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Diffamazione: le parole “amante” e “rissa” non assumono carattere denigratorio


Corte di Cassazione

La massima

In tema di diffamazione a mezzo stampa, il requisito della continenza, dovendo essere contestualizzato, può risultare sussistente anche nel caso in cui siano utilizzate espressioni che, per quanto più aggressive e disinvolte di quelle ammesse nel passato, risultino ormai accettate dalla maggioranza dei cittadini, per effetto del mutamento della sensibilità e della coscienza sociale. (In applicazione del principio, la Corte ha escluso la rilevanza diffamatoria delle parole "amante" e "rissa", utilizzate nel titolo e nel corpo di un articolo di stampa, assumendo che la prima, per quanto ammiccante, poteva riferirsi anche a un rapporto di fidanzamento, come del resto chiarito nel corpo dell'articolo; mentre la seconda non necessariamente evoca il concetto di violenza, potendo anche intendersi nel significato più moderno di "diverbio molto acceso" - Cassazione penale sez. V - 27/06/2019, n. 39059).


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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO

1.Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Milano confermava la pronuncia del Tribunale di quella città, che aveva assolto P.E. dal reato di diffamazione a mezzo stampa in danno di F.C. e I.V., e B.M., quale direttore del giornale (OMISSIS), per omesso controllo sugli articoli redatti dal predetto giornalista.


2.Secondo l'Accusa, P.E., quale giornalista dell'edizione online del quotidiano (OMISSIS) pubblicava anche sul proprio profilo facebook il (OMISSIS), un articolo dal titolo "(OMISSIS)" offendendo l'onore e il decoro della giornalista F.C. e di I.V., compagno della donna, definendolo amante della stessa, così facendo apparire una relazione immorale tra i due, e in altro articolo apparso lo stesso giorno sul quotidiano (OMISSIS),


asserendo che vi fosse stata una rissa tra lo I. e il caporedattore della RAI, mentre in realtà vi era stato solo in diverbio, così facendo apparire I. come persona violenta; inoltre, nella redazione online del medesimo quotidiano in data (OMISSIS), con l'articolo dal titolo "(OMISSIS)" offendeva l'onore e il decoro di F.C., facendo apparire come simulata la malattia della donna, circostanza, peraltro, non vera poichè la F. era stata assente dal lavoro per ferie.


3. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso le parti civili, con il ministero del medesimo patrono, il quale ne ha chiesto l'annullamento declinando quattro motivi.


3.1. Con il primi due motivi denuncia erronea applicazione della legge penale e correlato vizio della motivazione, oltre che travisamento, con riferimento a tutti gli articoli oggetto di denuncia, sia nella versione online che in quella cartacea, oltre che in quella apparsa su profilo facebook del P.. Nella realtà, si era verificata una animata discussione, presso gli studi televisivi della Rai in cui prestava servizio la giornalista F.C., tra lo I., fidanzato della F., e il caporedattore della testata giornalistica, insorta a seguito della richiesta di quest'ultimo, al primo, di non accedere - per accompagnare la fidanzata al lavoro - presso i locali della RAI, per ragioni di sicurezza - mai trasmodata in aggressioni fisiche, sicchè la parola "rissa" usata per descrivere il fatto, e l'aggettivazione della vicenda come "surreale" - riferita all'intervento dei carabinieri chiamati dalla stessa F. - avevano indotto nel lettore la falsa rappresentazione di un aggressione fisica alla quale aveva posto fine solo l'intervento delle forze dell'Ordine. Lamenta, altresì, che il giornalista avesse utilizzato impropriamente il termine "amante", con riferimento allo I., descrivendo così una relazione extraconiugale e segreta, laddove, invece, trattavasi di relazione ufficiale, in tal modo ledendo l'onore di due stimati professionisti. A fronte di tali evidenze, la Corte territoriale aveva finito per adottare, con la pronuncia assolutoria, una motivazione lacunosa e in aperto contrasto con il compendio probatorio. Analoghe doglianze attingono anche l'articolo riferito alla partecipazione della giornalista alla trasmissione televisiva "(OMISSIS)", lamentando il difensore ricorrente che la F. proveniva da un periodo di assenza dal lavoro per ferie, laddove nell'articolo si lasciava intravedere una malattia fittizia, vicenda illogicamente spiegata dalla Corte di merito, conformemente al giudice di prime cure, ritenendo che l'articolo in questione avesse potuto, al contrario, ingenerare nel lettore l'apprezzamento professionale per la giornalista, rientrata dalla malattia proprio per seguire un importante evento.


3.2. Con il terzo motivo denuncia vizio della motivazione nella parte in cui la sentenza gravata prefigura un interesse pubblico della notizia, laddove trattasi di vicenda strettamente privata, relativa a una discussione personale, rispetto alla quale alcun rilievo può essere dato al fatto che fosse coinvolta una giornalista.


