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Abuso d'ufficio: si configura in caso di violazione del dovere di astensione anche dopo la riforma


Corte di Cassazione

La massima

Il reato di abuso di ufficio, anche a seguito della recente modifica legislativa. è sempre configurabile nel caso di violazione del dovere di astensione laddove tale dovere derivi da una fonte subprimaria e, comunque, si basi su norme caratterizzate da un ambito di discrezionalità nella valutazione dell'esistenza o meno di un obbligo di astensione.


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La sentenza integrale

Cassazione penale sez. VI, 10/05/2023, (ud. 10/05/2023, dep. 16/06/2023), n.26225

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Milano con sentenza del 21 ottobre 2022 (motivazione depositata il 7 novembre 2022), in parziale riforma di quella di primo grado emessa dal Tribunale di Milano, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di M.G. in relazione alle imputazioni di cui all'art. 353 c.p., riferite a due episodi contestati come commessi nel maggio e nel luglio del 2014 (capi 1 e 2) nonché per quella di falso ideologico in atto pubblico, anch'esso contestato come commesso nel luglio del 2014 (capo 3), confermando la condanna inflitta al M. per ulteriori due capi di imputazione ex art. 353 c.p. (capi 4 e 7) e due contestazioni di abuso di ufficio (capi 5 - riqualificato come tentativo - e 6), rideterminando la pena in complessivi anni due e mesi undici di reclusione ed Euro 1.600 di multa oltre alla pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni due e mesi sei e alle conseguenti statuizioni civili.


2. In particolare, la Corte territoriale ha ritenuto provato che M., direttore del (Omissis), e Mo.Fr. (anch'essa imputata nel medesimo procedimento e nei cui confronti i Giudici di appello hanno dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione in merito alle due già riportate contestazioni ex art. 353 c.p., unici reati a lei ascritti) avevano uno stabile rapporto sentimentale. M., al fine di favorire la Mo., avrebbe turbato con mezzi fraudolenti le procedure di mobilità ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 30 per la copertura di un posto di Istruttore direttivo tecnico del (Omissis) (PAN), comunque allontanandone gli offerenti, riducendo illegittimamente il termine di pubblicazione del bando e fissando condizioni immotivatamente restrittive per la presentazione, tali da ostacolare la partecipazione alla selezione (capo 4); quindi, in concorso con altro soggetto separatamente giudicato, avrebbe, sempre per avvantaggiare la donna, turbato la procedura relativa al bando per il conferimento di un incarico di prestazione professionale per la funzione di Responsabile tecnico nell'ambito dell'attività di un progetto indetto dall'Ente regionale per i Servizi all'Agricoltura e Foreste (ERSAF) della Regione Lombardia (capo 5). Le contestazioni di abuso di ufficio attengono invece alla violazione di plurime norme di legge e alla mancata astensione - atto dovuto in ragione del rapporto sentimentale con la M. - in relazione ad una procedura di mobilità del personale da destinare all'Ente Parco, attivata con l'obiettivo di consentire alla M., alla quale procurava così un ingiusto vantaggio patrimoniale, di lavorare con lui in qualità di Istruttore direttivo tecnico.


3. Avverso la sentenza di appello l'imputato, per il tramite del proprio difensore, ha presentato ricorso nel quale deduce due motivi.


3.1. Con il primo - relativo alla condanna per le fattispecie di cui all'art. 353 c.p. - eccepisce violazione della legge penale per avere i giudici di merito illegittimamente assimilato la procedura di mobilità nel pubblico impiego di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 30 ad un "pubblico incanto".


3.2. Con il secondo motivo viene censurata la condanna per le fattispecie di abuso di ufficio in quanto la Corte di appello ha fondato la penale responsabilità dell'imputato su prove equivoche e non ha comunque tenuto conto della modifica normativa di detto reato, intervenuta con il D.L. n. 76 del 2020, in virtù della quale "la violazione del dovere di astensione di cui al D.P.R. 16 aprile 2013, art. 7 non rientra più tra le condotte rilevanti ai sensi dell'art. 323 c.p.".


