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Cannabis Sativa: quando coltivazione, produzione e detenzione violano l'art. 73 del D.P.R. 309/1990?

Stupefacenti

Cassazione penale sez. IV, 26/06/2024, (ud. 26/06/2024, dep. 08/07/2024), n.26800

la coltivazione, produzione, fabbricazione e detenzione di sostanze stupefacenti derivanti dalla cannabis sativa L. integrano il reato di cui all'art. 73 del D.P.R. n. 309/1990, indipendentemente dal contenuto di THC delle stesse, salvo che tali sostanze siano in concreto prive di ogni efficacia drogante o psicotropa. Questo principio si fonda sull'applicazione del principio di offensività, che valuta la capacità della sostanza di provocare effetti psicogeni.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Palermo, in parziale riforma della pronuncia del 12 luglio 2022 del GUP del Tribunale della stessa sede, resa in sede di giudizio abbreviato, ha ridotto, sospendendola per anni cinque alle condizioni di legge, la pena inflitta a De.An., ed ha confermato nel resto la sentenza impugnata, che aveva ritenuto la stessa e Po.Pi. responsabili dei reati di cui agli artt. 110,81 cod. pen. e 73, commi 1 e 4, D.P.R. n. 309/1990, per la coltivazione, con finalità diverse da quelle indicate dall'art. 2, comma 2, legge n. 242/2016, di numerose piante di cannabis sativa L., all'interno di un fondo, in serre dotate di impianto di illuminazione e aerazione; nonché, per aver prodotto, fabbricato e illecitamente detenuto sostanze stupefacenti dei tipi marijuana e hashish derivate dalla già menzionata coltivazione, e segnatamente complessivi kg. 7,49 di sostanza tipo marijuana (gr. 28,63 di principio attivo- pari a 1145,3 dosi medie singole) e gr. 23,5 di sostanza stupefacente del tipo hashish (gr. 0,14 di principio attivo - pari a 6,64 dosi medie singole). 2. I fatti sono stati ricostruiti dai giudici di merito mediante l'acquisizione della annotazione di P.G. del 24 aprile 2021, che aveva dettagliatamente descritto gli esiti del controllo effettuato nel corso di una operazione ordinaria sull'autovettura Panda condotta dal Po.Pi., e che era, poi, proseguito presso l'azienda agricola dello stesso, in ragione del forte odore tipico della marijuana, che gli operanti avevano sentito all'interno dell'autovettura. 3. Presso l'area occupata dall'azienda in questione era presente sia l'abitazione del Po.Pi. che altra struttura di servizio. La perquisizione aveva portato al rinvenimento di vari oggetti, tutti repertati e descritti nel dettaglio per peso ed aspetto fisico: due involucri di cellophane contenente sostanza verosimilmente del tipo marijuana, macchina per il sottovuoto, foglie di sostanza presumibilmente di tipo cannabis sativa, piantina di marijuana, cassette contenenti foglie essiccate del tipo marijuana, scatole di cartone contenenti la medesima sostanza, barattolo contenente pezzi di sostanza tipo hashish (confezionata con cellophane), due serre con intelaiatura in ferro e legno (interamente ricoperte con teloni di plastica trasparente e dotate di impianto di illuminazione, riscaldamento ed irrigazione) con 104 piante di presunta cannabis sativa di circa un metro ed oltre, setaccio e bilancia. 4. Il Po.Pi. aveva spontaneamente consegnato ricevute di spedizione collo, nonché fatture e bonifici effettuati dalla Sparacia Srl in favore della GOLD SEED s.r.I.s., relativi all'acquisto di piante provenienti da seme certificato di Cannabis sativa, con annesse richieste di deroga per l'impiego di sementi di moltiplicazione vegetativa ottenuti con metodo di produzione biologica "Lista verde", presentata dall'azienda della figlia del Po.Pi., Po.An. 5. Le analisi di laboratorio avevano confermato che le sostanze erano quelle ipotizzate durante il sequestro e che il liquido trovato all'interno dell'abitazione del Po.Pi. era cannabis allo stato liquido. Quanto alla percentuale di THC contenuto nei reperti, sebbene la maggior parte dei campioni avesse restituito un valore inferiore alla soglia dello 0,6%, come stabilito dall'art. 4, comma 5, I. n. 242 del 2016, per alcuni di essi (resina, foglie e infiorescenze) la concentrazione di principio attivo era superiore al valore massimo consentito, raggiungendo percentuali dell'8,5% e del 14,22%. La concreta offensività della condotta non era smentita dalla esistenza di campioni con valori inferiori alla percentuale dello 0,6%, posto che tale valore non identifica una soglia di offensività punibile, ma va considerato come strumento normativo, evincibile dal Decreto ministeriale 11 aprile 2006, per individuare la dose media singola (indicativa del "bisogno" di un soggetto assuefatto) e la dose massima detenibile, al fine di accertare che la detenzione sia finalizzata ad uso esclusivamente personale. Un valore inferiore a quello medio, dunque, conserva effetto drogante nei confronti di soggetti non dipendenti. 