RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 16 ottobre 2017 la Corte di Appello di Messina confermava la sentenza del 14 ottobre 2015 del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto con cui S.G.C. era stata condannata alla pena di un anno di reclusione in relazione al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4 per avere, quale legale rappresentante e socio accomandatario della società "Galassia s.a.s. di S.G.C. e C.", al fine di evadere le imposte sui redditi, indicato nella dichiarazione dei redditi presentata per il periodo di imposta 2009, elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, con conseguente imposta evasa pari a 196.513,87 Euro.
2. Contro la citata sentenza ha proposto ricorso S.G.C., mediante il proprio difensore, deducendo quattro motivi di impugnazione.
3. Il primo fa riferimento alla violazione di legge ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) con riguardo all'applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4 in quanto riferito ad una società in accomandita semplice oltre che al vizio di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione. La ricorrente ha dedotto che la corte di appello avrebbe erroneamente respinto la tesi difensiva per cui, ai fini della rilevanza penale della condotta - considerato che la società di riferimento consisterebbe in una accomandita semplice in ordine alla quale, in quanto società di persone, ai fini IRPEF i redditi prodotti sono imputati a ciascun socio pro quota e sono questi ultimi a dovere dichiarare, indipendentemente dalla effettiva percezione, il reddito di partecipazione in sede di redazione della loro dichiarazione dei redditi - si sarebbe dovuto avere riguardo alla quota di reddito imputabile ai fini fiscali ai singoli soci e non alla intera compagine societaria, avendo riguardo solo in tale prospettiva alla soglia di legge prevista per la punibilità del reato. Soglia che sarebbe risultata insuperata atteso che la ricorrente vanterebbe una quota di partecipazione societaria pari solo al 20%. La corte non avrebbe altresì illustrato le ragioni del mancato accoglimento della predetta doglianza.
4. Con il secondo motivo si deduce il vizio di violazione di legge ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e) per inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità in relazione all'art. 191 c.p.p., per avere la corte utilizzato un'annotazione contabile, riguardante le rimanenze della merce della società della S. al primo gennaio del 2009, in realtà inutilizzabile in quanto consegnata da un collaboratore dell'imputata in assenza di preventiva delega, nonchè quello di mancanza contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, per avere la corte omesso di adeguatamente motivare nella parte in cui ha ritenuto esistenti presunzioni gravi, precise e concordanti in ordine alla responsabilità della ricorrente pur in un presenza in un dato contabile sulle rimanenze di magazzino incerto e, al contempo, di documentazione di segno contrario acquisita agli atti del processo, con riguardo in particolare al valore delle rimanenze finali emergente dalla dichiarazione contenuta nel modello Unico 2010. Ulteriore vizio di motivazione discenderebbe dall'avere la corte aderito alle valutazioni del giudice tributario - non vincolanti e come tali richiedenti un maggiore sforzo motivazionale del collegio di secondo grado - anche esse fondate sul contestato dato contabile relativo alle giacenze del gennaio 2009.
5. Con il terzo motivo la ricorrente deduce il vizio ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) per mancata assunzione di una prova decisiva quale la perizia contabile richiesta ai sensi dell'art. 507 c.p.p..
6. Con il quarto motivo la ricorrente deduce l'inosservanza o erronea applicazione di legge penale o altre norme giuridiche in relazione alla L. n. 244 del 2007, art. 143 ed al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 5 oltre al vizio di mancanza contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione: la corte di appello avrebbe confermato la confisca per equivalente disposta nei confronti della ricorrente per l'intero ammontare della imposta evasa mentre in applicazione dell'art. 5 citato, essendo il reddito delle società semplici, in nome collettivo, in accomandita semplice, imputabile a ciascun socio indipendentemente dalla percezione e in proporzione alla sua quota di partecipazione agli utili, tale limitazione avrebbe imposto di circoscrivere la confisca all'ammontare di imposta evasa corrispondente alla quota di partecipazione agli utili della ricorrente, pari al 20%.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Occorre premettere che il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, nella formulazione previgente alla revisione del sistema sanzionatorio penale tributario di cui al D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158 (revisione del sistema sanzionatorio realizzata in attuazione della L. 11 marzo 2014, n. 23, art. 8, comma 1), prevedeva il reato tributario di dichiarazione infedele per la cui integrazione non era richiesta la sussistenza di una dichiarazione fraudolenta ma soltanto la presentazione di una dichiarazione infedele e, pertanto, la mera indicazione, anche senza l'uso di mezzi fraudolenti, di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo ed elementi passivi fittizi; il tutto nel ricorso delle altre condizioni ivi previste in relazione all'ammontare dell'imposta evasa e degli elementi attivi sottratti alla imposizione e, quindi, quando fossero superate le relative soglie di punibilità (Sez. 5, n. 36894 del 23/05/2013, Della Gatta, Rv. 257190).