4. Il giudizio di cassazione si è svolto a trattazione scritta, ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8, convertito dalla L. n. 176 del 2020, e le parti hanno depositato le conclusioni come in epigrafe indicate.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il secondo motivo del ricorso è infondato.


1.1. I giudici di merito con motivazione certamente non illogica hanno ritenuto provato che tra M. e la Mo. sussistesse una stabile relazione sentimentale. In tal senso, precisa la Corte territoriale, depongono l'inequivoco contenuto delle conversazioni telefoniche intercettate tra i due (nell'ambito delle quali la Mo. si rivolge all'uomo chiamandolo "amore mio", facendo altresì riferimento al loro "centoventisimo mesiversario", dal che i giudici di merito deducono che erano dieci anni che i predetti stavano insieme) e le osservazioni della polizia giudiziaria che hanno dimostrato la frequentazione tra i due al di fuori dei rapporti lavorativi (sentenza di appello, pag. 14 ss.). Trattasi di valutazione di fatto, fondata su convergenti elementi ritenuti in maniera del tutto plausibile dimostrativi dell'esistenza di una stabile e consolidata relazione sentimentale.


1.2. Pertanto, manifestamente infondate risultano le deduzioni difensive con le quali si vuole proporre una lettura alternativa del rapporto tra M. e la Mo., da limitarsi al solo profilo amicale, lavorativo e di studio. Invero, in tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020 - dep. 2021, F., Rv. 280601).


1.3. Tenendo conto di detta stabile relazione sentimentale, sussiste certamente la causa di incompatibilità in capo al M. e quindi il dovere di astensione, violato dall'imputato. Dovere correttamente individuato dalla Corte di appello sulla base della L. n. 241 del 1990, art. 6 bis e del D.P.R. n. 62 del 2013, art. 7. In particolare, l'art. 6 bis - introdotto dalla L. n. 190 del 2012 stabilisce che "Il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli, atti endo procedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale". A sua volta, il D.P.R. n. 62 del 2013, art. 7 (Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 54), rubricato "Obbligo di astensione", prevede che il dipendente si astiene dal partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero - tra l'altro - "di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale", astenendosi, altresì, "in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza".


1.4. Ciò assodato, i giudici di merito hanno evidenziato come le condotte del M. hanno integrato le fattispecie di abuso. In particolare, per quel che concerne il capo 5, la sentenza impugnata (pag. 37 ss.) descrive le articolate modalità attraverso le quali l'imputato ha inteso favorire la Mo. attribuendo a P.D. - possibile concorrente della donna per la posizione lavorativa - un contratto qualificato come attinente ad attività di formazione e aggiornamento professionale, con compenso di 6.000 Euro. La Corte territoriale ha evidenziato che si è trattato di un "duplicato" di analogo incarico di identico contenuto già in essere con il P., comunque illegittimo perché afferente ad attività di consulenza, in merito alla quale era quindi necessaria l'autorizzazione dell'amministrazione del dipendente, prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 7; poiché P. rinunciò unilateralmente al compenso (non avendo neppure chiesto detta autorizzazione) il fatto è stato qualificato dal Tribunale come tentativo. Sul punto, la sentenza di appello, oltre a ribadire i profili di illegittimità dell'azione amministrativa del M. in riferimento a detta vicenda, ha precisato (pag. 43) come "la tollerata, se non voluta, dissimulazione dell'attività di "consulenza" del P. e fatta passare come attività di formazione, ben possa venire a collocarsi come corrispettivo, da parte del M., del mancato sollevamento di questioni da parte di P., circa l'accordo per la "mobilità" di Mo.Fr." (oggetto del capo 6). Pertanto, attesa la finalizzazione della condotta in contestazione al buon esito dell'assunzione della donna, per la quale si è verificata la violazione del dovere di astensione, sussistono i presupposti per ritenere configurabile la fattispecie, tentata, di abuso di ufficio.


