 verbale ud. 21/02/2022), rafforza il contenuto probatorio e l'attendibilità della donna, denotando l'assenza di remore nel rivelare pregressi contrasti e la volontà, quindi, di non celare pubblicamente tale elemento, non essendo certo ciò sufficiente a giustificare un giudizio di non credibilità del narrato. La valutazione in ordine all'attendibilità di un teste deve invero avvenire soprattutto in relazione al contenuto della dichiarazione e non aprioristicamente per categorie, in quanto in quest'ultima ipotesi il giudizio sull'attendibilità sfocerebbe impropriamente in quello sulla capacità a testimoniare in rapporto a categorie di soggetti che sarebbero, di per sé, inidonei a fornire una valida testimonianza, laddove la capacità a testimoniare differisce dalla valutazione sull'attendibilità del teste, operando su piani diversi, atteso che l'una, ai sensi dell'art. 194, comma 2, cod. proc. pen., dipende dalla presenza in un interesse giuridico (non di mero fatto) che potrebbe legittimare la partecipazione del teste al giudizio, mentre la seconda afferisce alla veridicità della deposizione che il giudice deve discrezionalmente valutare alla stregua di elementi di natura oggettiva (la precisione e completezza delle dichiarazione, le possibili contraddizioni, ecc.) e di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all'eventuale interesse ad un determinato esito della lite). Giudizio sull'attendibilità, nella specie, immune dai denunciati vizi. 3.4. Quanto, poi, all'asserita mancanza della prova dell'incasso di maggiori ricavi pur a fronte di rateazioni e morosità di alcuni clienti che sarebbero state confermate da alcuni testi, va precisato che, come emerge alle pagg. 28 e 29 della sentenza appellata, nel PVC risultano essere stati presi in esame solo i pagamenti incassati "in nero" effettuati dai clienti in acconto e/o a saldo, e raffrontati con i pagamenti riportati nella documentazione ufficiale. Del tutto logicamente, dunque, viene operato un riferimento in sentenza alla pag. 10 del PVC in cui si dava atto che tutte le notizie e gli elementi desunti e legittimamente ricavati dai supporti informatici e dai file elettronici acquisiti, segnatamente il software gestionale della contabilità parallela, contenenti sia dati contabili che extracontabili, risulta(va)no con assoluta certezza ed a tutti gli effetti, in considerazione della natura, contenuto e caratteristiche di gravità, precisione e concordanza degli indizi ivi contenuti, parte integrante della contabilità aziendale, pertanto costituendo gli stessi in quanto scritture dell'impresa stessa, elementi probatori per la ricostruzione induttiva extracontabile del reale redditizi impresa, considerando altresì l'inattendibilità della contabilità ufficiale. Quanto sopra, si noti, non solo è conforme all'esegesi giurisprudenziale di questa Corte in sede tributaria secondo cui il ritrovamento, da parte della Guardia di Finanza, in locali diversi da quelli societari, di una "contabilità parallela" a quella ufficialmente tenuta dalla società sottoposta a verifica fiscale legittima, di per sé, ed a prescindere dalla sussistenza di qualsivoglia altro elemento, il ricorso al ed. accertamento induttivo di cui all'art. 39, commi 2 e 3, del D.P.R. n. 600 del 1973 (Cass. civ., Sez. 5, ord. n. 29543 del 16/11/2018, Rv. 651230 - 01), ma anche della stessa giurisprudenza penale, secondo cui in tema di reati tributari, per il principio di atipicità dei mezzi di prova nel processo penale, di cui è espressione l'art. 189 cod. proc. pen., il giudice può avvalersi dell'accertamento induttivo (nel caso esaminato dalla Cassazione, compiuto mediante gli studi di settore dagli Uffici finanziari), per la determinazione dell'imposta dovuta, ferma restando l'autonoma valutazione degli elementi emersi secondo i criteri generali previsti dall'art. 192, comma 1, cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 36207 del 17/04/2019, Rv. 277581 - 01). 3.5. Ne discende, dunque, che, del tutto coerente con le emergenze processuali, e immune pertanto da illogicità manifeste, è l'affermazione dei giudici territoriali per cui la critica difensiva secondo la quale molti pazienti della clinica pagassero a rate il proprio debito e che in molti casi si fossero registrate morosità nei pagamenti è stata considerata inidonea e, comunque, non risolutiva, a scalfire la prova in ordine agli incassi effettivamente percepiti dal ricorrente, incassi che del resto trovano poi riscontro nella stessa procedura di definizione bonaria raggiunta dal contribuente - imputato con l'Amministrazione Finanziaria. 4. Anche il quinto, il sesto ed il settimo motivo sono inammissibili. Gli stessi si espongono a tale giudizio sia perché generici per aspecificità sia perché manifestamente infondati. 4.1. Sono generici perché mostrano di non confrontarsi adeguatamente con le argomentazioni svolte dalla sentenza impugnata che, alle pagg. 30/34, ha affrontato in maniera puntuale le doglianze sviluppate nell'atto di appello, replicate senza alcun apprezzabile elemento di novità critica in questa sede di legittimità, chiarendo le ragioni per le quali dovesse considerarsi corretta l'individuazione dei maggiori costi assoggettabili a tassazione al netto dei costi professionali. Sul punto, va qui ribadito che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione (Sez. 6, n. 23014 del 29/04/2021, Rv. 281521 - 01; Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012, Rv. 253849 - 01). È sufficiente, infatti, riassumere per sintesi quanto esposto dai giudici territoriali per rendersi conto di come il percorso argomentativo seguito sia immune dai vizi denunciati, dimenticando la difesa che l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato - per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (per tutte: Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone ed altri, Rv. 207944 - 01). 4.2. Sul punto censurato, la Corte d'Appello, in particolare, evidenzia come dall'istruttoria dibattimentale era emerso che, a fronte dei maggiori ricavi non dichiarati dall'imputato, esisteva una percentuale di costi non documentati, del cui ammontare si era tenuto conto nel determinare la somma imponibile, e quindi l'imposta evasa. La Polizia Giudiziaria ha svolto in merito gli opportuni accertamenti, anche alla luce della memoria e della consulenza tecnica di parte, quantificando in via presuntiva i costi non documentati sostenuti dall'impresa gestita da Go.Ca. (viene, in particolare, richiamato, quanto descritto alle pag. 11 e ss. del PVC 14.10.2016). Viene, dunque, anzitutto smentito il profilo di contraddittorietà "intrinseca" eccepito nel motivo di ricorso, peraltro costruito attraverso un'artificiosa giustapposizione di passaggi argomentativi della sentenza, al fine di far rilevare un inesistente vizio motivazionale. Dimentica la difesa che la motivazione della sentenza costituisce un'inscindibile unità logico-giuridica, non una somma di autonomi segmenti, ciascuno dei quali concerna l'autonomo separato esame di una singola questione, avulsa dalle altre; mentre, per converso, la soluzione di ogni singola questione, proprio affinché non sussistano contraddittorietà intrinseche come quelle artificiosamente eccepite, deve coerentemente coincidere a compenetrarsi con quella di tutte le altre, si da dar vita a una concreta, inscindibile unità razionale (tra le tante: Sez. 4, n. 17678 del 23/11/1988, dep. 1989, Rv. 182906 - 01). Orbene, dalle emergenze riferite in sentenza, risulta provato che la ditta Go.Ca. sosteneva direttamente i costi per l'acquisto di protesi e manufatti ortodontici, e