3.3. Con il quarto motivo deduce erronea applicazione della legge penale e carenza della motivazione con riferimento alla responsabilità del direttore della testata, palesemente sussistenza in carenza del requisito della verità della notizia, per l'omesso controllo sull'articolo pubblicato in formato cartaceo. Sollecita altresì interpretazione estensiva in termini di esigibilità del controllo in concreto anche in rodine alla versione online degli articoli in questione.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Propongono ricorso le parti civili avverso sentenza assolutoria con la formula "perchè il fatto non sussiste ".


1.1.Costituisce jus receptum nella giurisprudenza di questa Corte, dopo l'arresto delle Sezioni Unite Negri, che la parte civile è legittimata a proporre appello avverso la sentenza di primo grado di assoluzione dell'imputato perchè il fatto non sussiste, al fine di chiedere al giudice dell'impugnazione di affermare la responsabilità dell'imputato, sia pure incidentalmente, e ai soli fini dell'accoglimento della domanda di risarcimento del danno, ancorchè in mancanza di precedente statuizione sul punto, ferma restando, nel caso di appello della sola parte civile, l'intangibilità delle statuizioni penali (Sez. U. n. 25083 del 2006, Negri, Rv. 233918; Sez. 3 n. 3083 del 18/10/2016, Rv. 268894). Il giudice d'appello, adito ai sensi dell'art. 576 c.p.p., non ha il potere di riformare la sentenza impugnata in ordine alle statuizioni penali, mentre è ammissibile l'impugnazione della parte civile avverso la sentenza di assoluzione applicandosi ai sensi dell'art. 576 c.p.p., che conferisce al giudice penale dell'impugnazione il potere di decidere sulla domanda di risarcimento, ancorchè in mancanza di una precedente statuizione sul punto; detta previsione introduce una deroga all'art. 538 c.p.p., legittimando la parte civile, non soltanto a proporre impugnazione contro la sentenza di proscioglimento, ma anche a chiedere al giudice dell'impugnazione, ai fini dell'accoglimento della propria domanda di risarcimento, di affermare, sia pure incidentalmente, la responsabilità dell'imputato ai soli effetti civili, statuendo in modo difforme, rispetto al precedente giudizio, sul medesimo fatto oggetto dell'imputazione e sulla sua attribuzione al soggetto prosciolto (Sez. 5, n. 3670 del 27/10/2010, dep. 2011, Pace, Rv. 249698; conf. Sez. 3 n. 3083 del 18/10/2016, Rv. 268894).


2. Tanto premesso in rito, nel merito i ricorsi sono inammissibili. Quello di I. perchè carente di interesse, e il ricorso di F. perchè manifestamente infondato oltre che riversato in fatto, in quanto i vizi di motivazione evidenziati si risolvono in inammissibili richieste, al giudice di legittimità, di effettuare una nuova valutazione del risultato della prova e di sostituirla a quella effettuata dal giudice di merito, valutazione, quest'ultima, che, invece, si sottrae al sindacato di legittimità se condotta nel rispetto dei canoni della logica e della completezza. I rilievi formulati sono la riedizione dei motivi di appello e risultano, comunque, integrare, come sopra detto, una richiesta di diversa valutazione del materiale probatorio, senza invece rappresentare, come necessario, una puntuale e specifica censura in diritto alle argomentazioni addotte dai giudici del merito. Come affermato già da Sez. U. n. 6402/1997, Dessimone, Rv. 207944, esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una rilettura degli elementi di fatto, posti a sostegno della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice di merito. Deve, infatti, tuttora escludersi la possibilità, per il giudice di legittimità, di procedere a una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o all'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Sez. 6, sent. n. 27429 del 04/07/2006, dep. 01/08/2006, Lobriglio, Rv. 234559; Sez. 6, sent. n. 35964 del 28/09/2006, dep. 26/10/2006, Foschini e altro, Rv. 234622; Sez. 3, sent. n. 39729 del 18/06/2009, dep. 12/10/2009, Belluccia e altro, Rv. 244623; Sez. 5, sent. n. 39048 del 25/09/2007, dep. 23/10/2007, Casavola e altri, Rv. 238215; da ultimo, Sez. 6, sent. n. 5146 del 16/01/2014, dep. 03/02/2014, Del Gaudio e altri, Rv. 258774).


