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Truffa finalizzata all'assunzione di pubblico impiego: al lavoratore spetta comunque la retribuzione


Sentenze della Corte di Cassazione in relazione al reato di truffa

La massima

Quando sia commesso il reato di truffa finalizzata all'assunzione di un pubblico impiego, che si consuma nel momento della costituzione del rapporto impiegatizio, al lavoratore spetta comunque la retribuzione per l'effettivo svolgimento della prestazione lavorativa richiesta, giusta la disciplina dettata dagli artt. 2126 e 2129 c.c., salvo che ricorra un'ipotesi di contrarietà della causa del contratto a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume ex art. 1343 c.c. , un utilizzo dello strumento contrattuale per frodare la legge ex art. 1344 c.c. , ovvero un motivo illecito, comune alle parti o determinante, ex art. 1345 c.c. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la decisione di revoca della confisca della somma percepita dall'imputato quale retribuzione per lo svolgimento della prestazione relativa all'incarico ottenuto per effetto dei reati di truffa e falso ideologico - Cassazione penale, sez. II, 25/02/2021, n. 12791).


 

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La sentenza integrale

Cassazione penale, sez. II, 25/02/2021, n. 12791

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di Appello di Venezia, in esito a giudizio abbreviato, parzialmente riformando (solo in ordine alla confisca) la sentenza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Venezia del 26 ottobre 2018, confermava la responsabilità del ricorrente, la pena inflittagli e la condanna al risarcimento del danno nei confronti della parte civile Regione Veneto, in relazione ai reati di truffa aggravata e falso ideologico, per avere commesso artifici e raggiri consistenti nell'aver attestato, in una dichiarazione sostitutiva di certificazione, di aver conseguito il requisito della laurea (in Scienze Politiche presso l'Università di Trieste) senza che ciò fosse vero, conseguendo l'incarico di Direttore di un Dipartimento della Regione Veneto e la relativa retribuzione dall'1 gennaio del 2014 all'1 dicembre del 2015.


2. Ricorrono per cassazione il Procuratore generale presso la Corte di Appello di Venezia e l'imputato.


2.1. Il Procuratore generale deduce, con unico motivo, violazione di legge in ordine alla revoca della confisca, che era stata disposta dal Giudice per le indagini preliminari in ordine alla somma di Euro 336.590,50 percepita dall'imputato come retribuzione in forza dell'incarico ottenuto senza diritto e individuata quale profitto del reato di truffa, ai sensi degli artt. 640-quater e 322-ter c.p..


Secondo il ricorrente, nel caso in esame non sarebbero applicabili l'art. 2126 c.c., comma 1 e art. 2129 c.c. sulla base dei quali la sentenza impugnata, recependo un insegnamento di legittimità che il ricorso contesta, ha ritenuto che le retribuzioni costituissero un post-factum penalmente irrilevante e non punibile rispetto alla consumazione del reato e non rivestissero il connotato dell'ingiustizia. Al contrario, il ricorrente ritiene che la truffa per cui si procede si sarebbe conformata come a consumazione prolungata, ricomprendendo la fase nella quale l'imputato aveva percepito le retribuzioni non dovute e per questo costituenti per lui l'ingiusto profitto.


Il ricorrente, a sostegno delle sue ragioni, richiama giurisprudenza di legittimità, amministrativa e contabile.


