RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza 10.02.2022, la Corte d'appello di Salerno ha confermato la sentenza 26.05.2020 del tribunale della stessa città, appellata da M.A., ritenuto responsabile del delitto di dichiarazione infedele (D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 4,) per aver indicato nella dichiarazione relativa al periodo di imposta 2014 elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, con IVA evasa pari ad Euro 254.028,00 e IRPEF evasa pari ad Euro 165.675,25, ed un ammontare complessivo di elementi attivi sottratti all'imposizione pari ad Euro 1.825.231,00, in relazione a fatti contestati come commessi in data 31.12.2015.
2. Avverso la sentenza impugnata nel presente procedimento, il predetto propone ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo cinque motivi, di seguito sommariamente indicati.
2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di violazione di legge processuale in quanto il giudizio di appello si sarebbe celebrato senza che l'imputato sia stato raggiunto da regolare notifica del decreto di citazione per il giudizio di appello.
In sintesi, si rileva che la citazione per il giudizio di appello sarebbe stata eseguita presso l'indirizzo di (Omissis) in (Omissis), non perfezionatasi perché, come risulta dalla relata di notifica negativa allegata al ricorso, "da informazioni assunte in loco lo stesso si è trasferito altrove". Si sarebbero dovute svolgere le attività di ricerca per poi depositare l'atto presso la casa comunale dove l'imputato ha l'abitazione; ove ciò fosse avvenuto, rispettando il disposto dell'art. 157, c.p.p., la notifica avrebbe potuto essere agevolmente eseguita, in quanto l'imputato dal 3.10.2017 risulta risiedere in (Omissis) a (Omissis), come risulta dal certificato di residenza storico allegato al ricorso.
La mancata verifica della regolarità della notifica, ritenendosi rituale quella eseguita ex art. 157, comma 8-bis, c.p.p. o ex art. 161, comma 4, c.p.p. presso il difensore di fiducia via PEC (tra l'altro eseguita in data 7.01.2022, ossia prima della relata di notifica negativa recante la data del 10.01.2022), inficerebbe il giudizio di appello. Ed invero, sarebbe irrituale ove la si ritenesse eseguita ex art. 157, comma 8-bis, c.p.p., in quanto all'ud. 18.07.2017 il difensore di fiducia aveva depositato la nomina in cui era espressamente indicata la non accettazione di notifiche successive spettanti all'imputato non detenuto, come risulta dall'allegato al ricorso. Sarebbe, inoltre, irrituale ove la si ritenesse eseguita ex art. 161, comma 4, c.p.p., non avendo l'imputato mai dichiarato od eletto domicilio, non risultando comunque dalla relata di notifica negativa alcuna impossibilità ad eseguire la notificazione come richiesto dalla citata norma processuale, essendovi solo l'indicazione di un "trasferimento altrove" dell'imputato.
2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 4, , laddove si conferma la responsabilità dell'imputato per il reato di dichiarazione infedele, a fronte di una specifica doglianza con cui si invocava l'insussistenza di tale reato e correlato vizio di motivazione quanto alla richiesta di quantificazione delle imposte asseritamente evase alla luce della produzione della cartella esattoriale in cui si individuavano importi tali da non superare le soglie di punibilità previste dall'art. 4 citato, e per la contraddittorietà della stessa in riferimento all'applicabilità del comma 1-bis, dell'art. 4 citato.
In sintesi, si premette che secondo la Corte d'appello i dubbi sulla sussistenza del reato sarebbero stati superati dal rinvio "per relationem" alla sentenza di primo grado e da argomentazioni che non avrebbero affrontato le censure dell'atto di appello. In particolare, i giudici di merito avrebbero fondato le proprie convinzioni in ordine alla sussistenza del reato esclusivamente valutando il contenuto materiale della dichiarazione fiscale depositata per l'anno di imposta 2014 che non conteneva alcun dato contabile, riportando solo i dati identificativi del contribuente. Diversamente, richiamando quanto dedotto con il primo motivo di appello, la difesa si duole per non aver i giudici di merito tenuto conto delle argomentazioni difensive in ordine alla sussistenza di operazioni passive documentate che risultavano invece pacificamente dalla comunicazione annuale dati IVA inviata nel marzo 2015 dal professionista delegato, Dott. D.G., da cui emergeva che gli elementi attivi dichiarati corrispondevano esattamente a quelli oggetto di contestazione (1.825.231,00 Euro), risultando tuttavia elementi passivi tali da generare un credito di imposta pari a 191.035,00 Euro. Quanto sopra sarebbe confermato dalle dichiarazioni del teste D.F., il quale avrebbe confermato che nel corso delle attività di indagine era emerso che le operazioni passive documentate ed annotate risultavano essere pari ad 1.424.055,76 con IVA pari a 313.035,97 Euro, aggiungendo che ove il contribuente avesse esercitato il diritto di detrarre l'IVA sicuramente non sarebbero stati superati i limiti previsti, in quanto l'imputato sarebbe "andato a credito". A fronte di tali prove dichiarative, i giudici di merito avrebbero quindi confermato la sentenza di primo grado, senza tuttavia considerare che il teste di PG aveva affermato che per addivenire alla quantificazione degli elementi attivi asseritamente evasi, era stata utilizzata proprio la comunicazione annuale IVA, senza tener dunque in considerazione le doglianze difensive con cui si invitava la Corte d'appello a valutare la circostanza che tale comunicazione fosse stata ritenuta rilevante ai fini fiscali dalla Guardia di Finanza al fine di redigere il PVC nonché la notizia di reato, laddove proprio la valutazione della predetta comunicazione avrebbe consentito di escludere la rilevanza penale del fatto.
Con la dedotta doglianza di vizio motivazionale, poi, la difesa si duole per aver omesso i giudici di merito di esercitare il proprio potere/dovere di verificare le somme oggetto di presunta evasione. I giudici, si ribadisce, non avrebbero valorizzato gli elementi passivi risultanti dalla comunicazione annuale IVA inoltrata dal contribuente, né gli elementi passivi individuati dall'organo accertatore che, ove considerati, avrebbero condotto alla declaratoria di insussistenza del reato per mancato superamento delle soglie di punibilità. Sul punto sarebbe mancata qualsiasi motivazione, nonostante l'allegazione ai motivi di appello della copia dell'e/c desunto dal cassetto fiscale recante i dati della cartella esattoriale n. 75000 e, soprattutto, della produzione in udienza della copia della versione emessa formalmente dall'ufficio, relativa all'accertamento e conseguente liquidazione della dichiarazione relativa all'anno di imposta 2014, che individuava una violazione IVA per 145.314,00 Euro ed IRPEF di 14.308,00 Euro, importi che non superavano la soglia di punibilità prevista dal D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 4,. Non si sarebbe pertanto tenuto conto, nella quantificazione dell'imposta evasa ai fini del calcolo della soglia di punibilità, delle allegazioni difensive, nella specie corroborate dalla Guardia di Finanza, che aveva rilevato la sussistenza degli elementi passivi. Si censura, inoltre, la motivazione della Corte territoriale laddove non ha ritenuto di condividere le doglianze difensive in ordine alla mancata applicazione del comma 1-bis dell'art. 4 citato, ritenendo non riconducibile il caso alla disposizione evocata. Diversamente, evidenzia la difesa, i giudici di merito avrebbero omesso di considerare quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 24142/2021, di cui si riporta uno stralcio della motivazione.
2.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di motivazione nella parte in cui si assume la sussistenza dell'elemento psicologico richiesto per il delitto in esame.