6. Ad avviso della Corte di appello, la fattispecie concreta non poteva inquadrarsi in quella della coltivazione di cannabis sativa di tipo legale, e quindi ritenersi priva di offensività, come preteso dagli imputati in relazione al disposto della legge n. 242 del 2016; ciò alla luce del principio affermato dalle Sez. U. n. 3075 del 2019, che, superando un contrasto, aveva affermato che la commercializzazione di foglie, infiorescenze, olio e resina, derivanti dalla coltivazione di cannabis sativa L., integra la fattispecie di reato di cui all'art. 73, commi 1 e 4, D.P.R. n. 309/1990, a prescindere dalla quantità di principio attivo in essi contenuta e verificata comunque l'effettiva efficacia drogante delle sostanze stupefacenti. La necessaria offensività della condotta in questione, a prescindere dalla quantità del principio attivo, era stata ribadita da Sezioni Unite 12348 del 19 dicembre 2019, dep. 2020. Nel caso di specie, pur trattandosi di droghe ed. leggere, le stesse erano in grado di incidere sull'assetto neuropsichico dell'assuntore, né le eventuali irregolarità della campionatura avrebbero potuto determinare l'inutilizzabilità dei dati acquisiti. 7. La Corte territoriale ha pure disatteso la richiesta di ricondurre i fatti all'interno del quinto comma dell'art. 73 D.P.R. n. 309 del 1970, alla luce della quantità di sostanza rinvenuta. Il disvalore sociale insito nella condotta, inoltre, impediva il riconoscimento delle attenuanti generiche invocate. 8. Quanto poi, alla posizione di De.An. andava riconosciuta l'assenza di prova in ordine al concorso della stessa nel reato di cui all'art. 73, comma 1, cod. pen. dalla cui imputazione doveva andare assolta, trattandosi di connivenza non punibile e non di concorso, in difetto di prova, dell'apporto prestato alla condotta altrui. 9. Avverso tale sentenza, ricorre per cassazione, mediante il proprio difensore, Po.Pi., con cinque motivi di ricorso, così sintetizzati, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.: - violazione degli artt. 81 cod.pen, 17, 73, commi 1 e 4, D.P.R. n. 309/1990 e 2 ss. I. n. 242 del 2016 e mancanza di motivazione per aver avere ritenuto la condotta contestata all'imputato sussumibile sotto la fattispecie incriminatrice di cui all'art.73, commi 1 e 4, D.P.R. n. 309/1990; premesso quanto accertato in fatto dal conforme giudizio delle sentenze dì merito, ci si duole della errata qualificazione della condotta all'interno della fattispecie incriminatrice di cui all'art. 3, commi 1 e 4, D.P.R. n. 309 del 1990. I giudici avrebbero fatto malgoverno dei principi giurisprudenziali indicati ed avrebbero totalmente omesso di motivare sull'esistenza del fine della commercializzazione del prodotto coltivato con uso diverso da quello consentito dalla legge n. 242 del 2016, posto che l'imputato, titolare di impresa agricola di vaste dimensioni, aveva coltivato cannabis sativa L, seguendo rigorosamente la normativa di settore di cui alla legge n. 242 del 2016; il contenuto medio di principio attivo (delta 9 tetraidrocannabinolo) contenuto nei numerosissimi campioni analizzati era ben al di sotto dello 0,6%, come stabilito dall'art. 4, comma 5, I. n. 242 del 2016 ai fini dell'esclusione della responsabilità dell'agricoltore, e solo tre campioni aveva dato esito superiore. Il GUP aveva ritenuto che la condotta attuata avesse realizzato non solo quella di detenzione a fini di spaccio, ma che vi fosse anche prova di pregresse cessioni di droga e quindi di spaccio, ma ciò sulla base di mere congetture. Così facendo, la sentenza aveva anche illegittimamente anticipato la soglia di punibilità della condotta alla mera coltivazione, mentre solo la commercializzazione della cannabis sativa avrebbe comportato l'integrazione della condotta prevista dal reato; - violazione degli articoli 192 cod. proc. pen. e 81 cpv. cod. pen., 17, 73 commi 1 e 