CONSIDERATO IN DIRITTO
Va preliminarmente detto che, per evidenti ragioni metodologiche e di economia nella stesura della motivazione, si procederà alla trattazione delle questioni poste da tutti i ricorrenti o dalla maggioranza di essi, e da considerarsi, quindi, loro comuni, passando poi ad affrontare, specificamente, le doglianze poste a base dei ricorsi dei singoli imputati.
A) Inquadramento della problematica concernente la qualificazione giuridica dei fatti.
Un primo aspetto comune a tutti i ricorrenti riguarda la individuazione delle fattispecie penalmente rilevanti in cui collocare le condotte dei singoli imputati, molti dei quali, come visto in premessa, hanno lamentato una sostanziale duplicazione delle imputazioni.
La questione, specificamente, involge i rapporti tra la fattispecie di bancarotta impropria, di cui all'art. 223, comma 2, n. 2, L. Fall., e quella di bancarotta fraudolenta per distrazione, di cui all'art. 216 L. Fall.. Essa è riferibile a tutti gli imputati ricorrenti, ad eccezione del solo R.L., unico soggetto a non essere imputato in relazione al capo A).
Nel caso di specie - come si evince dalla motivazione della sentenza di primo grado alla pag. 79 e dalla motivazione della sentenza impugnata alla pag. 190 - la condotta di cui al capo A) dell'imputazione è stata qualificata come cagionamento con dolo del fallimento/stato di insolvenza, ai sensi dell'art. 223, comma 2, n. 2, prima parte.
Assolutamente pacifica è l'individuazione, da parte della giurisprudenza di questa Corte, di due distinte ed autonome ipotesi di reato nel contesto della L. Fall., art. 223, comma 2, n. 2, di cui la prima - ossia la causazione dolosa del fallimento - richiede il dolo specifico in quanto l'evento è specificamente voluto, mentre nella seconda - fallimento conseguente ad operazioni dolose l'elemento soggettivo è costituito dal dolo generico, essendo la condotta volontaria ma non intenzionalmente diretta a determinare il dissesto fallimentare, anche se il soggetto attivo ha accettato il rischio della stessa (Sez. 5, sentenza n. 19101 del 14/01/2004, Iride ed altri, Rv. 227745; Sez. 5, sentenza n. 11945 del 22/09/1999, De Rosa G. ed altri, Rv. 214856; Sez. 1, sentenza n. 7136 del 25/04/1990, De Sena, Rv.184359).
In realtà la citata giurisprudenza sottolinea come le fattispecie delineate dalla norma non si distinguano sotto l'aspetto oggettivo, relativamente al quale esse non presentano sostanziali differenze, ma solo sotto quello dell'elemento soggettivo, essendo la prima fattispecie a dolo specifico e la seconda a dolo generico, per cui per la realizzazione di detta seconda ipotesi appare sufficiente il dolo eventuale.
La più recente giurisprudenza di questa Corte si è occupata prevalentemente, per non dire esclusivamente, della fattispecie di fallimento determinato da operazioni dolose, approfondendo tanto il profilo soggettivo che quello della condotta. Sotto il primo aspetto è stato chiarito come il delitto si sostanzi in un'eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale, per la cui dimostrazione è sufficiente la prova della consapevolezza e volontà, da parte del soggetto attivo, della complessa azione arrecante pregiudizio patrimoniale nei suoi elementi naturalistici e nel suo contrasto con i propri doveri a fronte degli interessi della società, nonchè dell'astratta prevedibilità dell'evento di dissesto quale effetto dell'azione antidoverosa (Sez. 5, sentenza n. 38728 del 03/04/2014, Rampino, Rv. 262207), specificando, tuttavia, che, nell'ipotesi di fallimento causato da operazioni dolose non determinanti un immediato depauperamento della società, la condotta di reato è configurabile quando la realizzazione di tali operazioni si accompagni, sotto il profilo dell'elemento soggettivo, alla prevedibilità del dissesto come effetto della condotta antidoverosa (Sez. 5, sentenza n. 45672 del 01/10/2015, Lubrina ed altri, Rv. 265510). Non vi è chi non veda, quindi, come, in relazione a detta fattispecie, la giurisprudenza di legittimità abbia delineato la sussistenza di un necessario collegamento tra la sfera della prevedibilità dell'evento, costituito dal dissesto, e la condotta, nel senso che tale prevedibilità dovrà essere oggetto di una prova tanto più rigorosa quanto meno immediata appaia la verificazione dell'effetto depauperativo della condotta.
Per quanto riguarda il secondo profilo, invece, è stato affermato che la "dolosità" delle operazioni si traduce nella commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all'organo amministrativo o anche soltanto in atti intrinsecamente pericolosi per la salute economico-finanziaria della società, e che le "operazioni dolose", in quanto collocate nell'area della bancarotta fraudolenta patrimoniale, suppongono sempre una indebita diminuzione dell'asse attivo, ossia un depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l'impresa; in definitiva, la fattispecie postula una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente, non già direttamente dall'azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale, quale è dato riscontrare in qualsiasi iniziativa societaria che implichi un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all'esito divisato (Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa Di Risparmio Di Rieti s.p.a., Rv. 247316; Sez. 5, sentenza n. 47621 del 25/09/2014, Prandini ed altri, Rv. 261684); si è, infine, specificato che la norma incriminatrice configura un reato causale a forma libera, la cui condotta è sufficientemente definita da una serie di parametri che rendono conoscibile il precetto (Sez. F., sentenza n. 39192 del 20/08/2015, Pandolfi, Rv. 264606, con cui è stata dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. Fall., art. 223, comma 2, per violazione dell'art. 25 Cost.).
Si può, quindi ritenere che, nell'ambito delle due diverse fattispecie contemplate dall'art. 223, comma 2, n. 2, L. Fall. entrambe a forma libera quanto alla condotta, siano configurati due reati propri, posti in essere dalle figure tipiche del ceto gestorio di una società commerciale, come si evince dalla indicazione dei soggetti indicati al primo comma della detta norma; da ciò discende che in entrambe le dette fattispecie le condotte delineate non possano che consistere in attività attinenti alla funzione che qualifica i soggetti attivi selezionati dalla norma incriminatrice.
La natura dolosa delle operazioni evoca la necessità, inoltre, che l'atto di gestione debba essere posto in essere dall'autore tipico con abuso della propria carica, ovvero contravvenendo ai doveri che la stessa gli impone, atteso che tale attributo - altrimenti del tutto inutile sotto il profilo tecnico-penalistico alla luce dell'art. 43 c.p. - evidenzia un connotato d'intrinseca illiceità della condotta, anche a prescindere dai suoi effetti. Infine, la tipicità della condotta medesima è definita dalla necessaria causazione del fallimento, e cioè dalla esistenza di un rapporto eziologico tra la stessa e il dissesto della società. In tal senso deve ritenersi che la norma abbia selezionato una serie di parametri in grado di rendere conoscibile il precetto, tanto più nel contesto in cui la fattispecie di cui si tratta è inserita; essa, infatti, viene ritenuta come norma che assume un carattere eminentemente residuale, una volta proiettata sullo schermo del sistema di incriminazioni configurato dalla legge fallimentare, con la conseguenza di escludere la tipicità di condotte già espressamente previste da altre specifiche disposizioni incriminatrici in tema di bancarotta.
In realtà, come acutamente osservato da attenta e recente dottrina, l'art. 223, comma 2, n. 2, L. Fall., che sanziona la causazione dolosa del fallimento, pur costituendo una norma di chiusura della previsione dello stesso art. 223, legge citata, assume una specifica rilevanza, ricollegabile alla dimensione superindividuale del soggetto passivo del fallimento, costituita dalla società, e dalla conseguente terzietà del patrimonio abusato rispetto agli autori dell'abuso, i quali possono sabotare l'impresa anche senza le condotte di indicate e sanzionate dalla L. Fall., art. 223, comma 1 e dall'art. 216 L. Fall., ovvero tenendo una condotta più articolata e complessa, che include ma non esaurisce, anzi, trascende quelle indicate dalle norme citate.
Al contrario, in relazione a vicende da inquadrare nella fattispecie di causazione con dolo del fallimento, non si rinvengono significativi arresti della giurisprudenza di legittimità, il che indurrebbe a ritenere che l‘endiadi "con dolo o per effetto di operazioni dolose" non individui distinte realtà oggettive peraltro, come detto, distinguibili solo sotto l'aspetto dell'elemento soggettivo, atteso che sotto quello della condotta non si potrebbe che ipotizzare una condotta realizzata attraverso operazioni societarie - bensì rappresenti unicamente una formulazione lessicale che, nel tentativo di essere quanto più omnicomprensiva, ha inteso individuare, nella formulazione di una norma di chiusura, tanto le condotte chiaramente identificabili con singole operazioni che le condotte di portata più complessa, le quali, al di là di singole operazioni chiaramente individuabili come finalizzate al cagionamento del dissesto, determinino la causazione del fallimento attraverso più complessi meccanismi, seppure non evidentemente ed unicamente a ciò predeterminati.
Appare, cioè, legittimo ritenere che il legislatore avesse voluto ricomprendere nella sfera di operatività della norma tutte le situazioni che, anche in un contesto di crescente complessità della realtà societaria, potessero porsi come penalmente rilevanti in presenza dei requisiti normativamente individuati. In tal senso la diversa rilevanza del dolo avrebbe esclusivamente una funzione di superfetazione descrittiva, atteso che qualora per l'integrazione di una fattispecie appaia sufficiente un elemento soggettivo di tipo preterintenzionale - quale quello delineato dalla giurisprudenza in relazione al cagionamento del fallimento per effetto di operazioni dolose - detto elemento soggettivo è già più che sufficiente ai fini dell'integrazione del reato, non comprendendosi la necessità di individuare un diverso elemento soggettivo a fronte di una condotta che, sotto l'aspetto della sua individuazione, non può che concretarsi in "operazioni societarie" anche nel caso di cagionamento del fallimento con dolo; le ipotesi in cui, in concreto, fosse ravvisabile un dolo specifico, quindi, sarebbero semplicemente da considerare fatti di reato più gravi dal punto di vista soggettivo, nella prospettazione degli elementi da considerare ai sensi dell'art. 133 c.p., apparendo il dolo specifico solo come un quid pluris rispetto al dolo intenzionale già individuato.
Ciò è rilevabile dalla stessa relazione al R.D. n. 267 del 1942, in cui si legge che nel capo dei reati commessi da persone diverse dal fallito si era mirato ad un costante parallelismo fra detti reati e quelli imputabili all'imprenditore fallito, specificando anche l'elemento psichico di ciascuna fattispecie, rinunziando a formulazioni speciali di reati per quei fatti alla cui incriminazione bastino le disposizioni del codice penale comune, rispetto alle quali le norme del testo unico si pongono come norme complementari. Si era chiarito pertanto, in detta ottica, ed in riferimento alle disposizioni di cui agli artt. 223 e 224, "che tra le previsioni particolari, mentre si è sanzionata la ipotesi di quasi-bancarotta fraudolenta a carico degli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società dichiarate fallite che hanno concorso a cagionare con dolo (diretto) o per effetto di operazioni dolose (dolo eventuale o, secondo i casi, di pericolo nelle singole operazioni) il fallimento della società, si è imputato, a titolo di colpa, a carico dei medesimi il concorrere a cagionare od aggravare il dissesto della società con inosservanza di qualsiasi obbligo ad essi imposto dalla legge."
Proprio la natura di norma di chiusura del R.D. n. 267 del 1942, art. 223, comma 2, n. 2, quindi, fa sì che non debba essere considerato un caso il fatto che non risultino specifiche pronunce in cui siano stati evidenziate vicende di bancarotta cagionata con dolo, laddove molteplici pronunce - come detto - si sono occupate della bancarotta cagionata per effetto di operazioni dolose, restando le due ipotesi, ritenute distinte, indiscutibilmente accomunate sotto l'aspetto della condotta.
In tal senso appare del tutto coerente con la struttura del reato - a prescindere dalla considerazione della individuazione normativa di una sola fattispecie o di due distinte fattispecie - l'aver individuato, nell'ambito delle condotte di cui al capo A), singole operazioni che - benchè non esaustive della strategia depauperativa - avevano sottratto al gruppo liquidità, specifiche fonti di reddito e componenti aziendali in grado di generare utili, ovvero si erano risolte in acquisti di partecipazioni in società già gravate da debiti e da perdite, ovvero ancora avevano costituito operazioni di facciata volte a mascherare perdite ed esposizioni debitorie. In tal senso la sentenza impugnata ha fornito un complesso motivazionale che, coerentemente con i connotati della fattispecie, come delineati dalla giurisprudenza di questa Corte regolatrice, ha sottolineato che il cagionamento doloso del fallimento andasse inquadrato, nel caso in esame, in una strategia unitaria, ancorchè realizzatasi nel corso del tempo, attraverso una molteplicità di operazioni, collegate tra di loro, sorrette da una logica unitaria e coinvolgenti tutte le ventiquattro società del gruppo.
Quanto alla partecipazione alla detta fattispecie dei singoli ricorrenti, ai quali la stessa risulta ascritta, va ricordato che altrettanto pacifico appare, alla luce della giurisprudenza di questa Corte, il principio secondo cui la noma di cui al R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 223, comma 2, n. 2, riguardante l'indicato ceto gestorio di società fallite e/o in dissesto, si applica anche nelle ipotesi in cui la condotta di uno degli anzidetti soggetti abbia aggravato una situazione di dissesto già esistente, ciò in quanto il nesso di causalità tra l'operazione dolosa e l'evento fallimentare non è interrotto nè dalla preesistenza alla condotta di una causa in sè efficiente a determinare il dissesto, valendo la disciplina del concorso causale di cui all'art. 41 c.p., nè dal fatto che l'operazione dolosa in questione abbia cagionato anche solo l'aggravamento di un dissesto già in atto (Sez. 5, sentenza n. 40998 del 20/05/2014, Concu ed altro, Rv. 262189; Sez. 5, sentenza n. 8413 del 16/10/2013, dep. 21/02/2014, Besurga, Rv. 259051; Sez. 5, sentenza n. 19806 del 28/03/2003, Negro ed altri, Rv. 224947).
Peraltro occorre sottolineare come, nel caso in esame, proprio il ricorso alla disciplina generale del concorso di persone nel reato consenta di fornire una risposta alle problematiche sollevate dai difensori in relazione alle condotte degli imputati che erano entrati, a vario titolo, a far parte della struttura societaria in epoca successiva ed in momenti posteriori rispetto a condotte ritenute determinanti ai fini della causazione del dissesto. Da tempo, con pronunce costanti, questa Corte regolatrice ha affermato la possibilità che il contributo causale del concorrente nel reato si manifesti attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa, fermo restando l'obbligo, per il giudice di merito, di motivare circa la prova dell'esistenza di una reale partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrenti (Sez. U, sentenza n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti, Rv. 226101; Sez. 1, sentenza n. 5631 del 17/01/2008, Maccioni ed altri, Rv. 238648; Sez. 1, sentenza n. 10730 del 18/02/2009, Puoti ed altro, Rv. 242849). A ciò va aggiunta la considerazione che l'impianto della motivazione va valutato con specifico riferimento alla concreta configurazione della condotta, non potendosi dimenticare la circostanza dirimente costituita dall'essere stata contestata, e ritenuta sussistente per tutti gli imputati, anche la fattispecie associativa di cui all'art. 416 c.p., delineata al capo E), salva la declaratoria di prescrizione della stessa da parte della Corte di merito. Appare quindi evidente come l'elemento soggettivo del dolo specifico relativo al delitto di cui al R.D. n. 267 del 1942, art. 223, comma 2, n. 2, non possa che risultare rafforzato dalla sussistenza della struttura associativa di cui al detto capo E), e dalla incontestata partecipazione alla stessa di tutti i ricorrenti, con i ruoli analiticamente descritti alle pagg. 23-27 della sentenza impugnata.
Come noto, infatti, l'accordo può costituire elemento comune sia al concorso di persone nel reato sia all'associazione per delinquere, tuttavia i due fenomeni restano caratterizzati da aspetti strutturali e teleologici profondamente differenziati. Dal primo punto di vista, infatti, l'accordo che designa la fattispecie plurisoggettiva semplice, sia essa necessaria ovvero eventuale, è funzionale alla realizzazione di uno o più reati, consumati i quali detto accordo si esaurisce, atteso che esso in tanto rileva nei confini della mera ipotesi concorsuale, in quanto pervenga ad una concreta realizzazione dell'assetto divisato, ossia ad un'attività esecutiva che non si arresti alle soglie del tentativo; ne consegue che il mero accordo allo scopo di commettere un reato, non traducendosi in un'attività di partecipazione al reato stesso, resta assoggettato al principio di ordine generale stabilito dall'art. 115 c.p.. In tema di reato associativo, inoltre, l'elemento che discrimina le fattispecie di cui agli artt. 416 e 416 bis c.p. dalla semplice compartecipazione criminosa di cui all'art. 110 c.p. è costituito dalla natura dell'accordo criminoso: nel concorso di persone nel reato l'accordo avviene in via occasionale e accidentale per il compimento di uno o più reati determinati, con la realizzazione dei quali l'accordo stesso si esaurisce; nei delitti associativi, invece, l'accordo criminoso è diretto all'attuazione di un più vasto programma criminoso, che precede e contiene gli accordi concernenti la realizzazione dei singoli crimini, e permane dopo la realizzazione di ciascuno di essi. Ne discende che i criteri interpretativi destinati a risolvere le antinomie tra accordo non punibile e reato associativo non possono essere compiutamente individuati chiamando in causa il solo principio di specialità, ciò per la mancanza di un vero e proprio rapporto di genere a specie, postulando il reato associativo una base plurisoggettiva qualificata, non richiesta, invece, nell'ipotesi del semplice accordo; il discrimine, infatti, deve essere individuato nella necessaria qualificazione dell'accordo associativo come una struttura permanente, nella quale i singoli associati divengono - ciascuno nell'ambito dei propri compiti assunti od affidati - parti di un tutto, con il fine di commettere una serie indeterminata di delitti. (Sez. 6, sentenza n. 7957 del 05/12/2003, Giacalone ed altri, Rv. 228482; Sez. 6, sentenza n. 5649 del 22/01/1997, Dominante e altri, Rv. 208901; Sez. 6, sentenza n. 9320 del 12/05/1995, Mauriello, Rv. 202036). Anche sotto il profilo soggettivo, come noto, l'accordo non rientra nella struttura del dolo del reato concorsuale, ma, colorando l'intensità dello stesso, serve solo, in concorso eventualmente con le circostanze aggravanti di carattere soggettivo previste dall'art. 112 c.p., per graduare, aggravandole, le responsabilità dei singoli, dato che esso segna, sotto il profilo criminologico, il punto di emergenza del passaggio graduale della pericolosità riconnessa dal legislatore ai reati monosoggettivi a quella, ben più grave e di maggior allarme sociale, dallo stesso ricollegato ai reati associativi, elemento costitutivo dei quali è, tra l'altro, l'esistenza, appunto, di un accordo associativo precostituito. Il dolo del delitto di partecipazione, semplice o qualificata, ad un'associazione per delinquere, infatti, non consiste soltanto nella coscienza e volontà di apportare quel contributo richiesto dalla norma incriminatrice, bensì, trattandosi di un reato a concorso necessario ed a dolo specifico, nella consapevolezza di partecipare e di contribuire attivamente con esso alla vita di un'associazione, nella quale i singoli associati, con pari coscienza e volontà, fanno convergere i loro contributi, come parte di un tutto, alla realizzazione del programma comune, divenuto, così, causa comune dell'agire del singolo e dell'ente. Ne consegue che la commissione di una serie indeterminata di delitti costituisce non solo l'obiettivo dell'associazione, come elemento materiale del reato, ma altresì la connotazione soggettiva dello stesso, nel senso che gli associati devono avere l'unitario, comune proposito di commettere tali delitti, in tal senso essendo qualificato il dolo specifico richiesto per la fattispecie associativa, consistente nella volontà cosciente di associarsi, di entrare a far parte di essa con lo scopo di commettere più delitti. Naturalmente non è necessaria la conoscenza reciproca di tutti gli associati, poichè quel che conta è la consapevolezza e volontà di partecipare, assieme ad almeno altre due persone aventi la stessa consapevolezza e volontà, ad una società criminosa strutturata e finalizzata secondo lo schema legale (Sez. 1, sentenza n. 12603 del 29/04/1986, Canicatti, Rv. 174242; Sez. 1, sentenza n. 7462 del 22/04/1985, Arslan, Rv. 170231; Sez. 1, sentenza n. 8870 del 18/05/1984, Adinolfi, Rv. 166216).
Ne deriva, quindi, che la struttura associativa alla quale facevano capo gli odierni ricorrenti non può non avere avuto, nei sensi delineati, effetti sulle problematiche relative al contributo da ciascuno di essi apportato alla realizzazione delle finalità comuni, individuate nella commissione di una pluralità di fatti di reato, finalizzati alla verificazione del dissesto delle singole società del gruppo CIT, oltre che alla commissione di fattispecie di bancarotta fraudolenta, non potendosi, quindi, prescindere, nella valutazione dei singoli apporti causali, dalla considerazione della contemporanea appartenenza di ciascun ricorrente alla compagine associativa, con ruoli significativamente individualizzati, non costituenti oggetto di contestazione da parte nessuno degli odierni ricorrenti, che non hanno in alcun modo rinunciato alla prescrizione al fine di far valere elementi che potessero, in ipotesi, condurre ad una pronuncia assolutoria dalla fattispecie di cui al capo E).
B) Rinuncia ai motivi di appello e conseguenze sulle questioni inerenti la qualificazione giuridica delle vicende.
Una seconda questione che merita di essere puntualizzata riguarda la doglianza concernente la qualificazione giuridica dei fatti, comune a tutti gli imputati ricorrenti che, tuttavia, in sede di gravame, avevano effettuato una rinuncia parziale ai motivi di appello. Come risulta, infatti, da tutti i ricorsi - ad eccezione di quelli presentati nell'interesse del C. e del R., unici ricorrenti che, in sede di appello, non avevano effettuato alcuna rinuncia parziale ai motivi di gravame - gli odierni ricorrenti avevano espressamente rinunciato ai motivi di appello, ad eccezione di quelli concernenti la determinazione della pena. Non vi è dubbio, quindi, che, ai sensi dell'art. 597 c.p.p., comma 1, secondo cui l'effetto devolutivo dell'impugnazione circoscrive la cognizione del giudice del gravame ai soli punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti - una volta che i motivi di gravame costituiscano oggetto di rinuncia, non può il giudice di appello prenderli in considerazione, nè può farlo il giudice di legittimità sulla base di un'ipotetica implicita revoca di tale rinuncia, stante l'irrevocabilità di tutti i negozi processuali, ancorchè unilaterali.
Ne deriva pacificamente, quindi, che in sede di legittimità appare del tutto inammissibile ogni doglianza concernente la qualificazione dei fatti di reato, in quanto la rinuncia parziale ai motivi di appello determina il passaggio in giudicato della sentenza gravata limitatamente ai capi oggetto di rinuncia, con la conseguente inammissibilità dei motivi di ricorso per cassazione che ripropongano censure attinenti ai motivi di appello rinunciati, non potendosi, peraltro, essere rilevate d'ufficio le questioni relative ai medesimi motivi; detto principio va applicato anche in relazione alla valutazione degli estremi dell'art. 129 c.p.p.., ciò in quanto la rinuncia ha effetti preclusivi sull'intero svolgimento processuale, ivi compreso il giudizio di legittimità. Pertanto, poichè ex art. 597 c.p.p., comma 1, l'effetto devolutivo dell'impugnazione circoscrive la cognizione del giudice del gravame ai soli punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti, una volta che essi costituiscano oggetto di rinuncia, non può il giudice di appello prenderli in considerazione, nè può farlo il giudice di legittimità sulla base di un'ipotetica implicita revoca di tale rinuncia -nel caso in esame neanche ipotizzata dai ricorrenti - stante l'irrevocabilità di tutti i negozi processuali, ancorchè unilaterali (Sez. 4, sentenza n. 9875 del 12/02/2015, Barra ed altri, Rv. 262448; Sez. 5, sentenza n. 2791 del 22/10/2014, dep. il 21/01/2015, Ferlito, Rv. 262682; Sez. 2, sentenza n. 3593 del 03/12/2010, dep. il 01/02/2011, Izzo, Rv. 249269).