i costi dei compensi per odontoiatri e igienisti collaboratori presso le strutture mediche; la ditta Go.Ca. aveva stipulato con Hospitadella Srl un contratto, per la messa a disposizione di una serie di servizi, relativi all'uso dei locali con relative utenze, attrezzature, personale dipendente, e prodotti di consumo; il corrispettivo pagato alla società era stabilito in percentuale sul fatturato della ditta; le fatture emesse da Hospitadella Srl venivano iscritte a bilancio della ditta sotto la voce di costo "prestazioni di servizi" (cosiddetti costi fissi); la ditta Go.Ca. sosteneva costi cosiddetti variabili per materie prime, servizi, personale. I costi cosiddetti fissi, e le spese relative, sono strettamente legate al reddito dichiarato dalla ditta, e non vengono influenzate, né in aumento né in diminuzione, dal reddito/compenso non dichiarato (nero), e per tale ragione non vengono prese in considerazione. I giudici territoriali danno atto di come la Guardia di Finanza ha riepilogato, per anno di imposta, tutte le spese sostenute dalla ditta individuale, in relazione ai costi cosiddetti variabili, prodromici in modo diretto alla realizzazione di ricavi/compensi, come indicato in bilancio (il riferimento è agli specchietti a pag. 12 del PVC 14.10.2016), calcolando l'incidenza percentuale dei costi cosiddetti variabili sui compensi (contabilizzati e dichiarati), al fine di quantificare la probabile percentuale da applicare ai ricavi "in nero". Tale passaggio argomentativo rende quindi privo di fondamento quanto sostenuto in ricorso secondo cui non si sarebbe tenuto adeguatamente conto di tali costì variabili nella determinazione del reddito imponibile. 4.3. Dall'analisi delle dichiarazioni dei redditi presentate dalla ditta individuale Go.Ca., come si legge in sentenza, emerge che essa risulta "non coerente" agli studi di settore, con specifico riferimento alla voce "incidenza delle spese sui compensi", risultando ben superiore al 71,02% (il riferimento è alla tabella a pag. 13 del PVC 14.10.2016). La circostanza che Go.Ca., per svolgere l'attività professionale e percepire i compensi dichiarati, abbia sostenuto dei costi di gran lunga superiori a quelli stabiliti dagli studi di settore, è per i giudici di merito indicativa del fatto che egli abbia indicato nella dichiarazione dei redditi parte dei costi non documentati, prodromici in modo diretto alla realizzazione di compensi "in nero". Del resto, osserva del tutto logicamente la Corte territoriale, è verosimile ritenere che Go.Ca., avendo sostenuto dei costi cosiddetti variabili, prodromici alla realizzazione di ricavi non dichiarati (in nero"), ne abbia contabilizzato una parte, al fine di abbattere la base imponibile dei ricavi dichiarati, soprattutto quando questi ultimi siano elevati. Per tale ragione, la Corte d'Appello ritiene che il Giudice di 1 grado ha correttamente applicato la norma contenuta nell'art. 54 D.P.R. 917/86, che prevede che il reddito da attività professionale è costituito dalla differenza tra l'ammontare dei compensi in denaro percepiti nel periodo di imposta "e quello delle spese sostenute nel periodo stesso". Le prove acquisite nel processo, sottolinea la Corte territoriale, permettono di accertare il tributo effettivamente dovuto da Go.Ca., concordando la Corte d'Appello con i risultati cui è giunta la Guardia di Finanza. I giudici territoriali si fanno peraltro carico di confutare le argomentazioni dell'allora appellante - qui replicate in sede di legittimità senza alcun apprezzabile elemento di novità critica - secondo cui il Tribunale non avrebbe riconosciuto i costi, da contrapporre ai maggiori ricavi accertati, evidenziando la scorrettezza di tale allegazione, in quanto il Giudice di 1 grado aveva correttamente ritenuto che tutti i costi sostenuti dall'impresa fossero già stati contabilizzati. Sul punto, dirimente è l'affermazione della Corte d'Appello secondo la quale, nel corso dell'accertamento fiscale prima, e nel corso dell'istruttoria dibattimentale poi, l'imputato non avesse fornito elementi specifici per individuare i costi non documentati da lui sostenuti, in guisa tale da modificare i criteri utilizzati dalla Polizia Giudiziaria. Richiamata la giurisprudenza - secondo cui costituisce preciso onere del contribuente indicare gli ulteriori costi non contabilizzati effettivamente sostenuti per il conseguimento dei maggiori ricavi, a loro volta non contabilizzati, non sussistendo alcuna automatica correlazione tra ricavi non contabilizzati ed eventuali costi anch'essi (in tesi) non contabilizzati, la mancata contabilizzazione dei ricavi non necessariamente comporta che i costi sostenuti per ottenerli non siano stati a loro volta annotati nei registri; le spese e gli altri componenti negativi concorrono a formare il reddito nell'esercizio di competenza solo se certi o comunque determinabili in modo obiettivo, e non possono essere puramente e semplicemente presunti; sicché ove a fronte dell'esistenza certa di ricavi non dichiarati, l'imputato lamenti la mancata deduzione dei costi ad essi inerenti, deve provarne l'esistenza (potendosi richiamare, a tal fine, oltre le già citate, nella sentenza ricorsa, Cass. 15.9.2015 n. 37094 e Cass. 18.5.2011 n. 36396, anche Sez. 3, n. 8700 del 16/01/2019, Rv. 275856 - 01; Sez. 5, n. 40412 del 13/06/2019, Rv. 277120 - 01) - i giudici di appello si prendono ulteriormente carico di esaminare gli elementi portati dalla difesa Go.Ca., ritenendoli inidonei a fornire la prova della esistenza di costi di esercizio fiscalmente detraibili, in misura diversa da quella sopra riportata, specificando peraltro come tali elementi di prova apparissero parimenti inidonei a fondare il ragionevole dubbio che tali costi di esercizio sussistessero. Di assoluto rilievo è la considerazione della Corte d'Appello secondo cui non solo non esistevano riscontri documentali ai costi invocati dalla difesa, ma che nemmeno le dichiarazioni dei testimoni escussi avevano portato elementi decisivi, circa la determinazione e l'ammontare dei compensi corrisposti "fuori busta". Invero, chiarisce la Corte d'Appello, nessuno dei testimoni escussi aveva indicato il nome del destinatario del "fuori busta", se lo stesso avesse svolto attività lavorativa ordinaria o straordinaria, e tanto meno la cifra esatta asseritamente pagata, con la conseguenza che il fatto è stato ritenuto non provato, se non in modo generico e contraddittorio. 4.4. Perdono, quindi, di spessore argomentativo le critiche difensive sulla valutazione operata dai giudici territoriali in ordine alle dichiarazioni dei testi Br., Lu., Mi. e @7Pi@, che, come è agevole rendersi conto dalla stessa struttura dell'impugnazione, sono rivolte a operare una rilettura degli stralci dichiarativi secondo un'esegesi rafforzativa della tesi del ricorrente, piuttosto che denunciare un reale vizio motivazionale. Sul punto merita di essere qui ribadito che il vizio di "contraddittorietà processuale" (o "travisamento della prova") vede circoscritta la cognizione del giudice di legittimità alla verifica dell'esatta trasposizione nel ragionamento del giudice di merito del dato probatorio, rilevante e decisivo, per evidenziarne l'eventuale, incontrovertibile e pacifica distorsione, in termini quasi di "fotografia", neutra e a-valutativa, del "significante", ma non del "significato", atteso il persistente divieto di rilettura e di re-interpretazione nel merito dell'elemento di prova (da ultimo: Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, Rv. 283370 - 01). Sono infatti precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, Rv. 280601 - 01). A ciò si aggiunge, infine, come sono inammissibili, per violazione del principio di autosufficienza e per genericità, quei motivi che, deducendo il vizio di manifesta illogicità o di contraddittorietà della motivazione, riportano meri stralci di singoli brani di prove dichiarative, estrapolati dal complessivo contenuto dell'atto processuale al fine di trarre rafforzamento dall'indebita frantumazione dei contenuti probatori (come avvenuto nel caso in esame), o, invece, procedono ad allegare in blocco ed indistintamente le trascrizioni degli atti processuali, postulandone la integrale lettura da parte della Suprema Corte (Sez. 1, n. 23308 del 18/11/2014, dep. 2015, Rv. 263601 - 01). 