3. Giova ricordare che il bene giuridico tutelato dall'art. 595 c.p. è l'onore nel suo riflesso in termini di valutazione sociale (la reputazione intesa quale patrimonio di stima, di fiducia, di credito accumulato dal singolo nella società e, in particolare, nell'ambiente in cui quotidianamente vive e opera) di ciascuna persona, e l'evento è costituito dalla comunicazione e dalla correlata percezione o percepibilità, da parte di almeno due consociati, di un segno (parola, disegno) lesivo, che sia diretto, non in astratto, ma concretamente, a incidere sulla reputazione di uno specifico cittadino (Sez. 5 n. 5654 del 19/10/2012). Si tratta di evento, non fisico, ma, psicologico, consistente nella percezione sensoriale e intellettiva, da parte di terzi, dell'espressione offensiva (Cass. Sez. 5 n. 47175 del 04/07/2013, Rv. 257704).


3.1. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, in riferimento ai requisiti caratterizzanti il necessario bilanciamento dei valori in conflitto, l'esercizio del diritto di cronaca giornalistica rende giuridicamente irrilevante la lesione della reputazione quando concorrono tre requisiti: a) la rilevanza sociale della notizia, b) la verità dei fatti divulgati e c) la continenza dell'espressione.


4. Nel caso in scrutinio, i ricorrenti pongono in discussione già la stessa rilevanza sociale della notizia, senza, tuttavia, confrontarsi con quanto osservato dalla Corte territoriale che ha, invece, richiamato la stessa ricostruzione dei fatti fornita dalla F. per osservare come la vicenda fosse, in realtà, connessa, al di là degli aspetti privati, dai quali era poi esorbitata, alla organizzazione del lavoro nella redazione del più diffuso telegiornale italiano, problematica che, di fatto, era stata all'origine della discussione insorta, negli studi televisivi della Rai, tra il caporedattore S. e I., durante la quale erano sati prospettati anche motivi di sicurezza, che sconsigliavano la presenza dello I. in quei luoghi. GIUR.


5. Ritiene, poi, il Collegio, che correttamente i giudici di merito hanno ritenuto, con plausibile motivazione, per questo non censurabile in questa sede, che le espressioni incriminate non risultino, oggettivamente, pregiudizievoli della reputazione delle persone offese, in quanto non dirette a produrre discredito professionale o nella vita di relazione sociale, così come ritenuto.


5.1. In particolare, quanto alle espressioni "amante" e "rissa", utilizzate nell'articolo, la Corte territoriale ha richiamato, in modo pertinente, l'indirizzo affermatosi nella giurisprudenza di legittimità che, in plurime pronunce, ha osservato che, al fine dell'accertamento dell'idoneità dell'espressione utilizzata a ledere il bene protetto dalla fattispecie incriminatrice di cui all'art. 594 c.p., occorre fare riferimento ad un criterio di media convenzionale in rapporto alle personalità dell'offeso e dell'offensore nonchè al contesto nel quale detta espressione sia pronunciata (Sez. 5, n. 32907 del 30/06/2011, Di Coste, Rv. 250941); in tema di tutela penale dell'onore, cioè, la valenza offensiva di una determinata espressione, per essere esclusa o comunque scriminata con il riconoscimento di una causa di non punibilità, deve essere riferita al contesto nel quale è stata pronunciata (Sez. 5, n. 50969 del 16/09/2014 Rv. 261310; conf. Sez. 5, n. 17672 del 08/01/2010 Rv. 247218). Nel contempo è necessario considerare che l'uso di un linguaggio meno corretto, più aggressivo e disinvolto di quello in uso in precedenza è accettato o sopportato dalla maggioranza dei cittadini determinando un mutamento della sensibilità e della coscienza sociale. (Sez. 5, n. 39454 del 03/06/2005, Braconi, Rv. 232339; Sez. 5, n. 21264 del 19/02/2010, Saroli, Rv. 247473; Sez. 5, n. 32907 del 30/06/2011, Di Coste, Rv. 250941; Sez. 5, n. 15710 del 24.1.2014)). Compito del giudice è, dunque, di verificare se il negativo giudizio di valore espresso possa essere, in qualche modo, giustificabile nell'ambito di un contesto critico e funzionale all'argomentazione, così da escludere la invettiva personale volta ad aggredire personalmente il destinatario (Sez. 5 n. 31669 del 14/04/2015, Rv. 264442), con espressioni inutilmente umilianti e gravemente infamanti (Sez. 5 n. 15060 del 23/02/2011, Rv. 250174). In effetti, il significato delle parole - trovando una legittimazione di tipo convenzionale - dipende dall'uso che se ne fa e dal contesto comunicativo in cui esse si inseriscono, ed è innegabile che l'evoluzione del costume, nonchè la progressiva semplificazione del lessico adoperato dai consociati nei rapporti interpersonali - anche come precipitato di una sempre maggiore accentuazione di espressioni popolari e dialettali, come forme di realismo, nelle arti contemporanee (si pensi al cinema) e tradizionali (quali ad esempio la letteratura o il teatro), (Sez. 5, n. 51093 del 19/09/2014 Rv. 261421) - ha portato, per alcune parole o espressioni, a un diffuso utilizzo secondo significati formalmente impropri, anche nell'ambito dei settori della società più evoluti culturalmente. (Sez. 5, n. 19223 del 14/12/2012 - dep. 03/05/2013, Fracasso, Rv. 256240; Sez. 5, n. 50969 del 16/09/2014, Rv. 261310). Tale china culturale - enfatizzata particolarmente dallo strumento televisivo, che costituisce spesso un veicolo di diffusione di pratiche linguistiche meno ortodosse, inclini alla banalizzazione del linguaggio - ha determinato un mutamento della sensibilità e della coscienza sociale e una innegabile corruzione del significato letterale, rectius, tradizionale riconosciuto alle parole, o comunque ad alcune di esse, legittimando, nell'attualità, accenti semantici, un tempo certamente giudicati inappropriati, oggi, invece, ammessi in ragione di un mutamento della sensibilità e della coscienza sociale che ne ha attenuato fortemente la portata offensiva, con riferimento alla sensibilità dell'uomo medio. (Sez. 5, n. 19223 del 14/12/2012 - dep. 03/05/2013, Fracasso, Rv. 256240).