Nel caso di specie va aggiunto che per quanto riguarda la fattispecie associativa di cui al capo E), dichiarata estinta per prescrizione, in ogni caso la Corte territoriale ha fornito una più che adeguata motivazione, immune da censure logiche, come risulta dalle pagg. 23-27 della sentenza impugnata, in ordine ai profili di sussistenza della struttura associativa e dei ruoli svolti da ciascun ricorrente in detto ambito.
Infine appare chiaramente insussistente qualsivoglia contrasto nella giurisprudenza di questa Corte, che legittimerebbe l'intervento delle Sezioni Unite, atteso che pacifico appare il principio secondo cui a seguito dell'abrogazione del così detto patteggiamento in appello (art. 599 c.p.p., commi 4 e 5), la rinunzia parziale ai motivi di appello deve ritenersi incondizionata, con conseguente passaggio in giudicato della sentenza gravata, limitatamente ai capi oggetto di rinunzia; ne deriva che la Corte di Appello non ha alcun onere di motivare in ordine a detti motivi, nè, come ricordato, può farlo il giudice di legittimità, in base al richiamato principio della irrevocabilità dei negozi giuridici processuali, inclusi quelli unilaterali (Sez. 2, sentenza n. 46053 del 21/11/2012, Lombardi ed altro, Rv. 255069).
C) Circostanze aggravanti dei reati.
Detto profilo si collega strettamente a quello sub B), avendo numerosi difensori e precisamente i difensori degli imputati a cui in primo grado non erano state riconosciute le circostanze attenuanti generiche - lamentato il profilo motivazionale offerto dalla Corte territoriale sul punto; detti difensori, in particolare, hanno osservato che la rinuncia ai motivi di merito non possa in alcun modo ritenersi implicitamente inclusiva della rinuncia ai motivi concernenti la sussistenza delle circostanze aggravanti contestate che, pur essendo, circostanze di fatto della condotta, incidono anche sulla quantificazione della pena, con il conseguente interesse, da parte degli imputati che avevano rinunciato ai motivi di merito ed ai quali in primo grado non erano state riconosciute le circostanze ex art. 62 bis c.p., alla trattazione del motivo di gravame concernente l'esclusione delle contestate aggravanti.
Non vi è dubbio che le argomentazioni difensive siano, in linea di principio, condivisibili, atteso che non necessariamente la rinuncia ai motivi di merito include, anche la sussistenza delle circostanze aggravanti; queste ultime sono senza alcun dubbio circostanza di fatto della condotta, ma con specifica incidenza anche sulla quantificazione della pena, per cui un imputato che abbia rinunciato ai motivi di appello relativi al merito, se non abbia ottenuto in primo grado la concessione delle circostanze attenuanti generiche, conserva l'interesse all'esclusione delle contestate circostanze aggravanti, purchè non abbia espressamente rinunciato al relativo motivo di gravame, cosa non verificatasi nel caso in esame.
Tuttavia l'esame delle vicende inerenti gli attuali ricorrenti non rende applicabile, in concreto, il predetto argomento, in quanto la Corte di merito ha concesso le circostanze attenuanti generiche a tutti gli imputati ai quali in primo grado dette circostanze non erano state riconosciute, con espresso giudizio di equivalenza, il che, evidentemente, rende palese come la Corte di merito abbia ritenuto sussistenti le contestate circostanze aggravanti. A ciò si deve aggiungere l'ulteriore, ovvia considerazione, che la natura stessa delle aggravanti contestate - il numero delle persone ed il danno di particolare entità, ai sensi, rispettivamente, dell'art. 112 c.p., n. 1, e R.D. n. 267 del 1942, art. 219, comma 1, risulta inequivocabilmente dal complesso della motivazione, essendo stata peraltro espressamente ed analiticamente affrontata dalla sentenza di primo grado. Nè i motivi di ricorso, in ogni caso, hanno evidenziato argomentazioni volte a contestare le ragioni giuridiche poste a fondamento della ritenuta sussistenza delle contestate circostanze aggravanti, essendo, inoltre, sfuggita alle difese la circostanza che la Corte territoriale, nel rideterminare il trattamento sanzionatorio per gli imputati che avevano rinunciato ai motivi di appello, alla pag. 267 della sentenza impugnata, ha affermato, nell'individuare il più grave delitto in quello sub A), come fosse di tutta evidenza, quanto al citato capo di imputazione complessivamente considerato, la sussistenza sia della circostanza aggravante derivante dal numero delle persone, sia quella relativa alla gravità del danno, in considerazione del complessivo e gravissimo pregiudizio causato dal complesso delle condotte e dalla strategia unitaria da cui esse erano state sorrette; nell'immediato prosieguo della motivazione è stata poi indicata - in relazione ai capi B), C) e D), ed in riferimento a ciascuno degli imputati in relazione alle condotte ad essi rispettivamente ascritte - la sussistenza delle specifiche circostanze aggravanti. In tal senso, quindi, la motivazione della sentenza impugnata, sul punto, si salda con quella della sentenza di primo grado, offrendo una chiara ricostruzione delle argomentazioni poste a fondamento del riconoscimento delle contestate circostanze aggravanti, rispetto alle quali nessuna specifica argomentazione di segno contrario risulta offerta dalle difese.
Va, infine, puntualizzato che in ordine alla possibilità di applicare la circostanza aggravante di cui all'art. 219, comma 1 L. Fall. anche ai fatti di bancarotta impropria, è ben noto a questo Collegio la sussistenza di diverse opzioni interpretative: secondo la Sez. 5, sentenza n. 8829 del 18/12/2009, Truzzi ed altri, Rv. 246154, le menzionata circostanza aggravante ad effetto speciale non è applicabile all'ipotesi di bancarotta fraudolenta impropria, stante il richiamo letterale del R.D. n. 267 del 1942, art. 219, comma 1, circoscritto agli artt. 216, 217 e 218 L. Fall., determinato dalla diversità strutturale ed ontologica sussistente tra la bancarotta fraudolenta impropria e quella ordinaria che ne preclude l'estensione in via analogica, la quale si risolverebbe, peraltro, nell'applicazione in malam partem del criterio analogico, vietato in materia penale. Tuttavia la successiva giurisprudenza, cui questo Collegio ritiene di aderire, ha affermato il principio secondo cui la menzionata circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità è applicabile anche alle ipotesi di bancarotta impropria, in quanto la diversa struttura del reato di cui all'art. 223 L. Fall. rispetto alla fattispecie contemplata dal precedente art. 216, non può condurre ad una indiscriminata preclusione verso l'applicazione dell'aggravante di cui si discute; e ciò in quanto il citato art. 223 L. Fall., contenendo un rinvio formale a tutti i reati di bancarotta propria puniti dagli artt. 216 e 217 L. Fall., rende compatibile l'applicazione dell'aggravante in virtù del raccordo normativo tra la norma incriminatrice e la statuizione del R.D. n. 267 del 1942, art. 219, comma 1, costituito dall'inciso che rinvia alle "pene stabilite dall'art. 216"; detto inciso si coniuga con quello del R.D. n. 267 del 1942, art. 219, che richiama la prima.
La linea argomentativa che informa il citato indirizzo giurisprudenziale, rende ragione della correttezza della conclusione raggiunta per via di interpretazione estensiva, senza che si renda necessario il ricorso all'analogia, certamente vietato in detta materia. La soluzione adottata ha anche il pregio di evitare la disparità di trattamento che, diversamente opinando, si realizzerebbe a discapito dell'imprenditore individuale rispetto all'amministratore di società, in rapporto ad illeciti di pari o di maggior gravità nel caso del soggetto societario (Sez. 5, sentenza n. 38978 del 16/07/2013, Fregnan, Rv. 257762; Sez. 5, sentenza n. 2903 del 22/03/2013, dep. 22/01/2014, P.G. e Venturato, Rv. 258446; Sez. 5, sentenza n. 10791 del 25/01/2012, Bonomo ed altro, Rv. 252009).
D) Aumenti di pena a titolo di continuazione ed incidenza delle circostanze aggravanti sulla determinazione della pena.
Altra tematica comune ai ricorsi di tutti gli imputati che rispondono tanto della fattispecie di cui al capo A) che di quelle di cui ai capi B), C), D), riguarda l'aumento per la continuazione, che sarebbe stato erroneamente inflitto a detti imputati ricorrenti, in base all'erroneo presupposto della sussistenza della pluralità di fatti di bancarotta di cui al R.D. n. 267 del 1942, art. 219, comma 2, n. 1, e della continuazione ai sensi dell'art. 81 c.p., comma 2.
Va subito chiarito che il primo giudice aveva individuato, per tutti i ricorrenti, quale più grave fattispecie quella di cui al capo A), chiarendo che, essendo nella formulazione di detto reato ricompresi 24 distinti episodi di cagionamento doloso del fallimento relativi ad altrettante società, ciascuna delle quali caratterizzata da autonomia patrimoniale e giuridica, il fatto di reato più grave - tra le molteplici condotte attraverso le quali era stato cagionato il fallimento delle società andava individuato nel delitto di bancarotta e, tra le varie condotte di bancarotta, in quella più grave, relativa alla CIT s.p.a., società capofila; così individuata la pena base, relativa a ciascun imputato, era quindi stato apportato un aumento per effetto della sussistenza della circostanza aggravante del danno di particolare gravità, di cui al R.D. n. 267 del 1942, art. 219, comma 1, ritenendo in esso assorbito, ai sensi dell'art. 63 c.p.p., comma 4, l'ulteriore aumento per la circostanza aggravante costituita dal numero delle persone, di cui all'art. 112, n. 1, cod. pen.; quindi era stato apportato un aumento a titolo di continuazione "fallimentare", ex R.D. n. 267 del 1942, art. 219, comma 2, n. 1, per i plurimi fatti di bancarotta di cui ai capi B), C), D), tutti richiamati nelle vicende societarie descritte al capo A), ed infine, proprio per l'autonomia delle società indicate nel capo A), era stato apportato un ulteriore aumento ai sensi dell'art. 81 c.p., comma 2, per il fallimento doloso di ciascuna delle altre 23 società del gruppo; infine, era stato apportato un ulteriore aumento per la continuazione con la fattispecie associativa di cui al capo E). Al solo imputato C., tra tutti gli imputati a cui risulta ascritto il capo A), il primo giudice aveva concesso le circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulle contestate aggravanti - ex art. 112, n. 1 c.p., R.D. n. 267 del 1942, art. 219, commi 1 e comma 2 n. 1, - apportando, quindi, un unico aumento a titolo di continuazione con la fattispecie associativa sub E).
La Corte territoriale, come risulta dalle pagg. 267-273 della sentenza impugnata, a fronte della rinuncia parziale ai motivi di appello, ha ritenuto di concedere le circostanze attenuanti generiche a tutti gli imputati ai quali non erano state riconosciute in primo grado, con giudizio di equivalenza, effettuando l'individuazione, come in precedenza già illustrato, della sussistenza delle specifiche circostanze aggravanti ritenute per ciascun imputato in relazione alle singole fattispecie di reato. La Corte di merito ha quindi determinato la pena base per il più grave delitto sub A), specificando che per tutti gli imputati, ivi incluso il C.G., detta pena base dovesse essere individuata in misura inferiore a quella indicata dal primo giudice anche in considerazione del fatto che parte delle condotte descritte nel capo A) coincidevano con le condotte di bancarotta indicate ai successivi capi B), C1), C2), D), trovando già in essi adeguata sanzione penale.
Ne deriva come, palesemente, la Corte di merito abbia eliminato la duplicazione operata dal primo giudice nel calcolo della pena, nella parte in cui non era stata adeguatamente considerata la circostanza che le condotte di bancarotta di cui ai capi B), C1), C2), D), pur conservando la propria autonomia concettuale rispetto alla diversa e più complessa fattispecie di cui al R.D. n. 267 del 1942, art. 223, comma 2, n. 2, non potessero essere duplicate dal punto di vista degli aumenti di pena.
Detta correzione apportata dalla Corte di merito alla determinazione della misura della pena nulla toglie, evidentemente, all'autonomia delle fattispecie di bancarotta, come individuate ai capi B), C1), C2), D), rispetto alla fattispecie di cagionamento doloso del fallimento delle 24 società del gruppo, individuata al capo A).
Costituisce, infatti, ius receptum, nella giurisprudenza di questa Corte, il principio secondo cui diversi sono gli ambiti dei reati di bancarotta fraudolenta, sia patrimoniale che documentale, rispetto alla bancarotta impropria di cui al R.D. n. 267 del 1942, art. 223, comma 2, n. 2, in quanto il primo postula il compimento di atti di distrazione o dissipazione di beni societari ovvero di occultamento, distruzione o tenuta di libri e scritture contabili in modo da non consentire la ricostruzione delle vicende societarie, atti tali da creare pericolo per le ragioni creditorie, a prescindere dalla circostanza che abbiano prodotto il fallimento, essendo sufficiente che questo sia effettivamente intervenuto; il secondo concerne, invece, condotte dolose che non costituiscono distrazione o dissipazione di attività - nè si risolvono in un pregiudizio per le verifiche concernenti il patrimonio sociale da operarsi tramite le scritture contabili - ma che devono porsi in nesso eziologico con il fallimento. Ne consegue che, in relazione ai suddetti reati, mentre è da escludere il concorso formale è, invece, possibile il concorso materiale qualora, oltre ad azioni ricomprese nello specifico schema della bancarotta ex R.D. n. 267 del 1942, art. 216, si siano verificati differenti ed autonomi comportamenti dolosi i quali - concretandosi in abuso o infedeltà nell'esercizio della carica ricoperta o in un atto intrinsecamente pericoloso per l'andamento economico finanziario della società - siano stati causa del fallimento (Sez. 5, sentenza n. 24051 del 15/05/2014, Lorenzini ed altro, Rv. 260142; sez. 5, sentenza n. 34559 del 19/05/2010, Biolè ed altro, Rv. 248167; Sez. 5, sentenza n. 17978 del 17/02/2010, Pagnotta ed altri, Rv. 247247; Sez. 5, sentenza n. 29431 del 06/07/2006, Tramontano ed altro, Rv. 235216).
Detto indirizzo, evidentemente consolidato, rappresenta la puntualizzazione e la specificazione della pronuncia - citata nel ricorso presentata nell'interesse dell'imputato G. - secondo cui non sarebbe possibile il concorso formale tra il reato di bancarotta fraudolenta e quello di bancarotta impropria, che deve considerarsi assorbito nel primo quando l'azione diretta a causare il fallimento sia la stessa sussunta nel modello descrittivo della bancarotta fraudolenta, poichè, mentre non è concepibile la realizzazione di un reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale o documentale, che non si accompagni alla volontà deliberata o quanto meno all'accettazione del rischio che la condotta costituisca causa - unica o concorrente - del fallimento, che è elemento costitutivo del reato, in tale atteggiamento psicologico si concreta anche l'elemento soggettivo della bancarotta impropria (Sez. 5, sentenza n. 35066 del 05/07/2007, P.M. in proc. Ascone, Rv. 237716).
Detta ultima sentenza, in realtà, non si pone affatto in contrasto con il prevalente orientamento citato, atteso che dalla motivazione si comprende come, nel caso esaminato, la condotta contestata risultava indiscutibilmente unica. Detta sentenza, quindi, del tutto coerentemente con l'orientamento prevalente, aveva, non a caso, affermato che " al fine di evidenziare i rapporti fra le due figure criminose a raffronto, non può trascurarsi di considerare che il reato di cui alla L. Fall., art. 223, comma 2, n. 2, costituendo un reato cd. "a causalità aperta", può realizzarsi attraverso i più vari comportamenti e non richiede, perciò, come elemento indefettibile la compresenza degli elementi costitutivi di altri reati (donde la più ampia possibilità del concorso materiale)".
Una lettura approfondita delle motivazioni delle sentenze citate, quindi, consente di rilevare come il consolidato indirizzo espressoiti questa Corte regolatrice abbia costantemente sottolineato l'autonomia strutturale della fattispecie di bancarotta impropria, che può realizzarsi attraverso una serie indeterminata di condotte, che solo parzialmente possono venire a coincidere con quelle autonomamente rilevanti a titolo di bancarotta fraudolenta, patrimoniale o documentale, essendo dette condotte ulteriori individuabili in varie e differenziate forme di abusi, infedeltà, sviamento dalle funzioni istituzionali ricoperte dagli organi societari nell'interesse dell'andamento finanziario ed economico della società; condotte tutte che, seppure non necessariamente individuabili altrettante ed autonome ipotesi di reato, vengono avvinte tutte dall'elemento soggettivo del dolo, che le riconduce fisiologicamente ad unità e le indirizza tutte, unitamente alle altre condotte autonomamente rilevanti sul piano penale, all'esito per la realizzazione del quale la sequenza di azioni e/o omissioni è stata ab initio predisposta, ed a cui essa, nel suo complesso, è funzionale, ossia la realizzazione del dissesto. Proprio la peculiarità dell'elemento soggettivo, consistente nel dolo specifico, nel caso del R.D. n. 267 del 1942, art. 223, comma 2, n. 2, prima ipotesi, fornisce la chiave di lettura dell'autonoma rilevanza della fattispecie menzionata che sicuramente, dal punto di vista della condotta, è fattispecie a forma libera, ponendosi essa, come in precedenza osservato, quale norma di chiusura del sistema, funzionale a sanzionare le sequenze di gravi infedeltà, abusi e singole condotte penalmente rilevanti nella misura in cui esse siano avvinte dalla specifica finalità illecita - il cagionamento volontario del dissesto - che riconduce ad unità la sequenza medesima nel suo più vario concreto atteggiarsi.
Nel caso in esame risulta chiaramente formulata nei capi di imputazione, e poi argomentata nella motivazione dei giudici di merito, la circostanza che le condotte ascritte nelle distinte imputazioni i cui ai capi A) da un lato e B), C), D) dall'altro, tutte dimostrate nella loro attuazione, si fossero differenziate tra loro, così da potersi affermare che i fatti eziologicamente ricollegati all'evento fallimentare siano in parte autonomi rispetto a quelli concretanti l'elemento oggettivo delle varie bancarotte per distrazione. Deriva, quindi, dalla stessa previsione normativa, la conseguenza secondo la quale il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale e quello di bancarotta impropria non siano tra di loro in rapporto di specialità, ma si pongano su piani diversi: la prima delle suddette ipotesi criminose postula, infatti, il compimento di atti di distrazione o dissipazione di beni societari ovvero di occultamento, distruzione o tenuta di libri e scritture contabili in modo da non consentire la ricostruzione delle vicende societarie, atti tali da creare pericolo per le ragioni creditorie, a prescindere dalla circostanza che essi abbiano prodotto il fallimento, essendo sufficiente che questo sia effettivamente intervenuto; la seconda, invece, si riferisce a condotte dolose che non costituiscono distrazione o dissipazione di attività, nè si risolvono in un pregiudizio per le verifiche concernenti il patrimonio sociale da operarsi tramite le scritture contabili, ma che devono porsi in nesso eziologico con il fallimento.
Fatta questa distinzione strutturale tra le diverse fattispecie, appare del tutto coerente che - pur in presenza di diverse situazioni concrete - la giurisprudenza di questa Corte abbia ribadito, da un lato, come vada escluso che con le medesime azioni siano realizzabili entrambe le violazioni, e, quindi, che si possa verificare un concorso formale tra i detti reati, mentre appare possibile che le due figure delittuose concorrano materialmente, a condizione che, oltre ad azioni ricomprese nello schema specifico della bancarotta tipica, si siano verificati differenti ed autonomi comportamenti dolosi i quali siano stati causa del fallimento.
Nel caso in esame le condotte rilevanti ai fini della causazione dolosa del fallimento sono state specificamente individuate nel capo A) sub a), c), d), e), f), g), j), k) - evidenziandosi operazioni di fittizi aumenti di capitale, fatturazioni false, vari artifici contabili e di bilancio, dissimulazione di perdite, dirottamento di risorse economiche, acquisti di partecipazioni in società indebitate, ed altre, simili operazioni - affiancandosi alle ulteriori condotte specificamente integranti altrettante fattispecie di bancarotta fraudolenta - indicate sub b), in relazione al capo B), h), in relazione ai capi C1) e C2), i), in relazione al capo D) - e parimenti concorrenti alla causazione dolosa del dissesto delle società del gruppo.
Accertata la possibilità di concorso materiale tra i reati di bancarotta fraudolenta, patrimoniale e documentale, e la bancarotta impropria, in caso di molteplicità di condotte, corretta e logicamente ineccepibile appare la determinazione della Corte territoriale che, al fine di evitare un bis in idem sostanziale, ha ridotto la pena base individuata dal primo giudice, considerando, ai fini della pena, che, pur essendo la condotta di cui al capo A) unitaria, parte della stessa avesse già trovato adeguata sanzione in relazione ai capi B), C), D).
Sotto altro profilo va osservato che proprio l'autonoma rilevanza della fattispecie di cui al R.D. n. 267 del 1942, art. 223, comma 2, n. 2, consente di configurare il concorso materiale con le diverse fattispecie di bancarotta, patrimoniale e documentale, come sin qui descritto, rendendo del tutto irrilevante, ai fini della configurazione della fattispecie sub A), la circostanza che non siano stati contestati reati in relazione ad alcune delle società del gruppo - le sei società indicate specificamente in alcuni ricorsi - stante l'autonomia delle fattispecie, come delineata.
Altrettanto corretto appare l'aumento effettuato dalla Corte territoriale, ai sensi dell'art. 81 c.p., comma 2, avendo considerato che il capo A) riguarda vicende che hanno interessato 24 distinte società, per ciascuna delle quali si è ripetuto lo schema descritto, della causazione dolosa del fallimento per effetto di una molteplicità di operazioni dolose, in parte costituenti concorrenti delitti di bancarotta fraudolenta. La Corte di merito ha infatti considerato l'unità del disegno criminoso sotteso alla realizzazione del dissesto delle 24 società del gruppo, alla luce degli intrecci societari descritti alle pagg. 95-118, evidenziando le operazioni economiche che, secondo il dipanarsi di una precisa trama, hanno coinvolto progressivamente tutte le società individuate nel capo di imputazione sub A). Proprio in applicazione del principio di cui all'art. 81 c.p., comma 2, la Corte territoriale ha, quindi, correttamente applicato l'aumento in relazione alle distinte vicende, indicate sub A), interessanti le 24 società del gruppo; ciò in applicazione del principio affermato da questa Corte, secondo cui qualora il fallimento riguardi società dotate di autonoma personalità giuridica, come nel caso in esame, non è ravvisabile un reato unitario di bancarotta ma, ove ne sussistano gli elementi, un'ipotesi di reato continuato, il che si verifica anche quando le distinte società vengano incluse in un più vasto organismo economico. Il fenomeno del collegamento societario, il cosiddetto "gruppo", quale centro di interessi sovrastante le singole società collegate, ha infatti natura meramente economica, ed allo stato attuale del nostro ordinamento non dà vita ad un unitario centro imprenditoriale dotato di una sua propria soggettività, nè sotto l'aspetto della sussistenza di fattispecie penali nè sotto altri aspetti rilevanti per altri rami dell'ordinamento (Sez. 5, sentenza n. 8452 del 15/06/1984, Frigerio, Rv. 166055; Sez. L., sentenza n. 11033 del 23/08/2000; Sez. L., sentenza n. 3136 del 01/04/1999; Sez. L., sentenza n. 10688 del 29/11/1996). Appare peraltro del tutto superfluo osservare come l'applicazione dell'istituto della continuazione si risolva in un vantaggio per gli imputati che, altrimenti, stante l'indiscussa autonomia delle fattispecie individuate sub A), avrebbero dovuto rispondere delle pene per le imputazioni calcolate secondo il criterio del cumulo materiale.
