RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 19 novembre 2020 il Tribunale del riesame di Piacenza ha respinto la richiesta di riesame proposta da C.S. e C.F. contro il decreto di sequestro preventivo, emesso dal Giudice per le indagini preliminari presso il medesimo Tribunale in data 4 novembre 2020.
I predetti C. sono indagati per i delitti di cui agli artt. 81 cpv. e 110 c.p., art. 648 ter 1 c.p. e D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4 dal 2015 al 2019.
Avverso l'ordinanza del Tribunale del riesame hanno proposto distinti ricorsi per cassazione i difensori degli indagati, deducendo motivi per lo più sovrapponibili.
Nel ricorso a firma degli avv.ti, nell'interesse di C.S., sono stati dedotti i seguenti motivi:
1) violazione del D.Lgs n. 74 del 2000, art. 4, essendo stato ravvisato il fumus commissi delicti sulla base della sola sproporzione tra i beni e le dichiarazioni dei redditi del periodo 2015-2019, senza tuttavia alcuna indicazione delle specifiche dichiarazioni infedeli per le singole annualità, penalmente rilevanti perché contenenti elementi attivi sottratti all'imposizione fiscale ed imposte evase nella misura imposta dalla legge. Peraltro, non sarebbero stati indicati nemmeno i contribuenti che avrebbero presentato dichiarazioni infedeli, nonostante fossero coinvolti nelle indagini ben otto società e i due ricorrenti. Sarebbero stati confusi i pagamenti in contanti, riferiti dal socio R.G., con quelli in nero, pur essendovi diversità perché il contante diventa nero solo se viene occultato al fisco. Ricordato poi che il delitto di dichiarazione infedele si consuma quando, al fine di evadere l'Iva o le imposte sui redditi, in una delle dichiarazioni annuali, relative a tali imposte, siano indicati elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi negativi inesistenti, a condizione che l'imposta evasa sia superiore a 150.000,00 (100 milioni ex L. n. 157 del 2019), l'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, sia superiore al 10% dell'ammontare degli elementi attivi indicati o comunque superiore a 3.000.000 Euro (due milioni ex L. n. 157 del 2019), i ricorrenti hanno dedotto che nel caso in esame mancherebbe completamente l'elemento materiale del reato ovvero l'indicazione di una specifica dichiarazione annuale dell'Iva o delle imposte dirette, presentata nei singoli anni di imposta dalle 8 società e dai due fratelli C., in cui in ognuna delle dichiarazioni siano stati occultati ricavi ed evase imposte, nella misura prevista dalla legge.
2) violazione dell'art. 648 ter.1 c.p., per non essere stato considerato che l'assenza del fumus del reato presupposto esclude la configurabilità del reato di autoriciclaggio, che, inoltre, non può ritenersi esistente solo per il mero possesso di una ingente somma di denaro. Peraltro, il reato di autoriciclaggio non esisterebbe neanche in astratto, in quanto denaro, preziosi e orologi non costituirebbero il reimpiego, previsto dalla norma, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative;
3) violazione di legge e vizi della motivazione in relazione all'art. 240 bis c.p., non avendo il Tribunale del riesame dato risposta alla richiesta di restituzione della parte eccedente il profitto.
Nel ricorso a firma dell'avv. Wally Salvagnini, nell'interesse di C.F., oltre ai tre motivi esposti nel ricorso dell'altro ricorrente, si deducono - quale terzo motivo - vizi della motivazione, essendo stata trascurata la documentazione prodotta utile non solo a dimostrare la vaghezza della contestazione avanzata ma anche per dare conto delle modalità di risparmio del denaro da parte di C.F..
All'odierna udienza camerale, celebrata ai sensi dell'art. 127 c.p.p., si é proceduto al controllo della regolarità degli avvisi di rito; all'esito, questa Corte Suprema, riunita in camera di consiglio, ha deciso come da dispositivo in atti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono fondati.
1.1 I ricorrenti hanno dedotto, innanzitutto, che sarebbe apparente la motivazione dell'ordinanza impugnata in ordine alla sussistenza del fumus commissi delicti con riguardo ad entrambe le ipotesi di reato ascritte provvisoriamente.