In tale contesto ermeneutico, i giudici di merito hanno osservato che la parola "amante" era stata utilizzata, nel (solo) titolo dell'articolo, mentre nel corpo dello stesso era stata chiaramente indicata la natura del rapporto intercorrente tra F. e I., definiti come fidanzati, sicchè, per un verso, nessuna confusione era potuta insorgere nel lettore medio; d'altro canto, non poteva esserne derivato discredito, essendosi attribuito a quella parola una connotazione greve ma non offensiva, anche in considerazione della poliedricità semantica della parola in questione.


5.2. Analogamente, in ordine all'espressione "rissa", con la quale era stata descritta, in sintesi, la discussione, invece, solo verbale, tra i due, si è fatto riferimento al suo significato più moderno di "diverbio molto acceso", pertanto pienamente calzante rispetto all'episodio denunciato, che aveva indotto, d'altro canto, la stessa F. a chiedere l'intervento delle forze dell'ordine, e il Tribunale civile di Roma a negare il significato aggressivo e violento dedotto dai ricorrenti a sostegno della valenza diffamatoria.


L'insussistenza di un effettivo portato offensivo nelle parole usate nell'articolo, e la ricostruzione sostanzialmente fedele, pur incline all'ammiccamento, di un fatto clamoroso occorso all'interno del più noto studio televisivo nazionale, che aveva portato finanche all'intervento delle forze dell'ordine, hanno, dunque, correttamente indotto i giudici di merito ad escludere il disvalore penale del fatto.


5.3. Altrettanto infondate le doglianze difensive con riferimento all'ulteriore articolo nel quale si fa riferimento alla partecipazione della F. alla nota trasmissione televisiva "(OMISSIS)", trovando la interpretazione dei fatti data dai giudici di merito piena legittimazione nella lettura dell'articolo e nelle parole in esso utilizzate, nonchè negli accertamenti giudiziali che hanno confermato il periodo di assenza dal lavoro per malattia della giornalista.


6. Non è, dunque, ravvisabile la dedotta contraddittorietà nè la sentenza impugnata è affetta da illogicità manifesta, atteso che la mancanza, l'illogicità e la contraddittorietà della motivazione, come vizi denunciabili in sede di legittimità, devono risultare di spessore tale da risultare percepibili ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento senza vizi giuridici (in tal senso, conservano validità, e meritano di essere tuttora condivisi, i principi affermati da questa Corte Suprema, Sez. U, sent. n. 24 del 24/11/1999, dep. 16/12/1999, Spina, Rv. 214794; Sez. U, sent. n. 12 del 31/05/2000, dep. 23/06/2000, Jakani, Rv. 216260; Sez. U,sent. n. 47289 del 24/09/2003, dep. 10/12/2003, Petrella, Rv. 226074).


6.1. Essendo pienamente conforme alle regulae juris stabilite in materia e ai canoni della logica il ragionamento posto a fondamento del giudizio di merito che non ha ritenuto sussumibile il fatto esaminato nella fattispecie astratta di cui all'art. 595 c.p., i motivi di ricorso risultano manifestamente infondati.


7. Alla declaratoria di inammissibilità segue per legge (art. 616 c.p.p.) la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè, trattandosi di causa di inammissibilità determinata da profili di colpa emergenti dal ricorso (Corte Costituzionale n. 186 del 7-13 giugno 2000), al versamento, in favore della Cassa delle Ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo fissare in Euro 3000,00.


P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila ciascuno a favore della Cassa delle ammende.


Così deciso in Roma, il 27 giugno 2019.


Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2019

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