In sintesi, si duole la difesa per avere la Corte d'appello ritenuto infondata la doglianza difensiva in ordine all'insussistenza del dolo specifico normativamente richiesto, sul presupposto che la dichiarazione infedele sarebbe stata conseguenza di problemi interni alla ditta, mancando la contabilità, come confermato dalla c.t.p., doglianza quest'ultima che tuttavia non sarebbe stata formulata. Diversamente, sottolinea la difesa, i giudici di appello avrebbero eluso l'obbligo motivazionale rispetto alla censura dell'atto di appello in cui si poneva in dubbio l'esistenza del dolo specifico alla luce del comportamento assolutamente inspiegabile dell'imputato che, pur potendo andare a credito IVA, avrebbe deciso di far depositare (laddove in realtà il deposito sarebbe stato curato dal professionista delegato di sua iniziativa), una dichiarazione macroscopicamente infedele. Richiamato il motivo di appello e la deposizione del teste di PG, si evidenzia come l'imputato non avrebbe avuto alcun interesse a depositare una dichiarazione dei redditi priva di importi, laddove sarebbe bastato ricopiare i dati presenti nella comunicazione Iva, non essendovi peraltro prova che egli avesse concordato con il proprio consulente fiscale l'inoltro della dichiarazione priva dei dati. Sul punto, l'assenza di qualsiasi motivazione da parte della Corte d'appello circa gli elementi a sostegno del dolo specifico, ne inficerebbe il costrutto argomentativo.
2.4. Deduce, con il quarto motivo, il vizio di violazione di legge e correlato vizio di mancanza di motivazione sotto il profilo della motivazione apparente, quanto alla riduzione della pena nel minimo edittale e alla richiesta di riduzione delle circostanze attenuanti generiche nella massima estensione.
In sintesi, si duole la difesa del mancato accoglimento dell'ulteriore richiesta difensiva di riduzione della pena nel minimo edittale nonché in ordine al riconoscimento della riduzione seguente alle attenuanti generiche nella massima estensione. Quest'ultima istanza sarebbe stata rigettata in base al solo riferimento all'importo sottratto all'imposizione tributaria, laddove invece il danno subito dall'Erario sarebbe stato pari all'imposta evasa pari ad Euro 419.703,25, di gran lunga inferiore a quello sottratto all'imposizione, del resto essendo stato chiesto dall'Agenzia delle Entrate all'imputato il pagamento di un importo con cartella esattoriale pari a 189.678,86. A ciò andrebbe aggiunto il fatto che nulla direbbe la motivazione circa le ragioni per le quali la pena irrogata non potesse muovere dal minimo edittale, o comunque da una base inferiore rispetto a quella individuata dal tribunale, ossia 2 anni di reclusione, a fonte di una pena applicabile, trattandosi di fatti anteriore alla riforma del 2019, da 1 a 3 anni.
2.5. Deduce, con il quinto motivo, il vizio di violazione di legge e correlato vizio di mancanza assoluta della motivazione in relazione alla richiesta di conversione della pena L. n. 689 del 1981 ex art. 53,.
In sintesi, la difesa si duole da ultimo per il rigetto della richiesta di applicazione delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, formulata nell'atto di appello, ritenendo ostativa la conversione in pena pecuniaria, senza tuttavia motivare in ordine alle ragioni per le quali non fosse possibile convertire la pena detentiva inflitta con altre sanzioni sostitutive, tanto più che la pena inflitta avrebbe consentito la conversione nella semidetenzione, sussistendone i requisiti soggettivi ed oggettivi. Non essendo stata richiesta con l'atto di appello, di cui si riporta uno stralcio, la conversione nella pena pecuniaria, la sentenza sarebbe sul punto illegittima e priva di motivazione.
3. Il Procuratore Generale presso questa Corte ha depositato in data 28.11.2022 la propria requisitoria scritta con cui ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità del ricorso.
In particolare, il P.G. rileva:
a) quanto al primo motivo, che il domicilio nel quale era stata tentata la notifica era stato dichiarato, dovendosi quindi applicare il principio secondo cui, in caso di impossibilità ad eseguire la notificazione al domicilio dichiarato o eletto, l'ufficiale giudiziario non ha alcun potere o dovere di procedere ad accertamenti volti a rintracciare il nuovo domicilio del destinatario, potendo, per contro, effettuare direttamente la notifica a mani del difensore (Sez. V, n. 15643/2020), tenendo presente che l'impossibilità della notificazione al domicilio eletto, che ne legittima l'esecuzione presso il difensore secondo l'art. 161 c.p.p., comma 4, può essere integrata anche dalla temporanea assenza dell'imputato al momento dell'accesso dell'ufficiale notificatore, senza che sia necessario procedere ad una verifica di vera e propria irreperibilità, così da qualificare come definitiva l'impossibilità di ricezione degli atti nel luogo eletto dall'imputato, considerato l'onere incombente su quest'ultimo, una volta avvisato della pendenza di un procedimento a suo carico, di comunicare ogni variazione dell'iniziale elezione di domicilio" (Sez. U, n. 58120/2017);
b) quanto al secondo motivo, parte a), che la "comunicazione annuale dati IVA" è stata istituita del D.P.R. n. 7 dicembre 2001 n. 435 art. 9 con l'inserimento dell'art. 8-bis DP.R. n. 633/1972, poi abrogato dall'art. 1, comma 641, lett. d), L. 23 dicembre 2014, n. 190, con efficacia a decorrere dalla dichiarazione relativa all'imposta sul valore aggiunto dovuta per il 2016; che per la norma, fermi restando "gli obblighi previsti dall'art. 3 relativamente alla dichiarazione unificata e dall'art. 8 relativamente alla dichiarazione I.V.A. annuale e... la rilevanza attribuita alle suddette dichiarazioni anche ai fini sanzionatori", il contribuente doveva "presentare entro il mese di febbraio di ciascun anno, una comunicazione dei dati relativi all'imposta sul valore aggiunto riferita all'anno solare precedente, redatta in conformità al modello approvato con provvedimento amministrativo da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale"; che nel modello di comunicazione approvato dall'Agenzia delle Entrate con Provv. 17/01/2011, applicabile "ratione temporis", erano previste, nella sezione seconda l'indicazione dei "dati relativi alle operazioni effettuate" e nella sezione terza la "determinazione dell'Iva dovuta o a credito";
che lo stesso ricorrente deduce di non aver esercitato il diritto alla detrazione dell'Iva a credito; che D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19 dopo aver previsto, al comma 1, che ai fini della "determinazione dell'imposta dovuta a norma del comma 1 dell'art. 17 o dell'eccedenza di cui al comma 2 dell'art. 30, è detraibile dall'ammontare dell'imposta relativa alle operazioni effettuate, quello dell'imposta assolta o dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell'esercizio dell'impresa, arte o professione", fissa il momento di insorgenza del diritto alla detrazione dell'imposta, il termine di decadenza dal suo esercizio e le condizioni di indetrai-bilità; che quindi, l'esistenza di un credito Iva incide sulla determinazione dell'imposta dovuta solo se il diritto alla detrazione sia correttamente esercitato, poiché il contribuente ha la facoltà di non portare in detrazione il credito d'imposta senza perdere il diritto al credito maturato, del quale può ottenere il rimborso mediante specifica istanza, presentata entro il termine biennale di cui al D.Lgs. n. 31 dicembre 1992, n. 546'art. 21; che è pertanto irrilevante la (peraltro genericamente) dedotta detraibilità del credito Iva, non a caso non prevista tra gli elementi previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 4 comma 1-bis;
c) quanto al secondo motivo, parte b), che ai fini del mancato superamento della soglia di punibilità gli elementi passivi non considerati in sede di accertamento e dal giudice di appello vengono genericamente invocati;
d) quanto al terzo motivo, che viene riproposta la questione della mancanza del dolo specifico di evasione, a fronte di una motivazione non manifestamente illogica o contraddittoria;
e) quanto al quarto motivo, che il trattamento sanzionatorio ed il diniego della massima estensione della riduzione per le generiche sono stati congruamente argomentati con riferimento alla specificità della fattispecie;
f) quanto al quinto motivo, che la mancanza dei requisiti per l'applicazione delle pene sostitutive, non è stata affermata solo riguardo alla conversione della pena, ma anche per ogni altra sanzione sostitutiva, senza specifica contestazione.
4. Con richiesta depositata telematicamente in data 3.10.2022 l'Avv. Luigi Condoluci ha chiesto la trattazione orale del ricorso, accolta con provvedimento del Presidente titolare in data 13.10.2022.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso - trattato in presenza a seguito della richiesta, accolta, di discussione orale ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, e successive modifiche ed integrazioni - è fondato in relazione all'ultimo motivo, dovendo, nel resto, essere rigettato.