4.5. Ulteriore profilo, poi, esaminato dalla Corte d'Appello, è quello legato alle critiche della difesa Go.Ca. secondo cui "le spese sostenute per pagare i compensi sono a tutti gli effetti costi variabili", in quanto "la realizzazione di maggiori ricavi è possibile nella misura in cui anche il personale venga impiegato per un numero maggiore di ore di lavoro". Si tratta dell'analoga censura svolta in sede di legittimità, ancora una volta svolta senza tener conto della logica risposta della sentenza impugnata, sul punto insuscettibile di sindacato di questa Corte. La Corte d'Appello, infatti, sul punto sottolinea come l'allora appellante non avesse offerto alcun elemento idoneo a far ritenere provato che tale personale avesse svolto attività lavorativa "straordinaria", e non invece "ordinaria". Ricorda, invero, la Corte d'Appello come l'incidenza annua dei costi variabili sui ricavi di Go.Ca. risulta superiore alla percentuale massima degli Studi di settore, ed è per tale ragione che si ritiene dai giudici territoriali che l'imputato avesse fatto confluire, nelle dichiarazioni dei redditi presentate, tutti o parte dei costi non documentati, prodromici alla realizzazione dei maggiori ricavi. Ancora una volta ci si trova di fronte ad una argomentazione dei giudici territoriali non manifestamente illogica che, in quanto tale, si sottrae al sindacato di questa Corte. È stato del resto autorevolmente affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte che la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione devono risultare dal testo del provvedimento impugnato, sicché dedurre tale vizio in sede di legittimità significa dimostrare che il testo del provvedimento è manifestamente carente di motivazione e/o di logica, e non già opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica (Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205621 - 01). È questo, del resto, l'evidente limite dell'atto impugnazione del Go.Ca.: l'aver cercato di prospettare al giudice di legittimità asseriti vizi motivazionali della sentenza impugnata, evocando il disposto dell'art. 606, lett. e), cod. proc. pen., operando una ricostruzione che si contrappone ad una disamina delle emergenze processuali operata dai giudici di merito immune da illogicità manifeste o da vizi motivazionali in genere idonei a determinare un complessivo cedimento logico della sentenza impugnata. 5. Ad analogo approdo deve pervenirsi quanto all'ulteriore censura, prospettata nel settimo motivo, con cui si attinge la sentenza per il mancato adeguaci, mento del giudice al riconoscimento dj|) maggiori costi da parte dell'Ufficio. Sul punto, i giudici di appello ritengono come il riconoscimento della percentuale del 40% dei costi in più rispetto al dichiarato, in sede di procedura conciliativa con l'Agenzia delle Entrate, non è ancorato a parametri certi e provati, specificando che la natura transattiva della conciliazione induce a ritenere che l'Agenzia delle Entrate abbia rinunciato in parte alle proprie pretese, riducendo la percentuale dei costi in questione. Questa affermazione è stata contestata dalla difesa, sostenendo che in realtà l'Agenzia delle Entrate abbia rideterminato i costi sulla base di parametri tecnici riferiti al contribuente accertato, ma anche alla redditività del settore, dunque non solo su valutazioni di convenienza transattiva. 5.1. La doglianza non ha pregio. Ed infatti, nella vicenda qui esaminata, per come emerge dalla stessa ricostruzione difensiva, si è assistito ad una conciliazione giudiziale "fuori udienza", ex art. 48, D.Lgs. n. 546 del 1992. Nel momento in cui l'accordo conciliativo si è perfezionato la pretesa richiesta con l'atto impugnato viene nei fatti sostituita da quanto pattuito tra le parti. Tuttavia, si tratta di un accordo avente efficacia novativa delle rispettive pretese, in ordine al quale il giudice tributario è chiamato ad esercitare il controllo di legalità meramente estrinseco, senza poter esprimere alcuna valutazione relativamente alla congruità dell'importo sul quale l'ufficio e il contribuente si sono accordati (Sez. 5 civile, n. 9222 del 18/04/2007, Rv. 597059 - 01). Ciò comporta che l'interpretazione del contenuto del verbale postula un'indagine sulla volontà delle parti e si risolve in un accertamento di fatto (Sez. 5 civile, ord. n. 10981 del 09/06/2020, Rv. 657879 - 01). Tanto premesso, dunque, se è precluso al giudice tributario "entrare nel merito" dell'accordo conciliativo, tanto che l'art. 48, D.Lgs. n. 546 del 1992, prevede l'esercizio di una mera funzione notarile del giudice tributario che è limitata alla valutazione della sola legalità formale dell'accordo conciliativo, questa Corte - e prima ancora il giudice penale - non può che prendere atto della circostanza che tra le parti sia intervenuta una conciliazione, dunque un atto negoziale scaturente dall'incontro di volontà delle stesse parti, che ha portato alla definizione della controversia pendente, le cui giustificazioni "nel merito" non sono suscettibili di sindacato, proprio perché originate da valutazioni raggiunte nel corso delle trattative che conducono alla stipula dell'accordo conciliativo, valutazioni che sfuggono ad un controllo giudiziale. 5.2. Se ciò è vero, dunque, del tutto correttamente i giudici del merito sono pervenuti ad escludere qualsiasi rilievo alle risultanze di tale accordo conciliativo, la cui ragione deflattiva del contenzioso rafforza le conclusioni dei giudici territoriali, non potendosi attribuire alcuna valenza vincolante "extrafiscale" a quanto oggetto dell'accordo che ha mera funzione novativa della pretesa tributaria, ma non è comunque vincolante per il giudice penale, come già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 4, n. 31002 del 11/04/2019, Fiusco, non massimata). Ed invero, è pacifico nella giurisprudenza di legittimità, il principio secondo cui spetta esclusivamente al giudice penale il compito di accertare e determinare l'ammontare dell'imposta evasa, da intendersi come l'intera imposta dovuta, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario, non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria (Sez. 3, n. 28710 del 19/04/2017, P.G. in proc. Mantellini, Rv. 270476; Sez. 3, n. 15899 del 02/03/2016, Colletta, Rv. 266817; Sez. 3, n. 38684 del 04/06/2014, Agresti, Rv. 260389; Sez. 3, n. 37335 del 15/07/2014, Buonocore, Rv. 260188; Sez. 3, n. 36396 del 18/05/2011, Mariutti, Rv. 251280; Sez. 3, n. 5490 del 26/11/2008, Crupano, Rv. 243089). L'autonomia del processo penale da quello amministrativo, sancita dall'art. 20, D.Lgs. n. 74 del 2000 (secondo cui "Il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione"), non può non valere anche ai fini, che qui rilevano, dell'individuazione dell'ammontare dell'imposta evasa, nei casi di raggiunti accordi conciliativi con l'Erario. 