2. Con il citato D.Lgs. n. 158 del 2015 è stata effettuata una scelta legislativa volta a ridisegnare il sistema sanzionatorio tributario in termini di minore rigore e di maggiori certezze per il contribuente, circoscrivendo l'area di intervento penale ai soli fatti connotati da un particolare disvalore, in maniera da scongiurare la creazione di "aree di rischio penale" per il contribuente correlate ad aspetti valutativi e comunque non connotati da frode, anche al fine di evitare che una tale area di rischio si possa tradurre in un disincentivo ad investimenti imprenditoriali in Italia. Da qui la ridefinizione della fattispecie tipica del delitto D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 4, secondo cui "1. Fuori dei casi previsti dagli artt. 2 e 3, è punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti, quando, congiuntamente: a) l'imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a Euro centocinquantamila; b) l'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, è superiore al dieci per cento dell'ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a Euro tre milioni. 1-bis. Ai fini dell'applicazione della disposizione del comma 1, non si tiene conto della non corretta classificazione della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali. 1-ter. Fuori dei casi di cui al comma 1-bis, non danno luogo a fatti punibili le valutazioni che singolarmente considerate, differiscono in misura inferiore al 10 per cento da quelle corrette. Degli importi compresi in tale percentuale non si tiene conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste dal comma 1, lettere a) e b).". In tal modo la condotta punibile, risolvendosi in falsità ideologiche prive di qualsiasi connotato fraudolento, si materializza: (1) nell'annotazione di componenti positivi del reddito per ammontare inferiore a quello reale (in sostanza, l'omessa annotazione di ricavi), (2) nell'indebita riduzione dell'imponibile tramite l'indicazione nella dichiarazione di costi inesistenti (e non più fittizi), ossia di componenti negativi del reddito mai venuti ad esistenza in rerum natura e (3) nelle sottofatturazioni, ovvero all'indicazione in fattura di un importo inferiore a quello reale, in maniera da consentire all'emittente il conseguimento di ricavi non dichiarati, atteso che il delitto di infedele dichiarazione aveva ed ha natura residuale rispetto ai delitti di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2 e 3 (Sez. 3, n. 28226 del 09/02/2016, Disparra, Rv. 267409); in tale quadro invero, il comma 3 dell'art. 3 (reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici) chiarisce che "ai fini dell'applicazione della disposizione del comma 1, non costituiscono mezzi fraudolenti la mera violazione degli obblighi di fatturazione e di annotazione degli elementi attivi nelle scritture contabili o la sola indicazione nelle fatture o nelle annotazioni di elementi attivi inferiori a quelli reali". In tal modo, il legislatore ha escluso la natura fraudolenta delle sottofatturazioni, ricomprese nel raggio della condotta punibile di cui al delitto ex art. 4 (Sez. 3, n. 30686 del 22/03/2017 Rv. 270294 - 01 Giannotte).
