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Abuso d'ufficio: Sindaco condannato per una requisizione in assenza di una grave necessità pubblica


Corte di Cassazione

La massima

In tema di abuso d'ufficio, l'esercizio di un potere richiede l'individuazione di una specifica norma che ne individui i presupposti, rispetto ai quali non sussiste alcun profilo di discrezionalità amministrativa che, invece, può riguardare le modalità con le quali quel determinato potere venga esercitato. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto sussistente il reato di abuso d'ufficio, anche nella formulazione conseguente alla modifica apportata con d.l. n. 76 del 2020 , nel caso di esercizio da parte di un Sindaco del potere di requisizione, pur in assenza del presupposto della grave necessità pubblica, ritenendo che l'interpretazione di tale locuzione non attenga alla discrezionalità amministrativa.


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La sentenza integrale

Cassazione penale sez. fer., 17/08/2021, (ud. 17/08/2021, dep. 22/11/2021), n.42640

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 15 gennaio 2021 la Corte di appello di Salerno ha confermato quella del Tribunale di Salerno in data 10 dicembre 2019, con cui A.A. è stato riconosciuto colpevole del delitto di cui all'art. 323 c.p. e condannato alla pena ritenuta di giustizia nonché al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile, per aver, quale Sindaco di (OMISSIS), in violazione del L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 7, all. e), e dell'obbligo di astenersi in presenza di un interesse proprio, disposto in data 11 settembre 2013 la requisizione di un immobile di proprietà di P.S., oggetto di controversia tra la stessa P. e la società RO.RI.DA. s.r.l., patrocinata dall' A., e l'assegnazione dell'immobile ai coniugi S., precedentemente sfrattati, con la previsione del versamento da parte dei S. di una somma mensile su libretto bancario da cointestare a P. e RO.RI.DA. in attesa delle determinazioni del giudice civile.


2. Ha presentato ricorso A.A. tramite il suo difensore.


2.1. Con il primo motivo denuncia violazione dell'art. 323 c.p. come novellato dal D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito dalla L. 11 settembre 2020, n. 120.


Essendo ora richiesta la violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, occorre che siano ravvisabili regole cogenti previste dalla legge e specificamente disegnate in termini completi e puntuali, non essendo sufficienti regole generali e astratte da cui non siano ricavabili regole di condotta specifiche e che comunque lascino margini di discrezionalità.


Nel caso in esame non può ravvisarsi il prescritto requisito in una norma incentrata sulla grave necessità pubblica, che non individua specifiche regole di condotta e neppure specifica l'autorità amministrativa legittimata ad emanare il decreto di requisizione, non potendosi fare ricorso all'interpretazione giurisprudenziale, non essendo peraltro pacifico il discrimine delle competenze tra Prefetto e Sindaco, fermo restando che non ci si troverebbe comunque di fronte, con riguardo alla nozione di estrema urgenza, utilizzata per ravvisare la competenza surrogatoria del Sindaco, a specifiche regole di condotta previste dalla legge.


2.2. Con il secondo motivo deduce un ulteriore profilo di violazione dell'art. 323 c.p. nella successione delle norme.


La valutazione della grave necessità pubblica o delle eccezionali ragioni di assoluta necessità ed urgenza implica un giudizio di natura discrezionale, inerente al tempo, al luogo e alle modalità di esercizio del potere, sindacabile nei casi di manifesta irragionevolezza, illogicità, arbitrarietà, travisamento dei fatti, non riconducibile all'attuale formulazione dell'art. 323 c.p..


2.3. Con il terzo motivo denuncia la violazione dell'art. 323 c.p. anche nella formulazione previgente.


Sottolinea sulla base di pronunce della Corte costituzionale che il diritto all'abitazione costituisce un bene primario, che deve essere tutelato dalla legge e al quale l'istituzione pubblica non può abdicare, al fine di creare le condizioni minime di uno Stato sociale.


In tale prospettiva non avrebbe potuto escludersi che ricorresse una grave necessità pubblica, dovendosi assicurare un'abitazione ad una famiglia con figli minori.


2.4. Con il quarto motivo denuncia vizio di motivazione.


Rileva che la Corte, in ordine ai presupposti per l'adozione del provvedimento da parte del Sindaco, aveva omesso di valutare alcune risultanze istruttorie, relative ai tempi ristretti di esecuzione dello sfratto nei confronti dei S., tali da impedire di investire tempestivamente della questione il Prefetto.


2.5. Con il quinto motivo deduce violazione di legge in relazione all'art. 521 c.p.p..


L'obbligo di astensione era stato contestato in relazione al disposto del T.U. n. 267 del 2000, art. 78 che è tuttavia riferito ad atti collegiali, mentre era stato in concreto ravvisato in ragione del carattere generale del disposto dello stesso art. 323 c.p., in tal modo essendosi prodotta un'indebita immutazione, in relazione alla previsione di legge, oggetto di contestazione.


2.6. Con il sesto motivo denuncia violazione di legge in relazione all'art. 323 c.p. per inesistenza dell'obbligo di astensione.


La Corte aveva ravvisato un interesse proprio del ricorrente, assumendo come parametro di riferimento l'immobile, mentre avrebbe dovuto aversi riguardo all'incolumità della famiglia S., rispetto alla quale il ricorrente non aveva alcun vincolo.


Peraltro l'interesse proprio non avrebbe potuto ravvisarsi in un incarico di natura professionale, dovendo invece ricorrere un interesse specifico dell'amministratore o di suoi parenti o affini.


Peraltro, nel caso di specie, mancava il requisito dell'ingiusto vantaggio o del danno ingiusto, che parimenti deve ricorrere in presenza di un obbligo di astensione.


2.7. Con il settimo motivo deduce violazione di legge in relazione all'art. 323 c.p. per inesistenza del danno o del vantaggio ingiusti.


Indebitamente la Corte aveva disatteso le deduzioni difensive in merito all'insussistenza del danno o del vantaggio, a fronte del fatto che l'immobile era indiscutibilmente detenuto da RO.RI.DA. e che dunque avrebbe dovuto tenersi conto di tale elemento, anche sulla base dell'applicazione analogica di una norma dettata in materia di requisizioni militari, prevedendosi il versamento su conto cointestato in attesa della definizione della controversia, misura tutt'altro che pretestuosa e finalizzata ad arrecare ulteriore danno alla P., essendo inoltre erroneo l'assunto della Corte in ordine alla possibilità di fissare fin dall'inizio la quota di pertinenza di RO.RI.DA., nel quadro di una scomposizione in realtà non prevista da alcuna norma e in concreto non correlabile ad alcun parametro.


2.8. Con l'ottavo motivo denuncia ulteriore profilo di mancanza di danno o di vantaggio ingiusti.


Oggetto della sottostante causa civile era anche il danno da ritardo che era stato poi stabilito dal giudice civile in favore della P. in Euro 51,00 per ciascuno dei 216 mesi di ritardo dal 16 settembre 1998, periodo comprensivo di quello nel quale vi era stata la requisizione, essendo dunque doveroso nel relativo decreto disporre la rimessa degli importi su conto cointestato.