In relazione alla mancata individuazione dei singoli aumenti per i reati posti in continuazione, va poi ricordato che non sussiste alcuna nullità della sentenza conseguente ad un aumento per il reato continuato determinato in termini complessivi, attesa l'insussistenza di un obbligo di specifica motivazione per ogni singolo aumento, essendo sufficiente indicare le ragioni a sostegno della quantificazione della pena-base; ciò in quanto la graduazione della pena, ancorchè concernente aumenti e diminuzioni correlati rispettivamente a circostanze aggravanti o attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, come per la determinazione della pena base, in aderenza ai principi enunciati dagli artt. 132 e 133 c.p. (Sez. 2, sentenza n. 34662 del 07/07/2016, Felughi ed altro, Rv. 267721; Sez. 5, sentenza n. 29829 del 13/03/2015, Pedercini, Rv. 265141; Sez. 5, sentenza n. 17081 del 26/11/2014, dep. Il 23/04/2015, Bruni ed altri, Rv. 263700).
Profilo del tutto distinto ed autonomo rispetto all'applicazione della disciplina di cui all'art. 81 c.p., comma 2, in relazione alle vicende delle società indicate al capo A), è quello rappresentato dalla pluralità dei fatti di bancarotta e dal danno patrimoniale di rilevante gravità, aggravanti contestate in relazione alle vicende di bancarotta di cui ai capi B), C1), C2), D).
La Corte territoriale, alla pag. 267, ha specificato, come detto, per quali degli odierni ricorrenti, ed in relazione a quali specifiche contestazioni, siano stati ritenuti sussistenti i detti profili: in relazione al capo B), in riferimento agli imputati G., B., F., Ga., T., V. e R., è stata ritenuta sussistente la circostanza aggravante del numero delle persone per quanto riguarda gli episodi sub 24, 25,33; in riferimento agli imputati G., T., Gr., B., F., Ga., T., V., R., C. è stata ritenuta la circostanza dell'aver commesso più fatti distrattivi - in particolare: per G., B. e F. in relazione alle vicende sub 1, 5, 12, 38, 39; per G., B., V., Ga. e R. in relazione alla vicenda sub 24; per G., T., Gr., B., F. e R. in relazione alla vicenda sub 33; per G. e C. in relazione alla vicenda sub 35; per G., V. e C. in relazione alla vicenda sub 42; per il solo G. in relazione alle vicende sub 43 e 45; per il solo V. in relazione alla vicenda sub 44 -; in riferimento agli imputati G., B., F. e G., è stata ritenuta sussistente la circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità. Parimenti è stata ritenuta sussistente la circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità per gli imputati G., T., G., B. in relazione alle vicende indicate ai capi C1) e C2), nonchè, in relazione alle vicende di cui al capo D), per gli imputati G., Gr., B., F..
La ricostruzione operata dalla Corte territoriale appare del tutto in linea con quanto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 21039 del 27/01/2011, P.M. in proc. Loy, Rv. 249665, secondo cui, in tema di reati fallimentari, nel caso di consumazione di una pluralità di condotte tipiche di bancarotta nell'ambito del medesimo fallimento, le stesse mantengono la propria autonomia ontologica, dando luogo ad un concorso di reati, unificati, ai soli fini sanzionatori, nel cumulo giuridico previsto dalla L. Fall., art. 219, comma 2, n. 1, disposizione che pertanto non prevede, sotto il profilo strutturale, una circostanza aggravante, ma detta per i reati fallimentari una peculiare disciplina della continuazione derogatoria di quella ordinaria di cui all'art. 81 c.p..
Ne deriva che proprio detta disciplina della continuazione, come prevista dal R.D. n. 267 del 1942, art. 219, comma 2, n. 1, consente di procedere ad una valutazione unitaria del danno patrimoniale nell'ambito della medesima vicenda fallimentare. L'entità del danno, come pacificamente affermato da questa Corte regolatrice, va commisurata non in riferimento all'entità del passivo o alla differenza tra attivo e passivo, bensì alla diminuzione patrimoniale cagionata direttamente ai creditori dal fatto di bancarotta; ne consegue che il giudizio relativo alla particolare gravità del fatto non può riferirsi al singolo rapporto tra fallito e creditore ammesso al concorso, nè a singole operazioni commerciali o speculative, dovendo, al contrario, essere formulato in relazione alla diminuzione - non percentuale, ma globale - che il comportamento del fallito ha provocato nella massa attiva che sarebbe stata disponibile per il riparto, ove non si fossero verificati gli illeciti. Ciò non significa, peraltro, che l'entità dell'attivo e delle distrazioni operate debba essere interamente e dettagliatamente ricostruita, essendo sufficiente dimostrare la distrazione di beni di rilevante entità e l'incidenza di questa, in misura consistente, sul riparto (Sez. 5, sentenza n. 49642 del 02/10/2009, Olivieri, Rv. 245822; Sez. 1, sentenza n. 12087 del 10/10/2000, Di Muni, Rv. 217403).
E) Legittimazione della CIT Belgium alla costituzione come parte civile.
Quanto alla legittimazione della CIT Belgium s.a. in fallimento, ammessa alla costituzione di parte civile nei confronti di tutti gli imputati in riferimento al solo capo A) dell'imputazione, il primo giudice ha rilevato come l'atto di costituzione avesse ad oggetto i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti e ricollegabili al fallimento della stessa società. Dall'atto di costituzione, infatti, si evince che la vicenda è ricollegata all'aumento di capitale sociale - da Euro 460.000,00 ad Euro 4.260.000,00 - con contestuale riduzione per perdite ad Euro 1.860.000,00, deliberato nell'ottobre 2003 dalla CIT Belgium s.a., società di diritto belga sottoposta al controllo della holding CIT s.p.a., ed avvenuto attraverso trasferimento di fondi da parte della CIT s.p.a. alla controllata belga; tuttavia la CIT s.p.a. provvedeva a richiedere, contestualmente al versamento, la restituzione dei fondi appena versati per la ricapitalizzazione, con la garanzia che gli stessi sarebbero stati prontamente rimborsati; detto rimborso avveniva solo in parte, con conseguente verificarsi si uno scoperto per Euro 2.500.000,00, per cui la CIT Belgium provvedeva ad annullare la delibera di aumento del capitale per perdite, ed adiva il Tribunale di Bruxelles, innanzi al quale faceva valere le proprie ragioni, determinate dai comportamenti della società madre che avevano determinato un grave dissesto finanziario, al fine di ottenere il recupero del credito per l'importo di Euro 2.850.000,00. L'Autorità giudiziaria belga condannava la CIT s.p.a. al pagamento della somma richiesta, secondo un piano di rateizzazione che, nonostante la delibazione della sentenza in data 18/10/2005 da parte della Corte di Appello di Milano, non veniva rispettato, per cui la CIT Belgium veniva dichiarata fallita dal Tribunale del Commercio di Bruxelles in data 31/05/2005. Inoltre la CIT Belgium s.a. ha rappresentato che già nel maggio 2002 la CIT s.p.a. aveva ceduto ad essa CIT Belgium la propria partecipazione nella società Frantour Belgium s.a., chiedendo il versamento di una caparra confirmatoria dell'importo di Euro 500.000,00, operazione descritta al punto j) del capo A), quale operazione infragruppo, e che, nonostante la presenza del G. nel CdA della CIT Belgium, benchè all'epoca in cui era stato deliberato l'aumento di capitale il buco della CIT s.p.a. ammontasse già ad Euro 100.000.000,00, mai la controllante aveva palesato alla controllata le reali condizioni di dissesto finanziario, determinando pertanto la creazione dello stato di insolvenza della CIT Belgium, atteso che a fronte di un passivo accertato per Euro 9.900.000,00, il credito accertato verso la CIT s.p.a. rappresentava circa un terzo dell'attivo.
A fronte di detta esposizione dei fatti la Corte di merito, alla pag. 135 della sentenza impugnata, ha rilevato che, benchè la CIT Belgium s.a. fosse un creditore insinuato al passivo del fallimento, essa vantasse, tuttavia, un titolo risarcitorio di carattere patrimoniale del tutto speciale, non consistente solo nel mancato pagamento dell'ingente credito, ma scaturente dalle conseguenze da esso derivanti, ossia il fallimento della stessa CIT Belgium s.a.; detto effetto fonda, quindi, una pretesa creditoria uri singulus, del tutto indipendente dalla legittimazione dell'amministrazione straordinaria e propria della società fallita, alla quale, quindi, spetta a titolo autonomo il risarcimento del danno derivante dall'intervenuto fallimento, che non si sarebbe verificato se CIT s.p.a. avesse restituito la somma trattenuta a titolo di finanziamento. Coerentemente con l'ascrivibilità soggettiva della fattispecie sub A), la Corte di merito ha pronunciato condanna al risarcimento del danno ed alla provvisionale nei confronti di tutti i soggetti ritenuti responsabili delle condotte di cui al citato capo di imputazione. Tanto premesso sotto l'aspetto ricostruttivo della vicenda, ciò che occorre evidenziare, è la circostanza che la CIT Belgium s.a. non risulta in alcun modo compresa nell'elenco delle società di cui al capo A), per cui essa, tecnicamente, nell'ambito del presente processo, deve essere qualificata come soggetto danneggiato, non potendo certamente essere ricompresa nel novero delle persone offese, per la ragione indicata. Ciò nondimeno essa vanta un titolo autonomo che ne legittima la costituzione di parte civile proprio per l'effetto scaturente dalla descritta vicenda.
Non vi è dubbio che la giurisprudenza di questa Corte ammetta pacificamente sia sotto l'aspetto sostanziale (ad esempio: Sez. 3, sentenza n. 3445 del 02/02/1995, P.M., Carnovale ed altri, Rv. 203401; Sez. 6, sentenza n. 2613 del 30/05/1994, Raimondi, Rv. 199535; Sez. 1, sentenza n. 2123 del 28/01/1993, P.G. in proc. Del Savio, Rv. 195952; Sez. 2, sentenza n. 8425 del 03/05/1988, Zordan, Rv. 178967; Sez. 2, sentenza n. 4153 del 20/02/1987, Occhipinti, Rv. 175565; Sez. 5, sentenza n. 650 del 26/09/1985, Pais, Rv. 171613; Sez. 5, sentenza n. 11035 del 09/07/1979, Blanco, Rv. 143727) che sotto quello processuale (ad esempio: Sez. 2, sentenza n. 12028 del 19/02/2010, P.C., Caletti ed altri, Rv. 246728; Sez. 3,sentenza n. 50929 del 14/11/2013, P.M. e P.C. in proc. Angellotto ed altri, Rv. 258018; Sez. 3, sentenza n. 1943 del 11/01/1983, Perticarini, Rv. 157776; Sez. 4, sentenza n. 10708 del 17/06/1981, Mosca, Rv. 151165; Sez. 6, sentenza n. 2671 del 28/11/1973, dep. 28/03/1974, Barabesi, Rv. 126611; Sez. 4, sentenza n. 8234 del 27/06/1972, Piombino, Rv. 122619; Sez. 6, sentenza n. 541 del 28/04/1971, Poles, Rv. 118479; Sez. 1, ordinanza n. 2553 del 01/12/1970, dep. il 13/01/1971, Paolantoni, Rv. 116185) - la differenza concettuale tra la persona offesa ed il danneggiato del reato: persona offesa, o soggetto passivo, è il titolare dello specifico interesse e bene giuridico considerato dalla singola fattispecie, nozione propria del diritto penale, in quanto attiene ad un elemento strutturale del reato, mentre danneggiato è colui al quale il reato ha cagionato direttamente un danno di indole civile, nozione, quindi, che riflette il profilo privatistico dell'illecito penale; il danneggiato, quindi, può essere diverso dal soggetto passivo (Sez. 3, sentenza n. 1470 del 28/06/1969, Sarluca, Rv. 113163), ed è, in ogni caso, legittimato ad esercitare l'azione civile nel processo penale (Sez. 5, sentenza n. 4116 del 28/01/1983, Bortolotti, Rv. 158854).
Con particolare riferimento ai reati fallimentari, va ricordato che è stato affermato, in tema di bancarotta fraudolenta, che parte offesa è la generalità dei creditori rappresentata dal curatore; ne deriva che il singolo creditore può costituirsi parte civile solo nella sua qualità di persona danneggiata dai reato, nelle ipotesi individuate dall'art. 240 L. Fall. che, testualmente, prevede che i creditori possano costituirsi parte civile nel procedimento penale per bancarotta fraudolenta, quando manchi la costituzione del curatore, del commissario giudiziale o del commissario liquidatore o quando intendano far valere un titolo di azione propria personale (Sez. 5, sentenza n. 5010 del 07/09/2015, dep. 08/02/2016, Zammarchi ed altro, Rv. 266376; Sez. 5, sentenza n. 23647 del 11/04/2016, P.O. in proc. Mauri, Rv. 267043). Come noto, la più recente giurisprudenza di questa Corte ha affermato che il divieto di costituzione di parte civile dei creditori uti singuli, di cui all'art. 240 L. Fall., si estenda anche alle diverse ipotesi incriminatrici contenute nell'art. 223 L. Fall., salva la possibilità di far valere un titolo di azione propria personale (Sez. 5, sentenza n. 43101 del 22/11/2007, Mazzotta ed altri, Rv. 239498), superando il precedente e più risalente orientamento, secondo cui la previsione di cui all'art. 240 L. Fall. riguarderebbe il solo reato di bancarotta fraudolenta, laddove detta disposizione non sarebbe operativa nel caso in cui si proceda per alcuno dei reati di cui al capo 2^ del titolo 6^ della Legge Fallimentare (Sez. 5, sentenza n. 1727 del 11/02/1988, Tibaldi, Rv. 177556).
Tanto premesso, la CIT Belgium s.a., come affermato dalla Corte territoriale sulla scorta degli indicati principi, è legittimata in proprio come parte danneggiata alla costituzione di parte civile, in quanto, ai sensi dell'art. 240 L. Fall., essa era fallita a seguito di alcune delle condotte indicate al capo A), sub j) e, come tale, risulta portatrice di un interesse personale, in quanto l'intervenuto fallimento, pronunciato dall'A.G. belga, costituisce senza alcun dubbio un fatto ulteriore rispetto all'insinuazione al passivo fallimentare.
Nè può ritenersi sussistente alcuna ipotesi di ricorso all'art. 649 c.p., in quanto, come detto, la CIT Belgium, nell'ambito del presente processo, non è considerata come facente parte del gruppo ai fini delle contestazioni elevate, e non rientra nelle 24 società del gruppo indicate al capo A), in relazione alle quali è intervenuta l'impugnata sentenza di condanna.
F) Provvisionale:
Quanto alle questioni sollevate dalle difese, concernenti l'ammontare della somma liquidata a titolo di provvisionale provvisoriamente esecutiva, pari ad Euro 2.000.000.00, somma ritenuta eccessiva, oltre che immotivata, va osservato che il primo giudice ha quantificato detta somma sulla scorta di due precisi elementi: il finanziamento non restituito da CIT s.p.a., pari ad Euro 3.000,000,00, ed il passivo fallimentare, pari ad Euro 9.000.000,00. La Corte di merito, alla pag. 132 della sentenza impugnata, ha affermato come fosse stato accertato un danno patrimoniale conseguente alle accertate distrazioni di cui al capo B) - pari a complessivi Euro 14.000.000,00 - parte delle quali rilevanti ai fini delle condotte di cui al capo A), mentre le distrazioni di cui ai capi C) e D), anch'esse in parte ricomprese nelle condotte rilevanti sub A), ammontassero, rispettivamente, ad Euro 39.416.000,00 ed ad Euro 18.160.867,00; quindi la Corte ha limitato a tale voce di danno la imputazione della provvisionale, ritenendo raggiunta la prova per gli importi indicati ed effettuando una quantificazione della provvisionale secondo equità, ovviamente nei limiti entro i quali era stata raggiunta la prova del danno.
Appare evidente, quindi, come sussista una motivazione del tutto congrua in relazione alla quantificazione della provvisionale, anche in considerazione del principio, pacificamente affermato da questa Corte, secondo cui, in tema di liquidazione della provvisionale non è affatto necessaria la prova dell'ammontare del danno stesso, essendo sufficiente la sola certezza della sua sussistenza sino all'ammontare della somma liquidata (Sez. 6, sentenza n. 39542 del 22/03/2016, Fronti ed altri, Rv. 268110). In ogni caso non è suscettibile di riesame in sede di legittimità la decisione sulla provvisionale congruamente motivata, come verificatosi nel caso in esame, avendo la giurisprudenza di questa Corte affermato altresì che non è impugnabile con ricorso per cassazione nè la statuizione pronunciata in sede penale e relativa alla concessione e quantificazione della provvisionale, nè quella relativa alla mancata concessione della provvisionale stessa, trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente delibativa e non necessariamente motivata, in quanto per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e, in caso di concessione della provvisionale, destinata ad essere travolta dall'effettiva liquidazione dell'integrale risarcimento (Sez. 3, sentenza n. 18633 del 27/01/2015, D.G., Rv. 263486; Sez. 6, sentenza n. 50746 del 14/10/2014, P.C. e G., Rv. 261536; Sez. 5, sentenza n. 32899 del 25/05/2011, Mapelli ed altri, Rv. 250934; Sez. 5, sentenza n. 40410 del 18/03/2004, Farina ed altri, Rv. 230105).
G) Solidarietà passiva.
Altra questione di carattere generale prospettata riguarda la portata della responsabilità solidale degli imputati, in relazione alle questioni di ordine civilistico.
Detto aspetto è già stato esaurientemente trattato da questa Corte (Sez. 5, sentenza n. 32352 del 07/03/2014, Tanzi ed altri, Rv. 261940; Sez. 5, sentenza n. 18656 del 18/01/2007, Boni ed altro, Rv. 236915), che è pervenuta alla formulazione del principio - enunciato dalla seconda delle due sentenze in precedenza citate ed applicato, in materia fallimentare, dalla prima - secondo cui la previsione di cui all'art. 187 c.p., comma 2, - disponendo che i condannati per uno stesso reato sono obbligati in solido al risarcimento del danno patrimoniale o non patrimoniale - impone la solidarietà nel caso di condanna di più soggetti per uno stesso reato, ma non la esclude quando più condotte, sia pure a titolo diverso, abbiano concorso a cagionare un unico evento dannoso, con la conseguenza che il presupposto unificante della responsabilità solidale civile deve essere colto nell'unicità dell'evento dannoso e non nell'unicità del fatto produttivo del pregiudizio.
E' stato, in particolare, osservato - con motivazione del tutto condivisa pertanto, come l'autonoma natura dell'obbligazione civilistica, derivante dallo specifico illecito che assuma anche rilevanza penale, comporti necessariamente una lettura dell'art. 187 c.p. che si raccordi con la disciplina, successivamente adottata dal legislatore, dell'art. 2055 c.c., come pacificamente affermato da molteplici pronunce di questa Corte (Sez. 4, n. 16998 del 24/01/2006, Pisanu, Rv. 233832; Sez. 4, n. 49346 del 27/10/2004, Di Vaira, Rv. 230580; Sez. 4, n. 5728 del 04/12/2001 - dep. 13/02/2002, Taddeo, Rv. 220955; Sez. 4, n. 7970 del 21/04/1988, Loverso, Rv. 178839) secondo cui tanto nel procedimento penale, come nel procedimento civile che potrebbe essere autonomamente instaurato, operi, a tutela del danneggiato, la regola secondo la quale tra i corresponsabili di un danno sussiste sempre responsabilità solidale e paritaria, a nulla rilevando che ciascuno di essi abbia contribuito al verificarsi dell'evento dannoso finale, rendendosi inadempiente ad obblighi scaturiti da fonti diverse (v., ad es., nella giurisprudenza civile, Sez. 2, n. 7404 del 11/05/2012, Rv. 622526). Nè apparirebbe ragionevole una disciplina che sottraesse alla generale regola della solidarietà proprio le ipotesi di responsabilità derivanti da fatti illeciti che, in quanto sussumibili in fattispecie penali, sono caratterizzati dall'ordinamento in termini di maggiore disvalore. In questa prospettiva va intesa anche la giurisprudenza penale che, nonostante le affermazioni di principio legate alla lettera dell'art. 187 c.p. e al presupposto della condanna per uno stesso reato, finisce per dare rilievo, al fine di escludere la solidarietà, alla diversità di eventi dannosi (Sez. 2, n. 15285 del 26/03/2010, Pieropan, Rv. 247036).
Va poi ricordato che da ultimo le Sezioni Unite, con la sentenza del 21/07/2016, n. 38670, Culasso, hanno affermato, ribadendo un precedente indirizzo sul punto (Sez. 4, 30 aprile 1984, n. 10226, Rv. 166762; Sez. 4, 9 giugno 1983, n. 9677, Rv. 161233; Sez. 4, 24 gennaio 2006, Rv. 233832), che l'unicità del fatto dannoso richiesta dall'art. 2055 c.c., ai fini della configurabilità della responsabilità solidale di più autori di un fatto illecito, deve intendersi riferita esclusivamente al danneggiato, in coerenza con la funzione propria dell'istituto di rafforzare la garanzia di quest'ultimo e, pertanto, tale unicità sussiste quando le diverse azioni od omissioni, dolose o colpose, pur costituenti fatti illeciti diversi, siano legate da un vincolo di interdipendenza ed abbiano concorso in maniera efficiente a determinare l'evento.
H) Costituzioni di parte civile in relazione all'art. 416 c.p. e legittimazione del Commissario governativo
In relazione alla possibilità, ammessa da entrambe le sentenze di merito, per le costituite parti civili, Commissario governativo e lavoratori dipendenti, di avanzare le loro richieste non solo in relazione ai reati fallimentari, ma anche in relazione alla fattispecie associativa di cui al capo E), va detto che senza alcun dubbio, come osservato dalle difese dei ricorrenti, la fattispecie associativa è un reato contro l'ordine pubblico, il che, tuttavia, non esclude affatto la possibilità di riconoscere la legittimazione alla costituzione di parte civile nel caso in esame. Questa Corte regolatrice ha già affermato - come ricordato trattando la questione sub D) - la distinzione sussistente tra il soggetto passivo del reato, coincidente con la persona offesa, ed il danneggiato dal reato, individuandone la strutturale differenza. Alle già illustrate considerazioni va aggiunto come, proprio in tema di delitto associativo, sia stato affermato che, in tema di risarcimento del danno, il soggetto legittimato all'azione civile non è solo il soggetto passivo del reato (cioè il titolare dell'interesse protetto dalla norma incriminatrice), ma anche il danneggiato, ossia chiunque abbia riportato un danno eziologicamente riferibile all'azione od omissione del soggetto attivo del reato, con la conseguenza che, ove un reato si inquadri nel piano criminoso di una associazione per delinquere, la vittima del reato-fine è legittimata a costituirsi parte civile sia per il reato-fine che per quello associativo (Sez. 2, sentenza n. 4380 del 13/01/2015, Lauro ed altro, Rv. 262371).
Detta situazione risulta essersi verificata proprio nel caso in esame, in cui la struttura associativa era finalizzata alla commissione di plurimi delitti di bancarotta, il che, intuitivamente, ha avuto un risvolto rilevante anche ai fini del danno risarcibile in favore delle parti civili costituite, apparendo indiscutibile come il delitto di cui all'art. 416 c.p., pur nella sua struttura di delitto contro l'ordine pubblico, abbia, nel suo concreto atteggiarsi, una funzione amplificatrice della valenza offensiva dei singoli reati - fine, che nella loro portata offensiva non possono che risultare potenziati dall'inquadramento in un contesto di tipo organizzato, come quello descritto e ritenuto, nel caso in esame, sussistente. In tal senso appare del tutto immune da vizi rilevabili in sede di legittimità la motivazione offerta dalla Corte di merito in ordine all'operatività del meccanismo associativo, alla pag. 23 e segg. della sentenza impugnata, in cui viene sottolineata l'incidenza della portata offensiva della struttura organizzata in relazione al depauperamento delle imprese facenti parte del gruppo CIT; detta motivazione, inoltre, appare del tutto soddisfacente sotto il profilo motivazione, anche in considerazione della condanna generica pronunciata al risarcimento dei danni.
D'altro canto costituisce ius receptum, nella giurisprudenza di questa Corte, il principio secondo cui la responsabilità civile derivante da reato ha ad oggetto ogni danno eziologicamente riferibile all'azione od omissione del soggetto attivo del reato, e tale rapporto di causalità sussiste anche quando il fatto reato, pur non avendo determinato direttamente il danno, abbia tuttavia prodotto uno stato tale di cose che senza di esse il danno non si sarebbe verificato (Sez. 6, sentenza n. 11295 del 02/12/2014, dep. 17/03/2015, Vignati ed altro, Rv. 263170; Sez. 1, sentenza n. 46084 del 21/10/2014, P.C. in proc. Galdiero, Rv. 261482; Sez. 1, sentenza n. 4060 del 08/11/2007, dep. 25/01/2008, Sommer ed altri, Rv. 239189). Va quindi ritenuto che detto principio vada applicato anche nel caso in cui la realizzazione del danno sia stata rafforzata ed amplificata, nel senso che la potenzialità offensiva del reato-fine, in quanto inserito in una struttura associativa che ne ha consentito ed agevolato la realizzazione, ne sia risultata rafforzata e maggiormente incisiva.
