RITENUTO IN FATTO
1. La sentenza impugnata ha confermato la condanna di Gr.Gi., alla pena sospesa di 5 mesi e 10 giorni di reclusione, irrogata dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Salerno, per il reato punito "dagli artt. 110,482 c.p., in relazione all'art. 476. co. 2. c.p., perché", in concorso con Ve.Ma.(poi assolta in primo grado), "il Gr.Gi., quale patrocinatore della Ve.Ma. in giudizio civile, quest'ultima quale concorrente morale e beneficiaria della condotta sotto descritta, dopo avere, in data 19.2.2020, ritirato - ex art. 190 C.P.C. - la propria produzione di parte, in data 07.5.2020 depositava telematicamente le repliche conclusionali, non prima di aver alterato l'indice degli atti, controfirmato dal cancelliere e datato 27.9.2020 (composto da dieci documenti), depositando ed inserendo:
- al n. 10, la diffida stragiudiziale del 27.10.2003;
- al n. 11) la diffida a mezzo racc. a.r. del 17.8.2007;
- modificando il n. 10 in n. 12), nonché di fatto alterando l'indice (non più capiente) inserendo cartaceamente e telematicamente nel fascicolo una diffida a mezzo raccomandata a.r. del 16.9.2005 ed inviata il 17.9.2005, documenti di cui dava falsamente atto nelle anzidette repliche conclusionali. In Salerno, in epoca immediatamente antecedente e prossima al 07.5.2020 (data di deposito telematico delle repliche conclusionali) ed al 12.5.2020 (data di invio telematico della diffida del 16.9.2005)".
Secondo l'ipotesi accusatoria, la condotta di falso si è sostanziata nella elusione delle preclusioni istruttorie maturate ai sensi dell'articolo 183 cod. proc. civ. nel giudizio civile, intrapreso dalla Ve.Ma. contro il fratello Ve.Ge., di impugnazione di una divisione ereditaria.
2. La detta sentenza, nel confermare le analoghe considerazioni del Giudice per l'udienza preliminare, ha rilevato, in estrema sintesi, che:
- il Gr.Gi. non aveva accennato ai documenti in questione in nessuno degli atti (citazione, memorie ex articolo 183 cod. proc. civ., comparsa conclusionale) depositati prima delle memorie di replica alla avversa conclusionale e neanche nei verbali di causa;
- il denunciante, Ve.Ge., oltre ad avere confermato quanto riferitogli dal proprio legale (avvocato Al.Ma.) circa il diverso tenore dell'indice documentale del fascicolo della controparte, prima del ritiro e della successiva riconsegna nella fase decisionale della causa, aveva corroborato l'accusa allegando le copie dell'indice del detto fascicolo consegnategli dal suo legale sia prima del suo ritiro, al momento del passaggio in decisione della causa, sia dopo che il Gr.Gi. aveva depositato la memoria di replica alla conclusionale avversa (allorché risultavano le alterazioni materiali contestate);
- gli indici copiati erano praticamente identici tra loro (nelle grafie, nei numeri dall'1 al 9, nelle cancellature, nella sigla dell'avvocato, nel timbro e nella firma del Cancelliere), risultando evidente che lo spazio bianco dopo l'allegato 9 fosse stato riempito, nella copia dell'indice risultante dopo il rideposito del fascicolo, dagli allegati oggetto di imputazione; l'avvocato Al.Ma.(che non v'era ragione di ritenere che avesse calunniato un collega) aveva confermato le accuse e di aver acquisito le dette copie dell'indice, evidenziando di essersi insospettito in ragione del riferimento ai menzionati documenti (mai citati prima) nella memoria di replica a firma del Gr.Gi. e di avere provato successivamente, invano, a contattare l'imputato, per avere spiegazioni in merito; - non si poteva parlare di produzione inutile (come assunto dall'imputato, per essere, il giudizio civile, stato deciso indipendentemente da essa - per l'assenza di vizi del consenso nell'atto di divisione - e per essere l'azione stata intrapresa prima dello spirare del quinquennio di prescrizione decorrente dalla sua sottoscrizione), atteso che l'imputato, nella sua memoria di replica all'avversa conclusionale, a tali missive (evidentemente non del tutto irrilevanti, ai fini di causa) aveva fatto riferimento;
- il falso doveva ritenersi correlato al rischio del possibile maturarsi sia della prescrizione biennale dell'azione di rescissione della divisione per lesione oltre il quarto del valore, ex articolo 763, commi 1 e 3, cod. civ. (ciò che giustificava l'allegazione delle tre diffide a cadenza biennale), sia della prescrizione quinquennale dell'azione per dolo o violenza di cui all'articolo 761 cod. civ., posto che la citazione introduttiva del giudizio, depositata per la notifica subito prima dello spirare del detto termine, era, però, stata notificata dopo (avendo solo dopo i fatti in esame le sezioni unite civili chiarito che rilevasse, ai fini interruttivi, il detto deposito e non la notifica della citazione);
- l'addotta (sempre da parte dell'imputato) carenza della qualità di atto pubblico dell'indice sottoscritto e timbrato dal cancelliere era smentita dagli articoli 74 ed 87 disp. att. cod. proc. civ.;
- la mancata utilizzazione dei documenti, da parte del giudice civile, non rendeva il falso né grossolano (rilevabile ictu oculi), né inutile (correlato ad una parte dell'atto priva di valenza probatoria), essendo esso funzionale a dimostrare che, per tempo, Ve.Ma. si fosse doluta dell'ingiustizia della divisione;
- l'aggravante ex articolo 476, comma 2, cod. pen. era stata correttamente contestata col riferimento a tale norma (secondo Sez. U, Sentenza n. 24906 del 18/04/2019, Sorge, RV. 275436);
- il fatto non poteva ritenersi di particolare tenuità, sia per la violazione (anche) di precisi doveri deontologici in capo all'imputato, quale esercente la professione di avvocato, sia perché volto ad alterare una delicata causa civile.