3. Tanto premesso, appare manifestamente destituito di fondamento il primo motivo di impugnazione secondo cui, in sostanza, la ricostruzione della fattispecie implicherebbe il riferimento alle quote di partecipazione di ciascun socio della società di persone, con conseguente frammentazione dell'imposta evasa ai fini della verifica del superamento innanzitutto della soglia di punibilità di Euro 150.000. Sul punto occorre precisare che per l'applicazione della fattispecie in esame e in particolare per l'individuazione del soggetto responsabile, occorre esaminare il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, comma 1, lett. c) ed e), che nel definire taluni concetti rilevanti nell'ambito della predetta disciplina, ha precisato che per dichiarazioni "si intendono anche le dichiarazioni presentate in qualità di amministratore, liquidatore o rappresentante di società, enti o persone fisiche o di sostituto di imposta nei casi previsti dalla legge" e "il fine di evadere le imposte ed il fine di sottrarsi al pagamento si intendono riferiti alle società, all'ente o alla persona fisica per la quale agisce". In tal modo si è inteso precisare che le norme incriminatrici trovano applicazione, oltre che in caso di coincidenza tra il soggetto attivo ed il contribuente persona fisica, anche nei confronti di chi opera nelle predette qualità così da essergli riferibile la dichiarazione dell'ente, laddove la finalità di evasione va intesa come riguardante anche il soggetto giuridico nel cui interesse si agisce. Va aggiunto che la fattispecie di cui all'art. 4 si incentra letteralmente sulla presentazione della dichiarazione annuale effettuata, nel caso in esame, dalla società, senza alcuna altra distinzione o specificazione, che, si noti bene, neppure compare in sede di definizione della nozione di "dichiarazione" e della finalità di "evasione", entrambe riferite semplicemente a "società, enti o persone fisiche", senza alcuna ulteriore distinzione "interna" agli enti.
3.1. Consegue che, con riguardo al tema di interesse, relativo a dichiarazione infedele presentata da chi amministri una società di persone e più in particolare dal socio accomandatario, la norma incriminatrice pone a carico di costui, nella veste rappresentativa così assunta e tale da imporre a suo carico l'obbligo dichiarativo, la condotta penalmente rilevante; con l'ulteriore portato della inevitabile valutazione unitaria, siccome riguardante la società di riferimento cui inerisce la dichiarazione, della imposta evasa, anche ai fini della verifica della soglia di punibilità. Del resto questa Corte ha avuto già modo di affermare che il reato D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 4 pur non integrando un reato proprio (in quanto realizzabile da chiunque) è commesso da "colui che inserisce all'interno della dichiarazione fiscale per l'anno di riferimento elementi passivi fittizi o comunque dati che rendono quella dichiarazione infedele" ed ha espressamente ricollegato il reato esclusivamente alla posizione di rappresentanza e gestione fiscale della società in accomandita semplice assunta dal socio, laddove ha precisato che "la sottoscrizione da parte di un socio amministratore di una società in nome collettivo non esonera automaticamente gli altri soci amministratori dalle responsabilità fiscali, occorrendo invece accertare in concreto se gli altri soci svolgano attività gestionali in quella specifica materia e quale sia l'apporto concorsuale penalmente rilevante nella gestione della materia fiscale da parte dell'altro (o altri) socio" (cfr. Sez. 3, n. 50201 del 28/04/2015 Rv. 265936 - 01 Barni.)
3.2. La correttezza della decisione giuridica in tema di configurabilità del reato D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 4 esclude ogni vizio di motivazione, pure dedotto nel motivo di impugnazione in esame, a fronte della pur sintetica risposta della Corte e comunque in ragione del principio per cui non sono denunciabili in cassazione vizi di motivazione della sentenza impugnata con riferimento ad argomentazioni giuridiche delle parti, in quanto, se il giudice ha errato nel non condividerle, si configura il diverso motivo della violazione di legge, mentre, se fondatamente le ha disattese, non ricorre alcuna illegittimità della pronuncia, anche alla luce della possibilità, per la Corte di cassazione, di correggere la motivazione del provvedimento ex art. 619 c.p.p. (cfr. Sez. 1, n. 49237 del 22/09/2016 (dep. 26/10/2017) Rv. 271451 - 01 Emmanuele). Inoltre in tema di motivazione in sede di impugnazione, il giudice non è obbligato a motivare in ordine al mancato accoglimento di istanze, nel caso in cui esse appaiano improponibili per genericità o per manifesta infondatezza (Sez. 3, n. 53710 del 23/02/2016 Rv. 268705 - 01 C.).