2.2. A.G. deduce:


1) vizio della motivazione della sentenza impugnata, adottata attraverso un mero richiamo per relationem alla sentenza di primo grado e senza tenere conto di quanto dedotto con i motivi di appello, secondo quanto qui di seguito evidenziato. In ordine alla sussistenza del reato di falso ideologico, il ricorrente sottolinea che la Corte non avrebbe tenuto conto del fatto che egli aveva conseguito una laurea presso un ente di diritto privato di New York, titolo che gli era stato consegnato presso l'Università di (OMISSIS), come provato attraverso la dichiarazione del Dott. R.G.. Pertanto, non solo tale titolo avrebbe avuto piena efficacia in Italia in base agli accordi internazionali con gli Stati Uniti d'America (circostanza idonea ad escludere l'elemento oggettivo del reato), ma la sua consegna da parte di un ateneo italiano e con cerimonia ufficiale avrebbe ingenerato nell'imputato la ragionevole convinzione che il titolo fosse valido ed efficace in Italia, venendo ratificato dalla procedura di consegna, circostanza idonea ad escludere il dolo. Quanto al reato di truffa, la Corte non avrebbe tenuto conto del fatto che l'aver attestato il possesso della laurea, requisito non indispensabile per accedere all'incarico dirigenziale conferito al ricorrente in forza delle norme richiamate a fg. 9 del ricorso, non avrebbe indotto in errore la Regione Veneto;


2) vizio della motivazione avendo la Corte effettuato un "richiamo acritico a quanto esposto nella documentazione dimessa in giudizio". Il riferimento é alle "comunicazioni emesse dalla Regione Veneto", utilizzate senza tenere conto della innocuità del falso in ragione di quanto esplicitato nel precedente motivo sulla non indispensabilità del possesso della laurea per accedere all'incarico secondo le norme richiamate in ricorso (fg. 10 del ricorso).


Dal carattere innocuo del falso discenderebbe l'insussistenza anche del reato di truffa;


3) violazione di legge ed, in particolare, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 19 che prevede che la laurea sia un requisito alternativo e non indispensabile per accedere alla carica dirigenziale da parte di un soggetto, come l'imputato, già organico all'amministrazione e che aveva maturato esperienza professionale per otto anni. La Corte di Appello avrebbe valorizzato una norma regionale diversa (quella di cui alla L.R. Veneto n. 54 del 2012) di rango inferiore a quella citata dal ricorrente;


4) vizio della motivazione per non avere la Corte tenuto conto che il ricorrente non avrebbe potuto considerarsi soggetto esterno all'amministrazione, come tale necessitante della laurea. In proposito, si richiama l'art. 9 del Regolamento approvato con DeliB. Giunta Regionale del Veneto n. 2139 del 2013 ed il fatto che l'imputato per otto anni aveva assunto incarichi all'interno della Regione Veneto, sebbene a tempo determinato, circostanza, tuttavia, che il ricorrente ritiene ininfluente;


5) vizio della motivazione per avere la Corte ritenuto che l'incarico assunto dal ricorrente fosse nuovo e diverso rispetto ai precedenti.


Il ricorrente indica documenti prodotti in giudizio dai quali risulterebbe che l'incarico "incriminato" sarebbe stato a tempo determinato come i precedenti e non avrebbe rivestito carattere di novità rispetto alle mansioni precedentemente ricoperte in seno alla Regione, trattandosi di una "rinomina" dovuta soltanto alla "riorganizzazione" della Regione in "Dipartimenti" anziché in "Direzioni".


Non avendo alcun carattere di novità, il possesso della laurea non sarebbe stato necessario e l'assunzione di un incarico già nella sostanza ricoperto avrebbe avuto incidenza anche sulla sussistenza del dolo del reato nel momento della formazione del contratto;


6) violazione di legge ed, in particolare, dell'art. 1, comma 2, lett. a) del Trattato di amicizia tra Italia ed USA del 2.2.1948 ratificato con L. n. 385 del 1949, secondo il quale ogni titolo spendibile negli USA é spendibile in Italia, senza alcuna distinzione tra titoli accademici accreditati e non.


La Corte avrebbe malamente interpretato tale norma ritenendo che il titolo non fosse accreditato, errore idoneo ad inficiare la sussistenza dei reati da un punto di vista oggettivo ma con profili anche sullo stato di buona fede del ricorrente;


7) violazione di legge in ordine alle statuizioni civili.