2. AI fine di meglio lumeggiare le ragioni che hanno condotto questa Corte al rigetto dei motivi afferenti alla responsabilità penale del ricorrente, soprattutto alla luce delle censure di vizio motivazionale proposte, appare opportuno un inquadramento della vicenda processuale.
Nell'anno 2016, il Gruppo della Guardia di Finanza di Eboli eseguiva nei confronti della ditta individuale "Technnania di M.A." un controllo di mutua assistenza richiesto dai collaterali organi esteri in relazione a delle operazioni in-tracomunitarie. Nel visionare la documentazione fiscale richiesta all'impresa durante il controllo, gli operanti della G.d.F. constatavano che nella dichiarazione dei redditi presentata dal contribuente, in relazione all'anno di imposta 2014, non erano state riportate le operazioni attive conseguite ed i ricavi conseguiti. Conseguentemente, veniva ordinata l'apertura di una verifica fiscale ai fini IVA ed imposte dirette per contestare l'omessa dichiarazione di queste operazioni. Veniva richiesta all'impresa, quindi, l'esibizione dei registri contabili e della documentazione contabile a sostegno. Nell'ambito di tale verifica fiscale, gli ufficiali di P.G. accertavano che, pur a fronte di ricavi effettivamente conseguiti dall'impresa individuale, il M. non aveva indicato tali ricavi nella dichiarazione fiscale dell'anno di imposta 2014. Precisamente, le operazioni attive da cui erano derivati i predetti ricavi erano state già comunicate all'amministrazione finanziaria dalla stessa impresa, tramite la c.d. comunicazione fiscale annuale dati IVA (che però non ha valore di dichiarazione fiscale), nella quale, da un lato, le operazioni attive rilevanti ai fini IVA venivano indicate e quantificate in Euro 1.825.231,00, dall'altro, le operazioni passive rilevanti ai fini IVA venivano indicate e quantificate in Euro 3.235.390,00. Tuttavia, a fronte di queste operazioni attive/passive comunicate direttamente dalla stessa impresa individuale, il M. presentava un Modello Unico Persone Fisiche 2015, relativo all'anno di imposta 2014, nel quale non veniva indicata alcuna operazione attiva e/o ricavo percepito, limitandosi a compilare soltanto i quadri VA e VB della dichiarazione fiscale, dove però erano inseriti semplicemente i dati identificativi del contribuente. In buona sostanza, nella dichiarazione fiscale dell'anno di imposta 2014, il M. dichiarava di non aver percepito alcun reddito, diversamente da quanto egli stesso aveva già precedentemente comunicato all'amministrazione finanziaria con la comunicazione fiscale annuale ai fini IVA, in cui le operazioni attive rilevanti dell'impresa individuale venivano da lui medesimo indicate e quantificate complessivamente in Euro 1.825.231,00.
Dall'esame dei registri e delle scritture contabili obbligatorie esibite, inoltre, la G.d.F. appurava che, in realtà, di queste ultime operazioni attive già comunicate dall'impresa individuale, pari ad Euro 1.825.231,00, non tutte erano state regolarmente fatturate e registrate. Più in particolare, dall'esame delle fatture di vendita rinvenute ed esibite, risultavano operazioni attive non fatturate per un importo totale di Euro 912.042,28. Pertanto, a fronte di tale omessa indicazione delle operazioni attive nel Modello Unico Persone Fisiche 2015, pari ad Euro 1.825.231,00, gli operanti della G.d.F. accertavano, per l'anno di imposta 2014, un'imposta IVA evasa pari ad Euro 254.028,00 ed un'imposta IRPEF evasa pari ad Euro 165.675,25. Conseguentemente, risultando l'imposta evasa superiore ad Euro 150.000,00 per ciascuna imposta, ed essendo l'ammontare degli elementi attivi sottratti all'imposizione superiore al 10% dell'ammontare di quelli indicati in dichiarazione (nella quale non era stato indicato alcun elemento attivo), la G.d.F. deferiva il M. all'Autorità Giudiziaria competente in ordine al reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000art. 4. Quanto al profilo degli elementi oggettivi, veniva riconosciuta come "di palmare evidenza" (pag. 9 sentenza Trib. Salerno) che il M. presentava all'amministrazione finanziaria competente una dichiarazione fiscale infedele in relazione all'anno d'imposta 2014, non indicando in essa alcuna operazione attiva, mentre le operazioni attive da lui realmente effettuate ammontavano concretamente ad Euro 1.825.231,00, importo certamente superiore al 10% dell'ammontare delle operazioni attive dichiarate (che nella specie era pari a Euro zero), da cui derivava un'imposta evasa IVA pari ad Euro 254.028,00 ed imposta IRPEF evasa pari ad Euro 165.675,25, entrambe dunque superiori alla soglia di punibilità di Euro 150.000,00. Quanto al profilo soggettivo del reato, per i giudici di merito era poi evidente che il M. si rappresentava e voleva tutti gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice (quali, la falsa dichiarazione con la mancata indicazione del reddito, la conseguente imposta evasa, il superamento delle soglie di punibilità) ed agiva con la chiara intenzione e finalità, quindi con dolo specifico, di evadere le predette imposte (IVA ed IRPEF), evento che si verificava in concreto ed a cui lo stesso soggetto agente non poneva alcun rimedio, neanche con condotta successiva al reato, entro i termini e con le modalità previste dalla legge.
Tenuto conto delle peculiari modalità della condotta, della totale assenza dell'indicazione di operazioni attive nella dichiarazione fiscale, pur avendole già quantificate e comunicate in precedenza all'Amministrazione Finanziaria tramite la comunicazione annuale IVA, e considerato il rilevante importo del danno cagionato all'Erario (circa 419.703.25 Euro), il Tribunale di Salerno non riteneva di poter riconoscere all'imputato la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.); riteneva però possibile riconoscere le circostanze attenuanti generiche (art. 62-bis c.p.), valorizzando il comportamento collaborativo in udienza, nonché l'assenza di precedenti penali.
3. In data 8.06.2020, la difesa dell'imputato proponeva tuttavia appello avverso la sentenza n. 978/2020 emessa il 26.05.2020 dal Tribunale di Salerno, Seconda Sezione Penale, in composizione monocratica con cui l'imputato veniva condannato alla pena di anni 1 e mesi 6 di reclusione, sanzioni accessorie e confisca dei beni D.Lgs. n. 74 del 2000 ex art. 12-bis, pena sospesa, chiedendo (1) riforma della sentenza perché il fatto non sussiste; (2) riforma della sentenza perché il fatto non costituisce reato con richiesta ex art. 603 c.p.p. di rinnovazione del dibattimento; (3) applicazione dell'art. 47 c.p.; (4) attenuanti generiche, minimo della pena, applicazione di sanzioni sostitutive.