Al riguardo giova ricordare che, in tema di provvedimenti cautelari reali, il ricorso per cassazione é consentito solo per violazione di legge ex art. 325 c.p.p. e che tale vizio ricomprende, secondo l'insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte, sia gli errores in iudicando o in procedendo, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l'apparato argomentativo, posto a sostegno del provvedimento, del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e, quindi, inidoneo a rendere comprensibile l'itinerario logico, seguito dal giudice (Sez. U. n. 25932 del 29/05/2008, Rv. 239692).
Si é chiarito che il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo, pur consentito solo per violazione di legge, é ammissibile quando la motivazione del provvedimento impugnato sia del tutto assente o meramente apparente, perché sprovvista dei requisiti minimi per rendere comprensibile la vicenda contestata e l'iter logico, seguito dal giudice nel provvedimento impugnato (Sez. 2, n. 18951 del 14/3/2017, Rv. 269656; Sez. 6, n. 6589 del 10/1/2013, Rv. 254893).
1.2 Siffatto vizio, dedotto dai ricorrenti, é riscontrabile nel provvedimento impugnato, in cui difetta una motivazione sufficiente a delineare il fumus di entrambi i delitti ascritti provvisoriamente agli indagati.
Come questa Corte ha già affermato (Sez. 5, n. 3722 dell'11/12/2019, Rv. 278152), il fumus commissi delicti per l'adozione di un sequestro preventivo, pur non dovendo integrare i gravi indizi di colpevolezza di cui all'art. 273 c.p.p., necessita comunque dell'esistenza di concreti e persuasivi elementi di fatto, quantomeno indiziari, i quali, pur tenendo conto della fase processuale iniziale, consentano di ricondurre l'evento punito dalla norma penale alla condotta dell'indagato.
Nel caso in esame ai ricorrenti é stato addebitato innanzitutto il reato di cui al D.Lgs n. 74 del 2000, art. 4, che si consuma quando, al fine di evadere l'Iva o le imposte sui redditi, in una delle dichiarazioni annuali, relative a tali imposte, siano indicati elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi negativi inesistenti, a condizione che l'imposta evasa sia superiore a 150.000,00 (100 milioni ex L. n. 157 del 2019), l'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, sia superiore al 10 % dell'ammontare degli elementi attivi indicati o comunque superiore a 3.000.000 Euro (due milioni ex L. n. 157 del 2019).
Nell'ordinanza impugnata, ricalcando il decreto di sequestro preventivo adottato dal Giudice per le indagini preliminari di Piacenza, il Collegio del riesame, dopo avere evidenziato che vi era sproporzione tra la ricchezza accumulata dai ricorrenti, comprendente "immobili, elevata liquidità, numerosi e costosi beni di lusso, autoveicoli di elevato valore", e i redditi dichiarati, ha rimarcato che la prassi del c.d. nero appariva essere una caratteristica delle attività commerciali degli indagati, come si desumeva da: - un quaderno rinvenuto in un locale di una delle società dei ricorrenti, in cui si registra una differenza di 14.000,00 Euro a settimana tra gli incassi ottenuti con pagamenti tracciabili e quelli non tracciabili, perché ricevuti in contanti; - dalle sommarie informazioni di due dipendenti, che avevano dichiarato che parte del compenso era corrisposto in nero; - dall'accertamento fiscale relativo all'anno 2014, che aveva appurato un reddito di impresa non dichiarato pari all'importo di Euro 208.690,22, di cui Euro 238.940,00 per ricavi non contabilizzati.
Tali elementi - ad avviso del Tribunale - deponevano per il superamento delle soglie di punibilità, da valutare con giudizio di verosimiglianza.
Siffatta motivazione é apparente.
Pur tenendo conto che il sequestro preventivo é stato disposto nella fase iniziale del procedimento, connotata da un quadro probatorio suscettibile di successivi approfondimenti nel prosieguo delle indagini, non può tuttavia sottacersi che nella motivazione del provvedimento impugnato difetta l'indicazione degli elementi di fatto idonei a sussumere la vicenda nell'ambito del delitto di dichiarazione infedele.