2.9. Con il nono motivo denuncia violazione di legge in relazione alla mancanza dell'elemento psicologico.


Erano erronee le valutazioni della Corte, che aveva fondato il giudizio in merito alla sussistenza del dolo sull'immobile prescelto, sulla mancata adozione di altri provvedimenti di requisizione, sull'imposizione di una somma che costituiva una fictio, quando le finalità umanitarie avrebbero potuto giustificare l'accollo della spesa da parte dell'amministrazione.


In realtà la disposizione relativa al versamento della somma era legittima e ai fini di eventuali provvidenze avrebbe dovuto pubblicarsi un bando non rientrante tra le prerogative del Sindaco.


Inoltre non si sarebbero potuti ricavare elementi dalla scelta dell'immobile, che peraltro era vuoto e mai abitato e di cui la P. aveva rifiutato la consegna.


2.10. Con il decimo motivo denuncia vizio di motivazione e travisamento della prova.


In merito all'assunto della Corte, secondo cui il Sindaco avrebbe potuto requisire l'immobile già abitato dai S., non si era tenuto conto del fatto che nel corso della procedura di sfratto era stato ottenuto un breve differimento sulla base di un'intesa tra il proprietario e l'ufficiale giudiziario, non potendosi chiedere il differimento per procedere alla requisizione, la quale peraltro avrebbe finito per determinare una illegittima sospensione dell'esecuzione dello sfratto.


2.11. Con l'undicesimo motivo deduce vizio di motivazione e travisamento della prova in relazione all'elemento psicologico.


L'assunto della Corte secondo cui il ricorrente non aveva mai adottato provvedimenti di requisizione non teneva conto del fatto che non risultava che altri avessero mai chiesto al Sindaco di provvedere in tal senso, quando il predetto era sensibile alle istanze sociali, avendo anche fornito ausilio ad una comunità di extracomunitari, tanto che il S. aveva confermato di essersi a lui rivolto perché aveva l'idea che aiutasse tutti.


2.12. Con il dodicesimo motivo denuncia vizio di motivazione.


L'assunto del dolo persecutorio in danno della P. non teneva conto del fatto che la causa risaliva al 1997 e non si spiegava perché il ricorrente avrebbe atteso sedici anni per colpire la controparte.


2.13. Con il tredicesimo motivo sempre in merito all'elemento psicologico deduce un ulteriore profilo di vizio di motivazione e travisamento della prova.


A fronte di quanto argomentato dal Tribunale, la Corte aveva fondato la propria valutazione sull'intento del ricorrente di procurare un danno ingiusto alla controparte della causa civile, costituendo le esigenze della famiglia S. una mera occasione.


Ma era illogico sostenere che il Sindaco avesse colto al volo l'occasione propizia per arrecare danno ingiusto alla P., tanto più in assenza di ragioni di astio tra l'imputato e la persona offesa.


2.14. Con il quattordicesimo motivo denuncia un ulteriore profilo di travisamento della prova in ordine all'elemento psicologico.


Era emerso in giudizio che l'appartamento era vuoto e che la P. ne aveva rifiutato la consegna, mentre la causa civile era stata definita dal Tribunale nel settembre 2016 e il provvedimento di requisizione aveva durata di dodici mesi, essendone cessati gli effetti ben prima della sentenza del Tribunale.


Era dunque illogico sostenere che la finalità del comportamento fosse quella di arrecare un danno ingiusto alla controparte.


2.15. Con il quindicesimo motivo denuncia mancata assunzione di prova decisiva costituita dalla consulenza dell'arch. G. e dall'audizione dello stesso.


La prova era indispensabile perché la verifica del proprietario dell'immobile al momento del decreto di requisizione avrebbe suffragato la deduzione difensiva in merito alla declaratoria di non punibilità ai sensi dell'art. 49 c.p., essendo stato ritenuto dalla Corte che l'atto incriminato fosse stato emesso per arrecare un ingiusto pregiudizio alla controparte.


2.16. Con il sedicesimo motivo denuncia violazione di legge in relazione all'art. 49 c.p..


La Corte aveva rilevato che il bene oggetto di requisizione aveva formato oggetto di pignoramento in favore di un creditore di RO.RI.DA. in conseguenza di una scorretta intestazione catastale e la stessa P. aveva sostenuto che l'appartamento era ancora intestato alla società.


Inoltre il bene, esauritasi la procedura esecutiva, era stato restituito alla società.


Si trattava di elementi che suffragavano la causa di non punibilità di cui all'art. 49 c.p., non potendosi parlare di immobile di proprietà della P., la quale peraltro aveva omesso dopo la sua opposizione di coltivare la relativa azione, in conseguenza della quale il giudice dell'esecuzione avrebbe potuto disporre la restituzione in suo favore.


2.17. Con il diciassettesimo motivo denuncia vizio di motivazione in ordine all'esimente dello stato di necessità.


Gli argomenti sviluppati dalla Corte costituivano uno stravolgimento delle risultanze probatorie, dovendosi aver riguardo alla richiesta di aiuto formulata da S. per una diversa soluzione abitativa, nel momento della sottoposizione a sfratto: in quel momento vi era l'assoluta necessità di prevenire un grave rischio per la persona, altrimenti inevitabile, essendo stato lo sfratto rinviato solo a seguito dell'impegno al rinvenimento di un altro immobile.


Era inconferente che la struttura necessitasse di interventi di completamento, dovendosi aver riguardo alla situazione che aveva generato il rischio.


2.18. Con il diciottesimo motivo denuncia violazione di legge in relazione all'art. 54 c.p..


Indebitamente la Corte aveva escluso la ravvisabilità dell'esimente, a fronte di un consolidato orientamento in forza del quale rientra tra le ipotesi di danno grave alla persona offesa anche la compromissione di un diritto fondamentale, come il diritto all'abitazione.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è nel suo complesso infondato.


2. I primi quattro motivi, che concernono in varia guisa il tema della configurabilità di una violazione di legge, rilevante ai fini dell'integrazione del reato di abuso di ufficio nella formulazione previgente e in quella introdotta dal D.L. 16 luglio 2020, n. 76, art. 23 convertito dalla L. 11 settembre 2020, n. 120, possono essere esaminati congiuntamente, fermo restando che trattasi di profilo comunque non dirimente, in ragione della concomitante violazione dell'obbligo di astensione in presenza di interesse proprio.


2.1. E' noto come, prima della più recente modifica, il delitto di cui all'art. 323 c.p. potesse essere integrato dalla condotta del pubblico agente che nell'esercizio delle funzioni o del pubblico servizio, in violazione di legge o di regolamento o omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi previsti, avesse procurato intenzionalmente a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arrecato ad altri un ingiusto danno.