In data 10.02.2022, la Corte di Appello di Salerno confermava la sentenza del Tribunale di Salerno, appellata dall'imputato, che condannava alle spese anche del grado di appello. Si evidenziava come, quanto al merito della decisione di primo grado di condanna dell'imputato in ordine al reato di "Dichiarazione infedele" previsto dall'art. 4, D.Lgs. n. 74 del 2000 descritto in imputazione, fossero integralmente condivisibili sia l'analitica ricostruzione dei fatti, che l'ampia motivazione poste a fondamento della decisione oggetto di impugnazione, resa in aderenza alle risultanze processuali legittimamente acquisite nel contraddittorio tra le parti, e pertanto pienamente utilizzabili da parte del Giudice di primo grado, ad esse riportandosi per relationem. In particolare, il primo motivo di appello (1) veniva ritenuto infondato e, quindi, rigettato: risultava accertato inequivocabilmente (e, a sua volta, l'accertamento veniva ritenuto adeguatamente motivato), che M.A., quale titolare della ditta individuale "Techmania di M.A.", al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, aveva effettivamente indicato nella dichiarazione relativa al periodo di imposta 2014 elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo (con un'imposta IVA evasa pari ad Euro 254.028,00 ed imposta IRPEF evasa pari ad Euro 165.675,25 ed un ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione pari ad Euro 1.825.231,00. Per quanto riguarda il secondo motivo di appello (2), con il quale si invocava la riforma della sentenza perché il fatto non costituisce reato, con richiesta ex art. 603 c.p.p. di rinnovazione del dibattimento, anche in questo caso si ritenevano apprezzabili elementi di infondatezza e veniva anch'esso rigettato, sul presupposto che le argomentazioni difensive, di natura logico-deduttiva, sulla de-cisività del supplemento istruttorio nulla aggiungevano al coacervo di indagini, tali attività probatorie non risultando necessarie ai fini della decisione (e non potendosi, quindi, ragionevolmente parlare del necessario carattere di "novità" dell'elemento istruttorio addotto). Quanto al terzo motivo di appello (3), con cui si invocava l'applicazione dell'art. 47 c.p., sostenendo in particolare che l'imputato, nonostante avesse affidato ad un professionista il compito di provvedere alla presentazione della dichiarazione, sarebbe stato indotto in errore dalla complessità della normativa tributaria e dalla regolarità della dichiarazione dei redditi relativa all'anno di imposta precedente (dovendosi invece parlare, in caso di mancata conoscenza da parte dell'operatore professionale, della norma tributaria posta alla base della violazione contestata, di errore sul precetto, che non esclude il dolo ai sensi dell'art. 5 c.p., salvo che sussista un'obiettiva situazione di incertezza sulla portata applicativa della norma fiscale extra-penale, tale da rendere l'ignoranza inevitabile), venivano raggiunte le stesse conclusioni di infondatezza. Così anche per il quarto motivo di appello (4), relativo alla richiesta di una maggiore riduzione della pena per effetto dell'avvenuto riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, il minimo della pena e l'applicazione delle sanzioni sostitutive previste dall'art. 53 della L. n. 689 del 1981, sul presupposto che il Giudice di primo grado avesse correttamente e motivatamente diminuito il trattamento sanzionatorio, che già scontava il riconoscimento delle attenuanti generiche (oltre ad un poco chiaro, per motivi che si spiegheranno, approfondimento sul beneficio della conversione della pena detentiva in pecuniaria). La Corte di Appello di Salerno, dunque, concludeva per la conferma della sentenza appellata, rigettando tutti i motivi proposti dalla difesa dell'imputato in sede di appello.
4. Tanto premesso, è possibile quindi procedere all'esame dei singoli motivi di ricorso, evidenziando sin d'ora che lo stesso deve considerarsi meritevole di accoglimento esclusivamente in relazione alla richiesta di conversione della pena ai sensi dell'art. 53, L. n. 689 del 1981, laddove la pena finale irrogata (1 anno e 6 mesi di reclusione) risulta astrattamente idonea alla sostituzione con la sanzione alternativa della semidetenzione (quantomeno nella versione ancora vigente, in attesa dell'entrata in vigore delle modifiche introdotte dalla riforma "Cartabia", per il momento non ancora in vigore a seguito del D.L. 31 ottobre 2022, n. 162).
5. Con il primo motivo di ricorso si deduce, infatti, la violazione dell'art. 606, lett. c), c.p.p. (inosservanza di norma processuale prevista a pena di nullità), in quanto il giudizio di appello si sarebbe celebrato senza che l'imputato sia stato raggiunto da regolare notifica del decreto di citazione per il giudizio di appello stesso.
Al fine di risolvere la questione risulta decisiva la verifica operata sul se l'imputato abbia eletto o dichiarato domicilio. Nel caso in esame, avendo fatto questa Corte doverosamente accesso gli atti processuali in quanto giudice del fatto (Sez. U, sentenza n. 42792 del 31/10/2001 - dep. 28/11/2001, Policastro, Rv. 220092 - 01) agli atti risulta la residenza in (Omissis) per quanto riguarda il procedimento di primo grado, così come attesta anche l'epigrafe della sentenza del Tribunale di Salerno.
Si è poi proceduto alla verifica se la relativa eccezione fosse stata dedotta davanti alla Corte d'Appello, controllando i verbali delle udienze tenutesi davanti alla Corte stessa, ma, anche per quanto riguarda questo aspetto, dai verbali di udienza (in particolare, quello del 18.07.2017) non risulta alcuna comunicazione di variazione della residenza. A tal proposito, risulta utile ricordare che "il domicilio dichiarato, il domicilio eletto e ogni loro mutamento sono comunicati dall'imputato all'autorità che procede, con dichiarazione raccolta a verbale ovvero mediante telegramma o lettera raccomandata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da una persona autorizzata o dal difensore" (comma 1, art. 162 c.p.p., rubricato "Comunicazione del domicilio dichiarato o del domicilio eletto") e che "finché l'autorità giudiziaria che procede non ha ricevuto il verbale o la comunicazione, sono valide le notificazioni disposte nel domicilio precedentemente dichiarato o eletto" (comma 4, art. 162 c.p.p.).
Nel caso in esame, come risulta anche dal Certificato di Residenza Storico del 14.06.2022 (allegato n. 2 al ricorso), la residenza dell'imputato era mutata già nel 2017 (rectius, il 03.10.2017), da (Omissis) a (Omissis). Tuttavia, nessuna comunicazione risulta agli atti e nemmeno dai verbali di udienza (in particolare, quello del 18.07.2017 di fronte al Tribunale di Salerno) l'imputato risulta aver segnalato la variazione di residenza. Eppure, già dal 30.11.2017 (come da raccomandata A/R allegata al ricorso) quest'ultimo risultava, quale destinatario della nota della Agenzia delle Entrate n. (Omissis) (munita di autografa sottoscrizione), già utilizzare il nuovo indirizzo ((Omissis)) in luogo del precedente ((Omissis)). Fa, infatti, propendere per questa interpretazione anche la presenza, tra gli allegati al ricorso, della citata "Richiesta copia degli atti propedeutici all'emissione della cartella esattoriale n. (Omissis)" da parte di Agenzia delle Entrate in data 23.03.2021, che rappresenta una possibile occasione per accorgersi che la variazione doveva essere comunicata anche alle autorità procedenti già nel 2017. Operazione questa, tuttavia, che non risulta essere mai stata fatta.
In giurisprudenza, risulta utile richiamare anche il principio secondo cui "in caso di impossibilità ad eseguire la notificazione al domicilio dichiarato o eletto, l'ufficiale giudiziario non ha alcun potere o dovere di procedere ad accertamenti volti a rintracciare il nuovo domicilio del destinatario, potendo, per contro, effettuare direttamente la notifica a mani del difensore" (Sez. 5, sentenza n. 15643 del 13/12/2019 - dep. 21/05/2020, Forte), tenendo presente che "l'impossibilità della notificazione al domicilio eletto, che ne legittima l'esecuzione presso il difensore, secondo l'art. 161 c.p.p., comma 4, può essere integrata anche dalla temporanea assenza dell'imputato al momento dell'accesso dell'ufficiale notificatore, senza che sia necessario procedere ad una verifica di vera e propria irreperibilità, così da qualificare come definitiva l'impossibilità di ricezione degli atti nel luogo eletto dall'imputato, considerato l'onere incombente su quest'ultimo, una volta avvisato della pendenza di un procedimento a suo carico, di comunicare ogni variazione dell'iniziale elezione di domicilio" (su cui Sez. U., sentenza n. 58120 del 22/06/2017 - dep. 29/12/2017, Tuppi, Rv. 271772 - 01). Al riguardo vi è anche lo specifico dictum di questa Corte, che ha già in diverse occasioni avuto modo di affermare che, "in caso di impossibilità ad eseguire la notificazione al domicilio dichiarato o eletto, l'ufficiale giudiziario non ha alcun potere o dovere di procedere ad accertamenti volti a rintracciare il nuovo domicilio del destinatario, potendo, per contro, effettuare direttamente la notifica a mani del difensore", in particolare valutando correttamente effettuata la notifica a mani del difensore, essendosi l'imputato trasferito altrove, secondo quanto attestato dall'ufficiale notificatore, senza darne comunicazione ai sensi dell'art. 161 c.p.p. e risultando ancora formalmente residente al precedente indirizzo comunicato (per cui si veda Sez. 4, sentenza n. 36479 del 04/07/2014 - dep. 01/09/2014, Ebbole, Rv. 260126 - 01).