3.3. Da quanto sopra esposto in ordine alla esegesi del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4 ed alla sua operatività nei confronti dell'amministratore della società in quanto tale, con conseguente valutazione unitaria dell'imposta evasa, consegue l'inammissibilità anche del correlato quarto motivo di impugnazione (già proposto in sede di gravame), la cui analisi qui si anticipa, inerente la confisca disposta nei confronti della ricorrente sino alla somma equivalente alla imposta evasa. Invero, in rapporto di stretta coerenza con l'illustrata rilevanza, nell'ambito della fattispecie penale in esame, da una parte della presentazione di una dichiarazione fiscale con inserimento per l'anno di riferimento di elementi passivi fittizi o comunque di dati che rendono quella dichiarazione infedele, dall'altra della posizione di rappresentanza e gestione fiscale della società in accomandita semplice assunta dal socio, si pone anche il principio già affermato da questa Corte secondo cui in tema di reati tributari il sequestro preventivo per equivalente in funzione della confisca prevista dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 12-bis, può essere disposto, entro il limiti quantitativi del profitto, indifferentemente nei confronti di uno o più degli autori della condotta criminosa, non essendo ricollegato all'arricchimento personale di ciascun concorrente bensì alla corresponsabilità di tutti nella commissione del reato (cfr. sez. 3, n. 56451 del 05/12/2017 Rv. 273604 - 01 Maiorana).
4. Quanto al secondo motivo di impugnazione, va premesso che le due sentenze di merito integrano una fattispecie di cd. "doppia conforme" in presenza della quale "le sentenze di primo e di secondo grado si saldano tra loro e formano un unico complesso motivazionale, qualora i giudici di appello abbiano esaminato le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai fondamentali passaggi logico-giuridici della decisione e, a maggior ragione, quando i motivi di gravame non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione impugnata" (cfr. Sez.3, n. 13926 del 01/12/2011 Rv.252615 Valeri; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013 Argentieri). Dalla relativa lettura emerge che entrambi i giudici di merito hanno ricostruito l'ammontare dell'imponibile di riferimento mediante un attenta lettura di dati documentali da cui desumere innanzitutto le giacenze iniziali e finali di merci di magazzino: a partire dal libro giornale riferito alla fine del 2008, per passare ai mastrini e quindi alle documentazioni contabili (cfr. sentenza di primo grado), tra cui rientra anche una annotazione, esibite nel corso della verifica fiscale illustrata dal teste esaminato della Guardia di Finanza; così da pervenire ad una valore di merce di magazzino, per il gennaio 2009, pari a Euro 631.521,00, Con l'aggiunta di nuovi acquisti di merci pari a circa 520.000,00 Euro, e un saldo finale di merce pari a 275.301,00 Euro (cfr. sentenza di appello). Valutazioni che la corte di appello ha peraltro avuto cura di effettuare pur tenendo presente il cauto indirizzo giurisprudenziale nella valutazione delle differenze inventariali di magazzino, con riguardo a casi di vendite sottocosto, ritenendolo comunque inidoneo a spiegare uno scarto così elevato tra quanto dichiarato e quanto ricostruito, tanto più in assenza della produzione, da parte della ricorrente, del libro inventario e degli scontrini di chiusura giornaliera così come della prova di programmazioni di saldi
o vendite "in liquidazione" della merce. Nel contempo, gli stessi giudici a fronte di tale oggettivo compendio probatorio hanno sottolineato il carattere congetturale delle tesi difensive, evidenziando in particolare l'assenza di concreti supporti probatori di segno contrario anche solo in grado di fare ragionevolmente dubitare della predetta ricostruzione.
4.1. Si tratta di una ricostruzione coerente e logica, come tale corretta, a fronte della quale le prospettazioni difensive si riducono ad una mera quanto unilaterale diversa ricostruzione del merito, come tale inammissibile in questa sede.