Tale formulazione, introdotta dalla L. 16 luglio 1997, n. 234, era volta ad assicurare alla fattispecie una più definita tipicità, articolando due tipologie di condotta, qualificando una di esse in termini di violazione di norme di legge o regolamento, introducendo l'intenzionalità del dolo e configurando un evento consumativo, costituito dal vantaggio o dal danno ingiusti.


Scopo di tale modifica era anche quello di garantire in modo più efficace il riparto tra le attribuzioni del potere giudiziario e della pubblica amministrazione, scongiurando il rischio di un sindacato sull'esercizio della discrezionalità.


D'altro canto, la norma avrebbe dovuto essere inserita nel quadro della tutela costituzionale di valori di significativo rango, rappresentati dal buon andamento e dell'imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) e dal dovere di adempimento delle pubbliche funzioni con disciplina e onore (art. 54 Cost.).


Inoltre, non avrebbe potuto sottacersi che il controllo di legalità affidato alla giurisdizione penale non è destinato alla verifica della legittimità degli atti, ma a quella della illiceità dei comportamenti, quand'anche concretantisi in attività amministrativa deviata e tale da sconfinare in esiti illecitamente preordinati.


Sta di fatto che dopo la riforma del 1997 si era originariamente affermato un indirizzo interpretativo (cfr. ad esempio, Sez. 2, n. 877 del 4/12/1997, dep. 1998, Tosches, Rv. 210224), in forza del quale avrebbe dovuto reputarsi superato l'orientamento che faceva leva su principi generali, riconducibili all'art. 97 Cost. o a disposizioni di legge che li richiamavano, evocando canoni generali come quelli di trasparenza ed economicità dell'azione.


Tuttavia, al di là del riferimento formale alla fonte della norma, che non avrebbe potuto estromettere dalla sfera di operatività della fattispecie norme costituzionali ovvero, in materie soggette a disciplina pluri-piano, disposizioni che trovavano comunque fondamento nella legge o in fonti settorialmente sovraordinate, come il diritto Europeo, ove vincolante, deve sottolinearsi come la percezione del carattere generale e programmatico di affermazioni di principio, come quelle incentrate sull'imparzialità e trasparenza dell'azione amministrativa, anche quando non espresse in modo definito da specifiche discipline di settore, non avrebbe potuto impedire di individuare un valore cogente nella direttiva generale, quale regola dell'agire del pubblico agente, risultando invero paradossale che potesse dirsi non vincolante il divieto di un'azione parziale o discriminatoria.


La circostanza, che la concreta espressione di quei principi dovesse realizzarsi sulla base di valutazioni discrezionali, non impediva di individuare una precisa regola iuris nella causa attributiva di un determinato potere, tale da imporre al pubblico agente di realizzare la finalità per la quale il potere era conferito.


La combinazione tra i principi generali di imparzialità e non discriminazione e il riferimento alla causa attributiva del potere finiva per ricondurre alla violazione di una regola cogente anche lo sviamento di potere, sotteso all'improprio esercizio della discrezionalità, non in quanto si fosse realizzato un risultato giudicato inopportuno, ma in quanto si fosse ritenuto che il potere fosse stato deliberatamente utilizzato per una finalità impropria (aveva affermato Cass. Sez. VI, n. 41215 del 14/6/2001, Artibani, Rv. 253804, che il requisito della violazione di legge avrebbe potuto consistere anche nella inosservanza dell'art. 97 Cost., nella parte immediatamente precettiva che impone ad ogni pubblico funzionario, nell'esercizio delle sue funzioni, di non usare il potere che la legge gli conferisce per compiere deliberati favoritismi e procurare ingiusti vantaggi o per realizzare intenzionali vessazioni o discriminazioni e procurare ingiusti danni; analogamente Cass. Sez. VI, n. 12370 del 30/1/2013, Baccherini, Rv. 256003, aveva rilevato che il requisito della violazione di legge o di regolamento può consistere anche nella inosservanza del principio di imparzialità previsto dall'art. 111 Cost., comma 2, espressione del più generale principio previsto dall'art. 97 Cost. che impone ad ogni pubblico funzionario, e quindi anche al giudice, nell'esercizio delle sue funzioni, una vera e propria regola di comportamento quale quella di non usare il potere che la legge gli conferisce per compiere deliberati trattamenti di favore).


Tale diverso inquadramento aveva finito per trovare l'autorevole avallo delle Sezioni Unite (Sez. U. n. 155 del 29/9/2011, dep. 2012, Rossi, Rv. 251498), che avevano specificamente ritenuto rilevante, quale inosservanza di regola iuris, lo sviamento di potere, costituente violazione della causa attributiva del potere, valutato dinamicamente in funzione del perseguimento di un determinato interesse.


In particolare le Sezioni Unite avevano rilevato che si ha "violazione di legge, rilevante a norma dell'art. 323 c.p., non solo quando la condotta di un qualsiasi pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere (profilo della disciplina), ma anche quando difettino le condizioni funzionali che legittimano lo stesso esercizio del potere (profilo dell'attribuzione), ciò avendosi quando la condotta risulti volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è stato conferito".


Deve del resto rimarcarsi come ogni regola imponga una determinata condotta, la quale può essere anche soggettivamente qualificata: a rigore, può trarsi anche da un principio generale, quale quello di imparzialità e non discriminazione, una regola incentrata sul divieto di una condotta deliberatamente parziale o discriminatoria, costituente il risultato di una specifica direzione della volontà (per la rilevanza della correlazione tra artt. 54 e 97 Cost. e divieto di discriminazione, può farsi rinvio a Cass. Sez. VI, 21 febbraio 2019 n. 22871, Vezzola, Rv. 275985).


Una simile regola si pone anzi quale limite esterno alla discrezionalità, nel senso che l'esercizio di quest'ultima non può avvenire che entro i confini da essa segnati.


Sulla base di tale impostazione era stato estromesso dalla sfera di intangibilità della discrezionalità ciò che si poneva al di fuori della sfera di esercizio di un determinato potere.


Ma il riferimento alla causa attributiva del potere avrebbe potuto valutarsi in due diverse, seppur convergenti, direzioni, imponendo da un lato la verifica dei presupposti del potere e dello stesso accesso al suo esercizio, dall'altro la verifica del risultato in rapporto all'interesse sottostante.


Quel riferimento risultava così idoneo a coprire ogni ambito del concreto esercizio di un potere, come in astratto e legalmente definito.


2.2. Ma proprio a fronte di tale quadro ermeneutico, è intervenuta la recente novella di cui si è fatto cenno, in base alla quale ai fini dell'integrazione del delitto di abuso di ufficio, immutato il riferimento all'intenzionalità del dolo e all'ingiustizia dell'evento, si è dato rilievo, accanto alla violazione dell'obbligo di astensione, solo alla violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge, da cui non residuino margini di discrezionalità.