Altro aspetto concerne, poi, la legittimazione del Commissario governativo alla costituzione di parte civile per reati diversi da quelli previsti dal R.D. n. 267 del 1942, limitazione che, secondo le prospettazioni difensive, deriverebbe dall'art. 240 L. Fall..
Detta impostazione non appare condivisibile, atteso che dalla formulazione della norma non si evince alcuna limitazione alla legittimazione del curatore fallimentare, e delle figure allo stesso equiparate, tra cui il Commissario governativo, alla costituzione di parte civile per reati diversi dalla bancarotta e dagli altri reati fallimentari.
Peraltro questa Corte ha già pacificamente ammesso la legittimazione attiva della curatela fallimentare a costituirsi parte civile nei processi per violazioni tributarie (Sez. 3, sentenza n. 14729 del 06/03/2008, Lumina ed altri, Rv. 239973), per cui va osservato come l'individuazione della persona offesa nel caso dell'art. 416 c.p., il Ministro pro tempore dell'Interno - non esclude affatto che vi possano essere anche altri soggetti danneggiati dai medesimi reati, come tali legittimati a costituirsi parti civili nel relativo processo penale. Nel caso in esame, come detto, il giudice di merito ha accertato - come risulta dalla motivazione della sentenza impugnata - la sussistenza di un articolato meccanismo di drenaggio delle liquidità, attuato attraverso le 24 società indicate al capo A), ciascuna delle quali rappresentava un elemento essenziale al raggiungimento dello scopo, ossia il depauperamento sistematico delle società appartenenti al gruppo, attraverso la commissione di plurime condotte distrattive, al fine di assicurare un ingente profitto agli associati, determinando il fallimento delle società del gruppo. Di qui la legittimazione del Commissario governativo a costituirsi parte civile contro gli imputati, nello interesse delle stesse società fallite e della massa dei creditori.
Nè appare condivisibile una diversa interpretazione dell'art. 240 L. Fall., la quale estende la legittimazione del curatore e delle figure assimilate all'azione civile contro lo stesso fallito per i reati di bancarotta e per gli altri reati fallimentari, senza peraltro limitarne o escluderne la legittimazione, come prevista dalle norme generali, per ottenere il risarcimento nell'interesse dello stesso fallito e della massa dei creditori, contro tutti gli altri soggetti che abbiano cagionato un danno al patrimonio della impresa fallita.
Le doglianze difensive sul punto sembrano confondere la problematica sin qui analizzata con un diverso aspetto della disciplina dettata dall'art. 240 L. Fall., ossia la legittimazione dei creditori uti singuli ad esercitare l'azione civile nel procedimento penale per il delitto di bancarotta fraudolenta quando intendano far valere un titolo di azione propria, personale, per i quali la costituzione operata dal curatore fallimentare, e dalle figure ad esso equiparate, non vale certamente a realizzare le specifiche ragioni risarcitorie degli interessati, per difetto di titolarità della relativa azione (Sez. 5, sentenza n. 42608 del 12/04/2005, De Asmundis, Rv. 232846).
Detto aspetto, evidentemente, non va confuso con quello della legittimazione del curatore, e delle figure ad esso equiparate, alla costituzione di parte civile non solo per i reati fallimentari, ma anche per le altre fattispecie da cui sia derivato un danno per il soggetto fallito, atteso che, in caso contrario, non si comprende quale dovrebbe essere il soggetto legittimato a tutelarne le ragioni risarcitorie: non il fallito stesso, il quale è per definizione spossessato dei suoi beni e dei relativi diritti patrimoniali, non il curatore fallimentare, in virtù della restrittiva interpretazione dell'art. 240 legge fallimentare offerta dai difensori.
Vanno ora esaminati i ricorsi dei singoli imputati, specificando che saranno trattate le sole questioni che esulano dall'inquadramento delle problematiche comuni descritte ed esaminate in premessa, ed alle quali, si fa rinvio tutte le volte in cui non è necessario alcuna specifica ed ulteriore trattazione dell'argomento.
1. Il ricorso presentato nell'interesse di G.G.V. è infondato e va, pertanto, rigettato.
1.1 In relazione al primo motivo di ricorso vanno richiamate tutte le considerazioni svolte nella trattazione delle questioni generali, sub D), in merito alla configurabilità del concorso materiale tra le fattispecie di bancarotta fraudolenta, di cui al R.D. n. 267 del 1942, art. 216, e quella di bancarotta impropria, di cui all'art. 223, comma 2, n. 2, cit. R.D.. Alla luce delle argomentazioni richiamate, quindi, può affermarsi l'irrilevanza della circostanza che non siano stati contestati reati in relazione ad alcune società del gruppo - le sei società richiamate in ricorso - stante l'autonomia delle fattispecie, come delineata. Parimenti vanno richiamate le considerazioni sub D) in ordine alla descritta rilevanza puramente economica del gruppo societario, in riferimento al reato sub A) ed all'applicazione dell'istituto della continuazione, ai sensi dell'art. 81 c.p., comma 2.
Analogamente, vanno richiamate le illustrate considerazioni circa la sussistenza delle contestate circostanze aggravanti, come esplicitate nella richiamata trattazione generale sub D).
1.2. In relazione al secondo motivo di ricorso appare sufficiente fare riferimento alle considerazioni contenute nella trattazione generale, sub E), avente ad oggetto la legittimazione della CIT Belgium s.a. alla costituzione di parte civile, ribadendo come, in relazione al G.G.V., non appare possibile invocare l'art. 649 c.p.p., atteso che l'intervenuto proscioglimento del G.G.V. da parte dell'A.G. belga non appare sufficiente alla configurazione della sussistenza del medesimo fatto in relazione alla sentenza oggetto di ricorso, considerato che la CIT Belgium s.a. non risulta tra le 24 società del gruppo relativamente alle quali sono state configurate le fattispecie penalmente rilevanti poste a fondamento della sentenza impugnata. Diverso, inoltre, appare il profilo concernente il risarcimento del danno, per il quale la CIT Belgium s.a. è stata ammessa alla costituzione di parte civile, atteso che, seppure non appaia condivisibile l'inciso contenuto nella motivazione della Corte a pag. 273 della sentenza impugnata - circa la mancanza del procedimento di riconoscimento della sentenza straniera - detto aspetto appare inconferente e superato dalla motivazione alla pag. 135 della sentenza impugnata, richiamata nella trattazione della questione al punto E) in precedenza illustrato, in cui è stata affrontata la tematica concernente la legittimazione della CIT Belgium s.a. In realtà, come visto, la sentenza ha evidenziato il contenuto dei rispettivi atti di costituzione delle parti civili, aventi ad oggetto: quanto al commissario straordinario, i danni, patrimoniali e non, subiti dalle 24 società del gruppo in amministrazione straordinaria in conseguenza dei plurimi fatti di bancarotta e del delitto associativo; quanto alla CIT Belgium in fallimento, i danni, patrimoniali e non, subiti e ricollegabili alla vicenda fallimentare; quanto ai lavoratori dipendenti, i danni, patrimoniali e non, subiti a seguito del collocamento in cassa integrazione, al licenziamento ed alle conseguenze ulteriori derivanti da dette vicende; quanto al dipendente P., i danni patrimoniali pari alla differenza tra i crediti di lavoro ammessi al passivo di CIT Viaggi e quanto ricevuto dall'INPS sul presupposto dell'intervenuta insolvenza della fallita. Tanto premesso, è stato chiaramente distinto il profilo concernente l'insinuazione al passivo da parte della CIT Belgium s.a., che è chiaramente collegabile al credito vantato nei confronti della controllante, come riconosciuto anche dall'autorità giudiziaria belga, ed il diverso profilo afferente al danno - ontologicamente diverso - derivante dalla causazione del fallimento come conseguenza delle illecite condotte individuate nella bancarotta impropria ex R.D. n. 267 del 1942, art. 223, comma 2, n. 1, di cui alla presente sentenza. Trattasi, come già evidenziato, di profili del tutto differenti, non assimilabili tra loro ed operanti su piani processuali diversi, trovando la costituzione di parte civile della CIT Belgium legittimazione nell'art. 240 L. Fall., come indicato nella trattazione generale, in cui si è sottolineato come la detta società di diritto belga, non indicata tra le 24 società del gruppo di cui al capo A), vada qualificata come soggetto danneggiato, portatore di un interesse civilistico proprio, derivante dal danno civilistico scaturente dall'illecito penale, non potendo essa essere considerata soggetto passivo della condotta sub A), in quanto non individuata tra le società del gruppo indicate nel detto capo di imputazione e, come tale, non potendo essere rappresentata dal commissario straordinario nel presente processo, non essendone parte. Va, conclusivamente, aggiunto che il riconoscimento in sede fallimentare del credito vantato dalla CIT Belgium, riconosciuto dalla stessa autorità giudiziaria belga, rileva sul piano della tutela del ceto creditorio del gruppo CIT a seguito della procedura di amministrazione straordinaria, in cui la CIT Belgium rientra, e trova la sua tutela nella procedura fallimentare, a mezzo dell'ammissione al passivo; detto piano, quindi, è del tutto diverso da quello ulteriore dei danni derivanti alla CIT Belgium dalle vicende che ne hanno cagionato il fallimento e che sono collegate alla specifica fattispecie delittuosa di cui al capo A), ai sensi dell'art. 240 L. Fall., rispetto alle quali la detta società vanta un titolo risarcitorio del tutto autonomo.
1.3. Quanto alla determinazione della pena, oltre alle considerazioni effettuate sub D) in relazione all'aumento per la continuazione - apportato in misura pari ad anni uno mesi quattro di reclusione, e quindi cumulativamente, in relazione alle vicende delle 23 società di cui al capo A) -, va aggiunto che non appare agevole, nella presente sede processuale, individuare quale sarebbe l'interesse attuale del ricorrente alla individuazione dei singoli aumenti di pena a titolo di continuazione per i reati satellite, ex art. 81 c.p., comma 2, posto che in caso di estinzione di uno o più dei detti reati in continuazione il giudice dell'esecuzione avrebbe il compito di individuare le singole porzioni di aumento, ed in quella sede, quindi, eventualmente eliminare gli aumenti corrispondenti alle fattispecie prescritte, previa individuazione degli stessi.
In ordine, infine, alla quantificazione della pena, parimenti vanno richiamate le considerazioni generali di cui al punto D), avendo la Corte di merito applicato al ricorrente le circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto a tutte le contestate aggravanti, come specificamente individuate in relazione al ruolo svolto ed in riferimento ad ogni singola fattispecie di reato, come individuato a pag. 267 della sentenza impugnata; la pena base, peraltro ridotta rispetto a quella individuata dal primo giudice, è stata fissata in considerazione del ruolo svolto, anche valutando la condotta processuale, con motivazione immune da censure logiche; unico aumento, quindi, risulta quello apportato, ai sensi dell'art. 81 c.p., comma 2, per i reati satelliti individuati al capo A) in relazione alle 23 società del gruppo, essendo stata considerata più grave vicenda quella relativa alla CIT s.p.a., secondo quanto già ampiamente illustrato nella esposizione generale al punto D).
2. Il ricorso del T.A.F. è infondato e va, pertanto, rigettato. 2.1. Quanto ai primi tre motivi di ricorso, appare sufficiente richiamare le argomentazioni contenute nella trattazione delle questioni generali, sub B), dovendosi aggiungere che le doglianze poste a fondamento dei detti motivi tendono alla reintroduzione di considerazioni critiche relative alla formulazione ed alla configurazione della fattispecie ascritta al ricorrente al capo A), benchè il T. avesse espressamente ed incontestabilmente rinunziato ai motivi di gravame su detto capo della sentenza appellata.
2.2. In relazione al secondo motivo di ricorso, pacifico è il principio affermato da questa Corte, secondo cui è applicabile la circostanza aggravante comune della pluralità di fatti di bancarotta, di cui all'art. 219, comma 2, n. 1 L. Fall., all'ipotesi della bancarotta fraudolenta impropria, sia alla previsione di cui all'art. 223, comma 1, che prevedendo lo stesso trattamento sanzionatorio stabilito per la bancarotta propria implica l'applicabilità del relativo regime sanzionatorio nella sua interezza, comprensivo, pertanto, del regime dell'aggravante in questione; sia all'ipotesi di cui all'art. 223, comma 2, riguardo a cui la previsione della applicabilità della pena prevista dall'art. 216, comma 1 deve intendersi comprensiva dell'intero trattamento sanzionatorio previsto per la bancarotta propria, e dunque anche del regime dell'aggravante; nè all'applicazione della predetta aggravante osta l'interpretazione analogica, trattandosi di disposizione favorevole all'imputato, posto che la previsione di cui all'art. 219, comma 2, n. 1, esclude il concorso di reati e, pertanto, il cumulo materiale delle pene nel caso di commissione di più fatti tra quelli previsti dagli art. 216, 217 e 218 L. Fall. ed è, inoltre, soggetta all'ordinario giudizio di bilanciamento tra le aggravanti ed attenuanti di cui all'art. 69 c.p. (Sez. U, sentenza n. 21039 del 27/01/2011. P.M. in proc. Loy; Rv. 249666 Sez. 5, sentenza n. 8829 del 18/12/2009, Truzzi ed altri, Rv. 246155).
2.3. Quanto al quarto motivo di ricorso, vanno richiamate le considerazioni svolte nella trattazione delle questioni generali, sub B).
2.4. In relazione al quinto e sesto motivo di ricorso, va ricordato che la Corte territoriale, alle pagg. 186-188 della sentenza impugnata, dopo aver riprodotto testualmente la motivazione con cui il primo giudice aveva rigettato l'eccezione di indeterminatezza dei capi di imputazione sub A) ed E), ha espressamente affermato di condividerne il percorso logico-giuridico, aggiungendo, in relazione al capo A), che essa, come riportata nell'epigrafe della sentenza di primo grado, mancasse dell'indicazione dei ruoli rivestiti dai singoli imputati, peraltro desumibili dal complesso motivazionale, oltre che indicati nel decreto che dispone il giudizio, in cui ciascun imputato è non solo individuato in relazione al ruolo di amministratore e/o di componente dell'organo amministrativo rispettivamente ricoperto nelle singole società, ma anche quale concorrente dei coimputati in riferimento alle società in cui non rivestiva alcuna veste formale; ha poi aggiunto la Corte di merito che la descrizione delle condotte contenute nel capo A) fosse riconducibile ad una ricostruzione della fattispecie criminosa complessivamente contestata, atteso che il manifestarsi ed susseguirsi delle condotte medesime fosse esplicativo del cagionamento doloso del fallimento dell'intero gruppo societario, complessivamente e, quindi, nelle sue singole componenti, come evincibile anche dalle date di declaratoria del dissesto, dimostrative del fatto che si fosse verificato dapprima il fallimento della capofila e delle società ad essa più prossime e quindi, due anni dopo, il fallimento delle società progetto che si era tentato di mantenere in vita anche per realizzare gli ipotizzati investimenti immobiliari, benchè i mezzi finanziari di dette società risultassero già del tutto compromessi dalla strategia degli imputati, consumata anche a danno delle dette società progetto.
Quanto al capo E), la Corte di merito ha aggiunto, alle considerazioni del primo giudice, che la citata fattispecie fosse stata formulata in maniera da descrivere i vari livelli in cui i compartecipi dell'associazione si erano inscritti nella stessa, nonchè l'ambito dei delitti che ne costituivano il programma, dapprima indefinito nei dettagli e quindi concretizzatosi nelle condotte descritte negli altri capi, evidentemente frutto della identica strategia ideata inizialmente e quindi man mano realizzata.
A fronte di detta motivazione - peraltro del tutto specifica ed immune da vizi argomentativi - i motivi di ricorso appaiono del tutto reiterativi delle doglianze avanzate in sede di appello e, quindi, palesemente generici.
2.5. Quanto agli ulteriori motivi di ricorso, suscettibili di trattazione congiunta in quanto aventi ad oggetto diversi profili attinenti alla determinazione della pena, oltre alle considerazioni contenute nella trattazione delle questioni generali, sub C) e D), alle quali si fa rinvio, va ricordato come la sentenza impugnata, a pag. 267, abbia indicato specificamente quali fossero le circostanze aggravanti contestate in relazione agli episodi delittuosi di cui il T. rispondeva, in riferimento ai singoli capi di imputazione - capo B: numero delle persone per i fatti 24, 25, 33; pluralità di fatti distrattivi per i fatti sub 20, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, dovendosi integrare l'elencazione contenuta a pag. 267 della sentenza con gli episodi del capo B) di cui il ricorrente è stato ritenuto responsabile. Quanto al capo A), la Corte di merito, come già ricordato, ha ritenuto di tutta evidenza la sussistenza delle circostanze aggravanti del numero delle persone e della gravità del danno, pur pervenendo ad una riduzione della pena base in considerazione del fatto che parte delle condotte descritte sub A) avessero già trovato adeguata sanzione nelle contestazioni sub B), C), D).
Inoltre a pag. 268 della sentenza impugnata sono state specificate le argomentazioni poste a fondamento della motivazione sulla pena inflitta al ricorrente, indicando il suo ruolo attivo e determinante nelle più gravi distrazioni e specificando i ruoli rivestiti nelle varie compagini societarie; sono stati poi considerati ulteriori indici, quale l'intensità del dolo, ai fini dell'impossibilità di commisurare la pena nel minimo edittale ed è stata, inoltre, espressamente considerato il dato delle somme offerte dall'imputato all'Amministrazione Straordinaria ed ai lavoratori dipendenti.
La motivazione della pena, quindi è esaustiva ai sensi del 133 c.p., atteso che, come noto, deve ritenersi adempiuto l'obbligo di motivazione sulla determinazione in concreto della pena, da parte del giudice di merito, allorquando siano indicati gli elementi ritenuti rilevanti o determinanti, essendo la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, operazione che rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 c.p.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena, la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione (Sez. 5, sentenza n. 5582 del 30/09/213, Ferrario, Rv. 259142; Sez. 1, sentenza n. 3155 del 25/09/2013, Waychey ed altri, Rv. 259410)
Anche nel caso del T. la Corte di merito, quindi, dopo aver concesso le circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto alle aggravanti individuate, per la condotta processuale dell'imputato, ha fissato la pena base per il delitto sub A), in riferimento al più grave fallimento della CIT, riducendola ad anni cinque mesi nove di reclusione rispetto alla quantificazione operata in primo grado, quindi ha operato un unico aumento, ai sensi dell'art. 81 c.p., comma 2, pari ad anni uno mesi tre di reclusione, per la continuazione con gli episodi di cagionamento doloso del fallimento relativamente alle altre 23 società del capo A), specificando che in relazione alle altre condotte, individuate dagli ulteriori capi di imputazione e consumate in danno delle stesse società del capo A), la continuazione doveva ritenersi assorbita dalla specifica aggravante dichiarata equivalente, ossia dall'aggravante della pluralità dei fatti di bancarotta ex art. 219, comma 1, L. Fall..
Quanto alla determinazione dell'aumento per la continuazione, oltre alle considerazioni effettuate sub D), va aggiunto che non appare agevole, nella presente sede processuale, individuare quale sarebbe l'interesse attuale del ricorrente alla individuazione dei singoli aumenti di pena a titolo di continuazione per i reati satellite, ex art. 81 c.p., comma 2, posto che in caso di estinzione di uno o più dei detti reati in continuazione il giudice dell'esecuzione avrebbe il compito di individuare le singole porzioni di aumento, ed in quella sede, quindi, eventualmente eliminare gli aumenti corrispondenti alle fattispecie prescritte, previa individuazione degli stessi.
2.6. In relazione, infine, alle doglianze concernenti le statuizioni civili, oltre alle considerazioni effettuate nella trattazione delle questioni generali, sub E), F), G), H), occorre ricordare che la sentenza impugnata ha pronunciato una condanna generica al risarcimento del danno, per cui ogni doglianza concernente i singoli profili di partecipazione alla concreta causazione dello stesso, da parte del ricorrente, in relazione al ruolo rivestito ed alle concrete modalità, in funzione della quantificazione del danno a lui ascrivibile, appaiono, nella presente sede, del tutto inconferenti; detta considerazione, in particolare, appare riferibile sia alla doglianza secondo cui la Corte di merito non avrebbe considerato la rinuncia al credito formulata dal T. in favore dell'Amministrazione Straordinaria, sia la questione concernente il pagamento delle fideiussioni da parte delle Assicurazioni Generali, che in tal modo avevano integralmente restituito allo Stato gli incentivi erogati in funzione degli accordi di programma, alla luce della rinuncia, da parte della predetta compagnia assicuratrice, all'insinuazione al passivo fallimentare.
Occorre, infatti, ricordare che la condanna generica al risarcimento dei danni, pronunciata dal giudice penale, non esige alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando soltanto l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della esistenza di un nesso di causalità tra tale fatto e il pregiudizio lamentato; per cui la circostanza che sia stato riconosciuto il diritto alla costituita parte civile, non comporta alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, nè la specifica ascrivibilità dello stesso ai singoli imputati, postulando la pronuncia solo l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e dell'esistenza - desumibile anche presuntivamente, con criterio di semplice probabilità - di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, restando perciò impregiudicato l'accertamento riservato al giudice civile sulla liquidazione, l'entità del danno e la soggettiva ascrivibilità, ivi compresa, quindi, la possibilità di escludere l'esistenza stessa di un danno eziologicamente collegato all'evento illecito in relazione alla condotta di uno o più degli autori del reato fonte del danno (Sez. 5, sentenza n. 45118 del 23/04/2013, Di Fatta ed altri, Rv. 257551; Sez. 3, sentenza n. 36350 del 23/03/2015, Bertini ed altri, Rv. 265637).
Quanto al danno non patrimoniale patito dai lavoratori, va rilevato come la Corte di merito ne abbia specificamente connotato la sussistenza ed i caratteri con motivazione alla pag. 134 della sentenza impugnata, riportandosi alle considerazioni già in primo grado effettuate, specificando come i pregiudizi dei lavoratori si collocassero, temporalmente, ben prima dell'ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria del gruppo a nulla, pertanto, rilevando le vicende successive a detta ammissione, anche a seguito dell'intervento del (OMISSIS). Trattasi, all'evidenza, di una motivazione espressa, basata su valutazioni in fatto, come tale in alcun modo sindacabile in sede di legittimità.
3. Il ricorso del V.G. è infondato e va, pertanto, rigettato.
3.1. Quanto al primo motivo, va ricordato che alle pag. 268-269 della sentenza impugnata sono state specificate le argomentazioni poste a fondamento della motivazione sulla pena inflitta al ricorrente, dapprima con la concessione delle circostanze attenuanti generiche in misura equivalente alle contestate aggravanti, per la condotta processuale, secondo una valutazione identica a quella compiuta nei confronti degli altri coimputati che, parimenti, avevano rinunciato ai motivi di gravame, applicando un parametro che, proprio per detta ragione, appare immune da vizi logico-valutativi; quindi è stato indicato il ruolo individuale del V., di sostegno ed appoggio al G. nella sua strategia spoliativa del gruppo, grazie ai ruoli svolti in ambito societario; sono stati poi considerati ulteriori indici, quale l'intensità del dolo, da un lato, circostanza che non rendeva possibile commisurare la pena nel minimo edittale e, dall'altro, il maggior contributo risarcitorio offerto, che aveva indotto le parti civili alla rinuncia, nei suoi confronti, delle costituzioni.