5.3. Nel caso di specie, per come si legge nel ricorso, infatti, il perfezionamento dell'accordo conciliativo mediante la riduzione percentuale dei costi è giustificato (v. pag. 51 ricorso) sulla base di due argomenti alquanto fumosi ed approssimativi (individuazione ex adverso della componente variabile agganciata alla remunerazione del personale medico; percentuale della redditività media degli studi odontoiatrici con volume di affari superiore al milione di euro). Orbene, come più volte affermato da questa Corte, il giudice penale, sulla scorta di elementi di fatto, ben può discostarsi dalla determinazione dei costi come risultanti dalla conclusione di accordi conciliativi con l'agenzia delle entrate, poiché, diversamente ragionando si perverrebbe alla introduzione di una pregiudiziale tributaria non prevista nell'ordinamento giuridico. E dell'esercizio di tale autonomo potere ha fornito congrua argomentazione. In particolare, si legge in sentenza, la ricostruzione dei maggiori costi, rispetto a quelli dichiarati, operata dalla consulenza tecnica di parte della difesa, non è stata ritenuta con argomentazioni non illogica, convincente. Ed invero - premesso che la censura difensiva appare fondata su argomenti di tipo tecnico, in particolare nella parte in cui, inammissibilmente, segnatamente nel sesto motivo, offre alla valutazione di questa Corte la dettagliata quanto inutile ricostruzione operata dal consulente tecnico di parte per giungere alla determinazione dei costi sostenuti, dimenticando che è sottratta alla cognizione di questa Corte qualsiasi incursione nel merito, men che mai potendo esprimere un giudizio circa la valutazione operata dai giudici di merito in ordine alla correttezza delle risultanze di una consulenza tecnica - la Corte d'Appello chiarisce le ragioni per le quali non può ritenersi che "la superiorità dell'incidenza annua dei costi sui ricavi, rispetto alla percentuale massima degli Studi di Settore compilati per le annualità contestate è un dato niente affatto significativo, e che trova pronta spiegazione in quanto esso è collegato al particolare rapporto che lega l'attività professionale del dott. Go.Ca. alla società Hospitadella Srl" (pagg. 33/34 della sentenza impugnata). Sul punto, invero, osserva la Corte d'Appello "come giustamente rilevato dal Tribunale, il rapporto tra la ditta individuale e la società, è stato invece considerato, tanto che si è ritenuto che la voce di bilancio "prestazioni di servizio", riferite proprio alla società Hospitadella, comprendesse i costi, non computati ai fini che ci occupano, perché quest'ultima veniva remunerata a percentuale sul fatturato dichiarato". Peraltro, precisa la Corte territoriale, il sistema di remunerazione della società (e quindi il costo relativo), era sostanzialmente rimesso a Go.Ca., il quale decideva cosa fatturare e cosa non fatturare, con immediate e dirette conseguenze sulla quantificazione dei costi dovuti alla Srl, la quale operava solo ed esclusivamente a favore dell'imputato. Da qui la conclusione, non censurabile sul piano logico - giuridico, secondo cui appariva "assolutamente illogico, come invece assume il consulente della difesa, ritenere che i costi dichiarati da Go.Ca. non sarebbero comprensivi dei c.d. costi in nero, ma sarebbero esclusivamente quelli c.d. in bianco, sostenuti sia per esercitate l'impresa individuale, sia per esercitare la clinica, anche perché come rileva il Tribunale, tale condotta sarebbe indicativa di una contabilità tenuta in modo volutamente confuso, e finalizzato anche ad abbattere la base imponibile". 5.4. Parimenti, con argomentazione altrettanto immune da illogicità manifeste, la Corte d'Appello ha ritenuto non rilevante la considerazione difensiva secondo cui la sussistenza di costi ulteriori rispetto a quelli documentati nella misura del 72,31% (sostenuta dal consulente tecnico di parte), troverebbe riscontro nell'analisi di alcuni bilanci di primari operatore del settore. Si tratta, invero - si legge in sentenza - all'evidenza di indizi, privi del carattere della gravità e della precisione, oltre che disancorati dalle evidenze probatorie risultanti dall'istruttoria dibattimentale. Se, dunque, così è, appare evidente come la procedura conciliativa abbia preso le mosse dalla richiesta del Go.Ca. di vedersi riconosciuti costi non contabilizzati. Al riguardo, l'Agenzia delle Entrate sembra aver considerato plausibile, al fine della rivalutazione della materia imponibile, da un lato, l'individuazione ex adverso della componente variabile agganciata alla remunerazione del personale medico e, dall'altro, la percentuale della redditività media degli studi odontoiatrici con volume di affari superiore al milione di euro. Il contenuto dell'accordo conciliativo, dunque, è stato quindi disatteso in quanto non ancorato a parametri certi e provati, essendo evidente come l'Agenzia delle Entrate, sulla scorta di proprie scelte discrezionali, anche di opportunità per avvantaggiarsi di una rapida e sicura riscossione, abbia "disposto" della obbligazione erariale, concordando con il contribuente la richiamata riduzione percentuale del 40% dell'imponibile accertato. Nella specie, si concorda con la correttezza argomentativa dei giudici territoriali secondo cui i costi considerati dall'Agenzia non poggiavano affatto su elementi caratterizzati da certezza e precisione (come prescrive l'ultima parte dell'art. 109, comma 4, D.P.R. 22.12.1986 n. 917), ma rappresentavano il mero frutto dell'adesione dell'Amministrazione finanziaria alle argomentazioni della parte. Ciò a voler ulteriormente sottolineare il carattere "dispositivo" dell'azione amministrativa, nell'ottica di un favor conciliationis, che risulta palese laddove, pur in presenza di una contabilità inattendibile e di prospetti extracontabili, l'Agenzia delle Entrate riconosceva, appunto, alla individuazione ex adverso della componente variabile agganciata alla remunerazione del personale medico, unilateralmente proposta dal Go.Ca., una qualche attendibilità, rinunciando cosi ad utilizzare quanto emerso dagli accertamenti della Guardia di Finanza che, pure, come risulta dalle pagg. 11 e seguenti aveva quantificato in via presuntiva i costi non documentati sostenuti dall'impresa gestita dal Go.Ca. (v. pagg. 11 e segg. PVC del 14.10.2016, richiamato a pag. 30 della sentenza impugnata), così dunque destituendosi di fondamento la premessa contenuta nell'accordo conciliativo riportato a pag. 51 del ricorso in cui si afferma, contrariamente a quanto evidenziato nella sentenza appellata, che "la Guardia di Finanza nella redazione del PVC prodromico all'avviso di accertamento in esame, non aveva riconosciuto alcun abbattimento dei reddito rideterminato". È quindi palese, come correttamente affermano i giudici territoriali, la mancanza di adeguati approfondimenti sulla congruità delle valutazioni operate dall'Ufficio in sede di accordo conciliativo, donde le argomentazioni induttive (pur in seno ad un originario accertamento analitico-induttivo) dell'Ufficio, dettate dalle richiamate esigenze deflattive e di celere riscossione, non sono state logicamente condivise dal Giudice ordinario. 5.5. Al cospetto di tale apparato argomentativo, dunque, le doglianze del ricorrente appaiono del tutto prive di pregio, in quanto tradiscono il "dissenso" sulla ricostruzione dei fatti e sulla valutazione delle emergenze processuali svolta dal giudice di merito, attingendo la sentenza impugnata e tacciandola per presunte violazioni di legge e vizi motivazionali con cui, in realtà, si propongono doglianze non suscettibili di sindacato in sede di legittimità. La Corte di cassazione, infatti, non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (Sez. 5, n. 1004 del 30/11/1999, dep. 2000, Rv. 215745; Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, dep. 1996, Clarke, Rv. 203428 - 01). 