La nuova disposizione ha l'evidente finalità di restringere la sfera del sindacato penale, evitando ogni sconfinamento del controllo di legalità nella sfera della discrezionalità e, nel contempo, limitando la punibilità alla violazione di regole di condotta specifiche, tali, secondo le intenzioni, da definire con precisione l'operato del pubblico agente, in modo che non possa dirsi reale il rischio di avvio di procedimenti sulla base di presupposti incerti e indeterminati.


Al di là dell'eliminazione del riferimento a norme regolamentari, che non assume rilievo nel caso di specie (ma sul punto può farsi rinvio a Sez. 6, n. 33240 del 16/2/2021, Del Principe, non ancora massimata), è necessario in particolare considerare il tema della qualificazione della regola, che deve essere specifica e non lasciare margini di discrezionalità, dovendosi verificare in che modo tale formulazione possa concretamente incidere in senso restrittivo rispetto al precedente orientamento interpretativo e produrre se del caso effetti di parziale depenalizzazione di condotte pregresse.


Sul punto è stata già segnalata dalla giurisprudenza di legittimità (si rinvia a Sez. VI, n. 442 del 9/12/2020, dep. 2021, Garau, rv. 280296) la necessità di "regole cogenti per l'azione amministrativa, disegnate in termini completi e puntuali, con il corollario della limitazione di responsabilità penale del pubblico funzionario, qualora le regole comportamentali gli consentano di agire in un contesto di discrezionalità amministrativa, anche tecnica: intesa, questa, nel suo nucleo essenziale come autonoma scelta di merito - effettuata all'esito di una ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici e quelli privati - dell'interesse primario pubblico da perseguire in concreto".


E' stato peraltro rilevato anche che ciò vale "sempreché l'esercizio del potere discrezionale non trasmodi tuttavia in una vera e propria distorsione funzionale dai fini pubblici - c.d. sviamento di potere o violazione dei limiti esterni della discrezionalità - laddove risultino perseguiti, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, interessi oggettivamente difformi e collidenti con quelli per i quali soltanto il potere discrezionale è attribuito; oppure si sostanzi nell'alternativa modalità della condotta, rimasta penalmente rilevante, dell'inosservanza dell'obbligo di astensione in situazione di conflitto di interessi".


In tal modo al giudice penale è dunque precluso "tanto l'apprezzamento dell'inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare o subprimario quanto il sindacato del mero "cattivo uso" - la violazione dei limiti interni nelle modalità di esercizio - della discrezionalità amministrativa".


Il problema che si pone è quello di valutare il dato normativo, per cogliere la sua effettiva capacità precettiva, in rapporto alla pervasiva forza dei principi, anche di rilievo costituzionale.


In particolare, si tratta di valutare il profilo della tipicità e di verificare se e in che termini la nuova formulazione sia compatibile con il riferimento alla forza cogente di limiti esterni della discrezionalità, attraverso i quali possa darsi rilievo allo sviamento di potere


In realtà deve escludersi che possa parlarsi di discrezionalità, allorché il procedimento sia giunto ad uno stadio nel quale sono stati prefissati canoni precisi (Sez. 6, n. 8057 del 28/1/2021, Asole, rv. 280965): nel contempo ci si può domandare se possa parimenti escludersi di trovarsi al cospetto di un potere discrezionale allorché il pubblico agente abbia comunque rinunciato ad avvalersi del potere di comparazione e valutazione, in cui la discrezionalità si risolve, costituendo la pregiudiziale scelta di perseguire interessi personali null'altro che una forma di rinuncia preventiva alla discrezionalità.


E tuttavia la rilevanza della condotta dovrebbe comunque valutarsi alla luce dell'ulteriore canone costituito dall'individuazione di una "regola di condotta specifica".


Può in via generale ipotizzarsi che sia specifica una regola dal cui contenuto precettivo possa staticamente desumersi il suo contrario, cioè la sua violazione, a prescindere dall'evoluzione di un determinato iter e dal suo risultato complessivo.


Qualora una siffatta disposizione non sussista o non sia in concreto ravvisabile deve escludersi la possibilità di un apprezzamento dell'iter procedimentale, sviluppatosi sulla base di una valutazione discrezionale.


Peraltro la discrezionalità inerisce all'an, al quid, al quomodo e non è riferibile alla statica sussistenza dei presupposti per l'esercizio di un potere legalmente dato, sui quali fondare poi la relativa valutazione: non può invocarsi l'esercizio di un potere discrezionale di cui in radice non sussistano i presupposti, dovendosi in casi siffatti parlare piuttosto di violazione di una specifica regola di esclusione, cioè di una regola iuris, avente ad oggetto il divieto dell'esercizio del potere, quand'anche connotato da un contenuto discrezionale.


In tale prospettiva può valorizzarsi un'interpretazione che mutui dalla più volte richiamata sentenza delle Sezioni Unite il riferimento alla causa del potere, peraltro non in chiave dinamica in relazione all'esito, ma in chiave statica in relazione al presupposto per il suo esercizio, facendo invece salvo il merito amministrativo e dunque il concreto esercizio della discrezionalità, a fronte di un potere comunque sussistente.


In definitiva può ritenersi che l'attribuzione di un potere di azione discenda comunque da una regola specifica, dotata di un contenuto precettivo di cui può ipotizzarsi la violazione, e che al di fuori di ciò possa rilevare solo una regola di condotta rispetto alla quale possa staticamente contemplarsi quella contraria inosservante, senza necessità di valutare gli interessi sottesi e il risultato dell'azione amministrativa, a meno che quest'ultimo sia specificamente predeterminato.


Non viene in rilievo in tale quadro il diverso tema della formulazione della regola, in quanto se del caso suscettibile di un'interpretazione non univoca.


In casi siffatti la regola va comunque individuata alla luce dell'interpretazione, tanto più se consolidata e tale da assicurare un canone di condotta affidabile e generalmente condiviso.


Va del resto sottolineato come perfino nella materia penale la Corte costituzionale abbia segnalato che "l'inclusione nella formula descrittiva dell'illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti "elastici", non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice - avuto riguardo alle finalità perseguite dall'incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca - di stabilire il significato di tale elemento mediante un'operazione interpretativa non esorbitante dall'ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo" (principio ribadito da ultimo da Corte Cost. n. 141 del 2019).


Ne' può sottacersi che una regola complessa, pur formulata in termini generali, può contenere elementi specificamente selettivi, idonei a delimitarne il campo d'azione ed a porre dunque una cogente regola di esclusione, con riguardo ad una gamma di ipotesi, come quando vengano utilizzati aggettivi destinati a descrivere e restringere una nozione di carattere generale, come quella di necessità.