4, D.P.R. n. 309/ 1990 e mancanza di motivazione in relazione al mancato accertamento dell'effettiva capacità drogante della sostanza posta sotto sequestro; in subordine, anche ammettendo che la sostanza fosse destinata alla commercializzazione, non sarebbe stata provata dalla pubblica accusa, in concreto, l'efficacia drogante della sostanza sequestrata, con violazione del principio di offensività; - violazione degli articoli 5 e 47 cod. pen. 73 D.P.R. n. 309/1990 e I. n. 242 del 2016, non avendo i giudici del merito ritenuto insussistente l'elemento psicologico del reato a causa dell'errore scusabile in cui era incorso il ricorrente; si richiamano le affermazioni contenute in Sez. U. n. 30475 del 30 maggio 2019 sulle ricadute sul dolo cognitivo della oscurità del testo legislativo in ragione di quanto affermato dalla Corte costituzionale n. 364 del 1988, in materia di inevitabilità dell'errore sulla legge penale ed in presenza delle note oscillazioni giurisprudenziali che avevano preceduto l'intervento delle Sezioni Unite; - violazione dell'articolo 73 comma 5 D.P.R. n. 309/1990, in relazione alla mancata sussunzione del fatto sotto la fattispecie di cui al quinto comma dell'articolo 73 D.P.R. n. 309/1990; si evidenzia l'incongruenza e la scarsa significatività degli elementi che la Corte territoriale aveva addotto per negare tale inquadramento, trattandosi della mera quantità di sostanza sequestrata, delle modalità di coltivazione e del rinvenimento di strumentazione utile alla pesatura che costituirebbero dati significativi della professionalità della condotta; - violazione dell'articolo 62 bis cod. pen., 133 e 81 cpv. cod pen., per non avere la Corte di appello riconosciuto le circostanze attenuanti generiche e per aver erogato una pena eccessiva ed un eccessivo aumento ex art. 81 cpv. cod. pen. 10. La Procura generale, nella persona del Sostituto Procuratore Aldo Esposito, ha depositato conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso. CONIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è complessivamente infondato. 2. Giova puntualizzare, prima dell'esame dei singoli motivi di ricorso, che le Sezioni Unite della Corte di legittimità, come è affermato nella sentenza impugnata e come ribadito anche da ultimo da Sez.4, n. 17558 del 2024, hanno ritenuto che la cessione, la vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico dei derivati della coltivazione di cannabis sativa L., quali foglie, infiorescenze, olio e resina, integrano il reato di cui all'art. 73 D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività (Sez. U., n. 30475 del 30/05/2019, Castignani, Rv. 27595601). 3. Dopo un ampio esame della normativa di riferimento nazionale ed Europea, le Sezioni unite hanno attribuito natura tassativa all'elenco contenuto nell'art. 2, comma 2, legge n. 242/2016, con riguardo ai prodotti che possono essere lecitamente ottenuti dalla coltivazione agroindustriale di cannabis sativa L. Tanto è stato affermato sul presupposto che si tratta di prodotti che derivano da una coltivazione che risulta consentita solo in via di eccezione, rispetto al generale divieto di coltivazione della cannabis, penalmente sanzionato. Con la sentenza in esame, le Sezioni Unite hanno affrontato anche il tema delle soglie percentuali di THC che, secondo alcuni orientamenti, costituivano il discrimine della liceità della commercializzazione dei prodotti ottenuti dalla coltivazione agroindustriale di cannabis sativa L. 4. Avendo riguardo ai valori indicati dall'art. 4, commi 5 e 7, legge n.242/2016 il supremo Collegio ha chiarito che si tratta di valori introdotti per tutelare gli agricoltori operanti nella filiera agroalimentare delineata dalla legge, i quali, pur avendo impiegato qualità di canapa consentite, potrebbero aver ottenuto un prodotto contenente una percentuale di THC superiore al limite massimo consentito perché compresa tra lo 0,2 e lo 0,6 %. 5. L'art. 4, comma 5, legge n. 242/2016, stabilisce, infatti che in questi casi nessuna responsabilità possa essere posta a carico dell'agricoltore che abbia rispettato le prescrizioni di legge e l'art. 4, comma 7, nel prevedere la possibilità che vengano disposti il sequestro o la distruzione delle coltivazioni di canapa che, se pure impiantate nel rispetto delle disposizioni stabilite dalla legge, presentino un contenuto di THC superiore allo 0,6%, ribadisce, anche in tal caso, che la responsabilità dell'agricoltore è esclusa. 