Il ricorrente rileva che venendo meno i reati per le ragioni esplicitate nei precedenti motivi, verrebbe meno anche la condanna al risarcimento del danno in favore della Regione Veneto, rinvenuto nel solo danno all'immagine quantificato equitativamente in Euro 20.000; danno che, in ogni caso, l'ente non avrebbe provato di aver subito e che la Corte non avrebbe motivato se non con mere frasi di stile, anche in relazione al quantum.


CONSIDERATO IN DIRITTO

I ricorsi sono infondati.


1. L'esame del ricorso dell'imputato A.G. ha priorità logica sulla questione della confisca sollevata con il ricorso del Procuratore generale.


1.1. In ordine alla sussistenza del reato di falso ideologico, deve rilevarsi che il ricorrente non si confronta adeguatamente con la motivazione della sentenza impugnata, laddove la Corte di Appello ha sottolineato come l' A., in seno alla domanda per la manifestazione di interesse a ricoprire un incarico dirigenziale presso la Regione Veneto, avesse reso una dichiarazione con la quale aveva affermato di aver conseguito una laurea in Scienze Politiche presso l'Università di Trieste in data 13 aprile 1993.


Tale dato, da accertamenti effettuati dall'amministrazione regionale, era risultato falso, posto che il ricorrente aveva conseguito, in quella data, una laurea honoris causa presso l'Universitas Internationalis Studiorum Superiorum Pro Deo di (OMISSIS), un istituto privato statunitense che il MIUR, con nota del 30.6.2016, aveva attestato non essere compreso tra le istituzioni accreditate/riconosciute in Italia. Tale attestazione del MIUR non é stata richiamata in ricorso, a dimostrazione della genericità dell'assunto difensivo in ordine alla circostanza che il diploma di laurea conseguito negli USA dal ricorrente potesse essere equiparato ad un diploma di laurea conseguito in una università italiana, così da elidere l'elemento oggettivo del reato.


Per di più, la sentenza impugnata ha precisato, in altro passaggio motivazionale di nuovo non richiamato in ricorso, che l'imputato, nonostante a ciò richiesto dall'amministrazione pubblica, non era stato in grado di produrre - evidentemente perché non esistente - alcun decreto rettorale di equivalenza del titolo da lui posseduto (fgg. 7,8 e 11 della sentenza impugnata).


Tanto assorbe ogni altra considerazione difensiva relativa alla insussistenza oggettiva del reato di falso, anche in relazione alla violazione delle convenzioni internazionali.


1.2. Sotto il versante dell'elemento soggettivo, anche in questo caso il ricorso é in parte generico, poiché non tiene conto di alcune decisive circostanze sottolineate dalla Corte di Appello.


In primo luogo, del fatto che l'imputato, nella dichiarazione "incriminata", avesse fatto riferimento al conseguimento della laurea il 13 aprile del 1993, data inerente al titolo statunitense e non all'eventuale, presunta e successiva consegna di esso presso l'Università di (OMISSIS), secondo quanto sostenuto dall'imputato a giustificazione del suo asserito stato di buona fede.


Si tratta di elemento introdotto solo dalla Corte territoriale (cfr. fg. 7 della sentenza), a dimostrazione dell'assoluta autonomia della decisione di condanna adottata nel secondo grado di giudizio rispetto al primo, dal quale il giudice di appello ha mutuato solo il conforme convincimento di colpevolezza attraverso un percorso, anche strutturale, del tutto indipendente, così come si evince chiaramente dalla semplice lettura delle due sentenze di merito.


Il dato evidenziato - insieme alla inverosimiglianza della possibilità di un equivoco lessicale nel quale il ricorrente sarebbe incorso nel dichiarare "diploma conseguito" anziché "diploma consegnato" - rende ragione, sotto il profilo logico, della decisione della Corte di ritenere che l'imputato avesse maliziosamente lasciato intendere alla Regione Veneto di aver conseguito una laurea presso l'università di (OMISSIS), celando la verità.