3. Alla luce di tale complessivo inquadramento deve ritenersi che le deduzioni difensive siano infondate.


3.1. Deve invero rilevarsi che i Giudici di merito hanno basato il proprio giudizio sulla ravvisata violazione della L. 20 marzo 1865, n. 2247, art. 7 all. e), che disciplina il potere di requisizione.


Tale norma, da leggere in correlazione con l'art. 835 c.c., fa riferimento a situazioni di grave necessità pubblica, da valutarsi evidentemente nel quadro dei principi costituzionali e dunque nella prospettiva restrittiva di assicurare il soddisfacimento delle esigenze manifestatesi con il minor aggravio possibile per i soggetti colpiti dalla misura.


La disposizione si inserisce nel quadro dell'attribuzione di poteri di intervento necessitato e urgente che non possono che essere riferibili, in assenza di specifiche disposizioni di segno diverso, ad amministrazioni statali a fini generali, pur potendosi prospettare il potere surrogatorio del Sindaco.


D'altro canto, il potere di requisizione, proprio nel quadro di una lettura costituzionalmente e convenzionalmente adeguata, non può che essere inteso come riferibile a situazioni che non possono essere risolte con mezzi di intervento ordinari, ma per la loro peculiarità, imprevedibilità e urgenza richiedono interventi straordinari a tutela di intessi collettivi, rappresentati dal riferimento alla grave necessità pubblica.


Proprio alla luce di tali considerazioni è stato richiamato dai Giudici di merito quanto affermato sul punto dal Consiglio di Stato che ha avuto modo di chiarire i limiti del potere di requisizione e che, con riguardo, alla sfera di competenza esercitabile dal Sindaco, ha rilevato che "il potere esercitato con l'ordinanza di requisizione non trova fondamento nella L. n. 142 del 1990, art. 38, comma 2, (dal titolo "Attribuzioni del sindaco nei servizi di competenza statale"), non essendosi in presenza di alcuna delle ipotesi che consentono al sindaco, quale ufficiale del Governo, di adottare provvedimenti contingibili e urgenti; il sindaco, infatti, può adottare provvedimenti di requisizione di beni privati per grave necessità pubblica - ai sensi della L. n. 2248 del 1865, art. 7 all. E - solo se sono presenti eccezionali motivi di assoluta necessità e urgenza tali da non consentire l'intervento del prefetto. Il che non si verifica, come nella fattispecie per cui è causa, se le situazioni di carenza abitativa sussistono da diverso tempo, o qualora si voglia provvedere alla sistemazione di famiglie rimaste senza tetto in conseguenza di sfratto, o quando la situazione di emergenza sia rivolta a ovviare all'inerzia, protrattasi nel tempo, della stessa amministrazione pubblica; la quale, con la requisizione di alloggi, intende invece ovviare a endemiche carenze abitative" (Cons. St., Ad pl. 30 luglio 2007, n. 10).


Va del resto osservato che principi analoghi sono stati ribaditi dalla Corte di cassazione, nella sfera della propria giurisdizione, essendosi al riguardo rilevato che "il potere di ordinanza spettante al Sindaco per l'emanazione dei provvedimenti contingibili ed urgenti a fini di pubblico interesse appartiene allo Stato, ancorché nel provvedimento siano implicati interessi locali, poiché il Sindaco agisce quale ufficiale di governo, sicché dei danni derivanti dall'esercizio di tale potere risponde lo Stato (nella specie, in conseguenza della requisizione di alloggi a favore di nuclei familiari di senzatetto per ragioni di grave necessità pubblica)" (Sez. civ. 1, n. 17715 del 6/8/2014, Rv. 632526).


Ed allora deve su tali basi rimarcarsi come sul piano sistematico ed interpretativo non sussistano incertezze in ordine alla primaria riferibilità del potere di requisizione al Prefetto, all'esercitabilità del potere solo in presenza di situazioni non ordinarie, implicanti pericolo di compromissione di interessi pubblici, peraltro non ravvisabili per il solo fatto di un unico sfratto imminente, alla configurabilità di un potere surrogatorio del Sindaco solo ove ricorra una somma urgenza, tale da precludere un tempestivo intervento prefettizio.


Non conduce a diverse conclusioni la pronuncia della Corte di cassazione invocata dal ricorrente (Sez. 6, n. 38259 del 25/9/2007, Medici, Rv. 237345), che pur soffermandosi, in un quadro operativo non identico, sul profilo dell'elemento soggettivo, ha comunque rilevato l'oggettiva illegittimità del provvedimento di requisizione adottato proprio per le ragioni fin qui illustrate.


Nel caso di specie del tutto correttamente, dunque, i Giudici di merito hanno ritenuto che il ricorrente, nella veste di Sindaco di (OMISSIS), avesse violato il richiamato art. 7, disponendo la requisizione dell'immobile di proprietà di P.S. per destinarlo a S.E. e alla famiglia di costui, nei cui confronti stava per essere eseguito uno sfratto per morosità.


In particolare, si è rilevato che, alla luce del consolidato orientamento interpretativo, non avrebbe potuto ravvisarsi una situazione di grave necessità pubblica, men che mai caratterizzata da somma urgenza, tale da legittimare l'intervento surrogatorio del Sindaco, nell'impossibilità di un tempestivo coinvolgimento del Prefetto.


3.2. Nel terzo motivo di ricorso si è replicato che in realtà si sarebbe trattato di soddisfare un interesse connesso al riconoscimento del diritto sociale all'abitazione, di cui le istituzioni devono farsi carico.


Orbene, deve rilevarsi che la Corte costituzionale ha riconosciuto il diritto all'abitazione come diritto sociale fondamentale, annoverandolo tra i diritti inviolabili di cui all'art. 2 Cost. (Corte Cost. n. 217 del 1988, n. 404 del 1988 e più di recente, n. 166 del 2008 e n. 209 del 2009), peraltro segnalando che si tratta di un diritto finanziariamente condizionato e non giungendo a delineare un contenuto minimo di tale diritto.


Nel contempo deve sottolinearsi che il diritto all'abitazione è espressamente previsto dalla Carta sociale Europea approvata dagli Stati membri del Consiglio d'Europa, soprattutto nel testo revisionato nel 1996, che prevede, nell'art. 31, che "tutte le persone hanno diritto all'abitazione" e dispone, nella seconda parte dello stesso articolo, che, per garantire l'effettivo esercizio di tale diritto, gli Stati firmatari "s'impegnano a prendere misure destinate a favorire l'accesso ad un'abitazione di livello sufficiente; a prevenire e ridurre lo status di "senza tetto" in vista di eliminarlo gradualmente, a rendere il costo dell'abitazione accessibile alle persone che non dispongono di risorse sufficienti".


Ma tutto ciò influisce sull'introduzione di politiche di inclusione, sul ricorso a discipline vincolistiche o sull'utilizzo ampio dell'edilizia residenziale pubblica, mentre non può assumere rilievo ai fini dell'adozione di misure straordinarie e urgenti, correlate ad un ambito definito dal coinvolgimento di beni e interessi pubblici, altrimenti esposti a pericolo.