Nel concreto caso in esame, peraltro, già fin dalla sentenza di primo grado (pag. 2 sentenza Trib. Salerno) si dà atto della "regolarità della notifica nei confronti dell'imputato", peraltro venendo dichiarata la sua assenza ai sensi dell'art. 420-bis, comma 2, c.p.p. (ibidem): si riporta addirittura come, in data 26.05.2020, "l'imputato si (era) sottoposto ad esame" (per cui si veda pag. 2 sentenza Trib. Salerno, ciò peraltro rappresentando una ulteriore - qualora ancora si mettesse in dubbio che l'obbligo di notifica sia stato adempiuto correttamente occasione per segnalare/comunicare il cambio di residenza nel frattempo intervenuto).
Il motivo è pertanto inammissibile.
6. Con il secondo motivo di ricorso (trattato unitariamente), si contesta (a) violazione per erronea applicazione di legge penale ex art. 606, lett. b), c.p.p., nella parte in cui si conferma la responsabilità dell'imputato per la violazione dell'art. 4, D.Lgs. n. 74 del 2000 a fronte di specifica doglianza con la quale si invocava l'insussistenza dell'ipotesi delittuosa e (b) correlato vizio di motivazione con violazione dell'art. 606, lett. e), c.p.p. per mancanza di motivazione in ordine alla richiesta di quantificazione delle imposte asseritamente evase alla luce della produzione di cartella esattoriale nella quale si individuavano importi tali da non superare le soglie di punibilità previste dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, nonché per contraddittorietà della stessa in riferimento all'applicabilità del comma 1-bis del citato art. 4.
In sostanza, secondo il ricorrente, non si sarebbe potuto ritenere configurabile il reato solo basandosi sulla dichiarazione presentata, che infatti non conteneva dati contabili, in quanto si sarebbe invece dovuto tener conto della comunicazione annuale IVA 2015, relativa al periodo di imposta 2014, che riportava i dati corretti e da cui emergeva un credito IVA, con conseguente mancato raggiungimento della soglia di punibilità prevista per il delitto di cui all'art. 4.
6.1. In questa prospettiva, il caso è assai simile a quello trattato da Cass., Sez. 3, sentenza n. 23810 del 08/04/2019 - dep. 29/05/2019, Versaci, Rv. 275993 - 01, per cui "il delitto di dichiarazione infedele, previsto dall'art. 4 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, integra un reato istantaneo che si perfeziona al momento della presentazione della dichiarazione annuale, non rilevando l'eventuale presentazione di una successiva dichiarazione integrativa" e in cui la linea difensiva era sostanzialmente la stessa (la dichiarazione era stata presentata "a zero" per non incorrere nel delitto di omessa dichiarazione ex art. 5; mancava il dolo specifico). Nel nuovo art. 4, nonostante le modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 158 del 2015, la struttura della condotta è rimasta infatti inalterata, fatta eccezione per la sostituzione del termine "fittizi" con "inesistenti". Ciò comporta, quindi, che, a differenza di quanto stabilito per le fattispecie di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2 e 3, per il delitto di dichiarazione infedele, il legislatore ha inteso circoscrivere la rilevanza penale alla sola presentazione della dichiarazione "annuale". Le dichiarazioni prese in considerazione dalla norma sono, dunque, solo la dichiarazione annuale in tema di imposta sul reddito delle persone fisiche e delle persone giuridiche che i soggetti sono obbligati a presentare ai sensi del D.P.R. n. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 1 e 6, e la dichiarazione annuale relativa all'imposta sul valore aggiunto disciplinata dal D.P.R. n. 22 luglio 1998, n. 322, art. 8. Sono escluse invece tutte le altre tutte le altre dichiarazioni fiscali presenti nel nostro ordinamento.
6.2. Quanto al momento consumativo, non v'e' dubbio che il delitto in esame integri un reato istantaneo, poiché si intende perfezionato con la presentazione della dichiarazione annuale infedele, non rilevando ai fini della integrazione dell'illecito la circostanza che i dati fossero ricavabili da altri documenti, quali la comunicazione annuale IVA.
In questa situazione, tuttavia, risultano applicabili i principi fissati dalla citata decisione della Cassazione Sez. 3, sentenza n. 23810 del 08/04/2019 - dep. 29/05/2019, Versaci, Rv. 275993 - 01, corroborata da altri precedenti non mas-simati (conformi anche Sez. 3, sentenza n. 27967 del 19/04/2017 - dep. 06/06/2017, Pmt in proc. Trapani, non massimata, p. 8 ((in cui si afferma che "quanto al momento consumativo, infatti, non v'e' dubbio che il delitto in esame integri un reato istantaneo, poiché si intende perfezionato con la presentazione della dichiarazione annuale infedele, non rilevando ai fini della consumazione la circostanza dell'eventuale presentazione integrativa, poiché il dies a quo ai fini del calcolo del termine di prescrizione del reato dovrà intendersi decorrente dalla data della presentazione della prima dichiarazione. Trattasi di principio già affermato da questa Corte (Sez. 3, sentenza n. 40618 del 03/07/2013 - 10/10/2013, Ferra-rin, non massimata) - cui questo Collegio intendere dare continuità, anche in considerazione della mancata modifica ad opera della "novella" del 2015 della fattispecie penale in esame sul punto della natura "annuale" della dichiarazione - che, in una fattispecie analoga alla presente in cui una dichiarazione del 2004 (infedele) era stata "corretta" con una dichiarazione integrativa nel 2007, nel ribadire che il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 4, è di natura istantanea e si consuma con la presentazione della dichiarazione annuale relativa ad una delle imposte indicate nel D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 4, ha ulteriormente precisato che "alcuna rilevanza assume, ai fini della integrazione del reato, la successiva dichiarazione integrativa effettuata anni dopo" (nella specie, in data 15/06/2007)); Sez. 3, sentenza n. 40618 del 03/07/2013 - dep. 01/10/2013, Ferrarin, non massimata, Ss).
6.3. Dunque, pacifico che il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000art. 4 si è configurato in capo al ricorrente già al momento della presentazione della dichiarazione infedele (cioè quella relativa al periodo di imposta 2014, contenuta nel Modello Persone Fisiche 2015, più precisamente il 31.12.2015). Le argomentazioni difensive in ordine all'omessa considerazione della comunicazione annuale IVA 2015, relativa al periodo di imposta 2014 (documento questo che, ad avviso della difesa, riporterebbe i dati corretti e da cui effettivamente emergerebbe un credito IVA) devono ritenersi prive di pregio. Peraltro, la comunicazione annuale dati IVA e il modello Redditi PF (Persone Fisiche ex Unico) sono due documenti con struttura, finalità e presupposti diversi, rappresentando altresì informazioni finanziarie a livello fiscale estremamente differenti. Il modello Redditi PF (Persone Fisiche ex Unico) è il modello ordinario di dichiarazione dei redditi; si tratta di un modello tramite il quale è possibile effettuare più dichiarazioni fiscali. La comunicazione, invece, è costituita da un modello, estremamente semplificato, sul quale il contribuente deve sostanzialmente riportare l'indicazione complessiva delle risultanze delle liquidazioni periodiche per determinare l'IVA dovuta o a credito, senza tener conto delle eventuali operazioni di rettifica e di conguaglio.