6. Muovendo da queste premesse, le Sezioni unite hanno sostenuto che le richiamate percentuali di THC non possono essere valorizzate al fine di affermare la liceità della commercializzazione dei derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., ove contenenti percentuali inferiori allo 0,6 o allo 0,2% e hanno concluso che la commercializzazione di cannabis sativa L. o dei suoi derivati, diversi da quelli elencati dalla legge del 2016, può integrare il reato di cui all'art. 73, commi 1 e 4, T.U. Stup., anche quando il contenuto di THC sia inferiore alle concentrazioni indicate all'art. 4, commi 5 e 7, della legge del 2016. 7. Resta salva la verifica della concreta offensività del fatto e, quindi, della capacità drogante della sostanza, intesa quale attitudine a provocare o meno effetti psicogeni. 8. Tale ricostruzione, alla quale si è attenuta la successiva giurisprudenza di legittimità, non è posta in discussione dalle fonti sovranazionali. In particolare (Sez. 3., n. 33101 del 07/06/2022, Rv. 283519 - 01, Prandini), si è affermato che il principio secondo cui uno Stato membro non può vietare la commercializzazione del cannabidiolo (CBD) legalmente prodotto in altro Stato membro, qualora sia estratto dalla pianta di "cannabis sativa" nella sua interezza e non soltanto dalle sue fibre e dai suoi semi, affermato dalla Corte di giustizia dell'Unione Europea nella sentenza del 19 novembre 2020, causa C. 663-18, non trova applicazione con riferimento alle condotte relative alle sostanze contenenti tetraidrocannabinolo (THC), pur se estratte dalla pianta di "cannabis sativa", in quanto, diversamente dal cannabidiolo, il tetraidrocannabinolo ha effetti droganti ed è annoverato nelle tabelle delle sostanze stupefacenti allegate al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309. 9. Ciò premesso, i primi due motivi, connessi, vanno trattati congiuntamente e sono infondati. 10. La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei principi appena richiamati. L'imputazione ha avuto ad oggetto la coltivazione illegale di numerose piante di cannabis sativa L, nonché la produzione, fabbricazione e detenzione illecita delle sostanze stupefacenti sopra indicate. La Corte di appello, confermando e richiamando anche la motivazione addotta dal GUP, con ciò dovendosi leggere in modo complessivo le pronunce conformi, ha ritenuto, in primo luogo, che, pur essendo le sementi regolarmente acquistate, la sostanza coltivata integrasse i caratteri di sostanza stupefacente ai fini del reato contestato e che la stessa fosse destinata alla cessione a terzi. A tali esiti si è giunti mediante la correlazione logica esistente tra i dati storici acquisiti a partire dagli eventi, pacificamente riportati sin dalla annotazione di p.g.: percezione dell'odore tipico della marijuana nell'abitacolo della autovettura Panda condotta dal ricorrente; perdurante ed accentuato odore della medesima sostanza nei pressi della proprietà agricola aziendale; tentativo di fuga della compagna all'arrivo degli operanti all'interno dell'abitazione dell'imputato; rinvenimento dei resti, all'interno di una stufa a legna, di una pianta ancora verde; costatazione della fuoriuscita di fumo da una cappa posta su di una struttura annessa all'abitazione, di cui il fattore dell'imputato, tale Da., non aveva fornito spiegazione; rinvenimento all'interno della camera da letto del fattore di due involucri di cellophane contenenti marijuana, macchina per il sottovuoto, foglie di cannabis sativa poste all'esterno di un vaso contenente terra dalla quale era stata verosimilmente estirpata una piantina; rinvenimento, all'interno dell'abitazione dell'imputato di vario materiale compiutamente descritto alle pagine 3 e 4 della sentenza impugnata (esemplificativamente: piantina di marijuana di cm. 52 contenuta in vaso marrone; tre cassette contenente foglie essiccate di marijuana di peso pari a 84,4 gr., 490,4 gr. e 13,4 gr.; una bacinella di colore giallo contenente liquido di colore scuro per un peso di gr. 1219,4 verosimilmente utilizzato per la preparazione dell'hashish; quattro scatole di cartone contenenti stupefacente di tipo marijuana, etc.). Significativo anche il rinvenimento delle serre interamente ricoperte con teloni di plastica trasparente e dotate di impianto di illuminazione, riscaldamento ed irrigazione, con 104 piante di cannabis sativa di circa un metro ed oltre, setaccio e bilancia. A fronte di tali rilievi, il GUP ha pure ricordato che gli esiti degli esami chimici e tossicologici avevano confermato che per alcuni dei campioni prelevati la quantità di principio attivo raggiungeva valori pari ad 8,5% e 4,22% (A13c, C8a, C8b). 