La motivazione della pena, effettuata sulla base di specifici indici riferibili al ricorrente, appare, quindi, esaustiva ai sensi dell'art. 133 c.p., atteso che, come noto, deve ritenersi adempiuto l'obbligo di motivazione sulla determinazione in concreto della pena, da parte del giudice di merito, allorquando siano indicati gli elementi ritenuti rilevanti o determinanti, essendo la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, operazione che rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 c.p.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena, la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione (Sez. 5, sentenza n. 5582 del 30/09/213, Ferrario, Rv. 259142; Sez. 1, sentenza n. 3155 del 25/09/2013, Waychey ed altri, Rv. 259410)
Anche nel caso del V. la Corte di merito, quindi, dopo aver concesso le circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto alle aggravanti individuate, per la condotta processuale dell'imputato, ha fissato la pena base per il delitto sub A), in riferimento al più grave fallimento della CIT, riducendola ad anni quattro di reclusione rispetto alla quantificazione operata in primo grado, quindi ha operato un unico aumento, ai sensi dell'art. 81 c.p., comma 2, pari ad anni uno di reclusione, per la continuazione con gli episodi di cagionamento doloso del fallimento relativamente alle altre 23 società del capo A), specificando che in relazione alle altre condotte, individuate dagli ulteriori capi di imputazione e consumate in danno delle stesse società del capo A), la continuazione doveva ritenersi assorbita dalla specifica aggravante dichiarata equivalente, ossia dall'aggravante della pluralità dei fatti di bancarotta ex art. 219, comma 1, L. Fall..
3.2. In relazione al secondo motivo di ricorso, va osservato come, correttamente, la Corte di merito, abbia effettuato, in relazione alle vicende inerenti le altre 23 società del gruppo in riferimento al capo A), l'aumento ai sensi dell'art. 81 c.p., comma 2, dovendosi, in tal senso, ritenere esaustive le argomentazioni contenute nella trattazione generale della questione, effettuata in premessa, sub C) e D).
3.3. Per quanto riguarda il terzo motivo di ricorso, infine, le doglianze difensive risultano già trattate sub E), nella parte in premessa dedicata alle questioni generali.
4. Il ricorso del G.D.M. è infondato e va, pertanto, rigettato.
4.1. Quanto al ricorso a firma dell'Avv.to Salvatore Catalano, esso tende a reintrodurre le doglianze di merito a cui il ricorrente aveva espressamente rinunciato in grado di appello.
4.2. I motivi di ricorso aventi ad oggetto la determinazione della pena appaiono del tutto generici, posto che anche per il Gr. la motivazione in ordine alla determinazione della pena appare del tutto immune da profili di carenza logico-motivazionale, come si rileva a pag. 269 della sentenza, in cui si rinviene specifica motivazione sulla particolare capacità criminale manifestata dal Gr. nell'aver fornito per anni appoggio al G., di cui era uomo di fiducia, nella sua attività depauperativa del gruppo, avendo svolto vari incarichi determinanti in ambito societario; anche per il Gr., ai fini della determinazione della pena base, al netto del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti per la condotta processuale, stata valutata l'intensità del dolo e l'ammontare del risarcimento offerto all'Amministrazione Straordinaria ed ai dipendenti, rilevandosi, tuttavia, come l'incidenza dell'elemento soggettivo impedisse la determinazione della pena nel minimo edittale. La pena base è stata, quindi, in relazione alla più grave vicenda descritta sub A) per la CIT s.p.a., coerentemente fissata in anni cinque di reclusione, a cui sono stati aggiunti, a titolo di continuazione, ex art. 81 c.p., comma 2 in relazione alla altre 23 società di cui al capo A), aumenti per complessivi anni uno di reclusione. Anche per detto ricorrente, quindi, non possono che essere richiamati i già illustrati principi sulla motivazione della pena che, se effettuata sulla base di specifici indici riferibili al ricorrente, come veirificatosi nel caso in esame, risulta del tutto esaustiva ai sensi del 133 c.p., atteso che, come noto, deve ritenersi adempiuto l'obbligo di motivazione sulla determinazione in concreto della pena, da parte del giudice di merito, allorquando siano indicati gli elementi ritenuti rilevanti o determinanti, essendo la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, operazione che rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 c.p.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena, la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione (Sez. 5, sentenza n. 5582 del 30/09/213, Ferrario, Rv. 259142; Sez. 1, sentenza n. 3155 del 25/09/2013, Waychey ed altri, Rv. 259410).
4.3. Anche le doglianze relative alle statuizioni civili riproducono le questioni già trattate nelle questioni generali, contenute nella premessa della parte motivazionale della presente sentenza, sub E), F), G), H).
4.1.bis In relazione al ricorso a firma dell'Avv.to Vincenzo Farina, va aggiunto che, per quanto riguarda i primi due motivi, essi non sembrano aver considerato come l'aumento di pena in relazione ai fatti di cui al capo A) sia stato effettuato, per tutti i ricorrenti, proprio ai sensi dell'art. 81 c.p., comma 2, dovendosi, in tal senso, far rinvio alle considerazioni svolte sub D), nella parte dedicata alle questioni generali. Inoltre andrebbe considerato che, come la stessa difesa rileva, vi era stata rinunzia in appello, da parte del Gr., al motivo concernente l'aumento ai sensi dell'art. 81 c.p., per cui le doglianze sarebbero, sotto detto aspetto, inammissibili
4.2.bis Quanto ai due successivi motivi, oltre a richiamare le osservazioni in merito alla determinazione della pena di cui sub 4.2., va osservato che effettivamente non risulta contestata al Gr., in relazione al capo B), la circostanza aggravante dei danni patrimoniali di particolare rilevanza, ma solo quella della pluralità dei fatti di bancarotta, come si evince alla pag. 267 della sentenza impugnata; tuttavia, va riconosciuto che al Gr. era stata contestata solo la fattispecie sub 33 del capo B), come risulta dalla formulazione del capo di imputazione, per cui di fatto non poteva essergli ascritta la circostanza aggravante della pluralità dei fatti di bancarotta che, invece, risulta correttamente contestata anche al Gr. in relazione alle vicende di cui al capo D). In ogni caso, come visto, ai fini del calcolo della pena, l'aggravante della pluralità dei fatti di bancarotta risulta neutralizzata dalla concessione delle circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza, ed essa, inoltre, non risulta essere stata in alcun modo valorizzata, neanche indirettamente, nell'individuazione della pena base.
Anche le doglianze riferibili al capo D) si basano su questioni valutative, non solo oggetto di rinuncia in sede di gravame, ma in quanto tali non suscettibili di valutazione in sede di legittimità; quanto al capo A), va aggiunta la considerazione che l'autonomia delle condotte, come descritte nella trattazione generale sub A) e D), non consente - come ricostruito dalla difesa - di ancorare la sussistenza delle contestate aggravanti unicamente alle successive contestazioni sub B) e D).
4.3.bis Quanto ai motivi concernenti le statuizioni civili, anche per detto ricorrente le questioni sollevate coincidono con quelle trattate nelle considerazioni generali, svolte sub E), F), G), H) nella parte introduttiva della motivazione della presente sentenza la sentenza, dovendosi aggiungere, quanto al danno non patrimoniale patito dai lavoratori, come la Corte di merito ne abbia specificamente connotato la sussistenza ed i caratteri con motivazione alla pag. 134 della sentenza impugnata, riportandosi alle considerazioni già in primo grado effettuate, specificando come i patimenti dei lavoratori si collocassero, temporalmente, ben prima dell'ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria del gruppo a nulla, pertanto, rilevando le vicende successive a detta ammissione, anche a seguito dell'intervento del (OMISSIS).
Trattasi, all'evidenza, di una motivazione espressa, basata su valutazioni in fatto, come tale in alcun modo sindacabile in sede di legittimità.
4.ter. Per quanto concerne la memoria depositata in data 14710/2016 presso la Cancelleria di questa Corte, nell'interesse del G.D.M. - avente ad oggetto considerazioni scaturenti da due relazioni di consulenza tecniche redatte nell'ambito di procedimento civile inerente azione di responsabilità nei confronti di ex amministratori e sindaci del gruppo CIT, anch'esse allegate appare evidente come trattasi di documentazione del tutto inammissibile in sede di giudizio di legittimità, involgendo una valutazione di profili fattuali delle vicende ascritte al ricorrente.
5. Il ricorso del Ga.Fa. è infondato e va, pertanto, rigettato.
5.1. Con il primo motivo di ricorso, imperniato in doglianze concernenti la determinazione della pena, in realtà vengono svolte censure attinenti alla qualificazione dei fatti ed alla ricostruzione della vicenda, benchè il ricorrente avesse rinunciato ai motivi di gravame, ad eccezione di quelli concernenti la determinazione della pena.
Anche per il G., quindi, non può che ricordarsi come appaia del tutto incensurabile la motivazione fornita dalla Corte di merito che, a pag. 268 della sentenza impugnata, ha concesso le circostanze attenuanti generiche in misura equivalente alle contestate aggravanti, per la condotta processuale tenuta dagli imputati che avevano effettuato una rinuncia parziale ai motivi di gravame, secondo un criterio univoco, quindi, in relazione ad analoghe situazioni processuali, il che, proprio per detta ragione, rende la motivazione immune da vizi logico-valutativi; quindi è stato indicato il ruolo individuale del G., alla pag. 271, qualificandolo come soggetto che aveva svolto un ruolo di sostegno ed appoggio al G. nella sua strategia spoliativa del gruppo, grazie agli incarichi societari rivestiti, tutti specificamente enunciati; è stato, inoltre, considerato il ruolo del ricorrente, di custode dei più importati atti del gruppo, sottolineandosi come la rinuncia ai motivi di appello determinasse il venir meno di ogni questione circa l'attribuibilità al G. del contenuto del computer sequestratogli, di cui, in ogni caso, la sentenza ha analizzato il contenuto al fine di estrinsecare le ragioni per le quali la documentazione ivi rinvenuta dovesse ritenersi essenziale alla ricostruzione dei flussi finanziari tra le società del gruppo, non in relazione ai servizi effettivamente prestati, ma per altre finalità funzionali ad attuare la strategia illecita; alla luce della detta tipologia di contributo, rivelatrice di un dolo particolarmente intenso, è stato anche considerato l'ammontare delle somme offerte in risarcimento ai lavoratori dipendenti che avevano, pertanto, revocato la costituzione di parte civile; in ogni caso si è ritenuto di non poter commisurare la pena nel minimo edittale proprio alla luce delle precedenti circostanze. La pena, quindi, è stata fissata in anni tre mesi sei di reclusione, in riferimento alla più grave fattispecie considerata al capo A), ossia il fallimento della CIT s.p.a., con un aumento a titolo di continuazione, ex art. 81 c.p., comma 2, di altri mesi sei di reclusione per le altre 23 società del gruppo; è stata espressamente considerato, anche per il G., l'assorbimento della continuazione relativa alle condotte degli ulteriori capi di imputazione dal giudizio di equivalenza tra le aggravanti contestate e le circostanze attenuanti generiche.
La motivazione della pena, effettuata sulla base di specifici indici riferibili al ricorrente, appare, quindi, esaustiva ai sensi dell'art. 133 c.p., atteso che, come noto, deve ritenersi adempiuto l'obbligo di motivazione sulla determinazione in concreto della pena, da parte del giudice di merito, allorquando siano indicati gli elementi ritenuti rilevanti o determinanti, essendo la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, operazione che rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 c.p.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena, la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione (Sez. 5, sentenza n. 5582 del 30/09/213, Ferrario, Rv. 259142; Sez. 1, sentenza n. 3155 del 25/09/2013, Waychey ed altri, Rv. 259410).
5.2. Quanto al secondo motivo di ricorso, esso si basa su considerazioni che sono state già affrontate nella trattazione delle questioni generali, nella parte introduttiva della presente motivazione, ai punti A) e D).
5.3. Parimenti deve osservarsi che le doglianze contenute nei motivi di ricorso relativi alle statuizioni civili della sentenza impugnata sono state trattate nelle questioni generali, nella parte introduttiva della presente motivazione, ai punti E), F), G). H).
Occorre aggiungere, quanto alla questione concernente il pagamento delle fideiussioni da parte delle Assicurazioni Generali, che avevano integralmente restituito allo Stato gli incentivi erogati in funzione degli accordi di programma, rinunciando all'insinuazione al passivo fallimentare, che la condanna generica al risarcimento dei danni, pronunciata dal giudice penale, come nel caso in esame, non esige alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando soltanto l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della esistenza di un nesso di causalità tra tale fatto e il pregiudizio lamentato; per cui la circostanza che sia stato riconosciuto il diritto alla costituita parte civile, non comporta alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, nè la specifica ascrivibilità dello stesso ai singoli imputati, postulando la pronuncia solo l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e dell'esistenza - desumibile anche presuntivamente, con criterio di semplice probabilità - di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, restando perciò impregiudicato l'accertamento riservato al giudice civile sulla liquidazione, l'entità del danno e la soggettiva ascrivibilità, ivi compresa, quindi, la possibilità di escludere l'esistenza stessa di un danno eziologicamente collegato all'evento illecito in relazione alla condotta di uno o più degli autori del reato fonte del danno (Sez. 5, sentenza n. 45118 del 23/04/2013, Di Fatta ed altri, Rv. 257551; Sez. 3, sentenza n. 36350 del 23/03/2015, Bertini ed altri, Rv. 265637).
6. Il ricorso del B.G. è infondato e va, pertanto, rigettato.
6.1. Con i primi quattro motivi si ripropongono le questioni già trattate nella parte generale della presente motivazione, ai punti A), B), C), D), con argomentazioni che esauriscono le osservazioni contenute negli indicati motivi di ricorso.
Anche per il B. - che in grado di appello aveva rinunciato ai motivi, ad eccezione di quelli concernenti il trattamento sanzionatorio - la sentenza impugnata offre una motivazione più che adeguata ed immune da censure logiche in ordine alla determinazione della pena. A pag. 268 della sentenza impugnata, infatti, si osserva che la concessione delle circostanze attenuanti generiche, in misura equivalente alle contestate aggravanti, è determinata dalla condotta processuale tenuta dagli imputati che, come il B., avevano effettuato una rinuncia parziale ai motivi di gravame, secondo un criterio univoco, quindi, in relazione ad analoghe situazioni processuali, il che, proprio per detta ragione, rende la motivazione immune da vizi logico-valutativi; quindi, a pag. 270, è stato indicato il ruolo individuale del ricorrente, individuato come persona molto vicina al G., con il quale aveva collaborato in virtù degli incarichi societari rivestiti, tutti specificamente enunciati; è stata specificamente considerata l'intensità del dolo per motivare la individuazione della pena base, peraltro specificando come, per il B., la riduzione di detta pena rispetto alla determinazione del primo giudice, fosse stata operata in misura maggiore. La pena, quindi, è stata fissata in anni cinque di reclusione, in riferimento alla più grave fattispecie considerata al capo A), ossia il fallimento della CIT s.p.a., con un aumento a titolo di continuazione, ex art. 81 c.p., comma 2, di anni uno di reclusione per le altre 23 società del gruppo; è stata espressamente considerato, anche per il B., l'assorbimento della continuazione relativa alle condotte degli ulteriori capi di imputazione dal giudizio di equivalenza tra le aggravanti contestate e le circostanze attenuanti generiche.
La motivazione della pena - peraltro integrata da quella offerta dal primo giudice, che aveva messo in evidenza il ruolo essenzialmente esecutivo del ricorrente effettuata sulla base di specifici indici riferibili al B., appare, quindi, esaustiva ai sensi dell'art. 133 c.p., atteso che, come noto, deve ritenersi adempiuto l'obbligo di motivazione sulla determinazione in concreto della pena, da parte del giudice di merito, allorquando siano indicati gli elementi ritenuti rilevanti o determinanti, essendo la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, operazione che rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 c.p.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena, la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione (Sez. 5, sentenza n. 5582 del 30/09/213, Ferrario, Rv. 259142; Sez. 1, sentenza n. 3155 del 25/09/2013, Waychey ed altri, Rv. 259410).
6.2. Quanto agli ulteriori motivi di ricorso, di cui ai nn. 4, 5, 6, 7, 8, vanno richiamate le considerazioni già contenute nella trattazione delle questioni generali, indicate nella premessa motivazionale ai punti E), F), G), H), oltre alle argomentazioni già ribadite per i precedenti ricorrenti su analoghe questioni, con particolare riferimento a tutte quelle derivanti dalla considerazione della condanna al risarcimento del danno pronunciata in forma generica dalla sentenza impugnata. Quanto, infine, alle doglianze concernenti la liquidazione al P.L. dei danni non patrimoniali, va ricordato come la Corte territoriale abbia affermato che risultasse dimostrata la circostanza che questi, sin da primo grado di giudizio, avesse richiesto anche in danni non patrimoniali, uniformandosi al criterio seguito per gli altri lavoratori dipendenti, costituitisi parte civile, nella liquidazione degli stessi.
7. Il ricorso del F.C.G. è infondato e va, pertanto, rigettato.
Le doglianze del ricorrente hanno ad oggetto, essenzialmente, la determinazione della pena e la concessione delle circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza piuttosto che di prevalenza.
Anche per il F., quindi, non possono che essere richiamati, oltre alle considerazioni generali in premessa esaminate, i principi elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la motivazione della pena, effettuata sulla base di specifici indici riferibili al ricorrente, appare esaustiva ai sensi dell'art. 133 c.p., sotto il profilo motivazionale, allorquando siano indicati, da parte del giudice di merito, gli elementi ritenuti rilevanti o determinanti, essendo la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, operazione che rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 c.p.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena, la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione (Sez. 5, sentenza n. 5582 del 30/09/213, Ferrario, Rv. 259142; Sez. 1, sentenza n. 3155 del 25/09/2013, Waychey ed altri, Rv. 259410).
In relazione al F. - che in grado di appello aveva rinunciato ai motivi, ad eccezione di quelli concernenti il trattamento sanzionatorio la sentenza impugnata offre una motivazione più che adeguata, ancorata a specifici elementi riguardanti il ruolo specifico svolto dal ricorrente, e pertanto immune da censure logiche in ordine alla determinazione della pena. A pag. 268 della sentenza impugnata, infatti, si osserva che la concessione delle circostanze attenuanti generiche, in misura equivalente alle contestate aggravanti, è determinata dalla condotta processuale tenuta dagli imputati che, come il F., avevano effettuato una rinuncia parziale ai motivi di gravame, secondo un criterio univoco, quindi, in relazione ad analoghe situazioni processuali, il che, proprio per detta ragione, rende la motivazione immune da vizi logico-valutativi; quindi, a pag. 270, è stato indicato il ruolo individuale del ricorrente, individuato come uno dei più stretti collaboratori del G., con il quale aveva collaborato grazie alla sua attività professionale di legala in Svizzera, soprattutto nella strategia di trasferimento all'estero dei fondi distratti, in virtù degli incarichi societari rivestiti, tutti specificamente enunciati; è stata specificamente considerata l'intensità del dolo per motivare la individuazione della pena base, peraltro specificando come, a tal fine, sia stata considerata altresì la circostanza dell'avere il ricorrente offerto 25.000,00 Euro all'Amministrazione Straordinaria ed Euro 33.600,00 ai lavoratori dipendenti. La pena, quindi, è stata fissata in anni cinque di reclusione, in riferimento alla più grave fattispecie considerata al capo A), ossia il fallimento della CIT s.p.a. - specificando che l'intensità del dolo non consentiva la determinazione della pena nel minimo edittale e che, tuttavia, le somme offerte in risarcimento inducevano ad una riduzione della pena in misura maggiore rispetto a quanto fissato dal primo giudice - con un aumento a titolo di continuazione, ex art. 81 c.p., comma 2, di anni uno di reclusione per le altre 23 società del gruppo; è stata espressamente considerato, anche per il F., l'assorbimento della continuazione relativa alle condotte degli ulteriori capi di imputazione dal giudizio di equivalenza tra le aggravanti contestate e le circostanze attenuanti generiche.
8. Il ricorso del C.G. è infondato e va, pertanto, rigettato.
8.1. Quanto al primo motivo di ricorso, va ricordato che la sentenza impugnata, alle pagg. 187 e 188, ha fornito adeguata motivazione, chiaramente espositiva delle argomentazioni sulla scorta delle quali ha ritenuto di condividere il rigetto dell'eccezione di indeterminatezza dei capi di imputazione sub A) ed E) pronunciata dal primo giudice; la Corte territoriale, in particolare, ha rilevato, quanto al capo E), come fossero stati descritti i vari livelli ai quali i compartecipi si fossero inseriti nell'associazione - al C., appartenente al terzo livello operativo della compagine, era stato ascritto il ruolo di consulente strategico per le operazioni estere del gruppo, per l'operazione di spin off e per il tentativo di quotazione in borsa del titolo CIT -, oltre all'ambito dei delitti che ne costituivano il programma, man mano realizzatisi nell'evoluzione della strategia associativa. Per il capo A) la Corte territoriale oltre a riportare la motivazione del primo giudice - che aveva specificamente indicato le qualità di amministratore di CIT s.p.a., di CIT Travel Cafè, di Progetto Venezia s.p.a., di La Compagnia delle Vacanze s.p.a., di Progetto Italiano s.p.a., con riferimento ai rispettivi periodi temporali - ha chiarito come detti ruoli, seppure non indicati nell'epigrafe della sentenza di primo grado, fossero riportati nel decreto che dispone il giudizio e nel corpo motivazionale della sentenza di primo grado, da cui si comprende come ciascun imputato rispondesse non solo in base allo specifico ruolo rivestito, ma anche come concorrente dei coimputati in riferimento a quelle società in cui non rivestiva alcuna veste formale.
Detta motivazione risulta del tutto logicamente motivata, dovendosi aggiungere che, in realtà, le doglianze espresse dalla difesa nel motivo di ricorso in esame, non attengono tanto alla motivazione della Corte territoriale sulla eccezione di nullità del capo di imputazione, ma anticipano le doglianze relative alla motivazione della pronuncia di condanna e, quindi, il merito della stessa.
8.2. In relazione al secondo motivo di ricorso, va detto che esso ripropone le considerazioni già analizzate nella trattazione delle questioni generali della presente sentenza, ai punti A) e D), circa la configurazione della fattispecie delittuosa di cui all'art. 223, comma 2, n. 2, r.d. 267/1942 e circa l'insussistenza di una autonoma fattispecie di bancarotta del gruppo societario cagionata dal dissesto del gruppo stesso.
L'apparente incongruenza della posizione processuale del C. - che non aveva rinunciato ai motivi di gravame - e che, secondo la difesa, deriverebbe dalla mancata individuazione delle singole condotte riferibili al ricorrente e la loro incidenza causale, attesa la individuazione di sole due condotte distrattive imputate al C. al capo B), ai nn. 35 e 42, appare, in realtà, un falso problema. Ciò in quanto la difesa sembra dimenticare la motivazione offerta, sul punto, dalla sentenza impugnata: da pag. 190 in poi, fino a pag. 249, sono state esaminate, dettagliatamente, tutte le condotte indicate al capo A), individuando la partecipazione a ciascuna di esse del ricorrente e, quindi, il suo contributo causale alla verificazione del reato sub A); alle pagg. 249-251 della sentenza impugnata è stata, poi, ulteriormente illustrata la posizione de C., le sue condotte e la rilevanza causale delle stesse in riferimento al capo A); alle pag. 263-266 della sentenza impugnata sono state analizzate le condotte ascritte al ricorrente al capo B). Detta motivazione, specificamente articolata attraverso l'analisi delle singole vicende societarie, illustrativa del ruolo svolto in ciascuna di esse dal ricorrente, valutato attraverso il richiamo e la considerazione delle fonti di prova a sostegno, non appare in alcun modo censurabile nè sotto l'aspetto logico nè sotto quello della corretta applicazione dei canoni ermeneutici in relazione alla valutazione delle prove.
8.3. Per quanto riguarda il terzo motivo di ricorso è sufficiente richiamare le considerazioni contenute nella motivazione della presente sentenza, illustrate nella trattazione delle questioni generali, sub A) e D).
8.4. Il quarto motivo di ricorso ricostruisce, qualificandole come lecite e favorevoli al gruppo societario, le singole operazioni a cui aveva partecipato il ricorrente, proponendo, in tal modo, una valutazione alternativa dei fatti, tra l'altro occupandosi essenzialmente solo della vicenda Eurogruppo; si contesta, inoltre, il travisamento di fatti attraverso documenti che non sembrano porsi in alcun contrasto con la motivazione della Corte, posto che neanche la difesa nega che il C. avesse specifiche attribuzioni nel settore finanziario.