A ciò va. aggiunto, poi, quanto correttamente dedotto dal PG nella sua requisitoria, ossia: a) che la "comunicazione annuale dati IVA" è stata istituita dal D.P.R. n. 7 dicembre 2001 n. 435 art. 9 con l'inserimento dell'art. 8-bis DP.R. n. 633/1972, poi abrogato dall'art. 1, comma 641, lett. d), L. 23 dicembre 2014, n. 190, con efficacia a decorrere dalla dichiarazione relativa all'imposta sul valore aggiunto dovuta per il 2016; b) che per la norma, fermi restando "gli obblighi previsti dall'art. 3 relativamente alla dichiarazione unificata e dall'art. 8 relativamente alla dichiarazione I.V.A. annuale e... la rilevanza attribuita alle suddette dichiarazioni anche ai fini sanzionatori", il contribuente doveva "presentare entro il mese di febbraio di ciascun anno, una comunicazione dei dati relativi all'imposta sul valore aggiunto riferita all'anno solare precedente, redatta in conformità al modello approvato con provvedimento amministrativo da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale"; c) che nel modello di comunicazione approvato dall'Agenzia delle Entrate con Provv. 17/01/2011, applicabile "ratione temporis", erano previste, nella sezione seconda l'indicazione dei "dati relativi alle operazioni effettuate" e nella sezione terza la "determinazione dell'Iva dovuta o a credito"; d) che lo stesso ricorrente deduce di non aver esercitato il diritto alla detrazione dell'Iva a credito; e) che D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19 dopo aver previsto, al comma 1, che ai fini della "determinazione dell'imposta dovuta a norma del comma 1 dell'art. 17 o dell'eccedenza di cui al comma 2 dell'art. 30, è detraibile dall'ammontare dell'imposta relativa alle operazioni effettuate, quello dell'imposta assolta o dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell'esercizio dell'impresa, arte o professione", fissa il momento di insorgenza del diritto alla detrazione dell'imposta, il termine di decadenza dal suo esercizio e le condizioni di indetraibilità; f) che quindi, l'esistenza di un credito Iva incide sulla determinazione dell'imposta dovuta solo se il diritto alla detrazione sia correttamente esercitato, poiché il contribuente ha la facoltà di non portare in detrazione il credito d'imposta senza perdere il diritto al credito maturato, del quale può ottenere il rimborso mediante specifica istanza, presentata entro il termine biennale di cui all'art. 21 del D.Lgs. n. 31 dicembre 1992, n. 546; g) che è pertanto irrilevante la (peraltro genericamente) dedotta detraibi-lità del credito Iva, non a caso non prevista tra gli elementi previsti dal comma 1-bis dell'art. 4 del D.Lgs. n. 74 del 2000.
6.4. La soglia di punibilità prevista per il delitto di cui all'art. 4 e', dunque, da ritenersi superata a tutti gli effetti, così come correttamente rilevato da entrambi i Giudici di merito.
Occorre chiedersi, peraltro, se, dovendosi tener conto della dichiarazione fiscale presentata ai fini della integrazione del delitto, ciò non escluda però, che ai fini della determinazione del quantum dell'imposta evasa, rilevante ai fini della rilevanza penale dell'illecito (considerato che la dichiarazione infedele "sottosoglia" è sanzionata solo amministrativamente), il giudice non possa, ma anzi debba, tener conto di tutti gli elementi acquisiti al fine di verificare il superamento della predetta soglia.
Ed allora trova applicazione il principio, già consolidato in giurisprudenza di legittimità, che il reato di dichiarazione infedele è integrato, dopo le modifiche al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, introdotte dal D.Lgs. n. 5 agosto 2015, n. 158, oltre che dalla condotta di annotazione di componenti positivi del reddito in misura inferiore a quella reale (con superamento della soglia di evasione di imposta), anche dalle condotte di indebita riduzione dell'imponibile con l'indicazione di costi inesistenti (e non più fittizi), e di sottofatturazione, non assumendo rilievo, nella valutazione sulla divergenza dei valori indicati, la sola mera violazione dei criteri di competenza e di inerenza di ricavi e di costi oggettivamente esistenti (Sez. 3, n. 30686 del 22/03/2017 - dep. 20/06/2017, Giannotte, Rv. 270294 - 01).
Nel caso qui in esame, si legge (in particolare il Tribunale di Salerno, pagg. 4-5 sentenza Trib. Salerno) che "nel visionare la documentazione fiscale richiesta all'impresa durante il controllo, gli operanti della G.d.F. constatavano che nella dichiarazione dei redditi presentata dal contribuente, in relazione all'anno di imposta 2014, non erano state riportate le operazioni attive conseguite ed i ricavi conseguiti" e che "nell'ambito di tale verifica fiscale, gli ufficiali di P.G. accertavano che, pur a fronte di ricavi effettivamente conseguiti dall'impresa individuale, il M. non aveva indicato tali ricavi nella dichiarazione fiscale dell'anno di imposta 2014. Precisamente, "le operazioni attive da cui erano derivati i predetti ricavi erano state già comunicate all'amministrazione finanziaria dalla stessa impresa, tramite la c.d. comunicazione fiscale annuale dati IVA (che però non ha valore di dichiarazione fiscale), nella quale, da un lato, le operazioni attive rilevanti ai fini IVA venivano indicate e quantificate in Euro 1.825.231,00, dall'altro, le operazioni passive rilevanti ai fini IVA venivano indicate e quantificate in Euro 3.235.390,00. Tuttavia, a fronte di queste operazioni attive/passive comunicate direttamente dalla stessa impresa individuale, il M. presentava un Modello Unico Persone Fisiche 2015, relativo all'anno di imposta 2014, nel quale non veniva indicata alcuna operazione attiva e/o ricavo percepito, limitandosi a compilare soltanto i quadri VA e VB della dichiarazione fiscale, dove però erano inseriti semplicemente i dati identificativi del contribuente. In buona sostanza, nella dichiarazione fiscale dell'anno di imposta 2014, il M. dichiarava di non aver percepito alcun reddito, diversamente da quanto egli stesso aveva già precedentemente comunicato all'amministrazione finanziaria con la comunicazione fiscale annuale ai fini IVA, in cui le operazioni attive rilevanti dell'impresa individuale venivano da lui medesimo indicate e quantificate complessivamente in Euro 1.825.231,00" (cfr. pag. 4 sentenza Trib. Salerno).
Dall'esame dei registri e delle scritture contabili obbligatorie esibite, inoltre, la G.d.F. appurava che, in realtà, di queste ultime operazioni attive già comunicate dall'impresa individuale, pari ad Euro 1.825.231,00, non tutte erano state regolarmente fatturate e registrate. Più in particolare, dall'esame delle fatture di vendita rinvenute ed esibite, risultavano operazioni attive non fatturate per un importo totale di Euro 912.042,28. Pertanto, a fronte di tale omessa indicazione delle operazioni attive nel Modello Unico Persone Fisiche 2015, pari ad Euro 1.825.231,00, gli operanti della G.d.F. accertavano, per l'anno di imposta 2014, un'imposta IVA evasa pari ad Euro 254.028,00 ed un'imposta IRPEF evasa pari ad Euro 165.675,25. In buona sostanza, nella dichiarazione fiscale dell'anno di imposta 2014, il M. dichiarava di non aver percepito alcun reddito, diversamente da quanto egli stesso aveva già precedentemente comunicato all'Amministrazione Finanziaria con la comunicazione fiscale annuale ai fini IVA, in cui le operazioni attive rilevanti dell'impresa individuale venivano da lui medesimo indicate e quantificate complessivamente in Euro 1.825.231,00. Conseguentemente, risultando l'imposta evasa superiore ad Euro 150.000,00 per ciascuna imposta, ed essendo l'ammontare degli elementi attivi sottratti all'imposizione superiore al 10% dell'ammontare di quelli indicati in dichiarazione (nella quale, lo si ricorda ancora, non era stato indicato alcun elemento attivo), appare assolutamente priva di contraddizioni e logicamente coerente la motivazione offerta dalla Corte di Appello in ordine al reato di cui all'art. 4 del D.Lgs. n. 74 del 2000, più in particolare escludendo l'operatività della causa di non punibilità prevista dal comma 1-bis del D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 4,.
6.5. Applicando il principio di legittimità prima citato al caso in questione, non si è di fronte a un caso di "non corretta classificazione di elementi attivi oggettivamente esistenti, effettuati in violazione dei criteri di competenza, inerenza e indeducibilità" (la cui integrazione avrebbe consentito l'applicabilità della causa di non punibilità prevista dal D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 4, comma 1-bis): si ricorda ancora una volta, infatti, che nella dichiarazione fiscale dell'anno di imposta 2014, il M. dichiarava di non aver percepito alcun reddito, diversamente da quanto egli stesso aveva già precedentemente comunicato all'Amministrazione Finanziaria con la comunicazione fiscale annuale ai fini IVA, in cui le operazioni attive rilevanti dell'impresa individuale venivano da lui medesimo indicate e quantificate complessivamente in Euro 1.825.231,00.