4.2. Nè paiono fondate le ulteriori censure relative all'utilizzo di materiale probatorio: invero del tutto generica e quindi priva di specificità è la deduzione riguardante la pretesa inutilizzabilità di una annotazione contabile, peraltro neppure allegata al fine di dimostrarne l'iter acquisitivo contestato, descrittiva delle giacenze del 2009. Il ricorrente infatti, non ha specificato quale sia la norma impositiva del divieto assunto come violato nè tantomeno ha dimostrato, come già detto, il contestato processo acquisitivo dell'atto, laddove invece la documentazione utile a fini probatori non trova ostacolo nella qualità del soggetto che l'abbia fornita, assumendo rilievo piuttosto la pertinenza e significatività del dato, affidata alla valutazione di merito del giudice. Si tratta in proposito di tenere presente l'indirizzo di legittimità per cui il requisito della specificità dei motivi implica non soltanto l'onere di dedurre le censure che la parte intenda muovere in relazione ad uno o più punti determinati della decisione, ma anche quello di indicare, in modo chiaro e preciso, gli elementi che sono alla base delle censure medesime, al fine di consentire al giudice dell'impugnazione di individuare i rilievi mossi ed esercitare il proprio sindacato (così, tra le tante, Sez. 3, n. 5020 del 17/12/2009, Valentini, Rv. 245907, Sez. 4, n. 24054 del 01/04/2004, Distante, Rv. 228586; Sez. 2, n. 8803 del 08/07/1999, Albanese, Rv. 214249). Va anche aggiunto che la deduzione di inutilizzabilità della citata annotazione contabile è stata proposta per la prima volta in questa sede e che anche tale circostanza incide sulla inammissibilità della censura, atteso che non possono essere proposte per la prima volta nel giudizio di legittimità questioni di inutilizzabilità di una prova che richiedono, al di là del mero esame degli atti processuali, approfonditi accertamenti in fatto, che, come tali, sono di esclusiva competenza del giudice del merito (cfr. Sez. 6, Sentenza n. 43534 del 24/04/2012 Rv. 253798 - 01 Lubiana).
4.3. E' egualmente manifestamente infondato l'assunto per cui il giudice di secondo grado si sarebbe sostanzialmente limitato a recepire il giudizio negativo espresso nei confronti della ricorrente dalla commissione Tributaria, laddove al contrario la corte di appello ha solo aggiunto alla ricostruzione sopra illustrata il dato, confermativo, desumibile dal contenuto della citata sentenza.
5. Inammissibile è anche il terzo motivo di impugnazione, in relazione alla avanzata richiesta di perizia contenuta, invero con mero accenno, nel secondo motivo di gravame. In proposito occorre illustrare la tipologia del vizio che si deduce in ordine alla decisione impugnata, in relazione all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) (mancata assunzione di una prova decisiva quando la parte ne ha fatto richiesta a norma dell'art. 495 c.p.p., comma 2). Esso consiste in una sorta di error in procedendo, ravvisabile solamente quando la prova richiesta e non ammessa, confrontata con le argomentazioni formulate in motivazione a sostegno ed illustrazione della decisione, risulti tale che, se esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia: perchè si configuri deve cioè necessariamente sussistere la certezza della decisività della prova ai fini del giudizio e dell'idoneità dei fatti che ne sono oggetto ad inficiare le ragioni poste a base del convincimento manifestato dal giudice (cfr. in motivazione, Sez. 6, n. 14916 del 25/03/2010 Rv. 246667 - 01 Brustenghi; sez. 2, 16354/2006, rv. 234752, Maio; 2380/1995 rv. 200980).
Si è anche precisato che è altresì decisiva la prova che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante. (Sez. 4, Sentenza n. 6783 del 23/01/2014 Rv. 259323 - 01 Di Meglio).
La valutazione di siffatta decisività deve, quindi, essere compiuta accertando se i fatti indicati dal ricorrente nella relativa richiesta siano tali da potere inficiare tutte le argomentazioni poste a fondamento del convincimento del Giudice, per cui "il diritto della parte a vedersi ammettere prove contrastanti con l'accusa, la cui mancata assunzione è denunciabile con ricorso per Cassazione ex art. 606 c.p.p., lett. d) in relazione all'art. 495 c.p.p., comma 2 (o art. 603 c.p.p. in appello), va rapportato, per verificarne il fondamento alla concreta motivazione della sentenza impugnata" (cfr. in motivazione Sez. 6, n. 14916 Rv. 246667 cit.).
3.2. Le predette condizioni non emergono dall'impugnazione in questione che, ignorando le diverse asserzioni dei giudici di merito, si caratterizza per la non pertinenza con la fattispecie formalmente richiamata, trattandosi piuttosto di prova invocata più semplicemente ai sensi dell'art. 507 c.p.p. (cfr. secondo motivo di gravame), nonchè in ogni caso per l'assoluta assenza della illustrazione delle ragioni della decisività della prova invocata, ridotte alla affermazione della finalizzazione della perizia rivendicata verso la mera verifica della esistenza o meno della condotta contestata, in termini e secondo modalità non meglio illustrate. Cosicchè il motivo assume un carattere generico e meramente assertivo, come tale inammissibile.
6. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per la ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che la ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della ammenda di Euro 2000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 27 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2019