In ogni caso deve ricordarsi che costituisce ius receptum il principio secondo cui sono precluse al giudice di legittimità sia la rilettura degli elementi di fatto su cui si basa la decisione impugnata, sia l'autonoma adozione di ulteriori e diversi indici ricostruttivi e valutativi della vicenda processuale, in quanto indicati come maggiormente plausibili dal ricorrente, in quanto detto aspetto attiene specificamente alla fase del merito, in cui le parti possono sottoporre, anche in grado di appello, alla valutazione del giudice nuovi e diversi elementi, ovvero offrire una ragionata rilettura di quelli già posti a fondamento della decisione, secondo un percorso argomentativo che afferisce alla fase del merito, laddove in sede di legittimità non appare affatto sindacabile il risultato valutativo delle evidenze probatorie, bensì solo la tenuta logica e la coerenza ai parametri normativi dell'apparato argomentativo esplicativo adottato a fondamento della decisione (Sez. 6, sentenza n. 47204 dl 07/10/2015, Musso, Rv. 265482).
8.5. Per quanto concerne il quinto motivo, esso contiene doglianze della stessa tipologia di quelle di cui al precedente motivo, basate su di una alternativa ricostruzione fattuale della vicenda di cui al capo E), per cui, oltre al richiamo ai principi di cui al precedente punto 8.4., va rilevato che per la fattispecie associativa è stata dichiarata la prescrizione dalla Corte territoriale, a cui il ricorrente non ha rinunciato, con preclusione, quindi, di tutte le questioni afferenti la motivazione della sentenza, tanto più che egli non si duole affatto dell'omessa valutazione, da parte della Corte di merito, di una causa evidente di proscioglimento ai sensi dell'art. 129 c.p.p., comma 2.
8.6. In relazione al sesto motivo, ci si deve rifare alla impostazione generale della diversità strutturale tra il capo A) ed il capo B), spiegata in sentenza, dove è stato delineato anche specificamente il contributo del ricorrente; si deve poi dire che quando il concorso si verifica in relazione ad una condotta attuata in un arco temporale considerevole, come nel caso di specie ed in tutti i casi di continuazione, la partecipazione al disegno criminoso non deve essere necessariamente iniziale, ma può intervenire anche in un momento successivo all'inizio dello svolgimento dell'azione criminosa, purchè la condotta sia comunque funzionale ed efficace alla realizzazione dell'eventi finale, come verificatosi nel caso di specie;
8.7. Il settimo motivo di ricorso - suddiviso nei numeri 7 e 7 bis, in riferimento alle diverse vicende descritte al capo A) dell'imputazione - appare articolato essenzialmente in base a considerazioni di tipo valutativo, che prospettano una ricostruzione alternativa delle vicende richiamate, attraverso la rilettura della relazione (OMISSIS) e di quella del consulente tecnico del pubblico ministero, dott. B., atti, entrambi, che non sono valutabili in sede di legittimità e di cui questa Corte nemmeno dispone; nè appare chiaro, dalle argomentazioni contenute in ricorso, quali sarebbero gli elementi emersi dal dibattimento che avrebbero contrastato dette relazioni, posto che appare evidente come i redattori dei citati documenti fossero stati esaminati in dibattimento come testi, e non risulta che essi avessero sostenuto circostanze diverse da quanto illustrato nelle relazioni a loro firma; in realtà la difesa si fonda essenzialmente sulle conclusioni rassegnate in dibattimento dal Pubblico Ministero e dal Procuratore Generale - che per alcune delle vicende oggetto del motivo di ricorso avevano richiesto l'assoluzione dell'imputato - oltre che sulle argomentazioni già prospettate con i motivi di appello, considerazioni, tutte, che rappresentano prospettazioni di parte.
Quanto ai documenti citati in ricorso, essi non individuano alcun travisamento della prova, atteso che le eventuali imprecisioni attribuite alla motivazione della Corte territoriale non sembrano affatto determinanti ai fini della decisione. Non va, infatti, dimenticato che il vizio di travisamento della prova, desumibile dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo, purchè specificamente indicati dal ricorrente, è ravvisabile ed efficace solo se l'errore accertato sia idoneo a disarticolare l'intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio, fermi restando il limite del devolutum in caso di cosiddetta "doppia conforme" e l'intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio; in ogni caso il detto vizio può essere dedotto, nel caso di cosiddetta "doppia conforme", sia nell'ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice, sia quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (Sez. 6, sentenza n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio ed altri, Rv. 258774; Sez. 4, sentenza n. 4060 del 12/12/2013, Capuzzi ed altro, Rv. 258438; Sez. 4, sentenza n. 44765 del 22/10/2013, Buonfine ed altri, Rv. 256837).
Nessuna delle dette ipotesi appare essersi verificata nel caso in esame, come risulta dalla motivazione della sentenza in riferimento alla fattispecie di cui al capo A), essendo state esaminate singolarmente tutte le singole condotte, con specifico riferimento al ruolo svolto dal ricorrente, con argomentazioni immuni da rilevi logici. Quanto alla vicenda di cui al punto a), la motivazione della sentenza, alle pagg. 205-207, evidenzia come l'acquisto a debito del gruppo CIT si fosse realizzato non solo nella fase iniziale, con l'acquisto del gruppo, ma anche in seguito, con la restituzione al ceto bancario con i proventi della vendita della consociata inglese, che aveva consentito di chiudere in utile il bilancio del 2001, cui era seguito un abbandono, del tutto inspiegabile, del mercato inglese, operazione cui, complessivamente, nel suo svolgimento temporale, avevano partecipato anche coloro che avevano condiviso la strategia del G. quali suoi stretti collaboratori e, sotto detto aspetto, la motivazione della sentenza di primo grado - che costituisce parte integrante di quella impugnata - aveva già individuato il C. quale consulente del gruppo per l'area della corporate finance, nonchè quale soggetto che intratteneva i rapporti con il ceto bancario sin dagli anni 2000/2001, entrando poi nel CdA di CIT, assumendo un ruolo operativo nella cessione di CIT UK; quanto alla condotta di cui al punto d), la Corte, dopo aver esaminato a pag. 208 e 209 della sentenza impugnata l'operazione, ha rilevato come della stessa si fosse occupato direttamente anche il C., mente finanziaria del gruppo e, come tale, consapevole della valenza depauperativa della cessione del ramo d'azienda; quanto al punto e), la sentenza, alle pag. 210-213, ha descritto la rilevanza causale dell'operazione ai fini della complessiva insolvenza del gruppo, osservando come il ricorrente ne avesse curato tutta la parte contrattualistica; quanto al punto f), la sentenza ha descritto la vicenda alle pagg. 213-217, rilevando come il C. sovraintendesse al settore finanziario del gruppo, ruolo nevralgico, dal quale logicamente inferire il su contributo al cagionamento doloso della Italiatour s.p.a.; quanto al punto g), in particolare, la motivazione della sentenza, alle pagg. 217-224, appare fondata su argomentazioni del tutto immuni da censure di legittimità, rilevando come il C. avesse presidiato l'intera operazione sin dall'inizio funzionale ad alterare il bilancio consolidato del gruppo, apparendo del tutto irrilevante la sua dimissione, nel 2004 così come la successiva cessazione dalle cariche nel 2005, avendo assunto la condotta un rilievo penale sin dall'inizio della sua esecuzione; in relazione al punto i), del tutto prive di vizi logico-motivazionali appaiono le argomentazioni contenute alle pagg. 222-239 della sentenza impugnata, in cui il ruolo del C. viene descritto come di rilievo primario.
Per quanto riguarda il motivo 7 bis, in cui si esaminano le altre condotte di cui al capo A), va detto che, in relazione al punto c), lo stesso C. - come ricordato dalla sentenza di primo grado, la cui motivazione integra quella della sentenza impugnata - avesse fatto risalire al 1999 i suoi rapporti con il G., ammettendo di aver collaborato con lo stesso da quell'epoca; quanto al punto h), la Corte territoriale, dopo aver ricostruito l'intera operazione alle pagg. 224-233, con motivazione immune da censure logiche, ha ricordato come il ricorrente, all'epoca, fosse a capo della finanza della holding che controllava il gruppo, la quale era stata anche la beneficiaria di alcune delle somme distratte; in relazione al punto j), parimenti l'operazione è stata ricostruita analiticamente alle pagg. 239- 249, ed il ruolo del C. è stato individuato in riferimento alla titolarità della delega sulla finanza del gruppo; quanto al punto k), appare evidente come la motivazione della sentenza impugnata, alle pagg. 249-251, in cui si riassume il ruolo svolto dal C. e la sua responsabilità in ordine alla vicenda descritta al capo A) in tutte le sue articolazioni, dia conto anche della sua incidenza in relazione a detta vicenda, in cui sicuramente la responsabilità del ricorrente non è ancorata ad alcun ruolo svolto negli organi rappresentativi delle società indicate al punto k), bensì, come esplicitato alla pag. 250, dal suo inserimento
nelle società nevralgiche del gruppo: nei CdA a monte de la Compagnia delle Vacanze s.p.a. e di CIT s.p.a. e, a valle, di Progetto Italiano s.p.a. e di Progetto Venezia s.p.a..
8.8. In relazione a detto motivo di ricorso non possono che richiamarsi le considerazioni svolte nella parte generale della presente motivazione, al punto A), in relazione alla struttura del reato di cui al R.D. n. 267 del 1942, art. 223, comma 2, n. 2.
8.9. Quanto al motivo di ricorso relativo alle fattispecie di cui al capo B) ascritte al C., va detto che le doglianze si basano, anche in tal caso, sulla rilettura delle prove documentali, essenzialmente sulla consulenza del dott. B., oggetto di motivazione alle pagg. 263 - 266 della sentenza impugnata. In particolare, va ricordato come la Corte territoriale abbia sottolineato che l'accordo stipulato tra la CIT. Fin. s.a. (poi Fintour s.a.), società di diritto lussemburghese, e la Cit Holding s.p.a. (poi CIT s.p.a.) in base al quale la Fintour s.a. avrebbe prestato assistenza finanziaria, contrattuale e giuridica nell'ambito delle trattative che CIT Holding avrebbe potuto intrattenere con gruppi terzi, per un compenso orario di Euro 1.000,00 all'ora; a parte la valutazione inerente l'ammontare di detto compenso, a fronte dell'assenza di qualsivoglia dettaglio circa le prestazioni, non altrimenti disponibili in CIT, visto che si trattava di società correlate, di cui la CIT Fin. s.p.a. residente in un paese con diverso regime fiscale, la conclusione dei giudici di merito è che l'operazione fosse funzionale a trasferire all'estero somme di denaro senza alcun titolo. Detta valutazione si basa sia sulle conclusioni della consulenza a firma del dott. B. che sul rinvenimento di un preciso documenti: la nota di debito emessa da CIT il 27/10/2001 per Lire 450.000.000 a firma del ricorrente, all'epoca consigliere di Fintour s.a. A fronte di detta ricostruzione la Corte territoriale ha rilevato come non sia stata rinvenuta traccia delle 550 ore di consulenza prestata da Fintour s.a., nè era stato possibile accertare se detta attività fosse stata prestata dal C., caso nel quale non si comprenderebbe perchè egli avrebbe dovuto essere pagato quale consulente, essendo già un amministratore delegato proprio al settore finanziario. Da detto complesso di elementi, sinteticamente riportati, emerge la motivazione della sentenza, che ha qualificato come distrattiva l'operazione, con motivazione immune da censure logiche.
In relazione all'ulteriore condotta - consistente in viaggi e spese del tutto privi di giustificazione con le attività finanziare della capogruppo CIT s.p.a. -, la Corte territoriale, con motivazione del tutto ineccepibile, ha escluso che dette prestazioni potessero essere considerate benefits o spese di rappresentanza
8.10. In relazione all'ulteriore condotta - consistente in viaggi e spese del tutto privi di giustificazione con le attività finanziare della capogruppo CIT s.p.a. -, la Corte territoriale, con motivazione del tutto ineccepibile, ha escluso che dette prestazioni potessero essere considerate benefits o spese di rappresentanza.
Quanto al profilo della necessaria offensività dei fatti di bancarotta, messo in rilevo in riferimento alle distrazioni ascritte al C. al capo B), il motivo di ricorso affronta una complessa problematica utilizzando, soprattutto, il richiamo alla motivazione della sentenza della Sez. 5, n. 47502 del 24/09/2012, Corvetta, Rv. 253493, secondo cui nel reato di bancarotta fraudolenta per distrazione lo stato di insolvenza che da luogo al fallimento costituisce elemento essenziale del reato, in qualità di evento dello stesso e, pertanto, deve porsi in rapporto causale con la condotta dell'agente e deve essere, altresì, sorretto dall'elemento soggettivo del dolo.
Il principio espresso dalla citata sentenza è, come noto, rimasto isolato, atteso che, secondo l'orientamento pacificamente consolidato di questa Corte, ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non è necessaria l'esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento, ciò in quanto trattasi di reato di pericolo a dolo generico, per la cui sussistenza non è necessario che l'agente abbia consapevolezza dello stato di insolvenza dell'impresa, nè che abbia agito allo scopo di recare pregiudizio ai creditori; inoltre non è necessaria l'esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il dissesto dell'impresa, in quanto, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, detti fatti assumono rilevanza penale in qualsiasi tempo siano stati commessi e, quindi, anche quando l'insolvenza non si era ancora manifestata (Sez. 5, sentenza n. 232 del 09/10/2012, dep. 07/01/2013, Sistro Rv. 254061; Sez. 5, sentenza n. 7545 del 25/10/2012, dep. 15/02/2013, Lanciotti, Rv. 254634; Sez. 5, sentenza n. 3229 del 14/12/2012, dep. 22/01/2013, Rossetto ed altri, Rv. 253932; Sez. 5, sentenza n. 27993 del 12/02/2013, Di Grandi ed altri, Rv. 255567; Sez. 5, sentenza n. 11793 del 05/12/2013, dep. 11/03/2014, Marafioti ed altro, Rv. 260199; Sez. 5, Sentenza n.11095 del 13/02/2014, Ghirardelli, Rv. 262741; Sez. 5, Sentenza n.32352 del 07/03/2014, Tanzi ed altri,Rv. 261942;Sez. 5, Sentenza n.26542 del 19/03/2014,Riva,Rv. 260690;Sez. 5, Sentenza n.47616 del 17/07/2014,Simone,Rv. 261683Sez. U, Sentenza n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli ed altro, Rv. 266804).
Tuttavia la questione non può dirsi completamente e conclusivamente risolta, atteso che il profilo messo in risalto rinvia, evidentemente, al più ampio problema concernente la qualificazione della sentenza di fallimento come elemento costitutivo del reato, atteso che detta affermazione - come noto pacifica nella giurisprudenza di questa Corte - non consente di eludere le problematiche a cui la sentenza Corvetta ha tentato di fornire una risposta, nel senso di conciliare la qualificazione dello stato di insolvenza quale elemento essenziale del reato, in quanto evento dello stesso, con i principi generali in materia di elementi costitutivi del reato, secondo cui detti elementi devono porsi in rapporto causale con la condotta dell'agente e, quindi, devono essere sorretti dall'elemento soggettivo del reato, ossia dal dolo.
Sostenere il contrario significherebbe ascrivere la sentenza dichiarativa di fallimento alla diversa categoria delle condizioni obiettive di punibilità, che, come tali, non richiedono alcun collegamento causale con la condotta dell'agente nè richiedono di essere sorretti dall'elemento soggettivo del reato. Tale opzione come noto fortemente sostenuta da buona parte della dottrina - sembrerebbe essere stata presa in considerazione dalle stesse Sezioni Unite di questa Corte, laddove, nella citata sentenza n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli, Rv. 266804, è stato affermato che "Non si richiede alcun nesso (causale o psichico) tra la condotta dell'autore e il dissesto dell'impresa, essendo sufficiente che l'agente abbia cagionato il depauperamento dell'impresa destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività (tra le più recenti: Sez. 5, n. 47616 del 17/07/2014, Simone, Rv 261683). La condotta, in altre parole, si perfeziona con la distrazione, mentre la punibilità della stessa è subordinata alla dichiarazione di fallimento, che, ovviamente, consistendo in una pronunzia giudiziaria, si pone come evento successivo (in caso, appunto, di bancarotta distrattiva prefallimentare) e comunque esterno alla condotta stessa". Il riferimento alla pronunzia giudiziaria come evento successivo e comunque esterno alla condotta stessa, sembrerebbe, quindi, suscettibile di essere valutato come un richiamo alla condizione obiettiva di punibilità.
Tuttavia la trattazione delle problematiche poste dai motivi di ricorso non consente di affrontare ex professo la questione concernente la qualificazione della sentenza di fallimento come elemento costitutivo del reato ovvero come condizione obiettiva di punibilità, in considerazione del fatto che detto argomento non rientra espressamente tra quelli su cui il motivo di ricorso si basa; peraltro la peculiarietà della situazione in esame consente di fornire una risposta adeguata al caso di specie.
Non va, infatti, dimenticato, che le condotte distrattive ascritte al C. al capo B) non possono essere considerate e valutate come avulse dal contesto in cui esse sono state realizzate e, soprattutto, non possono essere considerate isolatamente. Entrambe le condotte, come visto, si inscrivono nella più complessa condotta di cagionamento doloso del dissesto di tutte le società del gruppo, individuata al capo A), fattispecie di reato che, indiscutibilmente, è sorretta dal dolo specifico.
Come noto, è stato affermato che, in tema di bancarotta fraudolenta impropria, nell'ipotesi di fallimento causato da operazioni dolose non determinanti un immediato depauperamento della società, la condotta di reato è configurabile quando la realizzazione di tali operazioni si accompagni, sotto il profilo dell'elemento soggettivo, alla prevedibilità del dissesto come effetto della condotta antidoverosa (Sez. 5, sentenza n. 45672 del 01/10/2015, Lubrina ed altri, Rv. 265510).
Nel caso in esame le condotte di bancarotta di cui al capo B) ascritte al C. costituiscono altrettanti segmenti di una più ampia e complessa condotta, funzionale al cagionamento dello stato di dissesto delle 24 società del gruppo CIT, a cui il C. ha partecipato a pieno titolo, con svolgimento di ruoli specificamente indicati nella sentenza impugnata, come visto in precedenza, ruoli consapevolmente ricoperti con lo scopo, per quanto in questa sede rileva, di determinare il depauperamento delle risorse delle società del gruppo attraverso le molteplici condotte descritte; il tutto, inoltre, rientrava nella finalità della compagine associativa, individuata al capo E), di cui il ricorrente faceva parte.
Ne deriva che tutte le condotte sono state poste in essere in esecuzione di un disegno criminoso sorretto dal dolo specifico, sia sotto l'aspetto della fattispecie associativa sia sotto il profilo della fattispecie di cui al R.D. n. 267 del 1942, art. 223, comma 2, n. 2. Ciò consente di affermare che inquadrando in detto contesto anche le condotte che prima facie apparirebbero scarsamente o per nulla offensive, ossia condotte distrattive apparentemente irrilevanti o estremamente risalenti nel tempo, appare evidente come l'autore di quelle condotte, nel momento in cui le commetteva o concorreva a commetterle ben sapeva come esse fossero potenzialmente produttive di conseguenze negative per le finanze del gruppo, in quanto si iscrivevano in una serie di analoghe condotte a ciò finalizzate e dal medesimo autore commesse. Proprio tale inserimento consentiva all'autore della condotta distrattiva di verificare come la stessa seppure ininfluente da un punto di vista di isolata valutazione - apparisse anch'essa significativa, in quanto facente parte di una variegata sequenza di condotte funzionali al cagionamento del dissesto delle società del gruppo, in ciò essendo evidente la prevedibilità del fatto che anche condotte di apparentemente minima o nulla rilevanza, in quanto commesse in un più ampio contesto, potessero avere una loro incidenza funzionale.
8.11. Anche per il C., in relazione al motivo di ricorso concernente la determinazione della pena, non possono che essere richiamati, oltre alle considerazioni generali in premessa esaminate, i principi elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la motivazione della pena, effettuata sulla base di specifici indici riferibili al ricorrente, appare esaustiva ai sensi dell'art. 133 c.p., sotto il profilo motivazionale, allorquando siano indicati, da parte del giudice di merito, gli elementi ritenuti rilevanti o determinanti, essendo la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, operazione che rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 c.p.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena, la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione (Sez. 5, sentenza n. 5582 del 30/09/213, Ferrario, Rv. 259142; Sez. 1, sentenza n. 3155 del 25/09/2013, Waychey ed altri, Rv. 259410).
Tanto premesso, occorre ricordare come già in primo grado il giudice di merito aveva valutato la circostanza che il C. avesse risarcito sia l'Amministrazione Straordinaria che i lavoratori dipendenti, con conseguente revoca delle rispettive costituzioni di parte civile nei suoi confronti; inoltre era stato considerato anche il complessivo atteggiamento processuale dell'imputato, disponibile alla ricostruzione dei fatti. In base a dette circostanze il primo giudice aveva, quindi, già riconosciuto al C. le circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza.
La Corte di merito ha ritenuto che nulla fosse ulteriormente emerso nel corso del giudizio di secondo grado in favore del ricorrente, atteso il ruolo nevralgico rivestito dallo stesso nel settore finanziario del gruppo e considerata, quindi, l'incidenza della sua condotta in riferimento al reato sub A), riducendo, peraltro, la pena base ad anni cinque mesi sette di reclusione per effetto della eliminazione della pena relativa alle condotte sanzionate sub B), e riducendo la pena ad anni tre mesi dieci di reclusione per effetto della indicata concessione delle circostanze attenuanti generiche; detta pena non è stata poi ulteriormente aumentata, attesa l'intervenuta prescrizione del delitto sub E), ed atteso che il primo giudice, erroneamente, non aveva effettuato alcun aumento ai sensi dell'art. 81 c.p., comma 2, in riferimento alla continuazione interna di cui al capo A); la Corte ha espressamente rilevato entrambe le dette circostanze, mantenendo, quindi, inalterata la pena come sopra individuata.
8.12. Per quanto riguarda l'ultimo motivo di ricorso, vanno ricordate le considerazioni riportate nel punto E) della trattazione delle questioni generali della presente sentenza.
9. Il ricorso del R.L. è infondato e va, pertanto, rigettato.
9.1. Per quanto riguarda il primo motivo di ricorso, va ricordata la motivazione della sentenza impugnata, alla pag. 184, che, con argomentazioni del tutto immuni da censure logiche, ha osservato che le difese non avevano prospettato alcuna alterazione dei dati informatici acquisiti, a nulla rilevando che detti dati non risultassero sottoposti a sequestro, atteso che il sequestro è solo un mezzo di ricerca della prova, ben potendo i documenti essere oggetto di altre modalità acquisitive, quale, ad esempio, la consegna spontanea.
Ne risulta, quindi, la genericità del motivo, considerato, inoltre, che non risulta affatto che la difesa del ricorrente avesse mai fatto richiesta di accedere ai documenti o al computer.
9.2. Parimenti infondato si palesa il secondo motivo di ricorso, alla luce della motivazione, a pag. 185, della sentenza impugnata, anche sotto detto aspetto immune da censure logiche; la Corte territoriale ha affermato che l'amministrazione straordinaria è, a tutti gli effetti, una procedura concorsuale, nell'ambito della quale il commissario deve periodicamente notiziare l'autorità giudiziaria, secondo lo schema tipico della curatela fallimentare, ai sensi del R.D. n. 267 del 1942, art. 33, con relazioni sull'andamento dell'amministrazione.
Pacifico risulta, infatti, sul punto, l'arresto giurisprudenziale di questa Corte regolatrice che ha da tempo affermato come il D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, art. 95, recante "nuova disciplina dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza", preveda espressamente l'equiparazione della dichiarazione di insolvenza a quella di fallimento e la conseguente applicazione delle disposizioni penali di cui al titolo 6, capi I, 2 e 4, del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (Sez. 5, sentenza n. 27513 del 03/02/2004, Della Valle, Rv. 228698).