A ciò si aggiunga che la Corte di Appello - come, ma più genericamente, il Tribunale - ha ritenuto poco significativa la stessa prova che l'imputato avesse ricevuto il diploma di laurea statunitense presso l'Università di (OMISSIS) attraverso una cerimonia ufficiale che avrebbe potuto destare in lui, sia pure erroneamente, il convincimento che il titolo posseduto fosse equiparato ad un diploma di laurea conseguito in una università italiana.


A tanto la Corte é addivenuta screditando la testimonianza di R.G. (soggetto del quale il ricorso non indica le funzioni), posta a sostegno dell'assunto difensivo (cfr. fg.10 della sentenza impugnata). Le ragioni per le quali la testimonianza del R. non é stata ritenuta probatoriamente efficace, attengono al merito del giudizio ed il ricorrente non le ha censurate se non genericamente, senza tenere conto che alla ritenuta aspecificità delle indicazioni fornite dal teste, secondo il giudizio della Corte, si era affiancata l'altrettanta aspecificità delle dichiarazioni dell'imputato, entrambe essendo inidonee a "ricostruire il contesto ed il tempo" di questa presunta consegna ufficiale del diploma americano presso l'Università di (OMISSIS).


Nel che, la piena sussistenza degli elementi costitutivi del reato di falso, con assorbimento di ogni altra considerazione difensiva.


1.3. Quanto al reato di truffa, il ricorso é , del pari, infondato.


Una volta affermata l'esistenza del reato di falso ideologico, la Corte di Appello, con giudizio immune da vizi logico-giuridici rilevabili in questa sede, ha ritenuto che la Regione Veneto fosse stata indotta in errore dalla dichiarazione dell'imputato di essere in possesso di una laurea in Scienze Politiche regolarmente conseguita in Italia.


Questa dichiarazione fraudolenta é entrata a far parte del curriculum dell'imputato, del quale la Regione Veneto ha tenuto conto ai fini di conferirgli l'incarico dirigenziale per il quale egli aveva manifestato la sua disponibilità.


In proposito, la sentenza ha richiamato la relazione inviata alla Procura della Repubblica da un funzionario della Regione, C.L., il quale aveva specificato che, in base alla interpretazione delle norme in vigore all'epoca del fatto, il possesso della laurea era requisito necessario per ottenere quel determinato incarico dirigenziale, anche tenuto conto che il ricorrente, pur avendo avuto altri incarichi precedenti a tempo determinato, non era inserito nel ruolo della amministrazione pubblica e fosse, dunque, un soggetto "esterno".


Il fatto che la Regione potesse avere frainteso il dettato normativo di riferimento in ordine alla necessità del requisito della laurea - applicando una normativa regionale (la L.R. Veneto n. 54 del 2012, art. 11, comma 2, anziché la D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 19) - non incide sulla circostanza, ritenuta dalla Corte di Appello siccome emergente dalla relazione citata e dai documenti richiamati in sentenza, che l'ente pubblico avesse effettivamente valutato il possesso della laurea quale elemento che faceva parte del curriculum dell'imputato, che proprio a questo fine, stante la ritenuta sussistenza del dolo del reato di falso ideologico, egli aveva attestato di aver conseguito in modo inveritiero (fgg. 8 e 9 della sentenza impugnata).


Tale conclusione discende dalla stessa concatenazione logica della condotta dell'imputato, il quale, se in buona fede e se consapevole del fatto che non sarebbe andato a ricoprire un incarico diverso dal precedente - come pure da lui sostenuto - non avrebbe scientemente attestato il falso in seno ad una domanda presentata nel 2013 in relazione ad un incarico dirigenziale anche solo formalmente diverso nel nome dai precedenti incarichi ricoperti, circostanza che, per la verità, collide con le conclusioni cui era pervenuta l'amministrazione pubblica attraverso la relazione C. prima richiamata, la cui portata decisionale in danno del ricorrente, a seguire la tesi di quest'ultimo, perderebbe di ogni senso.