1.5. In riferimento al capo 6, risulta (sentenza impugnata, pag. 31 ss.) che, dopo che un bando per la procedura di mobilità volontaria per la copertura a tempo pieno e indeterminato di un posto di Istruttore direttivo tecnico presso il PAN era andato deserto (e ciò in conseguenza delle modalità, definite contra legem, con le quali il M. aveva predisposto la procedura), il predetto - divenuto Direttore generale presso I'ASM di Vigevano e Lomellina, ma in regime di prorogatio presso l'Ente Parco - attivava lo strumento dello scorrimento della graduatoria dei vincitori di un concorso presso il Comune di Treviglio, procedendo però all'assunzione della, Mo., che non era vincitrice: in tal modo violando il D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 34 ss. e, comunque, il più volte indicato dovere di astensione.


1.6. Non è neppure condivisibile l'argomentazione, contenuta nel ricorso, secondo cui la recente modifica dell'abuso di ufficio avrebbe reso non più configurabile il reato de quo nel caso di violazione del dovere di astensione laddove, come si sostiene nel caso in esame, tale dovere derivi da una fonte subprimaria (il citato regolamento del 2013) e, comunque, si basi su norme caratterizzate da un ambito di discrezionalità nella valutazione dell'esistenza o meno di un obbligo di astensione.


Invero, a prescindere dal fatto che la fonte del dovere di astensione del pubblico dipendente che si venga a trovare di situazioni di incompatibilità si basa sulla L. n. 241 del 1990, art. 7 bis che tipizza in modo sufficientemente specifico le situazioni nelle quali scatta detto obbligo, questa Sezione ha già affermato il principio - che qui si condivide - secondo cui "la novella di cui al D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito con mod. dalla L. 11 settembre 2020, n. 120, lì dove ha ristretto l'ambito applicativo del reato, richiedendo l'inosservanza di "specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità", non riguarda la condotta di abuso che si realizza mediante la violazione dell'obbligo di astensione" (Sez. 6, n. 7007 del 08/01/2021, Micheli, Rv. 281158 - 03).


1.7. Alla luce delle suesposte considerazioni, va confermata la condanna del M. in relazione alle imputazioni di abuso di ufficio contestate nei capi 5 e 6.


2. Il ricorso è invece fondato in riferimento alla dedotta non configurabilità delle fattispecie di cui all'art. 353 c.p..


2.1. Al riguardo la sentenza impugnata, così come il Procuratore generale nelle sue conclusioni scritte, hanno evidenziato che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che il reato di turbata libertà degli incanti è configurabile in ogni situazione in cui la pubblica amministrazione proceda all'individuazione del contraente mediante una gara, quale che sia il nomen iuris adottato ed anche in assenza di formalità (ex multis: Sez. 6, Sentenza n. 9385 del 13/04/2017, Giuliano, Rv. 272227 - 01); "gara" che si configura tutte le volte in cui vi sia una competizione tra aspiranti, che si svolga sulla base della previa indicazione e pubblicizzazione dei criteri di selezione e di presentazione delle offerte (Sez. 6, n. 6603 del 05/11/2020, dep. 2021, Maroni, Rv. 280836 - 01), essendosi però precisato che "non può dirsi integrata una gara per il solo fatto della pluralità dei soggetti interpellati, quando ciascuno di costoro presenti indipendentemente la propria offerta e l'amministrazione conservi piena libertà di scegliere secondo criteri di convenienza e opportunità propri della contrattazione tra privati" (Sez. 6, n. 44829 del 22/09/2004, Di Vincenzo, Rv. 230522).


Nel caso di specie la procedura di mobilità all'esito della quale la Mo. è stata trasferita presso il PAN è stata preceduta da pubblicazione del posto, con l'indicazione dei relativi requisiti (seppure l'assegnazione è avvenuta, secondo quanto verificato dai giudici di merito, con modalità tali da rendere di fatto la Mo. l'unica candidata). Pertanto, sostiene la Corte territoriale, si è trattato di una procedura selettiva relativa ad una determinata posizione funzionale presso una pubblica amministrazione che, si conclude, rientra nell'ambito applicativo dell'art. 353 c.p..


2.2. Ritiene al contrario questa Corte che tali condotte non possano essere ricomprese nel perimetro di detta fattispecie penale.


