RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 22 febbraio 2023, all'esito di giudizio abbreviato, il Tribunale di Torino ha affermato la penale responsabilità di N.A.E. per i seguenti reati:
- D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, commesso in (Omissis) detenendo per uso di terzi gr. 2,2862 di sostanza, suddivisa in 4 involucri, contenente gr.1,212 di cocaina (capo 1);
- art. 73, comma 1, D.P.R. cit., commesso in (Omissis), detenendo per uso di terzi crack per complessivi 59,826 grammi (contenenti gr. 19,184 di cocaina) (capo 2).
Ritenuta la continuazione tra i reati, più grave quello di cui al capo 2), concesse le attenuanti generiche e operata la diminuzione di pena conseguente alla scelta del rito, N. è stato condannato alla pena di anni tre di reclusione ed Euro 14.000 di multa, sostituita col lavoro di pubblica utilità ai sensi della L. 24 novembre 1981 n. 689, art. 56 bis. Con la sentenza è stata disposta, ai sensi dell'art. 240 bis c.p., la confisca della somma di Euro 31.331,00 rinvenuta nella abitazione dell'imputato dopo il sequestro della sostanza stupefacente la cui al capo 2).
2. Contro la sentenza ha proposto ricorso l'imputato per mezzo del proprio difensore.
Col primo motivo, il ricorrente lamenta violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b) e lett. e) in relazione al reato di cui al capo 2). Deduce, in particolare, errata applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1. La difesa sottolinea che la sostanza era suddivisa in 151 dosi e, in ragione della quantità di principio attivo (gr. 19,184 di cocaina), ciascuna di queste dosi conteneva 0,12 grammi di sostanza drogante. Secondo la difesa, l'attività di spaccio che sarebbe stata compiuta con la vendita di così minime dosi è quella tipica del "piccolo spacciatore da strada", sicché il fatto avrebbe dovuto essere qualificato come violazione dell'art. 73, comma 5, D.P.R. cit.. La difesa sostiene che è contraddittorio aver ritenuto il vincolo della continuazione tra il reato di cui al capo 2) e quello di cui al capo 1) per poi qualificare solo l'attività di cui al capo 1) come violazione dell'art. 73, comma 5. Osserva che, se la condotta contestata al capo 1) è quella proprio del piccolo spacciatore e i reati sono stati commessi nell'esecuzione di un unico disegno criminoso, allora questo disegno criminoso è quello di compiere attività di piccolo spaccio e l'intera condotta doveva essere qualificata come violazione dell'art. 73, comma 5, D.P.R. cit..
Col secondo motivo, la difesa deduce errata applicazione dell'art. 240 bis c.p. Osserva che all'imputato è stata ascritta la detenzione a fini di vendita e non la vendita di sostanza stupefacente; sostiene che, per disporre la confisca, la sentenza impugnata avrebbe dovuto individuare un collegamento tra la somma in sequestro e la sostanza detenuta.
3. Il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ha depositato conclusioni scritte chiedendo dichiararsi l'inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Si deve preliminarmente osservare che il ricorso è stato ritualmente proposto ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 2, perché le sentenze che applicano la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità sono inappellabili ex art. 593 c.p.p., comma 3.
2. Col primo motivo il ricorrente si duole della qualificazione giuridica del fatto di cui al capo 2) sostenendo che la sostanza detenuta era suddivisa in 151 ovuli, ciascuno dei quali conteneva una minima quantità di principio attivo, sicché le cessioni cui la detenzione era finalizzata erano di lieve entità e avrebbe dovuto essere applicata la fattispecie prevista dall'art. 73, comma 5, D.P.R. cit..