6. Anche l'ottavo motivo è inammissibile per manifesta infondatezza e comunque perché proposto per motivi non consentiti. Anzitutto, va qui ribadito che, in tema di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nel giudizio di appello, solo nel caso di prove sopravvenute o scoperte dopo la sentenza di primo grado (art. 603, comma secondo, cod. proc. pen.), la mancata assunzione può costituire violazione dell'art. 606, comma primo, lett. d), cod. proc. pen., mentre, negli altri casi previsti (commi primo e terzo dell'art. 603), il vizio deducibile in sede di legittimità è quello attinente alla motivazione previsto dalla lett. e) del medesimo art. 606 (tra le tante: Sez. 4, n. 4675 del 17/05/2006, dep. 2007, Rv. 235654 - 01). Soprattutto, però, ciò che rileva è che la mancata assunzione della prova "decisiva" di cui si lamenta la mancata assunzione in sede di rinnovazione istruttoria ex art. 603, cod. proc. pen. è costituita da una perizia, prova cui, per definizione, non può mai essere attribuito carattere di decisività. È stato infatti più volte affermato, anche con l'autorevole avallo delle Sezioni Unite di questa Corte, che la mancata effettuazione di un accertamento peritale non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell'art.606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., in quanto la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova "neutro", sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove l'articolo citato, attraverso il richiamo all'art. 495, comma 2, cod. proc. pen., si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività (Sez. U, n. 39746 del 23/03/2017, A. e altro, Rv. 270936 - 01). L'affermazione dei giudici territoriali secondo i quali, dunque, la rinnovazione non era necessaria, essendo gli stessi in grado di decidere allo stato degli atti, non è suscettibile di alcun sindacato. Nel giudizio d'appello la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale è infatti istituto eccezionale al quale può farsi ricorso solo quando il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti. Al di fuori del caso di prove sopravvenute o scoperte dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, le parti non hanno il diritto alla prova che riconoscono loro gli articoli 190 e 495 cod. proc. pen. Fuori di tali ipotesi la mancata assunzione della prova non è mai censurabile in cassazione a norma dell'art. 606 lett. d) cod. proc. pen., bensì solo ai sensi della lettera e) di tale ultimo articolo (Sez. 5, n. 10858 del 21/10/1996, Rv. 207067 - 01). A ciò va aggiunto, infine, che, al di là del formale riferimento alle lett. c) e d) dell'art. 606, cod. proc. pen., in realtà il motivo di ricorso è volto a censurare la motivazione (v. pag.56 ricorso ove si parla di conclusione tautologica), ma attraverso doglianze non consentite in questa sede che si espongono al medesimo giudizio di inammissibilità già evidenziato con riferimento ai motivi dal quinto al settimo. 7. Anche il nono motivo non si sottrae al giudizio di inammissibilità. Il motivo è infatti generico per aspecificità, non confrontandosi adeguatamente con le argomentazioni svolte nell'impugnata sentenza, che hanno confutato le censure svolte con l'identico motivo di appello, qui replicato ancora una volta senza alcun apprezzabile elemento di novità critica. In particolare, i giudici di appello respingono la censura difensiva ritenendo inverosimile l'allegazione difensiva secondo cui la creazione di un sistema ad hoc per la tenuta della contabilità parallela non sarebbe riconducibile all'imputato. Precisa la Corte d'Appello che qualche testimone, che lavorava per GO.CA., aveva dichiarato che "la disposizione" di quest'ultimo "era quella di fatturare tutto" (il richiamo è alle deposizioni, trascritte per stralcio, dei testi Mi. e @7Pi@, citate in ricorso), ma tale dichiarazione è stata ritenuta non credibile dalla Corte d'Appello. In primo luogo, osserva la Corte d'Appello, è certo che le cliniche di Go.Ca. tenevano una contabilità parallela per il "nero", gestita attraverso apposito software e addirittura conservata in una stanza nascosta da un armadio. Sostenere che l'utilizzo di un tale sistema contabile non fosse "una scelta dell'imputato", ma frutto di "autonome scelte gestionali e tecniche da parte del personale amministrativo preposto", non è per la Corte territoriale assolutamente credibile né plausibile. La circostanza, secondo quanto argomentato dai giudici territoriali con motivazione non manifestamente illogica, è inoltre priva di fondamento (posto che nessun testimone lo ha dichiarato), e contraria alle risultanze istruttorie (posto che numerosi testimoni hanno dichiarato che era proprio l'imputato ad accordarsi con i pazienti per le prestazioni senza fattura). 7.1. A fronte dì tali, ineccepibili, argomentazioni spese sul piano logico dalla Corte d'Appello, le critiche difensive non hanno pregio, riproponendo doglianze già adeguatamente confutate dai giudici territoriali, che non sono suscettibili di sindacato da parte di questa Corte. In particolare, merita di essere ribadito che in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo, sicché sono inammissibili tutte le doglianze che "attaccano" la persuasività, l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell'attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (tra le tante: Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, Rv. 280747 - 01). 7.2. Perde quindi qualsiasi spessore argomentativo, pertanto, anche la doglianza difensiva fondata sull'ulteriore argomento, speso ad abundantiam dalla Corte d'Appello, secondo cui il dolo dell'imputato volto ad evadere le imposte, emergerebbe anche dal suo comportamento successivo all'accertamento fiscale, e in particolare dalla condotta di rimozione dei sigilli apposti alla contabilità. I giudici di appello, sul punto, hanno richiamato l'affermazione difensiva secondo cui "non è stato dimostrato" che tale condotta sia imputabile a Go.Ca., ritenendo l'eccezione infondata "in quanto non è verosimile ritenere che persone diverse da lui, che era il diretto interessato, abbiano preso in autonomia l'iniziativa di violare i sigilli e far sparire le prove dell'evasione fiscale". Anche con riferimento a tale profilo, si osserva, la motivazione dei giudici territoriali non appare censurabile sul piano logico argomentativo, in quanto fondata sul principio del c.d. cui prodest. E, sul punto, questa stessa Corte ha affermato che, in tema di adeguatezza della motivazione, non è censurabile, in sede di legittimità, la sentenza del giudice di appello che fondi il giudizio di colpevolezza sul principio del "cui prodest", qualora esso sia supportato da altri elementi di fatto di sicuro valore indiziante (Sez. 3, n. 15755 del 22/01/2020, Rv. 279271 - 01), nella specie rappresentati non solo dal rinvenimento della contabilità parallela per il "nero", gestita attraverso apposito software e conservata in una stanza nascosta da un armadio, ma anche dalla circostanza che numerosi testimoni avevano dichiarato che era proprio l'imputato ad accordarsi con i pazienti per le prestazioni senza fattura. 8. Può quindi procedersi all'esame del decimo e dell'undicesimo motivo, già congiuntamente illustrati. Mentre il decimo motivo è inammissibile, l'undicesimo è fondato. 