Il reato in esame (rubricato Turbata libertà degli incanti) sanziona penalmente chi "impedisce o turba le gare nei pubblici incanti o nelle licitazioni private per conto di pubbliche amministrazioni". E' vero che la giurisprudenza di questa Corte, ha ritenuto che nell'ambito delle gare oggetto di detta fattispecie possa rientrare qualsivoglia "procedura di gara, anche informale o atipica, ogni volta che la pubblica amministrazione proceda all'individuazione del contraente su base comparativa, a condizione che l'avviso informale o il bando e comunque l'atto equipollente indichino previamente i criteri di selezione e di presentazione delle offerte, ponendo i potenziali partecipanti nella condizione di valutare le regole che presiedono al confronto e i criteri in base ai quali formulare le proprie (Sez. 6, n. 2795 del 06/12/2018, Caruso, non mass.; Sez. 6, n. 30730 del 28/03/2018, C., mass. ma non sul punto; Sez. 6, n. 9385 del 13/04/2017, dep. 2018, Giugliano, Rv. 272227; Sez. 6, n. 8044 del 21/01/2016, Cereda, Rv. 266118); tuttavia ha sempre riferito l'operatività della norma alle sole procedure indette per l'affidamento di commesse pubbliche o per la cessione di beni pubblici. Procedure che in origine erano disciplinate nella legislazione sulla contabilità generale dello Stato (rr.dd. n. 2440 del 1923 e n. 827 del 1924) e che ora trovano il proprio regime organico nel Codice dei contratti pubblici, di cui al D.Lgs. n. 50 del 2016.


2.3. Tra di esse ritiene il Collegio che non possano rientrare i concorsi per l'accesso ad impieghi pubblici o le connesse procedure di mobilità del personale tra diverse amministrazioni (come nel caso qui in scrutinio).


In tal senso depone anzitutto la ratio della previsione incriminatrice, indiscutibilmente riferita a dette tipologie di procedure contrattuali, finalizzate all'acquisizione da parte delle amministrazioni pubbliche di beni e servizi, strutturalmente diverse, dunque, da quelle relative alle assunzioni del personale delle pubbliche amministrazioni, procedure, queste ultime, che trovano uno specifico riferimento costituzionale nell'art. 97, u.c., secondo cui "Agli impieghi nelle Pubbliche Amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge". Ne' a tale estensione può pervenirsi valorizzando l'inserimento nel codice penale della fattispecie di cui all'art. 353 bis c.p. che, come è noto, sanziona, in riferimento alla turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, le condotte illecite aventi ad oggetto "il contenuto del bando o di altro atto equipollente, al fine di condizionare le modalità di scelta del contraente da parte della pubblica amministrazione".


Anche tale fattispecie - la cui ratio è stata da questa Corte individuata nella "esigenza di anticipare la tutela penale, rispetto al momento di effettiva indizione formale della gara; la norma... mira a prevenire la preparazione e l'approvazione di bandi personalizzati e calibrati proprio sulle caratteristiche di determinati operatori, ed a preservare il principio di libertà di concorrenza e la salvaguardia degli interessi della pubblica amministrazione. La disposizione è concepita per punire contegni orientati a favorire taluno degli interessati alla commessa a scapito di altri e, più esattamente, a conculcare la parità tra i concorrenti e la libera dialettica economica, ponendosi, dunque, al servizio della libertà di concorrenza intesa quale bene funzionale ad assicurare ai pubblici poteri l'individuazione del migliore offerente" (Sez. 6, n. 5536 del 28/10/2021 - dep. 2022, Zappini, Rv. 282902 - 01) - è infatti riferibile alle medesime procedure contrattuali oggetto della originaria previsione codicistica di cui all'art. 353 c.p..


Ma, in termini più generali e in modo decisivo, alla indicata estensione applicativa osta il principio di tassatività e determinatezza delle fattispecie penale. Con la recente sentenza n. 98 del 28 aprile - 14 maggio 2021, la Corte costituzionale ha ribadito come sono le norme incriminatrici - non già la loro successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza - che debbono "fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicché non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore". La Corte ha aggiunto che "il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce il naturale completamento di altri corollari del principio di legalità in materia penale sancito dall'art. 25 Cost., comma 2, e in particolare della riserva di legge e del principio di determinatezza della legge penale".