11. Il richiamo a tali dati è compiuto, anche nell'ottica della sentenza ora impugnata, ai fini della valutazione complessiva dei dati empiricamente accertati come chiari indizi della natura professionale della coltivazione. In tale giudizio, è logicamente contenuto quello della destinazione del prodotto coltivato all'esterno dell'organizzazione del coltivatore, pertanto non risponde alla logica della motivazione impugnata il rilievo mosso dal ricorrente, relativo ad una presunta carenza motivazionale in punto di destinazione alla commercializzazione delle sostanze stupefacenti rinvenute. 12. E' stato anche riportato un intero brano dell'interrogatorio reso dal Da., confermativo dell'attività svolta dal Po.Pi. e dalla compagna e relativo alla coltivazione. Il GUP ha quindi esplicitamente motivato (vd pag.7 della sentenza) in ordine alle ragioni per le quali, alla luce di Sez. U. n. 30475 del 2019, era giunto a ritenere che gli imputati avessero coltivato e prodotto droga liquida e droga essiccata di tipo marijuana e hashish. Inoltre, la presenza di strumentazione per il confezionamento (bustine e due macchine per il sottovuoto e pesatura), percezione del caratteristico ed intenso odore di marijuana all'interno dell'abitacolo dell'autovettura Panda alla cui guida era stato rinvenuto il Po.Pi., l'assenza di fatture relative alla vendita a farmacia della ipotizzata fornitura per scopi farmacologici, di cui neanche risultava denuncia alle autorità competenti e la già avvenuta essiccazione e confezionamento di dosi, rendevano provata la destinazione a terzi dello stupefacente e la responsabilità degli imputati. 13. La sentenza della Corte di appello, che essendo conforme, quanto all'accertamento in fatto, a quella del GUP, va letta unitamente alla prima, ha pure ribadito l'infondatezza dei motivi di appello relativi alla ritenuta concreta offensività e rilevanza penale della condotta, anche sotto il profilo delle prospettate irregolarità della campionatura, attesa comunque la utilizzabilità dei rilievi probatori che ne erano scaturiti e la scelta del rito abbreviato. La sentenza di appello, peraltro, confermando tali accertamenti ha posto in evidenza il carattere non artigianale della produzione. Sul punto la motivazione delle sentenze di merito - che possono essere lette congiuntamente e costituiscono un unico complessivo corpo decisionale (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595) - non appare né lacunosa né, tanto meno, intrinsecamente contraddittoria. La Corte territoriale ha valutato, disattendendo il relativo motivo d'impugnazione, il rispetto del principio di concreta offensività della condotta in primo luogo sotto il profilo delle modalità di accertamento, correttamente richiamando (Sez. 4, n. 48581 del 21 settembre 2022) il principio giurisprudenziale secondo il quale, in relazione alle attività di sequestro, analisi e campionatura del materiale costituito da piante, per il delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990 art. 73, riferibile all'attività di coltivazione illegale, la polizia giudiziaria non deve adottare le modalità previste dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 87 atteso che tale disposizione disciplina la campionatura dello stupefacente già oggetto di cautela reale e non l'estrazione preliminare alla sua apposizione (Sez. 6, n. 15152 del 20/03/2014, Murgeri, Rv. 258749). 10. Anche il terzo motivo, con il quale si denuncia una erronea e carente motivazione con riferimento all'elemento soggettivo del reato contestato è infondato. Il GUP, alla pagina 7 della sentenza, oltre a ricavare dai dati sopra specificati la prova della condotta di illecita produzione e detenzione a fini di spaccio, ipotizzando anche pregresse cessioni di droga non oggetto di contestazione, ha esplicitamente evidenziato che gli imputati volevano solo creare, mediante la documentazione fornita alla P.G. all'atto del controllo, l'apparenza di una attività di produzione e detenzione lecita, che, alla luce di quanto esposto, non è tale. Dunque, è evidente l'accertamento del dolo degli imputati, confermato dalla Corte di appello. 