Per tutte le ragioni indicate e con assorbimento di ogni altra deduzione volta a censurare il giudizio di responsabilità, i primi sei motivi di ricorso non meritano accoglimento.


1.4. Quanto all'ultimo motivo, che investe le statuizioni civili, deve ricordarsi il pacifico principio giurisprudenziale secondo il quale, in tema di liquidazione del danno non patrimoniale, la valutazione del giudice, affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi, é censurabile in sede di legittimità sotto il profilo del vizio della motivazione, solo se essa difetti totalmente di giustificazione o si discosti macroscopicamente dai dati di comune esperienza o sia radicalmente contraddittoria (per tutte, Sez. 5, n. 35104 del 22/06/2013, R.C., Rv. 257123 ed altre conformi).


La Corte di appello, nel caso in esame, non ha fornito una motivazione apparente, come si sostiene in ricorso, ma ha individualizzato sia l'an che il quantum del risarcimento del danno morale all'immagine richiesto dalla Regione Veneto in ragione della specificità del caso concreto, richiamando l'alto ruolo dirigenziale assunto dal ricorrente senza averne diritto, la retribuzione percepita, la rilevanza esterna degli atti da lui sottoscritti in quelle funzioni.


La motivazione é conforme a quanto richiesto dalla giurisprudenza di legittimità. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.


2. Anche il ricorso del Procuratore generale é infondato.


La sentenza impugnata ha ampiamente giustificato la revoca della confisca, che era stata rapportata, per la sua gran parte, alle retribuzioni percepite dall'imputato dopo l'assunzione delle funzioni dirigenziali alle quali non avrebbe avuto diritto e che aveva ottenuto in forza della commissione dei reati di falso e truffa, così individuando tali retribuzioni quale profitto del reato di cui all'art. 640 c.p., comma 2, n. 1, confiscabile ex art. 640-quater c.p..


E' stato fatto corretto richiamo alla sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 1, del 1999, Cellammare, che ha affrontato in modo specifico il tema del momento consumativo del reato di truffa finalizzata all'assunzione ad un pubblico impiego, ritenendo che tale tipo di truffa contrattuale si consumi nel momento della costituzione del rapporto impiegatizio, sempre che sia individuabile e dimostrata l'esistenza di un danno immediato ed effettivo, di contenuto economico-patrimoniale, che l'amministrazione abbia subito all'atto ed in funzione della costituzione del rapporto medesimo (Nell'affermare tale principio la Corte ha precisato che ai fini della configurabilità del delitto "de quo" si deve fare riferimento esclusivamente a spese, esborsi ed oneri effettivamente sostenuti dall'amministrazione nella procedura di costituzione del rapporto di impiego, mentre esulano dal concetto di danno rilevante le conseguenze meramente virtuali del reato - come le spese da sostenere per riparare l'errore e rettificare la graduatoria o per indire le nuove procedure di assunzione - quelle di natura non immediatamente patrimoniale - come l'assunzione di persona sprovvista dei necessari requisiti professionali e l'alterazione della graduatoria del concorso - ovvero quelle estranee all'ambito di tutela proprio della norma incriminatrice, quale il pregiudizio per gli altri concorrenti).


Tale principio, é stato affermato al fine di risolvere un contrasto in ordine alla natura istantanea o continuata o a consumazione prolungata di siffatta specifica tipologia di truffa (cosiddetta "in attività lavorativa").


Le ragioni sottese a quella decisione sono state avallate dalla successiva giurisprudenza, proprio con riferimento al tema suscitato dal ricorso all'odierno esame.