Vero è che la giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, sentenza n. 781 del 28/10/2021 - dep. 13/01/2022, Scarnà, n. m.), vi è un indirizzo interpretativo, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui, nei reati tributari, "spetta esclusivamente al giudice penale il compito di determinare l'ammontare dell'imposta evasa, da intendersi come l'intera imposta dovuta e non versata in base a una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dal giudice tributario, non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria" (Sez. 3, sentenza n. 50157 del 27/09/2018 - dep. 07/11/2018, Fiusco, Rv. 275439 - 01). Peraltro, sempre in tema di reati tributari, si è precisato che "il giudice, per determinare l'ammontare dell'imposta evasa, deve effettuare una verifica che, pur non potendo prescindere dalle specifiche regole stabilite dalla legislazione fiscale per quantificare l'imponibile, risente delle limitazioni derivanti dalla diversa finalità dell'accertamento penale e dalle regole che lo governano, con la conseguenza che occorre tenere conto dei costi non contabilizzati solo in presenza, quanto meno, di allegazioni fattuali, da cui desumere la certezza o, comunque, il ragionevole dubbio della loro esistenza" (Sez. 5, sentenza n. 40412 del 13/06/2019 - dep. 02/10/2019, Tirozzi, Rv. 277120 - 01; Sez. 3, sentenza n. 8700 del 16/01/2019 - dep. 28/02/2019, Hermann, Rv. 275856 - 01) fermo restando che, quanto, poi, alla configurabilità dei reati in materia di IVA, che rilevava nel caso concreto, è stato precisato che la determinazione della base imponibile, e della relativa imposta evasa, deve avvenire solo sulla base dei costi effettivamente documentati, con la conseguenza che occorre tenere conto dei costi non contabilizzati solo in presenza (quanto meno) di allegazioni fattuali, da cui desumere la certezza o comunque il ragionevole dubbio della loro esistenza. Per tale ragione coglie nel segno l'osservazione del PG sul punto, il quale ha evidenziato come, ai fini del mancato superamento della soglia di punibilità, gli elementi passivi non considerati in sede di accertamento e dal giudice di appello vengono dal ricorrente solo genericamente invocati.
6.6. In definitiva, l'eccezione difensiva circa la mancata applicazione del comma 1-bis, dell'art. 4 non è stata accolta per le puntuali ragioni evidenziate dalla Corte di Appello alle pagg. da 8 ad 11 della sentenza oggetto di impugnazione. La Corte di Appello, infatti, ricorda che "il comma 1-bis del citato art. 4 prevede che ai fini dell'applicazione della disposizione del comma 1, non si tenga conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati siano stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza, della non inerenza, e della non deducibilità di elementi passivi reali", tale non potendo considerarsi "la dichiarazione annuale IVA inviata per conto del contribuente, prodotta dalla difesa del M. nel corso del processo di primo grado" (spec. pag. 8 sentenza Corte App. Salerno).
All'interno del comma 1-bis possono infatti distinguersi due diverse categorie giuridiche: da un lato, il riferimento alla "non corretta classificazione", alla "violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza", alla "non inerenza" e alla "non deducibilità di elementi passivi reali"; dall'altro, il riferimento alla "valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali". In altre parole, il Legislatore ha inteso enumerare una congerie di elementi negativi del fatto tipico e poi anche trasferire, all'interno dell'art. 4, la causa di non punibilità prima prevista al D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 7 (ora abrogato). Delle due categorie appena menzionate, solo la prima compone il fatto tipico del reato, poiché gli elementi elencati concorrono alla determinazione del disvalore che il Legislatore ha inteso sanzionare penalmente.
Una volta riconosciuta dunque la natura eterogenea della disposizione di cui al comma 1-bis, potendo dunque declinarsi diverse conformazioni dei rapporti fra la stessa e la disposizione di cui al comma 1, a seconda della differente categoria di esimenti di volta in volta rilevanti (peraltro rilevando come l'interpretazione adottata sia in linea con la Relazione illustrativa al D.Lgs. n. 158 del 2015 che ha introdotto al D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 4, il nuovo comma 1-bis, ove, a pag. 3, può leggersi come scopo della riforma sia stato quello di "escludere la rilevanza penale delle operazioni di ordine classificatorio", categoria cui possono essere ricondotte tutte le esclusioni annoverate al comma 1-bis, ad eccezione, proprio, delle sole valutazioni). In proposito, la Corte di Appello di Salerno afferma, con motivazione immune dai denunciati vizi, che "facendo applicazione di tali criteri ermeneutici alla fattispecie in esame, è opinione di questa Corte che le caratteristiche proprie dell'istituto della causa di non punibilità previste dal comma 1-bis del citato art. 4 siano ravvisabili solo nell'ipotesi di "valutazioni" i cui criteri siano indicati nel bilancio o in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, dotate dunque di un elemento speculare e valutativo non ravvisabile nei documenti prodotti dalla Difesa nel corso del giudizio di prime cure" (pag. 10, sentenza Corte App. Salerno).
7. Con il terzo motivo di ricorso viene poi dedotta violazione dell'art. 606, lett. e), c.p.p. per vizio di motivazione desumibile dal testo del provvedimento impugnato, nella parte in cui assume la sussistenza dell'elemento psicologico richiesto per la perpetrazione del delitto in imputazione.
Quanto alla presunta assenza di dolo specifico, occorre tenere in conto che il delitto di dichiarazione infedele è un reato a dolo specifico consistente nel "fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto": in altri termini, è necessaria una coscienza e volontà con riferimento alla indicazione di costi fittizi o alla omessa indicazione di ricavi.
I Giudici hanno, dunque, desunto indiziariamente la sussistenza del dolo specifico sulla base degli elementi descritti a pagg. 8-11 della sentenza di appello, facendo coerente applicazione del principio secondo cui "anche in presenza di reati a dolo specifico, la sussistenza della cosciente e volontaria direzione finalistica dell'atto (nella specie, il fine di evadere le imposte), può essere desunta anche da una pluralità di indizi quanto questi siano gravi, precisi e concordanti" (per un'applicazione di tale principio Sez. 3, sentenza n. 55485 del 16/10/2018 - dep. 12/12/2018, Puglisi e altro, n. m.; Sez. 6, sentenza n. 10917 del 17/09/1992 -dep. 12/11/1992, Maggiorani ed altro, Rv. 192880 - 01; Sez. 3, sentenza n. 12537 del 29/01/2015 - dep. 25/03/2015, R, Rv. 263000 - 01).
Nel caso di specie, la Corte di Appello di Salerno rammenta, infatti, che "alle imposte infedelmente dichiarate il M. non ha mai adempiuto, né al momento della dichiarazione dei redditi per cui si è proceduto, né successivamente" (pag. 8 sentenza Corte App. Salerno). Risultava palese, peraltro, che la presentazione di una dichiarazione pari "a zero" rendeva evidente (senza bisogno di ulteriori e particolari accertamenti) la consapevolezza dell'imputato dell'infedeltà dichiarativa: a fronte, dunque, dell'affermazione difensiva secondo cui "l'imputato non avrebbe presentato una dichiarazione infedele volutamente al fine di evadere, ma vi sarebbe stato costretto a seguito di problemi interni alla ditta, mancando la contabilità" (pag. 11 sentenza Corte App. Salerno), la Corte di Appello coerentemente richiama l'elemento per cui "risulta evidente il fine di evasione delle imposte a fronte della dichiarazione di un reddito imponibile accertato dall'Amministrazione Finanziaria come non veritiero, posto che detta dichiarazione effettivamente sottraeva al fisco il reale imponibile, e posto che, peraltro, il contribuente (...) non abbia mai provveduto successivamente a pagare le imposte essendo comunque irrilevanti le vicende patrimoniali della ditta di cui l'imputato è titolare che avrebbero inciso sulla presentazione della dichiarazione infedele" (pagg. 11-12 sentenza Corte App. Salerno).
L'"intento di evadere le imposte" (che deve essere valutato al momento della consumazione del reato, ossia al momento della presentazione della dichiarazione essendo irrilevante la circostanza che tali dati fossero contenuti nella comunicazione annuale IVA), emergeva, infatti, all'evidenza a fronte della dichiarazione di un reddito "a zero", incredibile nel suo ammontare, posto che detta dichiarazione sottraeva al Fisco il reale imponibile, già indicato nella comunicazione annuale IVA, senza che peraltro risulti una qualche forma di resipiscenza da parte del contribuente (che non ha mai provveduto successivamente a pagare le imposte, essendosi limitato a documentare l'intervenuta notifica della cartella esattoriale, essendo ciò elemento valutabile proprio per la configurabilità del dolo specifico: Sez. 3, sentenza n. 16469 del 28/02/2020 - dep. 29/05/2020, Rv. 278966).