9.3. In relazione al terzo motivo di ricorso, esso è articolato nella parziale riproduzione del verbale dell'udienza dibattimentale del 31/01/2013, finalizzata alla valutazione di un comportamento, da parte del Presidente del Collegio, ritenuto dalla difesa lesivo dei diritti dell'imputato e, per esso, della difesa tecnica, di procedere al controesame del teste, ossia il dott. B., consulente tecnico del pubblico ministero; si tratta, all'evidenza, di una valutazione del tutto inammissibile in sede di legittimità, a cui va aggiunta la considerazione che già la Corte territoriale ha escluso che, nel caso di specie, si fosse verificata la inutilizzabilità delineata dalla difesa. A ciò può essere aggiunta l'argomentazione secondo la quale la giurisprudenza di questa Corte citata dalla difesa nel motivo di ricorso, approda, per la verità, a conclusioni esattamente opposte a quelle delineate dalla difesa medesima, in quanto il dott. B. risulta essere stato escusso quale teste in dibattimento, evidentemente sul contenuto dell'elaborato a sua firma. Il motivo di ricorso, inoltre, appare generico, non avendo chiarito nè quali fossero i capitoli di prova sui quali era stato ammesso il teste dott. B., nè avendo dettagliato quali fossero le argomentazioni contenute nella motivazione della sentenza relativamente alle quali sarebbe stato impedito il regolare contraddittorio.
9.4. Per quanto riguarda il quarto motivo di ricorso, la Corte territoriale, in particolare, ha rilevato, quanto al capo E), come fossero stati descritti i vari livelli ai quali i compartecipi si fossero inseriti nell'associazione - al R., appartenente al terzo livello operativo della compagine, era stato ascritto il ruolo di soggetto che aveva partecipato, ricoprendo svariate cariche sociali, alle attività del gruppo, individuando l'ambito dei delitti che costituivano il programma associativo. Va rilevato, inoltre, che per la fattispecie associativa è stata dichiarata la prescrizione dalla Corte territoriale, a cui il ricorrente non ha rinunciato, con preclusione, quindi, di tutte le questioni afferenti la motivazione della sentenza, tanto più che egli non si duole affatto dell'omessa valutazione, da parte della Corte di merito, di una causa evidente di proscioglimento ai sensi dell'art. 129 c.p.p., comma 2.
9.5. Con il quinto motivo di ricorso si affronta la problematica della così detta "bancarotta riparata", atteso che, secondo la prospettazione difensiva, molte delle somme che si assumevano fuoriuscite dal gruppo - segnatamente quelle ascritte al R. al capo B) sub specie di fatturazioni per operazioni inesistenti erano, in realtà, rientrate nel patrimonio delle stesse società del gruppo che si assumevano danneggiate, o in altre, anche in misura maggiore e, comunque, prima della dichiarazione di fallimento, sotto forma di aumento di capitale.
Per quanto riguarda la problematica evocata, appare necessario ricordare che la bancarotta "riparata" si configura, determinando l'insussistenza dell'elemento materiale del reato, quando la sottrazione dei beni venga annullata da un'attività di segno contrario, che reintegri il patrimonio dell'impresa prima della soglia cronologica costituita dalla dichiarazione di fallimento o di ammissione a procedura equiparata, così annullando il pregiudizio per i creditori o anche solo la potenzialità di un danno. Ne deriva, quindi, come ciò non sia in alcun modo configurabile allorquando l'attività restitutoria o riparatoria sia posta in essere in epoca successiva alla dichiarazione di fallimento per iniziativa del curatore (Sez. 5, sentenza n. 4790 del 20/10/2015, dep. 05/02/2016, Budola Rv. 266025; Sez. 5, sentenza n. 50289 del 07/07/2015, dep. 22/01/2016, P.M. in proc. Mollica, Rv. 265903; Sez. 5, sentenza n. 52077 del 04/11/2014, Lelli, Rv. 261347). Nel caso in esame, chiaramente, non si può configurare l'ipotesi di bancarotta "riparata", in quanto il presunto rientro delle somme, secondo la prospettazione difensiva, risulterebbe essere stato realizzato attraverso operazioni di aumento del capitale; come noto (Sez. 5, sentenza n. 4461 del 16/02/1994, Freato ed altri, Rv. 198003) l'aumento di capitale costituisce un debito per la società, atteso che detta voce, così come il capitale sociale, trova la propria collocazione nel passivo del bilancio, ex art. 2424 c.c.; inoltre la somma versata a titolo di aumento di capitale da parte degli autori di una distrazione non può essere affatto considerata come restituzione di mezzi finanziari sottratti al patrimonio, in quanto la sottoscrizione del capitale sociale si fonda su di una precisa causa negoziale, del tutto eccentrica rispetto alla prestazione effettuata in adempimento di un obbligo di restituzione di quanto indebitamente sottratto.
Appare evidente, infatti, che il mero riferimento alla denominazione con la quale i versamenti siano annotati nella contabilità sociale, in difetto di più specifiche indicazioni circa la natura e le condizioni di un finanziamento, può, da solo, non bastare a fornire lumi sufficienti in ordine alla natura dell'atto negoziale in tal modo eseguito, stante anche la varietà e la relativa imprecisione che sovente caratterizzano tali denominazioni e annotazioni contabili. Tuttavia, laddove manchi una chiara manifestazione di volontà, la chiave di lettura della qualificazione non può che essere ricavata nella terminologia adottata nel bilancio, tanto più quando, come nella specie, esso si accompagni anche a considerazioni ulteriori con riferimento alle quali nessuna critica precisa e decisiva risulta esser stata formulata da parte del ricorrente.
Non può essere, infatti, dimenticato come già il primo giudice avesse articolatamente analizzato le dichiarazioni del dott. B., consulente tecnico del pubblico ministero, il quale aveva ricostruito gli artifici contabili attraverso cui si erano realizzate le ricapitalizzazioni, evidenziando, in particolare, il versamento di somme liquide sul conto societario, precedente di un giorno rispetto alla fuoriuscita delle medesime somme in modo che non siano più tracciabili, con la conseguenza che l'indicazione della causale aveva l'effetto di creare un ulteriore debito sociale verso il conferente a fronte di un'insussistente versamento di capitale fresco.
Analogamente la Corte territoriale ha fornito analoga motivazione alle pagg. 253263 della sentenza impugnata, in cui sono stati richiamati i passaggi delle distrazioni ascritte al R., tra cui anche quelle riferibili alla Electa s.p.a., di cui egli era stato consigliere, poi vicepresidente e, infine amministratore delegato dall'aprile 1997 al luglio 2004.
Ne deriva che le critiche mosse in ricorso, lungi dall'enucleare errori di diritto o lacune o incongruenze motivazionali, si riducono nella inammissibile prospettazione di una diversa interpretazione delle risultanze processuali più favorevole alla parte. Nè vale al riguardo addurre che il giudice avrebbe dovuto tenere conto anche di altri elementi, anzichè privilegiare il dato contabile. La Corte ha applicato il sopra richiamato principio di diritto ed in tale attività ermeneutica legittimamente ha attribuito valore prevalente al dato letterale emergente dalla classificazione contabile dell'operazione, valutata unitamente agli artifici contabili emersi e descritti nel corso dell'istruttoria dibattimentale. L'opzione interpretativa fornita dai giudici del merito rientra nell'ambito del giudizio agli stessi riservato e, in quanto logica, si sottrae nel suo contenuto al sindacato di legittimità, per cui il ricorrente non può offrire, in sua sostituzione, altra opzione ritenuta preferibile.
9.6. Con il sesto motivo ci si limita, apoditticamente, a contestare la possibilità, per la Corte di merito, di motivare per relationem alla sentenza di primo grado, attraverso un generico richiamo ai motivi di appello, che questa Corte regolatrice non può riesaminare nella loro integralità come se il giudizio di legittimità dovesse essere inteso come un terzo grado di merito.
9.7. Il settimo motivo di ricorso è incentrato, essenzialmente, su di una critica alla motivazione della sentenza impugnata basata sulla integrale condivisione della impostazione della sentenza di questa Sez. 5, n. 47502 del 24/09/2012, Corvetta, Rv. N. 253493, secondo la cui massima "Nel reato di bancarotta fraudolenta per distrazione lo stato di insolvenza che dà luogo al fallimento costituisce elemento essenziale del reato, in qualità di evento dello stesso e, pertanto, deve porsi in rapporto causale con la condotta dell'agente e deve essere, altresì, sorretto dall'elemento soggettivo del dolo."
Come noto, la citata sentenza rappresenta un caso isolato nella giurisprudenza di questa Corte che, secondo un consolidato orientamento, risalente alla pronuncia delle Sez. Un., n. 2 del 25 gennaio 1958, Mezzo, Rv. 98004, ha affermato il principio secondo cui la sentenza dichiarativa di fallimento, pur rappresentando un elemento imprescindibile per la punibilità dei reati di bancarotta, costituirebbe una "condizione di esistenza del reato", ossia un elemento alla cui verificazione sarebbe collegato il perfezionamento e la realizzazione del reato. A differenza della condizione obiettiva di punibilità - che implica un reato già perfetto oggettivamente e soggettivamente - la sentenza di fallimento, relativamente a quei fatti commissivi od omissivi anteriori alla sua pronunzia, avrebbe una funzione di essenziale integrazione giuridica della fattispecie penale, nel senso che i fatti medesimi, a prescindere dalla dichiarazione di fallimento, sarebbero, come fatti di bancarotta, penalmente irrilevanti, in quanto libera manifestazione del diritto dell'imprenditore di gestire l'impresa nella maniera più adeguata alla realizzazione dei suoi interessi. Solo la dichiarazione di fallimento, quindi, qualificherebbe l'insolvenza attraverso la constatazione giudiziale della stessa, attualizzando e concretizzando l'offesa dell'interesse tutelato (Sez. 5, sentenza n. 20736 del 25/03/2010, Olivieri, Rv. 247299; Sez. 1, sentenza n. 1825 del 06/11/2006, Iacobucci, Rv. 235793; Sez. 5, sentenza n. 46182 del 12/10/2004, Rossi ed altro, Rv. 231167; Sez. 1, sentenza n. 4356 del 16/11/2000, Agostini e altro, Rv. 218250; Sez. 1, sentenza n. 2392 del 11/04/1996, P.G. in proc. Magnini, Rv. 205164; Sez. 1, sentenza n. 4859 del 27/10/1994, Ferrari, Rv. 200019; Sez. 1, sentenza n. 2988 del 2/07/1991, Confl. comp. Trib. Monza e Trib. Roma in proc. Bianchi, Rv. 187893; Sez. 5, sentenza n. 3049 del 16/12/1986, Milanesi, Rv. 175326).
Altrettanto costantemente si è escluso che la dichiarazione di fallimento costituisca l'evento del reato di bancarotta, non ritenendosi, quindi, necessario l'accertamento di un nesso eziologico tra la condotta realizzatasi attraverso un atto dispositivo che incida sulla consistenza patrimoniale di un'impresa commerciale, ed il fallimento o i suoi presupposti sostanziali (Sez. Un., sentenza n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli e altro, Rv. 266804; Sez. 1, sentenza n. 40172 del 01/10/2009, Simonte, Rv. 245350; Sez. 5, sentenza n. 36088 del 27/09/2006, Corsatto e altro, Rv. 235481, Sez. 5, sentenza n. 8327 del 22/04/1998, Bagnasco e altri, Rv. 211366). Il che ha condotto ad affermare che, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, o altro atto equivalente, detti fatti assumerebbero rilevanza penale a prescindere dall'incidenza dell'epoca di loro commissione, essendo, quindi, irrilevante che l'impresa non versasse ancora in condizioni di insolvenza, prescindendosi, altresì, dalla consistenza del passivo accertato (Sez. Un., n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli e altro, cit.; Sez. 5, sentenza n. 27993 del 12/02/2013, Di Grandi e altri, Rv. 255567; Sez. 5, sentenza n. 7545 del 25/10/2012, Lanciotti, Rv. 254634; Sez. 5, sentenza n. 232 del 9/10/2012, Sistro, Rv. 254061; Sez. F, sentenza n. 32779 del 13/08/2012, Lavitola, Rv. 253490; Sez. 1, sentenza n. 40172 del 01/10/2009, Simonte, Rv. 245350; Sez. 5, sentenza n. 34584 del 06/05/2008, Casillo, Rv. 241349; Sez. 5, sentenza n. 36088 del 27/09/006, Corsatto ed altro, Rv. 235481; Sez. 5, sentenza n. 8327 del 22/04/1998, Bagnasco ed altri, Rv. 211366; Sez. 5, sentenza n. 15850 del 26/06/1990, Bordoni, Rv. 185891).
In realtà va sottolineato come il legislatore, quando lo ha ritenuto necessario, ha previsto espressamente un termine a decorrere dal quale la condotta dell'imprenditore, o di uno dei soggetti ad esso equiparati, assume rilievo penale: ciò avviene, ad esempio, per la bancarotta semplice documentale, in cui, ai sensi del R.D. n. 267 del 1942, art. 217, comma 2, la condotta è incriminabile solo se posta in essere entro i tre anni antecedenti la dichiarazione di fallimento; opinare diversamente porterebbe ad incidere in maniera ingiustificata sulla tassatività della fattispecie, nel senso di includere in essa un elemento di arbitrarietà riguardante il momento nel quale il fallimento deve essere considerato prossimo o soggettivamente probabile.
Nel ribadire l'assunto, questa Corte ha peraltro avuto modo di sottolineare come la disciplina relativa alla bancarotta fraudolenta patrimoniale sia in grado, nella sua concreta applicazione, di selezionare i comportamenti in ragione del tempo che li separa dalla pronuncia giudiziale, dovendo il giudice pur sempre dar conto dell'effettiva offesa alla massa dei creditori, quale portato del comportamento illecito, anche mediato e consequenziale, derivato dalla perdita di ricchezza e non compensato medio tempore da alcun riequilibrio economico (Sez. 5, sentenza n. 523 del 22/11/2006, dep. 12/01/2007, Cito e altro, Rv. 235694, caso nel quale la Corte ha ritenuto priva di rilievo la distanza di tempo dalle condotte distrattive rispetto alla formale dichiarazione di fallimento, essendo emerso che la società si trovava in notevoli difficoltà finanziarie ed economiche sin dall'epoca della contestata distrazione).
In realtà la ricostruzione della fattispecie di cui al R.D. n. 267 del 1942, art. 216 offerta dalla sentenza Corvetta presta il fianco a molteplici incongruenze ed obiezioni. Anzitutto, come già accennato, allorquando il legislatore ha ritenuto necessaria la sussistenza di un collegamento causale tra il fallimento, il dissesto o lo stato d'insolvenza e le condotte di bancarotta, lo ha chiaramente esplicitato, ricorrendo ad una terminologia univoca, come nei casi previsti dal R.D. n. 267 del 1942, art. 217, comma 2, art. 223, comma 2, nn. 1 e 2 e art. 224, n. 2, non comprendendosi per quale ragione, e proprio in riferimento alla fattispecie cardine del sistema di incriminazioni in materia fallimentare, il requisito risulterebbe, inspiegabilmente, omesso. Ciò soprattutto se si considera il D.Lgs. n. 61 del 2002 - che ha introdotto il dissesto quale evento della fattispecie di bancarotta da reato societario, ex R.D. n. 267 del 1942, art. 223, comma 2, n. 1, - appare evidentemente dimostrativo del fatto che il legislatore abbia espressamente considerato la problematica, manifestando chiaramente la sua volontà, dovendosi, quindi, escludere una diversa opzione interpretativa, di segno contrario a quella che emerge dal tenore letterate del R.D. n. 267 del 1942, art. 216, ossia che nella fattispecie di cui al comma 1 dell'articolo citato non è normativamente previsto alcun rapporto eziologico tra le condotte alternativamente incriminate ed il fallimento, e che tale rapporto non è ricostruibile in via interpretativa, attesi gli evidenti limiti esegetici della disposizione, che non configura la dichiarazione di fallimento, o atto equipollente, come evento del reato.
Inoltre la stessa motivazione della sentenza Corvetta non appare univoca nella individuazione dell'evento del reato, dapprima identificato nella declaratoria giudiziale di fallimento, quindi più genericamente indicato "fallimento" e, infine, specificato nel dissesto; ciò non può apparire irrilevante, non sussistendo identità terminologica nè ontologica tra il fallimento, che è un atto di giurisdizione, ed il dissesto, ossia la situazione sostanziale presupposta per la dichiarazione di fallimento, ponendosi il dissesto come un dato quantitativo, graduabile, suscettibile di essere cagionato sia nell'an che nel quantum, mentre il fallimento è invece un fatto formale, segnato da un provvedimento giurisdizionale, che non ammette alternativa se non tra essere e non essere, non potendosi, quindi, utilizzare in chiave ermeneutica nozioni del tutto eterogenee tra loro - ossia il dissesto e la dichiarazione di fallimento - prescindendo dalla loro infungibilità strutturale (Sez. 5, sentenza n. 15613 del 05/12/2014, dep. 15/04/2015, Geronzi e altri, Rv, 263803; Sez. 5, sentenza n. 32352 del 07/03/2014, Tanzi ed altri, Rv. 261938).
Peraltro le stesse Sezioni Unite hanno chiarito come, nella struttura dei reati di bancarotta, la dichiarazione di fallimento assuma rilevanza in quanto provvedimento giurisdizionale, con conseguente insindacabilità in sede penale della stessa (Sez. Un., sentenza n. 19601 del 28/02/2008, Niccoli, Rv. 239398), ed evidente esclusione della possibilità di qualificare come elemento costitutivo della fattispecie criminosa alcuno dei presupposti di fatto accertati dal giudice fallimentare, tra cui lo stato di insolvenza, laddove l'elemento costitutivo della fattispecie risiede nella pronuncia di una sentenza rispetto alla quale non è ipotizzabile un'efficienza causale facente capo nè all'imprenditore nè al ceto creditorio, come sostenuto dalla sentenza Corvetta.
Procedendo su questa falsariga, la giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha, inoltre, ribadito che l'incidenza causale della condotta distrattiva sul fallimento debba essere considerato un aspetto irrilevante ai fini della configurabilità del reato di bancarotta fraudolenta, il cui evento è esclusivamente di tipo giuridico, essendo esso da identificare nella lesione dell'interesse patrimoniale della massa creditoria (Sez. 5, sentenza n. 16759 del 24/03/2010, Fiume, Rv. 246879), già riconducibile alla condotta di sottrazione di beni a detrimento della garanzia patrimoniale, o di documentazione in pregiudizio delle possibilità di verifica contabile, e non anche dal dissesto della società, estraneo alla struttura del reato in quanto mero substrato economico dell'insolvenza (Sez. 1, sentenza n. 40172 del 01/10/2009, Simonte, Rv. 245350).
Estraneo al reato è di conseguenza anche il rapporto causale fra la condotta ed il dissesto (cfr. Sez. 5, n. 3560/14 del 10/12/2013, Palmas, Rv.258553).
In maniera altrettanto costante si ritiene, inoltre, che la dichiarazione di fallimento sia del tutto svincolata dall'elemento soggettivo del reato di bancarotta fraudolenta, con la conseguente irrilevanza del fatto che nell'agente manchi la consapevolezza di poter fallire (Sez. 5, sentenza n. 17044 del 20/02/2001, Martini A, Rv. 219269); ai fini della sussistenza del dolo della bancarotta distrattiva, costituito dal dolo generico, non è necessario, quindi, che l'agente abbia consapevolezza dello stato di insolvenza dell'impresa, risultando pertanto irrilevante che questo si sia o meno già manifestato al momento della consumazione della condotta illecita, così come parimenti irrilevante è ritenuto lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte. (Sez. Un., sentenza n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli e altro, Rv. 266805; Sez. 5, sentenza n. 3229/13 del 14/12/2012, dep. 22/01/2013, Rossetto e altri, Rv. 253932; Sez. 5, sentenza n. 11633 del 08/02/2012, Lombardi Stronati, Rv. 252307; Sez. 5, sentenza n. 44933 del 26/09/2011, Pisani e altri, Rv. 251214; Sez. 5, sentenza n. 29896 del 01/07/2002, Arienti ed altri, Rv. 222388).
Nel caso di specie, quindi, i principi richiamati appaiono pienamente coerenti con la motivazione offerta dalla Corte territoriale, considerato che appare fuorviante considerare l'epoca delle singole distrazioni ascritte a R. che, come visto, si concretano in una molteplicità di episodi posti in essere in esecuzione di un preciso disegno criminoso in esecuzione del vincolo associativo che il ricorrente no ha contestato nella sua sussistenza, non avendo, come detto, rinunciato alla prescrizione.
Va, inoltre, considerata la condotta nel suo complesso, così come ritenuto dalla Corte di merito, ossia una pluralità di azioni distrattive poste in essere in un arco di tempo compreso tra il 1990 ed il 2001, per cui non sarebbe logicamente condivisibile l'analisi parcellizzata delle singole condotte, atteso che ciascuna di esse non solo era stata attuata in esecuzione del disegno associativo, ma era evidentemente posta in essere dal ricorrente nella piena consapevolezza delle altre condotte, sia di quelle precedenti che di quelle successive, parimenti funzionali alla realizzazione del disegno criminoso unitario sussistente anche in relazione al delitto associativo, relativamente al quale, non a caso, è stato applicato l'art. 81 c.p., comma 2, - salva la declaratoria di prescrizione intervenuta in secondo grado - senza alcuna contestazione sul punto, da parte del ricorrente.
Può quindi concludersi che, anche nel caso in esame, ai fini della configurabilità del dolo di bancarotta patrimoniale, sia stata correttamente ritenuta sussistente la rappresentazione, da parte dell'agente, della pericolosità della condotta distrattiva, da intendersi come probabilità dell'effetto depressivo sulla garanzia patrimoniale che la stessa è in grado di determinare e, dunque, la rappresentazione del rischio di lesione degli interessi creditori tutelati dalla norma incriminatrice. Ciò in quanto, come già precisato (Sez. 5, sentenza n. 12897 del 06/10/1999, Tassan Din, Rv. 214863; Sez. 5, sentenza n. 29896 del 01/07/2002, Arienti, Rv. 222388; Sez. 5, sentenza n. 7555 del 30/01/2006, De Rosa, Rv. 233413) l'elemento psicologico della bancarotta patrimoniale configurato dal dolo generico - va desunto da tutte le componenti che caratterizzano la condotta dell'imputato, rivelatrici della consapevole volontà, da parte dell'imputato, di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa rispetto alle finalità dell'impresa e di compiere, quindi atti che cagionino, o possano cagionare, danno ai creditori, e questo anche nel caso in cui l'agente, pur non perseguendo direttamente il risultato, tuttavia lo preveda e, ciò nonostante, agisca, consentendo, in tal modo, il suo realizzarsi.
9.8. In relazione all'ottavo motivo di ricorso, va osservato che il fenomeno della fusione tra società è stato affrontato e pacificamente risolto dalla giurisprudenza di questa Corte che, sin dalle Sezioni Unite civili del 17/09/2010, sentenza n. 19698, hanno stabilito che, in tema di fusione, l'art. 2504-bis c.c. introdotto dalla riforma del diritto societario (D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6) ha natura innovativa e non interpretativa e, pertanto, il principio, da esso desumibile, per cui la fusione tra società si risolve in una vicenda meramente evolutivo modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo, non vale per le fusioni (per unione od incorporazione) anteriori all'entrata in vigore della nuova disciplina (1 gennaio 2004), le quali tuttavia pur dando luogo ad un fenomeno successorio, si diversificano dalla successione mortis causa perchè la modificazione dell'organizzazione societaria dipende esclusivamente dalla volontà delle società partecipanti, con la conseguenza che quella che viene meno non è pregiudicata dalla continuazione di un processo del quale era perfettamente a conoscenza, così come nessun pregiudizio subisce la incorporante (o risultante dalla fusione), che può intervenire nel processo ed impugnare la decisione sfavorevole.
Ad esse, di conseguenza non si applica la disciplina dell'interruzione di cui agli artt. 299 e seguenti del codice di procedura civile (cfr., inoltre, in senso conforme, Sez. 1, sentenza n. 1376 del 26/01/2016).