Ritenere applicabile la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 353 c.p. a condotte relative alle procedure relative all'assunzione o alla mobilità del personale della pubblica amministrazione rappresenterebbe quindi il risultato di una non consentita operazione di interpretazione analogica in mala partem.


Invero, a differenza della ricomprensione nel concetto di "gare pubbliche e licitazioni private" delle gare informali, come detto ammessa dalla giurisprudenza di legittimità sul presupposto che è "la previsione di un meccanismo selettivo delle offerte nel quale i soggetti che vi partecipano, consapevoli delle offerte di terzi, propongono le proprie condizioni quale contropartita di ciò che serve alla pubblica amministrazione, a qualificare come gara la procedura di individuazione del contraente attivata da una pubblica amministrazione e, di conseguenza, le condotte collusive che turbano la competizione e la concorrenza tra i partecipanti, come delitto di cui all'art. 353 c.p." (così, Sez. 6, n. 9385 del 13/04/2017, dep. 2018, Giugliano, Rv. 272227), l'applicazione della suddetta norma penale a procedure che non concernono l'acquisizione di beni e servizi da parte della Pubblica amministrativa eccede in modo evidente l'ambito dei significati attribuibili alla nozione "gare nei pubblici incanti o nelle licitazioni private per conto di pubbliche amministrazioni" utilizzato dal legislatore nella fattispecie incriminatrice.


2.4. Peraltro, le sopra indicate condotte illecite, quali quelle accertate a carico del M., possono trovare la loro repressione nell'art. 323 c.p., avente natura sussidiaria e che perciò non può concorrere con il reato di cui all'art. 353 c.p. (Sez. 6, n. 14380 dell'11/12/2002, Gallitelli, Rv. 224679). Nell'ambito della fattispecie di abuso di ufficio infatti sono ricomprese, ricorrendo i presupposti indicati da tale disposizione (ossia, la violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero la mancata astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti), le condotte poste in essere dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di pubblico servizio che, nella predisposizione e nello svolgimento di dette procedure, abbia intenzionalmente procurato un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arrecato ad altri un danno ingiusto.


2.5. In conclusione, per le condotte contestate al M. nei capi 4) e 7), siccome non riferibili alla previsione incriminatrice di cui all'art. 353 c.p., la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché il fatto di reato non sussiste.


3. Segue la trasmissione degli atti ad altra sezione della Corte di appello di Milano che provvederà alla rideterminazione della pena. Infatti, la sentenza impugnata, nell'ambito della ritenuta continuazione tra le imputazioni di abuso di ufficio e quelle di turbata libertà degli incanti, ha individuato una delle contestazioni ex art. 353 c.p. - quella di cui al capo 4) - come il reato più grave sul quale è stata determinata la pena base poi aumentata ex art. 81 c.p., comma 2 per gli altri reati, uno dei quali relativo ad altra contestazione sub art. 353.


E' opportuno precisare che l'annullamento con rinvio disposto da questa Corte per motivi che non riguardano l'affermazione di responsabilità dell'imputato determina il passaggio in giudicato della sentenza sul punto e conseguentemente comporta che nel successivo giudizio di rinvio non decorrono ulteriormente i termini di prescrizione (ex multis, v. Sez. 5, n. 51098 del 19/09/2019, M., Rv. 278050 - 01).


Il giudice del rinvio provvederà anche alla regolazione delle spese a favore della parte civile ARPAE, relative a questo grado di legittimità.


P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente ai reati previsti dall'art. 353 c.p. nei capi 4) e 7) perché il fatto non sussiste.


Rigetta nel resto e trasmette gli atti ad altra sezione della Corte di appello di Milano per la sola rideterminazione della pena con riferimento ai residui reati.


Così deciso in Roma, il 10 maggio 2023.


Depositato in Cancelleria il 16 giugno 2023

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