11. Con tali concrete ed esplicite enunciazioni dei giudici, l'imputato non si confronta, limitandosi ad insistere nella versione difensiva correlata alla coltivazione con finalità terapeutica, già fatta valere e motivatamente disattesa nei precedenti gradi. Parla di errore scusabile, neanche ipotizzabile in tema di delitti, in presenza di affermata sussistenza del dolo dell'agente. 12. Anche il quarto motivo è palesemente infondato. La Corte di appello, confermando la decisione di primo grado, ha spiegato che la condotta oggetto di contestazione non può rientrare nella previsione dell'art. 73, comma quinto, D.P.R. n. 309 del 1990, in quanto, in conformità con i criteri espressi dalla giurisprudenza di legittimità (Sez.U. n. 17 del 2000, confermata nei presupposti applicativi anche a seguito delle modifiche apportate dalle leggi n. 10 e 19 del 2014, Sez. 6, n. 5642 del 27 gennaio 2015, Driouech, Rv.263068; Sez.U. n. 51063 del 27 settembre 2018, Rv. 274076) difettava, nel caso di specie, la minima offensività penale della condotta, deducibile sia dal dato quantitativo che qualitativo, espressione di professionalità della condotta, posto che erano stati rinvenuti: sostanza del tipo marijuana pari a 7,308 Kg. netti, e che da essa erano ricavabili 28,6337 gr. di THC puro, pari a 1.145,348 dosi medie singole, 189,8450 gr. netti di sostanza da cui erano ricavabili 0,7132 gr. di THC puro, pari a 28,52 dosi medie singole; inoltre, stupefacente del tipo hashish resina dalla quale erano risultati 23,5474 gr. netti di sostanza da cui erano ricavabili 0,1410 gr. di THC puro pari a 5,64 dosi medie singole, oltre al materiale sopra descritto. 13. Il motivo non coglie che la motivazione è strutturata mediante la lettura organica e logica dell'insieme dei dati fattuali caratterizzanti la concreta fattispecie, comprendenti la entità delle sostanze rinvenute e gli strumenti complessivi utilizzati. La sentenza ha pienamente adempiuto all'onere di motivazione del provvedimento, in confronto al quale non viene neanche dedotta alcuna concreta circostanza, eventualmente pretermessa, in grado di rendere apparente la motivazione. Al contrario, il ricorso si limita a reiterare genericamente la tesi della sostanziale liceità della propria coltivazione ai sensi della legge n. 214 del 2016, concentrandosi solo sulle dosi medie ricavabili, senza considerare l'aspetto ben più grave della natura professionale della coltivazione accertata dai giudici del merito. 14. Anche l'ultimo motivo è manifestamente infondato. 15. La Corte di appello ha negato le attenuanti generiche in quanto ha ritenuto, per quanto prima emerso, il fatto di reato connotato da particolare disvalore. Come noto, al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche, il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall'art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente e atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all'entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può risultare sufficiente allo scopo (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549; Sez. 2, n. 3896 del 20/01/2016, De Cotiis, Rv. 265826; Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014; Lule, Rv. 259899). 16. Nel caso di specie, già il GUP aveva esplicitamente rilevato che non vi erano ragioni per concedere le attenuanti generiche e la Corte territoriale ha rilevato che il fatto era connotato da particolare disvalore, per le ragioni ampiamente descritte. La motivazione resiste alle censure del ricorrente perché attribuisce rilevanza alla gravità del fatto e non è manifestamente illogica. Il ricorrente non avversa tali aspetti, ma continua a sostenere la tesi della buona fede e della, ritenuta, coltivazione lecita. Anche il calcolo della pena, non basata sul minimo edittale in ragione delle peculiari caratteristiche organizzative della condotta delittuosa, come motivato dal GUP, resiste alla generica censura che non si confronta neanche su questo punto della decisione. 17. In definitiva, il ricorso va rigettato. Consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 26 giugno 2024. Depositato in Cancelleria l'8 luglio 2024.
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