9. Quanto al decimo motivo, infatti, ancora una volta, la difesa mostra di non confrontarsi adeguatamente con la motivazione della sentenza impugnata che, nel prendere in esame le doglianze difensive sviluppate con i motivi di appello, ha adeguatamente fornito risposta alle critiche difensive, replicate senza alcun apprezzabile elemento di novità critica davanti a questa Corte di legittimità. Invero, quanto al profilo afferente alla asserita violazione del ne bis in idem sanzionatorio, la Corte territoriale (cfr. pagg. 36/37 della sentenza) richiama quanto già rilevato dal primo giudice, che aveva sottolineato come la sanzione amministrativa e la sanzione penale sono compatibili, in quanto i due procedimenti sono connessi e non vi è duplicazione di procedimenti sanzionatori. A tal proposito, ha richiamato quella giurisprudenza che ha chiarito come non sussiste violazione del divieto di "bis in idem" convenzionale nel caso in cui, nei confronti di un soggetto cui sia già stata irrogata una sanzione amministrativa, sia emessa condanna per lo stesso fatto storico, quando tra il procedimento amministrativo e quello penale sussista una connessione sostanziale e temporale tale per cui le sanzioni siano parte di un unico sistema, a condizione che, in tal caso, sia comunque garantito un meccanismo compensativo che consenta di tener conto, in sede di irrogazione della seconda sanzione, degli effetti della prima, onde evitare che la sanzione complessivamente irrogata sia sproporzionata (il riferimento, in sentenza, è a Sez. 3, n. 2245 del 15/10/2021, dep. 2022, Rv. 282799 - 01). La difesa ha contestato tale affermazione, pur adeguatamente supportata giuridicamente mediante il richiamo alla giurisprudenza di questa Sezione, sostenendo come, nel caso di specie, manchi quella connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta, denunciando l'assoluto difetto di coordinamento, di tempistica e di istruttoria. 9.1. La doglianza, articolata integralmente in fatto (non rilevando la circostanza che nel giudizio tributario, dichiarato estinto ex art. 48, D.Lgs. n. 546 del 1992, in sede di accordo conciliativo, si sia pervenuti al riconoscimento di maggiori costi, rispetto al giudizio penale, trattandosi ovviamente di una conseguenza, come supra chiarito, della diversa valutazione dell'Ufficio operata per finalità deflative e acceleratorie della riscossione), non può essere accolta, tenuto conto che la valutazione della sussistenza della "connessione sostanziale e temporale" tra i due procedimenti comporta un accertamento di fatto, in quanto tale insuscettibile di sindacato da parte di questa Corte ove, come nella specie, congruamente motivato da parte del giudice di merito. Senza volere ripercorrere in questa sede la giurisprudenza nazionale e so-vranazionale che ha delineato i termini della questione del ne bis in idem con riguardo al sistema del doppio binario punitivo nel diritto tributario, va qui ricordato che l'evoluzione della giurisprudenza della Corte EDU, ha esteso la garanzia convenzionale anche nei casi di sanzioni irrogate avanti ad autorità diverse ed aventi natura sostanzialmente penale secondo i criteri Engel e, per quanto qui di interesse, ha riconosciuto la garanzia convenzionale nei casi di irrogazione di una sanzione amministrativa per lo "stesso fatto", avente natura sostanzialmente penale, in presenza di doppio binario sanzionatorio in materia tributaria. La Corte EDU ha avuto modo di precisare il perimetro della garanzia convenzionale del divieto di un secondo giudizio, in ambito tributario, con la decisione A. e B. Norvegia, i cui principi sono stati confermati dalla successiva giurisprudenza (cfr. Johannesson contro Islanda, 18.5.2017; Mihalace contro Romania, Grande Camera, 8.7.2019). La Corte EDU (Grande Camera), con la sentenza del 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, ric. n. 24130/11 e 29758/11, ha, infatti, affermato che "non viola il ne bis in idem convenzionale la celebrazione di un processo penale, e l'irrogazione della relativa sanzione, nei confronti di chi sia già stato sanzionato in via definitiva dall'amministrazione tributaria con una sovrattassa (nella specie pari al 30% dell'imposta evasa), purché sussista tra i due procedimenti una "connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta". La Corte di Strasburgo ha, così, chiarito che in linea di principio l'art. 4 prot. 7 CEDU "non esclude che lo Stato possa legittimamente apprestare un sistema di risposte a condotte socialmente offensive (come l'evasione fiscale) che si articoli - nella cornice di un approccio unitario e coerente - attraverso procedimenti distinti, purché le plurime risposte sanzionatorie non comportino un sacrificio eccessivo per l'interessato, con il conseguente onere per la Corte di verificare se la strategia adottata da ogni singolo Stato comporti una violazione del divieto di ne bis in idem, oppure sia, al contrario il "prodotto di un sistema integrato che permette di affrontare i diversi aspetti dell'illecito in maniera prevedibile e proporzionata, nel quadro di una strategia unitaria" (par. 122). Non sarebbe, infatti, possibile dedurre dall'art. 4 prot. 7 un divieto assoluto per gli Stati di imporre una sanzione amministrativa (ancorché qualificabile come "sostanzialmente penale" ai fini delle garanzie dell'equo processo) per quei fatti di evasione fiscale in cui è possibile, altresì, perseguire e condannare penalmente il soggetto, in relazione a un elemento ulteriore rispetto al mero mancato pagamento del tributo, come una condotta fraudolenta, alla quale non potrebbe dare risposta sanzionatoria adeguata la mera procedura "amministrativa" (par. 123). Nella prospettiva di un equilibrato bilanciamento tra gli interessi del singolo e quelli collettivi, la Corte ha dunque valorizzato il criterio della "sufficiently dose connection in substance and time" ricavato da parte della propria precedente giurisprudenza (par. 125). Secondo la Corte EDU, la disposizione convenzionale non esclude lo svolgimento parallelo di due procedimenti, purché essi appaiano connessi dal punto di vista sostanziale e cronologico in maniera sufficientemente stretta, e purché esistano meccanismi in grado di assicurare risposte sanzionatorie nel loro complesso proporzionate e, comunque, prevedibili (par. 130), verificando gli scopi delle diverse sanzioni e dei profili della condotta considerati, la prevedibilità della duplicità delle sanzioni e dei procedimenti, i correttivi adottati per evitare "per quanto possibile" duplicazioni nella raccolta e nella valutazione della prova e, soprattutto la proporzionalità complessiva della pena (par. 133). A conclusioni sostanzialmente conformi è giunta anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia, tenuto conto che le norme della Convenzione dei Diritti dell'uomo si applicano sempre nell'interpretazione data dalla Corte Edu e, dunque, anche la Corte di Giustizia, in applicazione dell'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che ingloba il diritto convenzionale nel diritto Euro unitario, applica le norme convenzionali nell'interpretazione data dalla Corte Edu, nelle sentenze Garlsson Real Estate SA/altri, C-537/2016, Di Puma/Consob C-598/2016 e C-597/2016 e Menci C-524/2015. 