8. Con il quarto motivo di ricorso viene dedotta l'erronea applicazione della legge penale ex art. 606, lett. b), c.p.p., rectius motivazione meramente apparente, in relazione alla riduzione della pena nel minimo edittale e sulla richiesta delle circostanze attenuanti generiche nella massima estensione.
Il motivo appare, tuttavia, complessivamente generico in quanto aspeci-fico, evitando di contrapporre argomenti idonei a disarticolare il ragionamento del Giudice di Appello. A fronte, infatti, della motivazione della sentenza oggetto di impugnazione, che afferma che "il Giudice di prime cure ha infatti correttamente e motivatamente diminuito il trattamento sanzionatorio non nella massima estensione possibile, in considerazione del rilevante importo sottratto all'imposizione tributaria, pari ad Euro 1.825.231,00, di guisa che non può essere accolta la richiesta difensiva di un'ulteriore diminuzione di pena per effetto dell'estensione dell'incidenza sul quantum sanzionatorio delle circostanze attenuanti generiche e così un'ulteriore diminuzione della pena irrogata in concreto, che non fonda peraltro su alcun specifico elemento" (pag. 15, sentenza Corte App. Salerno), la difesa si limita a rilevare (1) come il danno all'Erario sia minore di quello che il Giudice di Appello ha stimato (al riguardo, tuttavia, 419.703,25 Euro appaiono comunque un danno di consistenti proporzioni, stante il fatto che il Giudice di Appello non sembra aver confuso, né sovrapposto i concetti di "importo sottratto all'imposizione tributaria" (pari a Euro 1.825.231,00) e di "danno erariale" (di circa 420.000 appunto) e (2) che lo stesso Giudice poteva aver riguardo ad un trattamento san-zionatorio che partisse dal minimo edittale, senza tuttavia addurre argomenti in grado di incrinare la solida struttura argomentativa della sentenza sul punto.
In giurisprudenza, ulteriormente, anche a confutazione della doglianza relativa al vizio di motivazione c.d. apparente in ordine alla mancata riduzione di pena nella massima misura possibile, valga menzionare l'orientamento giurisprudenziale secondo cui in tema di riconoscimento di circostanze attenuanti generiche ex art. 62-bis c.p. "la mancata concessione delle attenuanti generiche nella massima estensione di un terzo non impone al giudice di considerare necessariamente gli elementi favorevoli dedotti dall'imputato, sia pure per disattenderli, essendo sufficiente che nel riferimento a quelli sfavorevoli di preponderante rilevanza, ritenuti ostativi alla concessione delle predette attenuanti nella massima estensione, abbia riguardo al trattamento sanzionatorio nel suo complesso, ritenendolo congruo rispetto alle esigenze di individualizzazione della pena, ex art. 27 Cost." (Sez. 2, sentenza n. 17347 del 26/01/2021 - 05/05/2021, Angelini Daniele alias "Cuppino", Rv. 281217 - 01).
9. Con il quinto e ultimo motivo di ricorso, infine, si deduce erronea applicazione della legge penale ex art. 606, lett. b), c.p.p. e mancanza assoluta di motivazione ex art. 606, lett. e), c.p.p. in relazione alla richiesta di conversione della pena ai sensi dell'art. 53, L. n. 689 del 1981.
In relazione a tale ultimo motivo di ricorso, il preliminare controllo sul relativo motivo di appello (pag. 11 atto di appello) per verificare se effettivamente la richiesta di conversione ex art. 53, L. n. 689 del 1981 fosse generica (e non invece limitata alla sola sanzione sostitutiva pecuniaria della multa) mostra che la richiesta è stata fatta in termini estesi dalla difesa: la motivazione della Corte d'appello non è perciò corretta sul punto, considerato che si concentra solo sulle ragioni che giustificano il diniego della conversione della pena detentiva in pena pecuniaria (si confrontino le pagg. 15-16 sentenza Corte App. Salerno, in cui si statuisce che "facendo riferimento a tali parametri (ndr, art. 133 c.p.), questa Corte ritiene che sia la gravità del fatto ad impedire la sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria"), laddove, invece, la pena finale irrogata di 1 anno e 6 mesi di reclusione, avrebbe consentito la conversione con la sanzione sostitutiva della semide-tenzione (almeno nella versione ancora vigente, in attesa dell'entrata in vigore delle modifiche introdotte dalla riforma "Cartabia", per il momento non ancora in vigore a seguito del decreto L. 31 ottobre 2022, n. 162).
E' noto, infatti, che l'art. 53 della L. n. 689 del 1981, disponendo che "il giudice, nel pronunciare sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi dell'art. 444 del codice di procedura penale, quando ritiene di dover determinare la durata della pena detentiva entro il limite di quattro anni, può sostituire tale pena con quella della semilibertà o della detenzione domiciliare; quando ritiene di doverla determinare entro il limite di tre anni, può sostituirla anche con il lavoro di pubblica utilità (...)", consente al giudice di rapportare le esigenze del caso concreto ad una maggiore elasticità del tipo punitivo, consentendo di sostituire, entro determinati limiti edittali, la pena detentiva con altra misura alternativa. Nel caso in esame, più specificamente, è da notarsi come la difesa dell'imputato formula la richiesta di applicazione di misura alternativa in modo estremamente ampio, tale da ricomprendere tutte le opzioni che lo stesso art. 53 offre al Giudice (pag. 11 atto di appello 08.06.2020, "la Corte potrà prevedere l'applicazione della sanzione sostitutiva prevista dall'art. 53 della L. n. 689 del 1981 corrispondente alla pena finale applicata all'imputato" (infine, chiedendo, senza alcun obbligo per il Giudice, la concessione, se la pena si fosse contenuta entro 1 anno di reclusione, della libertà controllata).
Quest'ultimo, tuttavia, nella motivazione resa in sede di appello (pag. 16 sentenza Corte App. Salerno), parlando di "invocato beneficio della conversione della pena detentiva in pena pecuniaria", considera la gravità del fatto come elemento principale volto "ad impedire la sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria", evidentemente travisando l'oggetto di contestazione. Infatti, la condanna alla reclusione di anni 1 e mesi 6 avrebbe consentito astrattamente al Giudice di valutare la sostituzione di tale pena detentiva con la sanzione sostitutiva della semidetenzione, tenuto peraltro conto che la stessa pena è stata condizionalmente sospesa (e ciò non osta alla valutazione imposta dall'art. 53, L. n. 689 del 1981: Sez. 2, sentenza n. 46757 del 26/09/2018 - deo. 15/10/2018, Rv. 274082).
10. Esulando, peraltro, dai poteri della Corte di Cassazione detta valutazione, che comporta un apprezzamento di fatto, si impone il conseguente necessario rinvio alla Corte di Appello di Napoli per nuovo giudizio sul punto.
Non è infatti possibile per questa Corte procedere direttamente, ai sensi dell'art. 620 lett. I) c.p.p., alla sostituzione della pena, non essendosi il giudice di merito espresso sulla sussistenza delle condizioni legittimanti la sostituzione, né sull'insussistenza delle condizioni ostative di legge (cfr, in termini, la già cit. Cass., n. 46757/2018).
11. L'impugnata sentenza dev'essere pertanto annullata, limitatamente alla richiesta di conversione della pena detentiva con la sanzione sostitutiva corrispondente, con rinvio per nuovo giudizio sul punto alla Corte d'appello di Napoli, competente in sede di rinvio in caso di annullamento delle decisioni della Sezione unica della Corte d'appello di Salerno, dovendosi nel resto rigettare il ricorso.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla richiesta di conversione della pena detentiva con la sanzione sostitutiva corrispondente, con rinvio per nuovo giudizio sul punto alla Corte d'appello di Napoli. Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso in Roma, il 14 dicembre 2022.
Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2023