Ne discende che non può invocarsi, de iure condito, il diritto sociale all'abitazione per giustificare l'improprio utilizzo del potere di requisizione al di fuori dell'ambito suo proprio.


3.3. Ma, se ciò vale a giustificare la configurabilità di una violazione di legge, con riferimento alla previgente fattispecie di cui all'art. 323 c.p., violazione che ha peraltro condotto all'annullamento del provvedimento amministrativo in sede di giurisdizione amministrativa, deve escludersi, alla luce dell'analisi in precedenza condotta, che le modifiche intervenute impongano di giungere a diverse conclusioni.


Va infatti rimarcato come nel caso di specie non venga in rilievo la verifica dell'esercizio della discrezionalità, bensì, a monte, la violazione di una precisa regola di esclusione, che inerisce all'attribuzione del potere di requisizione, regola che deve ritenersi violata per il solo fatto dell'utilizzo di quel potere al di fuori delle situazioni di grave necessità pubblica e dunque al di fuori dell'ambito applicativo risultante da una consolidata interpretazione, coinvolgente anche il riparto di competenze tra il Prefetto e il Sindaco.


Deve in altre parole ribadirsi che non può invocarsi alcun margine di discrezionalità nell'apprezzamento dei presupposti per l'esercizio del potere, ma solo al fine di stabilire se esercitarlo in concreto e di individuare l'oggetto e le modalità.


Ne' inerisce alla discrezionalità la formulazione della norma, che postula comunque una sfera operativa da determinarsi a priori.


Men che mai rileva la circostanza che l'art. 7 cit. non indichi espressamente l'autorità competente, in realtà individuabile agevolmente sul piano sistematico e alla luce di una più che consolidata interpretazione.


3.4. Nel contempo devono reputarsi inconferenti le doglianze esposte nel quarto motivo, incentrate sulla non corretta valutazione di alcune emergenze istruttorie.


Va infatti rimarcato che i Giudici di merito hanno radicalmente escluso che sussistessero i presupposti di grave necessità pubblica e nel contempo che ricorresse la somma urgenza tale da giustificare l'intervento surrogatorio del Sindaco, risultando dunque irrilevante che il ricorrente avesse agito nel lasso di tempo consentito dal differimento dello sfratto per una sola settimana, fermo restando che non è stato dato conto del fatto che comunque fosse stata avviata un'interlocuzione con il Prefetto.


4. Manifestamente infondati risultano il quinto e il sesto motivo, aventi ad oggetto il tema della violazione del dovere di astensione.


4.1. Si è già detto che la fattispecie di cui all'art. 323 c.p. non è stata modificata per quanto attiene alla violazione del dovere di astensione, la quale dunque può connotare autonomamente la condotta penalmente rilevante, a prescindere da una specifica ulteriore violazione di legge (sul punto Sez. 6, n. 7007 dell'8/1/2021, Micheli, Rv. 281158).


Nel caso di specie i Giudici di merito hanno posto a fondamento del giudizio di penale responsabilità del ricorrente anche la mancata astensione in presenza di un interesse proprio, la cui configurabilità assume dunque valore dirimente, anche a prescindere dai rilievi fin qui formulati in merito agli effetti della novella legislativa.


In concreto deve rilevarsi che, al di là del riferimento contenuto nella contestazione al D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 78, comma 2, invero non applicabile nel caso in esame, la Corte territoriale ha comunque ritenuto che dal tenore dell'imputazione fosse desumibile il dovere di astensione in presenza di un interesse proprio, poi concretamente delineato, e che tale dovere fosse direttamente ricavabile dallo stesso art. 323 c.p..


Deve in effetti escludersi che per tale via sia stata determinata un'immutazione dell'addebito, incidente sul diritto di difesa, avuto riguardo al complesso della contestazione e degli elementi concretamente risultanti dal processo e posti a sostegno dell'accusa (può in generale farsi rinvio ai principi espressi da Sez. U. n. 36551 del 15/7/2010, Carelli, Rv. 248051), tali da consentire all'imputato di esercitare pienamente il diritto di difesa in merito ai presupposti del dovere di astensione.


Costituisce d'altro canto principio consolidato, coerente con la lettera della norma e non in contrasto con la ratio della disposizione, volta ad assicurare l'imparzialità del pubblico agente, quello secondo cui lo stesso art. 323 c.p. costituisce fonte autonoma del dovere di astensione, anche a prescindere da specifiche discipline di settore, che contemplino quell'obbligo, le quali assumono rilievo aggiuntivo (Sez. VI, n. 7992 del 19 ottobre 2004, dep. 2005, Evangelista, Rv. 231477; Sez. VI, n. 14457 del 15 marzo 2013, De Martin Topranin, Rv. 255324).


4.2. Quanto alla concreta individuazione dell'obbligo di astensione, contrariamente all'assunto difensivo, la Corte, ribadendo quanto ritenuto dal primo Giudice, ha correttamente dato rilievo alla pendenza della causa civile, avente ad oggetto proprio l'immobile di cui sarebbe stata poi disposta la requisizione, proposta da P.S. nei confronti di RO.RI.DA. s.r.l., di cui il ricorrente aveva dall'inizio assunto il patrocinio, e ha osservato come la ragione dell'incompatibilità non riguardasse la tutela della famiglia S., ma la scelta di requisire l'immobile, cui era correlato un individuabile interesse riconducibile non solo alla società, antagonista della P., ma anche al ricorrente, legato alla società dall'esercizio del mandato professionale, tale da determinare una convergenza di interessi per le sorti del bene e dunque una situazione di conflitto con le esigenze di imparzialità a presidio delle quali il dovere di astensione è stabilito.


Deve del resto aggiungersi che l'interesse rilevante deve riguardare il pubblico agente o i suoi prossimi congiunti e deve essere riconoscibile prima dell'atto, ben potendosi peraltro aver riguardo ad interessi di qualsiasi natura e dunque a quello legato al proficuo esito di una controversia, nella quale il soggetto svolga un mandato professionale (può farsi rinvio sulla natura dell'interesse a Sez. 6, n. 1316 del 19/11/1997, dep. 1998, Cappabianca, Rv. 210843).


5. Il settimo e l'ottavo motivo, riguardanti l'evento di danno e vantaggio ingiusto, sono inammissibili, perché aspecifici, in quanto non si confrontano con la motivazione della sentenza impugnata.


5.1. Va in generale osservato che il delitto di abuso di ufficio, dopo le modifiche introdotte con la L. n. 234 del 1997, richiede un evento consumativo, costituito dal danno altrui ingiusto o dal vantaggio patrimoniale ingiusto, proprio o altrui.


Per questa parte la norma non è stata in alcun modo interessata dalla recente novella legislativa.