9.2. Così brevemente ripercorsa l'evoluzione giurisprudenziale e messi a fuoco i criteri rilevanti per l'accertamento del ne bis in idem, nel caso concreto, ritiene questa Corte che non è mancata, da parte dei giudici di merito, una corretta verifica dei presupposti per l'applicazione del ne bis in idem, come sopra delineati, e segnatamente, dato per non contestato l'accertamento relativo alla identità del fatto oggetto dei due diversi procedimenti, intesa come coincidenza di tutte le componenti della fattispecie concreta, è in atti la verifica della sussistenza della stretta connessione temporale e sostanziale. Il profilo della connessione temporale/sostanziale non può dirsi meramente affermato, dovendosi qui richiamare i principi ermeneutici espressi dalla giurisprudenza di legittimità che ha precisato che la connessione temporale deve essere riferita al momento di avvio dei procedimenti e di svolgimento degli stessi e non ai tempi di definizione, che possono anche non coincidere (Sez. 5, n. 31507 del 15.4.2021, Rv. 282038 - 01; Sez. 3, n. 6993 del 22.9.2017, Se., Rv. 272588 -01). Nella specie, per come emerge dagli atti, la denuncia per il reato di infedele dichiarazione è stata presentata dalla GdF, organo accertatore, in data 11/12/2015, il PVC è stato formato dalla medesima GdF in data 14/10/2016 e la Procura della Repubblica di Padova ha disposto l'utilizzazione di detti dati a fini fiscali con atto datato 20/06/2016 (v., in particolare, quanto risulta nella premessa del PVC datato 14.10.2016, atto individuato come allegato n. 4 al ricorso per cassazione depositato dalla difesa del ricorrente). Il giudizio tributario si è quindi estinto con sentenza di cessazione della materia del contendere in data 22.10.2021; quello penale ha visto pronunciare la sentenza di primo grado in data 22.06.2022 e quella d'appello in data 28.06.2023, essendo intervenuto il giudizio di legittimità in data 11.04.2024. Nessun dubbio dunque, circa l'esistenza di una stretta connessione temporale. La stretta connessione sostanziale è poi evidente, tenuto conto che, per pervenire all'accertamento, il giudizio penale e quello tributario (peraltro arrestatosi alla fase conciliativa, senza che fosse stata espressa alcuna valutazione giudiziale nel merito da parte del giudice tributario, attesa l'estinzione del giudizio per cessata materia del contendere), si è svolto sulla base di materiale probatorio, documentale e testimoniale, comune ai due procedimenti, differendo solo nella valutazione finale operata dal giudice ordinario penale che ha disatteso la rivalutazione della materia imponibile operata in sede di conciliazione dall'Ufficio d'intesa con il contribuente per le ragioni già supra evidenziate. Nessun dubbio, pertanto, circa la legittimità nel caso concreto del doppio binario sanzionatorio. 10. È invece fondato, come anticipato, l'undicesimo motivo. Venendo, infatti, alla questione della proporzionalità della sanzione, i giudici di appello affermano che, dovendo rideterminare la pena, in conseguenza della estinzione per prescrizione di uno dei delitti per i quali si procede, si è proceduto ad applicare il meccanismo della compensazione, al fine di evitare che la sanzione in concreto irrogata a Go.Ca. fosse sproporzionata. A tal proposito, si legge in sentenza, valutati gli elementi tutti di cui all'art. 133 c.p., e in particolare l'irrogazione di sanzione amministrativa nella misura di Euro 646.183, si è ritenuto equo fissare la pena base in anni uno e mesi sette di reclusione, ritenuto più grave il reato relativo al periodo di imposta 2012. Su tale pena si è poi fatto operare l'aumento per la continuazione con gli altri delitti contestati, che si è ritenuto equo fissare in mesi due di reclusione per ogni violazione, per una pena complessiva di anni due e mesi due di reclusione, ridotta ad anni uno e mesi sei di reclusione per il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Come anticipato, la difesa ha contestato che, pur essendo corretta la premessa in fatto, in concreto tuttavia non si sarebbe proceduto a tener conto nel complessivo trattamento sanzionatorio della sanzione irrogata in sede tributaria. 10.1. Premesso che il calcolo operato dalla difesa in sede di ragguaglio presenta un vistoso errore - atteso che l'importo corrisposto a titolo di sanzione, pari ad Euro 646.183, equivale, applicato il criterio di ragguaglio ex art. 135, cod. pen., a 2.584 giorni, equivalenti ad anni 7 e gg. 29, e non ad anni 23 e mesi 6 di reclusione come invece sostenuto dalla difesa che a tale dato numerico ha aggiunto la pena detentiva di 1 anno e 6 mesi di reclusione, per farne derivarne una sanzione definita come "abnorme", ma che tuttavia tale non è ove si consideri la reale conversione - si osserva infatti che i giudici di appello hanno ritenuto congrua la pena base in anni 1 e mesi 7 di reclusione. Il giudizio di congruità della pena non può, all'evidenza, essere sindacato laddove si consideri la forbice edittale relativa al reato per cui si procede, applicabile ratione temporis (da uno a tre anni di reclusione), tenuto conto della giurisprudenza di questa Corte che, come è noto, afferma che non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione del giudice nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale che deve essere calcolata non dimezzando il massimo edittale previsto per il reato, ma dividendo per due il numero di mesi o anni che separano il minimo dal massimo edittale ed aggiungendo il risultato così ottenuto al minimo (Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019, Rv. 276288 - 01). Dunque, dividendo per due il numero di mesi che separa(va)no il minimo dal massimo edittale, ossia 24 mesi, il risultato ottenuto, pari a 12 mesi, aggiunto al minimo edittale, consente di individuare il medio edittale in 2 anni (12 mesi + 12 mesi minimo edittale). Non può quindi ritenersi errata l'individuazione della pena base in anni 1 e mesi 7 di reclusione, in quanto inferiore al medio edittale c.s. individuato. 10.2. Il problema, tuttavia, non riguarda tanto la congruità della sanzione penale in sé, quanto, piuttosto, la congruità complessiva richiesta - in base all'interpretazione fornitane dalla giurisprudenza sovranazionale ed interna - del trattamento sanzionatorio, che, come correttamente evidenziato dalla difesa, nel momento dell'irrogazione della "seconda" sanzione, nella specie penale, non può prescindere dalla valutazione dell'afflittività o meno della sanzione "tributaria" irrogata "per prima" al fine di verificare la proporzionalità della risposta punitiva statuale. Orbene, nel caso di specie, la sanzione amministrativa irrogata al contribuente ha un'evidente componente dissuasiva (in sede di previsione astratta) e afflittiva (in sede concretamente applicativa), non essendo finalizzata al solo risarcimento/indennizzo del danno cagionato dal contribuente. La sanzione prevista dall'art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 471 del 1997, infatti, va dal 90% al 180% dell'imposta dovuta; quella concretamente applicata è pari ad Euro 646.183,00, pari al 90% della maggiore imposta dovuta. Si tratta di sanzione che, alla luce dei criteri indicati dalla Corte EDU (ed. Engels criteria), ha natura sostanzialmente penale ai sensi degli artt. 6 e 7, Convenzione EDU, e 4, Protocollo n. 7 alla Convenzione EDU. Tale sanzione si aggiunge a quella applicata in sede penale al ricorrente, pari a un anno e sei mesi di reclusione. 