Nel definire i principi ermeneutici cui ci si deve attenere nell'applicare l'ipotesi di lieve entità prevista dall'art. 73, comma 5, D.P.R. cit. la giurisprudenza di legittimità ha sottolineato che tale valutazione deve essere compiuta in concreto, tenendo conto non solo del dato qualitativo e quantitativo, ma anche della personalità dell'indagato, dei mezzi, delle modalità e delle circostanze dell'azione (cfr., da ultimo, Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, Murolo, Rv. 274076). Come opportunamente chiarito dalla sentenza citata (pag. 16 della motivazione), "ritenere che la valutazione degli indici di lieve entità elencati dal comma 5 dell'art. 73 debba essere complessiva, significa certamente abbandonare l'idea che gli stessi possano essere utilizzati dal giudice alternativamente, riconoscendo o escludendo la lieve entità del fatto anche in presenza di un solo indicatore di segno positivo o negativo, a prescindere dalla considerazione degli altri". Implica però, allo stesso tempo, "che tali indici non debbano tutti indistintamente avere segno positivo o negativo" e possano instaurarsi tra gli stessi rapporti di compensazione o neutralizzazione idonei a consentire un giudizio unitario sulla concreta offensività del fatto anche quando le circostanze che lo caratterizzano risultano prima facie contraddittorie. La sentenza impugnata ha compiuto tale valutazione in concreto e, nell'escludere la lieve entità del fatto, ha valorizzato la quantità complessiva della sostanza (corrispondente a 127 dosi medie singole) e la circostanza che fosse già suddivisa in 151 ovuli: indice di una attività di cessione preordinata e capillare e di un inserimento stabile nel circuito del traffico di stupefacenti. La sentenza impugnata desume da questi elementi che la condotta dell'imputato aveva una elevata potenzialità offensiva e sottolinea che nello stesso senso depone il rinvenimento nella sua abitazione (insieme a documenti a lui riconducibili), della somma di Euro 31.331,00. La motivazione è completa e coerente. Non è manifestamente illogico, infatti, aver ritenuto che la disponibilità di un numero elevato di dosi di sostanza stupefacente, destinata a soddisfare una platea estesa di consumatori incida sulla concreta offensività del fatto in termini tali da renderlo incompatibile con la fattispecie prevista dall'art. 73, comma 5, D.P.R. cit.. Non contraddice queste conclusioni la constatazione che una attività di spaccio successiva, relativa a quattro dosi di cocaina e qualificata come violazione dell'art. 73, comma 5, D.P.R. cit. sia stata considerata espressione del medesimo disegno criminoso. Un disegno criminoso unitario, infatti, ben può essere realizzato attraverso condotte di offensività differente e l'applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, impone di valutare in concreto la maggiore o minore offensività di ciascun fatto tenendo conto del dato qualitativo, ma anche di quello quantitativo, e, più in generale, dei mezzi, delle modalità, delle circostanze dell'azione e della personalità dell'imputato. Diversamente da quanto la difesa sembra ritenere, dunque, l'applicazione di tale fattispecie non definisce un "tipo d'autore" ("piccolo" o "grande spacciatore"), ma un "tipo di fatto" (di "lieve" o "non lieve" entità).
3. Non ha maggior pregio il secondo motivo di ricorso col quale la difesa si duole che la confisca della somma di denaro rinvenuta nell'abitazione dell'imputato sia stata disposta senza spiegare perché "quelle banconote avessero una relazione con il delitto giudicato, né perché esse costituissero il provento del reato". A questo proposito è sufficiente osservare che l'art. 85 bis D.P.R. cit. estende l'applicazione dell'art. 240 bis c.p. ai casi in cui vi sia stata condanna per uno dei delitti previsti dall'art. 73, "esclusa la fattispecie di cui al comma 5". Ne consegue che quando - come nel caso di specie - vi è stata affermazione di responsabilità per il reato di cui all'art. 73, comma 1, D.P.R. cit., il denaro rinvenuto nella disponibilità dell'imputato può essere sottoposto a confisca se sussistono le condizioni previste dall'art. 240 bis c.p., a prescindere dal dimostrato collegamento tra la detenzione della somma e il reato per cui è intervenuta condanna. Sul punto la sentenza impugnata ha fornito adeguata motivazione. Ha sottolineato, infatti, che si tratta di una somma di non modica entità, "palesemente sproporzionata rispetto ad una assenza di regolare attività lavorativa, mai documentata in alcun modo dall'imputato".
4. Per quanto esposto, entrambi i motivi di ricorso sono manifestamente infondati e, quindi, inammissibili. All'inammissibilità consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000 e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che il ricorrente non versasse in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, deve essere disposto a suo carico, a norma dell'art. 616 c.p.p., l'onere di versare la somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende, somma così determinata in considerazione delle ragioni di inammissibilità.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 11 ottobre 2023.
Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2023