Nella motivazione della sentenza Sez. 6, n. 35320 del 02/05/2013, Miceli, Rv. 256938 si legge: "Le Sezioni Unite di questa Corte, in tema di analisi dell'iniusta locupletatio con specifico riferimento all'ipotesi di truffa "in attività lavorativa", hanno già chiarito che, una volta accertata l'esplicazione della prestazione lavorativa richiesta, i singoli ratei di retribuzione costituiscono, in forza della sinallagmaticità dell'instaurato rapporto di pubblico impiego, il corrispettivo dovuto al lavoratore dalla pubblica amministrazione.


Mette conto infatti di osservare che, nel caso di nullità del contratto di lavoro per violazione di norme imperative, l'art. 2126 c.c., sia pure ai limitati fini dei diritti retributivi e previdenziali maturati in costanza di prestazioni lavorative, pone una fictio juris di validità del rapporto "di fatto"; e l'operatività della norma é estesa dal successivo art. 2129 anche al rapporto di pubblico impiego per i dipendenti da enti pubblici. La giurisprudenza civile e amministrativa, in materia di assunzioni effettuate dalla pubblica amministrazione in violazione di regole o divieti imperativi, é assolutamente pacifica nel qualificare i rapporti in tal modo instaurati come radicalmente nulli, e quindi improduttivi di effetti, al di fuori del diritto del lavoratore al complessivo trattamento retributivo e previdenziale relativo al periodo in cui il rapporto ha avuto di fatto esecuzione, giusta la disciplina dettata dall'art. 2126 c.c. Il principio é stato ripetutamente affermato sia dalle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione in sede di riparto della giurisdizione (3.4.1998 n. 3465, 4.11.1996 n. 9531, 29.7.1995 n. 8304, 21.4.1994 n. 3779, 26.7.1994 n. 6960; 12.5.1989 n. 2171; 3.12.1988 n. 6566; 18.3.1988 n. 2490; 22.12.1987 n. 9615; 27.11.1987 n. 8830; 3.5.1986 n. 2993), che dall'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (29.2.1992 nn. 1 e 2, e 5 marzo 1992, nn. 5 e 6, cui si sono successivamente conformate le sezioni semplici, le quali si erano espresse in passato in senso contrario all'applicabilità dell'art. 2126 c.c. al pubblico impiego). Identificata poi la causa del contratto, secondo un consolidato insegnamento giurisprudenziale, con la funzione economico-sociale che il negozio obiettivamente persegue e il diritto riconosce rilevante ai fini della tutela apprestata, ontologicamente distinta dallo scopo particolare che ciascuna delle parti persegue, si avverte che l'illiceità della medesima, la quale ai sensi dell'art. 2126 priva il lavoro prestato della tutela accordata al rapporto di lavoro nullo, "non può ravvisarsi nella violazione della mera ristretta legalità, ma nel contrasto con norme fondamentali e generali o con principi basilari pubblicistici dell'ordinamento". Deve trattarsi, cioé , sia nell'ipotesi di contrarietà della causa a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume ex art. 1343, sia nell'ipotesi di utilizzazione dello strumento negoziale per frodare la legge ex art. 1344, sia nel caso di motivo illecito, comune alle parti e determinante, ex art. 1345, "dell'illiceità in senso forte, non semplicemente dell'illegalità che invalida il negozio o l'atto costitutivo del rapporto a norma dell'art. 1418", poiché un'illiceità non intesa in questo senso rigoroso, dettata "per ragioni che non attengono a principi giuridici ed etici fondamentali dell'ordinamento, non si riflette in un giudizio d'illiceità della prestazione di lavoro" (Corte Cost., 19.6.1990 n. 296; Cons. Stato, Ad. plen., 29.2.1992 n. 1 e 5.3.1992 n. 5, citt.; Cass., Sez. Un. civ., 8.5.1976 n. 1609). E' infatti palese l'intenzione del legislatore di tutelare, con le disposizioni dell'art. 2126 c.c., le prestazioni effettivamente espletate dal lavoratore, "a meno che il contratto nullo non urti, con la partecipazione di entrambi i contraenti - che intenzionalmente attribuiscono al negozio come funzione obiettiva una comune finalità contraria alla legge - con indirizzi vitali per l'integrità dell'ordinamento" o sia in contrasto con quei "valori giuridici considerati essenziali all'interno del sistema giuridico", ovvero l'attività lavorativa resa configuri un oggetto illecito, risulti cioé intrinsecamente illecita per avere normalmente, per il suo contenuto, rilevanza penale".