In concreto, dunque, occorre che alla condotta, di per sé connotata dalla violazione di norme o del dovere di astensione, si correli sul piano eziologico quel tipo di evento, qualificato dalla c.d. doppia ingiustizia.


In particolare è necessario che l'accrescimento della sfera patrimoniale, in cui si concreta il vantaggio, o la lesione di situazioni soggettive, non necessariamente di contenuto patrimoniale, in cui si concreta il danno, siano autonomamente qualificabili come non spettanti in base al diritto oggettivo o contra ius, non essendo comunque richiesto che l'ingiustizia discenda da violazioni di norme o principi diverse da quelle che già qualificano la condotta inosservante.


L'ingiustizia dell'evento di danno o vantaggio deve essere specificamente valutata anche nei casi di violazione dell'obbligo di astensione, non essendo tale violazione ex se idonea ad integrare il reato in tutti i suoi elementi costitutivi (sul punto Sez. VI, n. 12075 del 6/2/2020 n. 12075, Stefanelli, rv. 278723; cfr. anche Sez. VI, n. 26429 del 14/4/2021, Ronconi, Rv. 281582, in cui in relazione alla condotta di un pubblico ministero si segnala che la violazione dell'obbligo di astensione e il sotteso difetto di imparzialità assumono rilievo in quanto si traducano in iniziative pretestuose, strumentali al perseguimento di finalità persecutorie).


5.2. Con riguardo al caso di specie il ricorrente ha reiterato deduzioni incentrate sul fatto che l'immobile non era detenuto da P.S., che anzi ne aveva rifiutato a suo tempo la consegna, e che l'indennità stabilita nel provvedimento di requisizione e l'obbligo di versamento della stessa su conto cointestato alle parti non avrebbe potuto dirsi pretestuosa o tale da arrecare ingiusto danno alla P..


Inoltre si è fatto riferimento alla circostanza che in sede di decisione della controversia civile, il Giudice, accogliendo la domanda della P., aveva in suo favore liquidato il danno da ritardo, computato anche per il periodo nel quale era stata eseguita la requisizione, essendo nel contempo impossibile procedere ad una scomposizione dell'indennità, in assenza di validi criteri.


5.3. In realtà tale impostazione difensiva risulta aspecifica, in quanto, diversamente da quanto oggetto delle richiamate deduzioni, la Corte ha fondato il proprio giudizio su un profilo diverso, avendo invero rilevato che il provvedimento di requisizione aveva avuto l'effetto di rendere inattuabili gli interventi richiesti da parte attrice, di fatto liberando la società appaltatrice dall'obbligo di provvedere al completamento dei lavori, almeno per il tempo in cui la stessa veniva privata della disponibilità dell'immobile, con corrispondente danno per la P., di cui erano frustrate le legittime aspettative di ricevere in consegna il bene, debitamente completato, a prescindere dalla mera attesa della decisione finale.


Con tale quadro ricostruttivo il ricorrente ha omesso di confrontarsi diffondendosi su un tema diverso, parimenti oggetto di esame da parte della Corte, ma in concreto privo di rilievo decisivo, diversamente da quello sopra indicato.


La circostanza che sia stata dunque rappresentata una situazione di danno e di corrispondente vantaggio, immanente al provvedimento di requisizione e alla sua esecuzione, e che tale situazione sia stata debitamente correlata a tale provvedimento di per sé illegittimo, ha consentito alla Corte di ravvisare un evento consumativo, avente la connotazione richiesta dall'art. 323 c.p., a prescindere dall'ulteriore profilo riguardante l'indennità.


5.4. A questo riguardo risulta inconferente che la P. non si trovasse nella diretta disponibilità del bene, giacché ella al contrario auspicava di poter disporre rapidamente dell'immobile, completato a regola d'arte, dovendosi inoltre rilevare che la causa civile non aveva ad oggetto la proprietà ma solo l'inadempimento dell'appaltatrice e che la perdurante detenzione da parte della società avrebbe dovuto dirsi di carattere interinale, in funzione dell'esecuzione corretta delle prestazioni dedotte.


Parimenti inconferenti risultano, ai fini dell'individuazione del danno e del vantaggio e alla luce di quanto osservato, il riferimento per analogia a disposizioni dettate in tema di requisizione militare e il fatto che fosse stato riconosciuto ex post alla P. un danno da ritardo, con riguardo ad un periodo di tempo includente anche quello nel quale era stata disposta ed eseguita la requisizione.


6. I motivi dal nono al quattordicesimo, riguardanti, in varia guisa, il tema dell'elemento psicologico, risultano nel loro complesso infondati.


6.1. Deve premettersi che sul punto la norma è rimasta immutata e richiede ai fini della configurabilità del reato il dolo intenzionale: è stato al riguardo chiarito che "l'elemento soggettivo è integrato dalla coscienza e volontà della condotta e dall'intenzionalità dell'evento, nel senso che il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto devono costituire l'obiettivo perseguito e non solo genericamente incluso nella sfera di volontà dell'agente" (Sez. 6, n. 12974 del 8/1/2020, Zanola, Rv. 279264).


D'altro canto, è stato anche sottolineato che l'intenzionalità del dolo non è esclusa dalla compresenza di una finalità pubblicistica nella condotta del pubblico ufficiale, dovendosi ritenere necessario, perché venga meno la configurabilità dell'elemento soggettivo, che il perseguimento del pubblico interesse costituisca l'obiettivo principale dell'agente, con conseguente degradazione del dolo di danno o di vantaggio da dolo di tipo intenzionale a mero dolo diretto od eventuale (Sez. 6, n. 51127 del 17/9/2019, Camastra, Rv. 278938; Sez. 5, n. 37517 del 2/10/2020, Danze', Rv. 280108).


6.2. Ciò posto, si osserva che la Corte territoriale, nel quadro di una non illogica valutazione, ha a tal fine valorizzato una pluralità di elementi, di cui è stata individuata l'inequivoca valenza sintomatica.


In particolare ha considerato l'evidente illegittimità del provvedimento, emesso con riferimento ad una situazione non compatibile con l'esercizio del potere di requisizione e in assenza di qualsivoglia interlocuzione con il Prefetto, se del caso primariamente compente; ha inoltre sottolineato il conflitto di interessi nel quale versava il ricorrente in ragione dell'incarico professionale assunto nella concomitante causa civile, tale da disvelare il surrettizio intendimento perseguito; ha poi considerato il fatto che l'immobile requisito necessitava a sua volta di interventi volti a consentirne l'utilizzabilità, che erano stati eseguiti dallo stesso S., elemento tale da svilire la circostanza che si trattasse di immobile vuoto e non utilizzato; ha ancora sottolineato la sostanziale pretestuosità della previsione del versamento dell'indennità su conto cointestato - quando nella causa civile non veniva in rilievo la proprietà del bene ma l'adempimento del contratto di appalto e non si trattava dunque di stabilire all'esito di essa l'avente diritto - e della fissazione di un importo superiore a quello che S., soggetto a sfratto per morosità, aveva omesso di pagare a titolo di canone di locazione per l'appartamento precedentemente abitato.