Appare quindi evidente come, effettivamente, la detta giurisprudenza sia stata impropriamente richiamata dal motivo di ricorso, atteso che essa riguarda i rilevi processuali del fenomeno della fusione societaria e, comunque, sottolinea come le modificazioni intervenute in epoca precedente al 01/01/2004 si diversifichino dalla successione mortis causa; non a caso, infatti, la società incorporante non può subire alcuna conseguenza negativa sul piano processuale dal fenomeno della fusione. Nulla autorizza, peraltro, l'interpretazione di detta giurisprudenza fornita dal motivo di ricorso, atteso che questa Corte ha già affrontato l'aspetto anche nelle sue implicazioni sulla materia dei reati fallimentari, affermando che sia in caso di fusione tra società pura e semplice, che in caso di fusione di società per incorporazione, l'amministratore della società incorporante risponde dei fatti di bancarotta della società incorporata (Sez. 5, sentenza n. 32728 del 11/03/2014, Minotto ed altro, Rv. 261966). Detta sentenza, in particolare, ha configurato il fenomeno della fusione, in tutte le sue manifestazioni, in una successione universale nei diritti e nelle obbligazioni che facevano capo alle società estinte, richiamando, sul punto, la giurisprudenza formatasi in relazione all'art. 2504 bis c.c..
Nè, ovviamente, si può concordare con le argomentazioni difensive, atteso che certamente non si configura, in tal caso, una sorta di fenomeno successorio in malam partem, atteso che, al contrario, proprio l'interpretazione difensiva finirebbe per introdurre nell'ordinamento una forma anomala, sicuramente non prevista, di estinzione di fattispecie penali, con conseguente azzeramento della tutela dei creditori societari. Che il fenomeno successorio, poi, non si traduca affatto in una interpretazione in malam partem risulta evidente dalla considerazione che il fenomeno della fusione tra società non comporta nessun automatismo sotto il profilo dell'accertamento dei reati fallimentari, dovendosi, tuttavia, considerare che la fusione rappresenta una scelta degli organi societari che, ovviamente, sono tenuti a valutare il complesso dell'operazione anche sotto l'aspetto della consapevole accettazione del rischio, eventualmente derivante dalle condizioni finanziarie negative della società incorporata, e le corrispondenti capacità della incorporante di farvi fronte e di poter risolverle, evitando la verificazione di un irreversibile stato di dissesto.
9.9. Il nono motivo appare ai limiti dell'inammissibilità, traducendosi in una ricostruzione alternativa dei fatti, basata sul richiamo al contenuto di atti istruttori (esame del coimputato G. e documentazione acquisita ex art. 603 c.p.p.), che esulano dal perimetro cognitivo di questa Corte di legittimità.
9.10. Analogamente, il decimo motivo si concreta in una generica contestazione della motivazione fornita dalla Corte di merito, in base ad una presunta insufficienza della stessa in quanto basata sulle dichiarazioni del consulente tecnico del pubblico ministero, dott. B., a fronte della diversa prospettazione fornita dalla difesa nei motivi di gravame.
9.11. Le medesime considerazioni valgono per l'undicesimo motivo di ricorso, basato sul richiamo ad atti istruttori non conosciuti nè conoscibili da questa Corte, ed involgenti la ricostruzione fattuale della vicenda.
9.12. Il dodicesimo motivo risulta infondato, in considerazione della circostanza che sul punto la motivazione della sentenza impugnata risulta integrata senza alcun dubbio da quella del primo giudice, richiamata espressamente alle pagg. 58 e 59 della sentenza impugnata, dove l'operazione distruttiva di cui aveva beneficiato la Teso s.a.s. in danno di CIT s.p.a., è stata analiticamente descritta, così come è stata individuata la responsabilità nella stessa del ricorrente, all'epoca componente del CdA di CIT s.p.a.; il motivo di ricorso, peraltro, non indica neanche quali fossero le doglianze che erano state formulate in sede di gravame.
9.13. Il tredicesimo motivo appare ai limiti dell'inammissibilità, contenendo doglianze afferenti la ricostruzione fattuale ritenuta non congrua rispetto a fonti di prova dichiarative e documentali il cui vaglio è escluso in sede di legittimità. 9.14. Il quattordicesimo motivo appare basato su passaggi motivazionali dell'atto di appello posti a confronto con il contenuto della relazione del consulente tecnico del pubblico ministero, dott. B., documentazione che non è esaminabile da parte di questa Corte, esulando dal perimetro del giudizio di legittimità.
9.15. Anche in relazione al quindicesimo detto motivo di ricorso, va osservato come esso si basi su censure in fatto, del tutto estranee alla valutazione si questa Corte di legittimità.
9.16. Quanto al danno di notevole gravità, di cui al R.D. n. 267 del 1942, art. 219, comma 1, (sedicesimo motivo), va osservato che al R. detta circostanza aggravante non risulta neanche contestata, come si evince dalla lettura del capo di imputazione sub B), almeno per quello che è dato evincere dalla intestazione di entrambe le sentenze di merito, oltre che dalla motivazione della sentenza impugnata, alla pag. 267. Ne deriva che la motivazione sul punto della sentenza del primo giudice, deve ritenersi un refuso, e, in ogni caso, sulla mancata contestazione di detta circostanza aggravante non risulta che la difesa avesse eccepito alcunchè con i motivi di gravame. A ciò va aggiunta la considerazione che, sin dal primo grado di giudizio, al ricorrente erano state concesse le circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza, per cui nessuna incidenza sulla determinazione della pena, evidentemente, risulta aver avuto la circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità, erroneamente ritenuta sussistente, come si evince anche dalla motivazione offerta in ordine alla determinazione della pena base, che nella sentenza impugnata si è soffermata sul ruolo del ricorrente.
9.17. In relazione al diciasettesimo motivo di ricorso, va detto che esso appare assolutamente generico, atteso che non indica affatto quali fossero le doglianze specifiche poste a fondamento del gravame, tanto più a fronte di una manifesta pluralità di episodi di bancarotta contestati al ricorrente al capo B), ai punti 7, 8, 13, 14, 15, 20, 22, 23, 24, 25, 26, 33.
9.18. Quanto alla determinazione della pena (diciottesimo motivo), come si evince dalla motivazione della sentenza impugnata alle pagg. 272 e 273, la Corte di merito ha rilevato che al ricorrente fossero già state concesse le circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza per il suo ruolo minore ed ha considerato, inoltre, l'intervenuto risarcimento in favore dei lavoratori dipendenti. La Corte territoriale, inoltre, al fine della determinazione della pena, ha sottolineato come, in ogni caso, il ricorrente avesse eseguito pedissequamente i compiti affidatigli dal G., in ciò mostrano l'intensità dell'elemento soggettivo del dolo, quindi ha escluso l'aumento di pena inflitto in primo grado a titolo di continuazione per la fattispecie sub E) dichiarata prescritta, ed ha specificato che il primo giudice non aveva effettuato alcun aumento di pena per l'aggravante della pluralità dei fatti di bancarotta. Ne consegue che la pena è stata determinata in anni quattro mesi quattro e giorni quindici di reclusione per la più grave fattispecie sub B) 21 - ritenuta più grave in relazione all'importo della distrazione - ridotta ad anni due mesi undici di reclusione per effetto della concessione delle circostanze attenuanti generiche.
Anche per il R., quindi, non possono che essere richiamati, oltre alle considerazioni generali in premessa esaminate, i principi elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la motivazione della pena, effettuata sulla base di specifici indici riferibili al ricorrente, appare esaustiva ai sensi del 133 c.p., sotto il profilo motivazionale, allorquando siano indicati, da parte del giudice di merito, gli elementi ritenuti rilevanti o determinanti, essendo la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, operazione che rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 c.p.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena, la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione (Sez. 5, sentenza n. 5582 del 30/09/213, Ferrario, Rv. 259142; Sez. 1, sentenza n. 3155 del 25/09/2013, Waychey ed altri, Rv. 259410).
9.19. In relazione al diciannovesimo detto motivo di ricorso va ribadito quanto in precedenza esplicitato in relazione alla determinazione della pena, dovendosi solo aggiungere che la motivazione della Corte di merito appare del tutto corretta, atteso che essa, pur avendo riconosciuto, in concreto, l'omesso aumento di pena, ai sensi del R.D. n. 267 del 1942, art. 219, comma 2, n. 1, non ha corretto detta omissione del primo giudice, in assenza di gravame da parte sia dell'Ufficio del pubblico ministero che da parte della Procura Generale presso la Corte di Appello in ordine alla suddetta determinazione della pena.
9.20. In relazione alla problematica concernente l'individuazione della più grave fattispecie di reato ai fini dell'applicazione dell'indulto, ventesimo motivo di ricorso risulta del tutto generico, perchè non specifica neanche per quale ragione la Corte di merito avrebbe dovuto considerare più grave la fattispecie di reato di cui al capo B 25), senza neanche indicare la data della dichiarazione di insolvenza in relazione a quella che sarebbe la più grave fattispecie.
9.21. In relazione al ventunesimo motivo appare sufficiente il richiamo alle questioni generali contenute nella trattazione della presente sentenza alla lettera H).
Per quanto riguarda la questione concernente il pagamento delle fideiussioni da parte delle Assicurazioni Generali - che in tal modo avevano integralmente restituito allo Stato gli incentivi erogati in funzione degli accordi di programma, rinunciando, poi, all'insinuazione al passivo fallimentare - va ribadito quanto in precedenza già specificato in relazione agli altri ricorrenti che hanno posto la medesima questione: la condanna generica al risarcimento dei danni, pronunciata dal giudice penale, come nel caso in esame, non esige alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando soltanto l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della esistenza di un nesso di causalità tra tale fatto e il pregiudizio lamentato; per cui la circostanza che sia stato riconosciuto il diritto alla costituita parte civile, non comporta alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, nè la specifica ascrivibilità dello stesso ai singoli imputati, postulando la pronuncia solo l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e dell'esistenza - desumibile anche presuntivamente, con criterio di semplice probabilità - di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, restando perciò impregiudicato l'accertamento riservato al giudice civile sulla liquidazione, l'entità del danno e la soggettiva ascrivibilità, ivi compresa, quindi, la possibilità di escludere l'esistenza stessa di un danno eziologicamente collegato all'evento illecito in relazione alla condotta di uno o più degli autori del reato fonte del danno (Sez. 5, sentenza n. 45118 del 23/04/2013, Di Fatta ed altri, Rv. 257551; Sez. 3, sentenza n. 36350 del 23/03/2015, Bertini ed altri, Rv. 265637).
Quanto al danno non patrimoniale patito dai lavoratori, va rilevato come la Corte di merito ne abbia specificamente connotato la sussistenza ed i caratteri con motivazione alla pag. 134 della sentenza impugnata, riportandosi alle considerazioni già in primo grado effettuate, specificando come i pregiudizi dei lavoratori si collocassero, temporalmente, ben prima dell'ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria del gruppo a nulla, pertanto, rilevando le vicende successive a detta ammissione, anche a seguito dell'intervento del (OMISSIS). Trattasi, all'evidenza, di una motivazione espressa, basata su valutazioni in fatto, come tale in alcun modo sindacabile in sede di legittimità.
9.22. In relazione al ventiduesimo motivo, appare sufficiente il richiamo alle questioni generali contenute nella trattazione della presente sentenza alla lettera H).
9.23. In relazione al ventitreesimo motivo, appare sufficiente il richiamo alle questioni generali contenute nella trattazione della presente sentenza alla lettera F).
9.24. In relazione al ventiquattresimo motivo, appare sufficiente il richiamo alle questioni generali contenute nella trattazione della presente sentenza alla lettera G).
9.25. In relazione al venticinquesimo motivo di ricorso, esso appare del tutto generico, sia alla luce della motivazione offerta dalla Corte di merito - che ha valutato come il dipendente P.L. avesse dimostrato di aver richiesto i danni non patrimoniali, alla pari degli altri dipendenti, procedendo alla liquidazione degli stessi in base al medesimo criterio - sia alla luce della doglianza, che si limita a richiamare una memoria ex art. 121 c.p.p., senza meglio specificarne il contenuto.
10. Il ricorso della responsabile civile Decontra s.r.l. è infondato e va, pertanto, rigettato.
10.1.Quanto al primo motivo di ricorso, va rilevato come la sentenza di primo grado aveva osservato che l'istruttoria dibattimentale aveva dimostrato che il T., legale rappresentante della società, avesse drenato risorse patrimoniali di società del gruppo verso la Decontra s.r.l., senza alcuna giustificazione economica e/o gestionale, per cui, in applicazione dell'art. 185 c.p.p., andasse applicato il principio di solidarietà del responsabile civile, indipendentemente dalla necessità di dimostrare che dei fatti di cui alle imputazioni questi dovesse rispondere direttamente, come sostenuto dalla difesa; ciò in quanto la forma di responsabilità, individuata dall'art. 185 c.p.p., discende dal legame tra l'imputato, giudicato responsabile di un fatto che comporti l'obbligo al risarcimento del danno, ed il responsabile civile, che risponde del danno cagionato dal fatto-reato commesso dall'imputato in quanto obbligato in base alle leggi civili; nè il legame predetto richiede la sussistenza di uno stabile rapporto di lavoro subordinato, essendo sufficiente che l'imputato sia inserito anche temporaneamente ed occasionalmente nell'organizzazione aziendale, avendo agito, in detto contesto, sotto la vigilanza e per conto dell'imprenditore. Nel caso di specie il primo giudice aveva ritenuto che l'istruttoria dibattimentale avesse dimostrato sia l'esercizio, da parte del T., di attività per conto della Decontra s.r.l., circostanza neanche smentita dalla difesa della società responsabile civile, atteso l'incontestato ruolo di amministratore ricoperto dal T..
La Corte territoriale, a pag. 273 della sentenza impugnata, ha condiviso del tutto le argomentazioni del primo giudice, affermando che l'appello non avesse affatto contrastato le argomentazioni della sentenza impugnata, essendosi limitato a riproporre le medesime argomentazioni già confutate dal primo giudice; ha, inoltre, aggiunto, che il T. aveva personificato la Decontra s.r.l. nella commissione degli illeciti di cui egli si era reso responsabile.
Ne deriva, pertanto, che l'apparato motivazionale delle due sentenze di merito, reciprocamente integrantesi, appare del tutto immune da vizi logici e/o valutativi, risultando non sindacabile in sede di legittimità.
Essa, in particolare, risulta aver fatto corretta applicazione di quanto più volte ribadito dal questa Corte regolatrice in tema di responsabilità civile, laddove è stato individuato il criterio della così detta "occasionalità necessaria", applicabile anche all'imprenditore, il quale risponde del fatto illecito commesso dal dipendente, non essendo necessaria la sussistenza di uno stabile rapporto di
lavoro subordinato, ma essendo sufficiente che l'autore del fatto illecito sia legato all'imprenditore, anche temporaneamente od occasionalmente, e che
l'incombenza disimpegnata abbia determinato una situazione tale da agevolare o rendere possibile il fatto illecito, ossia nei casi la condotta del'autore dell'illecito non abbia assunto i caratteri dell'assoluta imprevedibilità ed eterogeneità rispetto ai compiti svolti, sì da non consentire il minimo collegamento con essi; laddove l'illecito sia stato compiuto, come nel caso in esame, sfruttando comunque i compiti svolti dall'autore della condotta, sussiste il richiesto legame, anche se il dipendente abbia agito oltre i limiti delle sue incombenze e persino se abbia violato gli obblighi a lui imposti (Sez. 5, sentenza n. 32461 del 22/03/2013, R.C. e Bogui, Rv. 257115; Sez. 3, sentenza n. 33562 del 11/06/2003, Cordaro, Rv. 226132; Sez. 3, sentenza n. 36503 del 02/07/2002, Cerullo ed altro, Rv. 222614).
10.2. Quanto all'eccezione di nullità posta a fondamento del secondo motivo di ricorso, va osservato che, per pacifica giurisprudenza di questa Corte di legittimità le questioni concernenti l'eventuale esclusione della parte civile o l'ammissibilità della citazione del responsabile civile, che già siano state poste e risolte nel giudizio di primo grado, non possono essere oggetto di mera riproposizione nel processo di appello, dovendosi considerare in tal caso irrevocabili le deliberazioni adottate in argomento nella fase antecedente di giudizio (Sez. 4, sentenza n. 39028 del 28/04/2016, P.C. in proc. Squillaci, Rv. 267776; Sez. 5, sentenza n. 2071 de 25/11/2008, Romanelli ed altro, Rv. 242359; Sez. 4, sentenza n. 7291 del 21/11/2002, Canfarelli ed altri, Rv. 225727). Ne deriva che la ricorrente responsabile civile avrebbero dovuto esplicitare chiaramente le ragioni per le quali il motivo di appello non fosse una mera reiterazione della questione già trattata e decisa dal primo giudice.
In ogni caso va osservato - come riconosciuto dal ricorso stesso - che l'atto di citazione contenesse un rinvio all'atto di costituzione di parte civile del commissario governativo delle 24 società in amministrazione straordinaria, il quale appare assolutamente chiaro sotto l'aspetto contenutistico, in quanto premessa l'indicazione individuale degli imputati e delle cariche dagli stessi ricoperte in relazione al capo di imputazione sub A), riportato per esteso - in esso è stato indicato il T., amministratore unico della Decontra s.r.l., società allo stesso riconducibile, quale autore di molteplici condotte tra quelle indicate nel capo di imputazione, individuando nella emissione, da parte della Decontra s.r.l. verso le società progetto del gruppo CIT, di fatture relative a prestazioni tecniche e progettuali non eseguite benchè previste nei contratti di riferimento, il titolo della corresponsabilità civile della Decontra s.r.l. medesima. 10.3. Quanto alla ulteriore doglianza, indicata al punto 3 del ricorso, essa appare mirata a sottoporre a questa Corte il contenuto della relazione del dott. F., consulente tecnico di parte, documento peraltro non allegato al ricorso, il che esula indiscutibilmente dal perimetro del giudizio di legittimità, non essendo possibile in tale sede operare una rivalutazione degli elementi di fatto su cui si basa la decisione impugnata, nè essendo possibile l'autonoma adozione di ulteriori e diversi indici ricostruttivi e valutativi della vicenda processuale, in quanto indicati come maggiormente plausibili dal ricorrente, in quanto detto aspetto attiene specificamente alla fase del merito, in cui le parti possono sottoporre, anche in grado di appello, alla valutazione del giudice nuovi e diversi elementi, ovvero offrire una ragionata rilettura di quelli già posti a fondamento della decisione, secondo un percorso argomentativo che afferisce alla fase del merito, laddove in sede di legittimità non appare affatto sindacabile il risultato valutativo delle evidenze probatorie, bensì solo la tenuta logica e la coerenza ai parametri normativi dell'apparato argomentativo esplicativo adottato a fondamento della decisione (Sez. 6, sentenza n. 47204 dl 07/10/2015, Musso, Rv. 265482).
10.4. Analogamente, il principio appena richiamato va applicato anche in relazione ai motivi di ricorso di cui ai punti 4, 5, 6, dovendosi solo ribadire quanto in precedenza illustrato in relazione alla circostanza che, nel caso in esame, sia stata pronunciata una condanna generica al risarcimento del danno, che non esige alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando soltanto l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della esistenza di un nesso di causalità tra tale fatto e il pregiudizio lamentato; per cui la circostanza che sia stato riconosciuto il diritto alla costituita parte civile, non comporta alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, nè la specifica ascrivibilità dello stesso ai singoli imputati, postulando la pronuncia solo l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e dell'esistenza - desumibile anche presuntivamente, con criterio di semplice probabilità - di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, restando perciò impregiudicato l'accertamento riservato al giudice civile sulla liquidazione, l'entità del danno e la soggettiva ascrivibilità, ivi compresa, quindi, la possibilità di escludere l'esistenza stessa di un danno eziologicamente collegato all'evento illecito in relazione alla condotta di uno o più degli autori del reato fonte del danno (Sez. 5, sentenza n. 45118 del 23/04/2013, Di Fatta ed altri, Rv. 257551; Sez. 3, sentenza n. 36350 del 23/03/2015, Bertini ed altri, Rv. 265637).
10.5. In relazione all'ultimo motivo di ricorso appare sufficiente richiamare la motivazione contenuta nella trattazione delle questioni generali ai punti A) e D).
11. Il ricorso della parte civile P.L. è infondato e va, pertanto, rigettato.
La Corte territoriale ha accolto il gravame del lavoratore dipendente P.L., - costituitosi parte civile nei confronti degli imputati G., T., V., B., R., in relazione ai capi A), limitatamente alla CIT Viaggi s.p.a., ed E) - ritenendo dimostrata la circostanza che questi avesse chiesto anche i danni non patrimoniali, e procedendo, quindi, alla liquidazione della somma di Euro 20.000,00 per detti danni, nella stessa misura in cui essi erano già stati riconosciuti agli altri dipendenti parimenti costituiti parti civili.
Come visto nella parte dedicata all'illustrazione dei motivi di ricorso, il P. deduce in questa sede la omessa motivazione sul secondo motivo di gravame, concernente la liquidazione del danno patrimoniale derivante dalla differenza tra i crediti di lavoro ammessi al passivo e quanto ottenuto dall'INPS, in seguito all'insolvenza della società di cui il ricorrente era dipendente.
Va osservato che sotto detto aspetto la motivazione si rinviene già nella sentenza di primo grado, che, pertanto integra la motivazione della sentenza impugnata, in quanto il primo giudice aveva chiarito che, considerata la circostanza dell'essersi il Commissario straordinario sostituito alla massa dei lavoratori dipendenti per il recupero del credito anche risarcitorio, dovesse escludersi, ai sensi dell'art. 240 L. Fall., la concorrenza del diritto al risarcimento del danno patrimoniale da parte dei lavoratori dipendenti; questi ultimi, infatti, si erano insinuati al passivo fallimentare per i rispettivi crediti da trattamento di fine rapporto e da altre spettanze retributive, crediti aventi titolo nell'inadempimento contrattuale dell'originario datore di lavoro. In particolare per il P.L., inoltre, il primo giudice aveva dato atto come egli avesse dimostrato di essersi insinuato al passivo fallimentare per le differenze di spettanze retributive non corrispostegli.
La Corte territoriale, alla pag. 273 della sentenza impugnata, ha affermato che le considerazioni del primo giudice in ordine alla statuizioni civili fossero da condividere, in quanto non contrastate dalle argomentazioni contenute negli atti di appello; ne deriva la sussistenza di una motivazione sul punto, effettuata per relationem, salva la riforma della sentenza di primo grado sul punto concernente la liquidazione anche al P.L. dei danni non patrimoniali.
Inoltre va aggiunto, sempre in ordine al risarcimento del danno patrimoniale, che il Commissario straordinario risulta essersi costituito parte civile non solo per i reati di bancarotta, ma anche per la fattispecie associativa di cui al capo E), il che esclude la possibilità per il ricorrente di far valere un'autonoma legittimazione al risarcimento dei danni patrimoniali, in base al più volte richiamato meccanismo previsto dal'art. 240 L. Fall.. A ciò va aggiunta la circostanza che per i danni patrimoniali è stata pronunciata una condanna generica al risarcimento, salva una provvisionale immediatamente esecutiva pari ad Euro 20.000.000,00. La condanna generica al risarcimento dei danni patrimoniali costituisce elemento dirimente in ordine alla doglianza contenuta nel ricorso del P. - secondo cui gli sarebbe dovuta la somma di Euro 72.199,34, equivalente alla differenza di quanto definitivamente ammesso al passivo e non soddisfatto e quanto ricevuto dall'INPS - a parte la considerazione che sul punto il ricorso appare del tutto generico, essendo meramente affermata la circostanza inerente la definitività dell'ammissione al passivo e l'ammontare delle somme ricevute dall'INPS; parimenti il ricorso non considera come, a seguito di intervenuto risarcimento, la Corte territoriale avesse disposto l'esclusione dal risarcimento dovuto al ricorrente P.L., degli imputati Gr., F., C. e G..
Dal rigetto dei ricorsi discende, ex art. 616 c.p.p., la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali. Va altresì pronunciata la condanna di G.G., T.A.F., G.D.M., B.G., F.C.G., R.L., Ga.Fa., nonchè della responsabile civile Decontra s.r.l., al rimborso delle spese sostenute dalla parte civile, Amministrazione Straordinaria del gruppo CIT, in persona del Prof. Avv. N.A., nel presente giudizio legittimità, che si liquidano nella complessiva somma di Euro 10.000,00, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna altresì G.G., T.A.F., G.D.M., B.G., F.C.G., R.L., Ga.Fa., nonchè la responsabile civile Decontra s.r.l. a rimborsare le spese sostenute dalla parte civile Amministrazione Straordinaria del gruppo CIT, in persona del Prof. Avv. N.A. nel giudizio legittimità, liquidate in Euro 10.000,00 oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 4 novembre 2016.
Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2017