Altre sentenze hanno confermato la validità giuridica di tali principi nell'ordinamento penale, che qui va ribadita. Solo a titolo esemplificativo, si veda Sez. 2, n. 49382 del 04/11/2016, Magri, Rv. 268558; Sez. 2, n. 22973 del 2018,non massimata; Sez. 2, n. 8584 del 03/02/2010, Piscitelli, Rv. 246636.


Nella parte motiva di tale ultima decisione, si afferma che "la qualità degli interessi coinvolti nel caso concreto, é sempre stata un discrimine nella valutazione della natura istantanea o a consumazione prolungata della truffa a cui conseguano effetti durevoli nel tempo".


Ed é tenendo ferma questa distinzione che devono essere interpretate quelle decisioni di legittimità, pure richiamate dalla Corte di Appello nella sentenza impugnata, le quali, con riguardo a rapporti contrattuali venuti in essere con truffa tra un soggetto privato ed un ente nei quali entrava in campo la tutela del diritto alla salute costituzionalmente garantito, hanno ritenuto che integra il reato di truffa contrattuale aggravata, a consumazione prolungata, la condotta di chi, col falso titolo abilitativo alla professione di infermiere, si procura l'assunzione presso una struttura sanitaria pubblica e lì svolge continuativamente la professione, riscuotendone il corrispettivo (Sez. 2, n. 36502 del 17/06/2009, Casella, Rv. 244727; Sez. 2, n. 15669 del 02/04/2009, Oriolo, Rv. 244053).


Nei casi esaminati da quelle decisioni, si verteva in una di quelle eccezioni poste dalla sentenza delle Sezioni Unite prima richiamata, vale a dire quella nella quale si evidenziava un "contrasto con norme fondamentali e generali o con principi basilari pubblicistici dell'ordinamento", di "contrarietà della causa del contratto a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume ex art. 1343 c.c.".


Si tratta di quei casi definiti dalle SS.UU. come di "illiceità forte", diversi da quello in esame.


Ne consegue che nessuna disparità di trattamento può individuarsi in astratto, come sostenuto dal ricorrente, occorrendo valutare, caso per caso, il momento consumativo del reato di truffa contrattuale (con tutto quel che ne consegue anche in termini di individuazione del profitto oltre che di prescrizione) in relazione alle specifiche modalità degli accordi intercorsi, alle modalità della condotta (come affermato pacificamente in giurisprudenza, cfr. Sez. F, n. 31497 del 2012, Rv. 254043 e, più di recente Sez. 2, n. 11102 del 14/02/2017, Giannelli, Rv. 269688), ma anche agli "interessi in gioco", che possono determinare, intervenendo sulla liceità della causa del contratto, la liceità o meno delle condotte successive al momento iniziale di perfezionamento del contratto tra le parti, potendosi configurare, a seconda di queste variabili, una truffa a consumazione istantanea o a consumazione prolungata.


Nessun elemento rinvenibile nelle sentenze di merito induce a ritenere che il caso specifico qui in discorso presenti caratteri di "illiceità forte", nel senso prima indicato.


Il ricorso del Procuratore generale deve, pertanto, essere rigettato.


P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna il ricorrente A.G. al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Regione Veneto che liquida in complessivi Euro 3510,00 oltre accessori di legge.


Così deciso in Roma, nella Udienza pubblica, il 25 febbraio 2021.


Depositato in Cancelleria il 2 aprile 2021

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