Inoltre, la Corte ha anche posto in evidenza che in precedenza il ricorrente non aveva mai adottato misure analoghe, non potendo dunque invocare consolidate prassi al di fuori dell'isolato caso in esame, connotato dal rilevato conflitto di interessi.


6.3. Il frazionamento dei temi difensivi in distinti motivi di ricorso non preclude la loro valutazione unitaria, da porre a confronto con le argomentate ragioni dei Giudici di merito.


L'assunto del perseguimento di finalità umanitarie si risolve nell'assertiva riproposizione di una discolpa cui sono stati contrapposti elementi desunti dalla giuridica insostenibilità del provvedimento adottato e dalla correlata situazione di conflitto di interessi nella quale il ricorrente versava, in assenza di qualsivoglia iniziativa di diverso tipo, risultando in tale prospettiva coerente anche il riferimento della Corte proprio all'abitazione dalla quale la famiglia del S. stava per essere sfrattata.


D'altro canto, la mancanza di precedenti analoghi costituisce un valido parametro di valutazione dell'iniziativa assunta nel caso di specie, a prescindere dalla disponibilità in generale palesata dal ricorrente a fornire l'ausilio richiestogli.


Inconferente risulta la risalenza della causa civile, essendo stato al contrario sottolineato come la stessa fosse ormai prossima alla decisione, essendo stata da poco depositata la consulenza tecnica che risultava largamente favorevole alle ragioni di parte attrice.


Non idoneo a disarticolare la motivazione della sentenza impugnata risulta l'assunto che il ricorrente non nutrisse ragioni di astio verso la P., dovendosi reputare tutt'altro che illogica sul punto l'osservazione della Corte secondo cui il ricorrente aveva colto un'occasione favorevole per realizzare un risultato improprio, tale da arrecare un danno alla P. e un corrispondente vantaggio alla parte da lui patrocinata.


Del tutto infondato deve reputarsi altresì il rilievo difensivo incentrato sul fatto che la P. avesse a suo tempo rifiutato la consegna e che la causa civile fosse stata definita solo nel 2016, quando gli effetti della requisizione, avente durata di mesi dodici, erano comunque cessati: vanno invero richiamati sul punto i profili di danno e vantaggio individuati dalla Corte, con i quali il ricorrente non si è specificamente misurato, al di là delle disposizioni correlate all'entità e al pagamento dell'indennità, peraltro in concreto mai versata.


7. Generico e comunque manifestamente infondato risulta il quindicesimo motivo, riguardante la mancata integrazione probatoria.


La Corte ha in realtà ampiamente spiegato come nel caso di specie non potesse farsi questione di proprietà dell'immobile, risultante nitidamente dal contratto stipulato dalle parti, connotato da riserva di proprietà e appalto per la costruzione di immobile, senza che sul punto siano state formulate mirate e specifiche censure.


Irrilevante risulta dunque l'audizione dell'architetto G. e l'acquisizione del suo elaborato, volto a far luce su dati catastali che avevano propiziato l'originario pignoramento in danno della società convenuta da parte di un terzo creditore, il quale peraltro aveva successivamente rinunciato al pignoramento e omesso di promuovere la causa di merito a seguito dell'opposizione di P.S..


8. Manifestamente infondato risulta anche il sedicesimo motivo, avente ad oggetto la configurabilità della causa di non punibilità di cui all'art. 49 c.p..


Deve ribadirsi che non assume rilievo ai fini del decidere la mera circostanza che l'immobile fosse detenuto dalla società RO.RI.DA. s.r.l. a seguito del rifiuto di P.S. di prenderlo in consegna, motivato dal riscontro dell'inadeguatezza dell'opera realizzata rispetto alle pattuizioni contrattuali.


Per contro non è concretamente in discussione la proprietà, tema non devoluto al giudice civile, essendo altresì irrilevante che a seguito dell'estinzione della causa connessa al pignoramento il bene fosse stato restituito alla società nei cui confronti era stato pignorato.


Deve ancora aggiungersi che, a fronte dei profili di danno e di vantaggio, derivanti dall'illegittimo provvedimento di requisizione, come sopra ricostruiti, non può parlarsi né di inidoneità e inoffensività dell'azione né, men che mai, di inesistenza dell'oggetto.


9. Inammissibili risultano infine il diciassettesimo e il diciottesimo motivo, concernenti l'invocata esimente dello stato di necessità.


Gli stessi si fondano sull'assertiva riproposizione della deduzione difensiva e non si confrontano con le ragioni in forza delle quali la Corte territoriale ha correttamente escluso la configurabilità dell'esimente.


Ed invero non è in discussione il fatto che anche la compromissione del diritto all'abitazione possa costituire danno grave alla persona, ma il fatto che costituisse soluzione necessita un provvedimento di per sé privo di base legale, destinato a produrre effetti per lungo tempo, non commisurati alla concreta e non altrimenti evitabile necessità e al suo divenire, come, a contrario, può desumersi da quanto affermato in tema di occupazione abusiva di immobili (Sez. 2, n. 10694 del 3/10/2019, dep. 2020, Tortorici, Rv. 278520).


10. In conclusione, il ricorso deve essere dunque rigettato, dovendosi inoltre escludere che sia maturata la prescrizione del reato, in quanto al termine massimo deve aggiungersi un periodo di sospensione pari a mesi cinque e giorni otto.


Risulta in tale prospettiva infondata la deduzione difensiva formulata in udienza, secondo cui la sospensione non opererebbe, in quanto in concomitanza con l'astensione dalle udienze si era registrata la mancanza dei testimoni.


Deve al contrario osservarsi che l'assenza dei testi risulta in casi siffatti irrilevante, atteso che l'udienza, in ragione dell'assenza del difensore, si arresta ancor prima di verificare la presenza o meno dei testimoni, arresto che impedisce il possibile esercizio da parte del giudice dei suoi ordinari poteri processuali, compreso quello di disporre l'accompagnamento coattivo dei testi assenti ex art. 133 c.p.p. (Sez. 2, n. 5050 del 19/1/2021, De Gregorio, Rv. 280564; Sez. 3, n. 6362 del 25/10/2018, dep. 2019, C., Rv. 275834; principio ribadito da Sez. 6, n. 27391 del 1/4/2021, Siciliano, non massimata sul punto).


Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.


Il predetto deve essere inoltre condannato a rifondere alla parte civile P.S. le spese di rappresentanza e difesa del presente grado di giudizio, liquidate come da dispositivo.


P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalla parte civile P.S., che liquida in complessivi Euro 3.510,00, oltre accessori di legge.


Così deciso in Roma, il 17 agosto 2021.


Depositato in Cancelleria il 22 novembre 2021

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