10.3. Orbene, quanto alla proporzionalità del complessivo trattamento san-zionatorio applicato per il medesimo fatto storico, occorre svolgere ulteriori considerazioni. Come già correttamente affermato da questa Corte (Sez.3 n. 2245 del 2022, Rv. 282799, Colombo; Sez. 3, n. 5899 del 21/09/2022, dep. 2023, Del Fabro, non massimata), un utile criterio può essere fornito, in primo luogo, dall'art. 135 cod. pen. che fornisce l'unità di misura della sanzione (sostanzialmente e formalmente) penale applicabile per il medesimo fatto storico. Considerando il criterio di ragguaglio previsto da detta norma (euro 250 per un giorno di pena detentiva), la sanzione di Euro 646.183,00 corrisponde, come visto a 7 anni e gg. 29 di reclusione (646.183/250 = 2584), per un complessivo trattamento sanzionatorio, nel caso di specie e per il medesimo fatto, pari a 8 anni, 6 mesi e 29 gg. di reclusione. Naturalmente, il giudice penale non può modificare la sanzione amministrativa irrevocabilmente e separatamente già irrogata, ma può e deve tenerne conto ai fini della applicazione della sanzione penale. A tal fine, per meglio adeguare la sanzione al fatto può applicare le circostanze attenuanti generiche di cui all'art. 62-bis cod. pen., che consentono di determinare la pena in misura inferiore al minimo edittale previsto per lo specifico reato (nella specie applicate, peraltro con procedimento di calcolo errato, in quanto la riduzione per le attenuanti generiche andava applicata sulla pena base, prima dell'aumento per la continuazione); può adeguare gli aumenti di pena applicabili per i reati-satellite (nella specie l'aumento è stato determinato in sei mesi di reclusione, laddove avrebbe dovuto essere consistentemente graduato in diminuzione per rendere la sanzione "proporzionale"); può tener conto anche delle condizioni economiche del reo affinché il trattamento sanzionatorio sia, nel suo complesso, dissuasivo-rieducativo (non solo meramente retributivo). È evidente, infatti, che l'effetto dissuasivo della componente pecuniaria della sanzione complessiva è diverso a seconda delle condizioni economiche della persona fisica alla quale è irrogata. La regola stabilita dall'art. 133-bis cod. pen. può essere considerata, al riguardo, espressione di un principio generale coerente con la finalità rieducativa della pena. 10.4. Escluso, dunque, come anticipato, che nel caso di specie la condanna del ricorrente abbia infranto il divieto di 'bis in idem' di matrice convenzionale, la Corte di appello non ha però fornito adeguata risposta al motivo con cui è stata dedotta la sproporzione della sanzione complessivamente applicata, non avendo in realtà tenuto conto, a dispetto di quanto poco prima dalla stessa enunciato, nella commisurazione della pena, della sanzione amministrativa irrogata all'imputato per il medesimo fatto. Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Milano per nuovo esame. 11. Il dodicesimo motivo è parimenti inammissibile. Il motivo è inammissibile per manifesta infondatezza, risultando infatti a carico del ricorrente un precedente penale per il reato di violenza privata, oggetto di decreto di archiviazione per particolare tenuità del fatto ex art. 131 -bis, cod. pen., pronunciato dal Tribunale di Brindisi, nr. 27/11/2018. Si spiega, del resto, la discrasia esistente tra il certificato del casellario giudiziale allegato al ricorso e quello risultante dal sistema in uso presso gli uffici giudiziari, avendo infatti questa Corte, a Sezioni Unite, affermato che il provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen. deve essere iscritto nel casellario giudiziale, ferma restando la non menzione nei certificati rilasciati a richiesta dell'interessato, del datore di lavoro e della pubblica amministrazione (Sez. U, n. 38954 del 30/05/2019, PMT c/ De Martino, Rv. 276463 - 01). La soluzione cui sono pervenuti i giudici territoriali è dunque corretta, non essendo censurabile la motivazione sul punto, alla luce della giurisprudenza che ritiene giustificato il diniego in costanza di precedenti (si v., ad es., Sez. 5, n. 57704 del 14/09/2017, Rv. 272087 - 01). Se è ben vero, come precisato dalla richiamata sentenza delle Sezioni Unite (par. 8, pag. 14), che la valutazione pregiudiziale sulla sussistenza del fatto e sulla sua attribuibilità all'indagato compiuta in sede di archiviazione non costituisce un accertamento assimilabile ad una dichiarazione di colpevolezza nel senso inteso da tale disposizione, avvenendo in una fase anteriore al giudizio (conclusione peraltro confortata dal fatto che il provvedimento di archiviazione non produce gli effetti invece riservati dall'art. 651-bis cod. proc. pen. alle dichiarazioni giudiziali dell'esimente), è tuttavia altrettanto indubbio che anche il provvedimento di archiviazione ex art. 131-bis, cod. pen., è idoneo a costituire un "precedente" i cui effetti - al pari dei precedenti di polizia -ben possono considerarsi ostativi al riconoscimento dei benefici di legge, i quali, come è noto, sono concedibili "soltanto se, avuto riguardo alle circostanze indicate nell'art. 133, il giudice presume che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati" (art. 164, comma primo, cod. pen.) o, comunque, quanto al beneficio della non menzione (art. 175, comma primo, cod. pen.), "avuto riguardo alle circostanze indicate nell'art. 133". E, del resto, anche ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall'art. 131 -bis cod. pen., il giudizio sulla tenuità richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell'art. 133, primo comma, cod. pen., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell'entità del danno o del pericolo (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266590 - 01). 11.1. Ciò comporta, pertanto, che l'esistenza del precedente in questione, peraltro per un delitto, ben può essere considerata ostativa al riconoscimento dei benefici di legge, essendo giustificato il diniego degli stessi in base ai criteri indicati dall'art. 133, cod. pen., tra cui in particolare la capacità a delinquere del colpevole, che per legge va desunta (art. 133, comma 2, n. 2, cod. pen.) non solo dai precedenti penali ma anche da quelli "giudiziari" antecedenti al reato (e, nella specie, essendo stato commesso il delitto di cui all'art. 610, cod. pen., in data 1.12.2014, detto "precedente giudiziario" era sicuramente antecedente rispetto al momento consumativo dei reati di cui all'art. 4, D.Lgs. n. 74 del 2000, commessi in data 10.09.2015 e 20.12.2016). 12. Quanto, infine, alla richiesta di restituzione dei beni in sequestro, la stessa è inammissibile per rinuncia. In data 26 marzo 2024, come anticipato, è pervenuta memoria dell'Avv. Michele Tiengo cui è allegata l'ordinanza della Corte d'Appello di Milano del 12 gennaio 2024, che ha dichiarato l'efficacia immediata del provvedimento di dissequestro disposto dal Tribunale di Milano in data 22 giugno 2022, disponendo darsi corso all'esecuzione del provvedimento di restituzione agli aventi diritto. Il motivo è quindi inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse. 13. L'impugnata sentenza dev'essere, conclusivamente, annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte d'Appello di Milano per rivalutare la questione della proporzionalità complessiva del trattamento sanzionatorio, dovendosi, diversamente, dichiarare inammissibile, nel resto, il ricorso. Deve, per completezza, sul punto ricordarsi che l'annullamento con rinvio disposto dalla Corte di cassazione per motivi che non riguardano l'affermazione di responsabilità dell'imputato determina il passaggio in giudicato della sentenza sul punto e conseguentemente comporta che nel successivo giudizio di rinvio non decorrono ulteriormente i termini di prescrizione (da ultimo: Sez. 5, n. 51098 del 19/09/2019, Rv. 278050 - 01). P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata, limitatamente al trattamento sanzionatorio e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra Sezione della Corte d'Appello di Milano. Dichiara inammissibile il ricorso nel resto. Così deciso, l'11 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 5 luglio 2024.
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