Ciò che il Tribunale del riesame ha posto in luce é la sproporzione tra i redditi dichiarati e le ricchezze accumulate dai ricorrenti ma tale elemento non può esaurire la valutazione strettamente necessaria al fine di ritenere sussistente il fumus commissi delicti nei termini sopra indicati.
Come censurato nei ricorsi, infatti, il delitto é solo genericamente enunciato, non avendo il Tribunale del riesame spiegato quali sono le dichiarazioni fiscali, oggetto del reato; né chi le ha presentate e a quali anni si riferiscono; né quali sarebbero i ricavi omessi e le imposte evase in relazione alle singole dichiarazioni, per i singoli periodi di imposta.
Né all'evidenza può valere la generica affermazione relativa al verosimile superamento delle soglie di punibilità, dovendosi, di contro, considerare - e dare conto di ciò in motivazione - che l'evasione fiscale può assumere rilevanza penale solo quando, per i singoli periodi di imposta e per i singoli contribuenti, gli elementi attivi sottratti superano i 2 milioni di Euro e le imposte evase superano i 150.000 di Euro.
Il difetto di argomentazioni su tali elementi rende la motivazione del provvedimento impugnato inidonea al fine della configurabilità del delitto di dichiarazione infedele, sia pure sul piano del fumus, richiesto per l'adozione del provvedimento cautelare reale.
Né , d'altra parte, il vuoto motivazionale dell'ordinanza impugnata può essere colmato facendo riferimento al decreto di sequestro preventivo, dalla cui lettura - quanto al reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4 - non emerge chiaramente quale sia il fumus commissi delicti, essendo tale provvedimento incentrato sull'indicazione dei beni rinvenuti nella disponibilità dei ricorrenti, definiti sproporzionati rispetto ai redditi dichiarati, e sulla rappresentazione dell'importo dell'imposta evasa "per una sola annualità ed in capo ad una singola attività dell'universo ristorativo dei C.", che sarebbe rappresentativa di "un indicatore medio di evasione di imposte, integrante la fattispecie delittuosa in esame". Ciò all'evidenza in contrasto con la previsione normativa, che esige che siano indicati i fatti integranti il delitto di dichiarazione infedele anno per anno e con specifico riferimento a ciascun contribuente, autore delle dichiarazioni infedeli in questione.
1.3 Anche il secondo motivo dei ricorsi é fondato.
Il fumus del reato di cui all'art. 648 ter.1 c.p. é stato genericamente rappresentato sia nell'ordinanza impugnata che nel decreto di sequestro preventivo, essendosi affermato che il possesso dei beni da parte degli indagati rappresenta "un significativo indizio del reinvestimento di capitali illeciti nell'acquisto di beni, al fine di ostacolarne l'identificazione e la provenienza delittuosa", così tuttavia operandosi una valutazione del tutto generica, per nulla rappresentativa degli elementi costitutivi del reato de quo.
Deve poi aggiungersi che la mancanza di motivazione sul fumus del delitto di dichiarazione infedele riverbera i suoi effetti anche sul reato di cui all'art. 648 ter.1 c.p., che postula l'esistenza del reato presupposto di dichiarazione infedele.
Giova poi ricordare che questa Corte ha già avuto modo di affermare che il mero possesso di un'ingente somma di denaro non può giustificare, in assenza di qualsiasi riscontro investigativo circa l'esistenza o meno di un delitto presupposto (o anche solo l'esistenza di relazioni con ambienti criminali, ovvero la precedente commissione di fatti di reato, o l'avvenuto compimento di operazioni di investimento comunque di natura illecita), l'elevazione di un'imputazione di riciclaggio (Sez. 2, n. 29074 del 22/5/2018, Ndoj, non massimata; Sez. 2, n. 26301 del 24/5/2016, Aslo, cit., richiamate da Sez. 2, n. 51200 del 29/10/2019, Rv. 278229).
1.4 Alla luce di quanto precede si impone l'annullamento dell'ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Piacenza, che, nell'effettuare il nuovo esame dei ricorsi, si atterrà ai principi sopra indicati.
1.5 Le ulteriori censure dei ricorsi restano assorbite.
P.Q.M.
Annulla l'ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Piacenza per nuovo esame.
Così deciso in Roma, nella udienza camerale, il 13 aprile 2021.
Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2021