3. L'imputato, col suo difensore, ha proposto ricorso per Cassazione, sulla base di quattro motivi qui di seguito sintetizzati a norma dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
3.1. Col primo motivo si adduce violazione di legge ai sensi dell'articolo 606, comma 1, lett. b) e c), cod. proc. pen., in relazione all'articolo 476 cod. pen., formulando, in sintesi, una duplice doglianza.
Con una prima serie di censure, si assume l'insussistenza del falso, poiché l'indice del fascicolo di parte depositato in sede civile non sarebbe un atto pubblico facente fede fino a querela di falso (caso in cui sarebbe stato, per giunta, a dire del ricorrente, necessario proporre detta querela, ai sensi dell'articolo 221 cod. proc. civ.), ma una scrittura privata, una mera "elencazione" "di atti e documenti", finalizzata ad agevolare il giudice nella lettura di atti e documenti prodotti: ciò anche perché formato da un avvocato, e non da un pubblico ufficiale, con attestazione del cancelliere volta a provare solo l'avvenuto deposito del fascicolo stesso, che non si estendeva al contenuto dell'indice.
Si cita, nel ricorso, la giurisprudenza civile della Suprema Corte circa l'insussistenza di un dovere di ricerca in capo al giudice che accerti che un documento, pur menzionato nell'indice del fascicolo, non si trovi materialmente ad esso allegato: tanto al fine di sostenere l'assenza di valore di attestazione privilegiata all'indice (posto che, altrimenti, si assume nel ricorso, non si potrebbe decidere una causa in cui sia provato che manchi un documento).
E si menziona, ancora, la giurisprudenza della Cassazione civile secondo cui persino l'assenza della sottoscrizione del cancelliere in calce all'indice del fascicolo, non sarebbe causa di nullità, ma una mera irregolarità, che non precluderebbe l'utilizzazione dei documenti.
Si sostiene, infine, che, non considerando i detti documenti, ai fini del decidere, il giudice civile avesse incidentalmente ritenuto che non vi fosse alcuna falsità.
Con una seconda serie di censure, si adduce, allo stesso tempo, che la colpevolezza dell'imputato sarebbe stata affermata "sulla base di elementi privi del rigore e certezza necessarie per pervenire ad una dichiarazione di responsabilità" e, in particolare:
- la persona offesa ed il teste Al.Ma erano stati ritenuti credibili in violazione dell'articolo 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., senza la previa penetrante verifica della loro attendibilità;
- in un verbale di udienza, il giudice civile Be. aveva invitato le parti a prendere posizione in ordine alla disponibilità conciliativa di Ve.Ma. (sulla base della sua richiesta di 50.000,00 euro), così come in precedenza manifestata dalla stessa (verbale d'udienza civile del 4/4/2012);
- tali missive erano comunque inidonee ad influire sull'esito della causa civile (avente ad oggetto il diverso valore delle quote ereditarie attribuite ai condividenti), tanto che l'avvocato Al.Ma. aveva addotto (ma non spiegato) che il timore fosse legato ad una sua eventuale responsabilità professionale e considerato che, senza di esse, non poteva ritenersi maturata la prescrizione (essendo l'azione stata intrapresa nei cinque anni dalla divisione notarile);
- le due scansioni dell'indice, con impaginazione difforme (a causa della traslazione dei bordi) non sarebbero genuine;
- le analogie cromatiche, di spaziatura e di scrittura tra il rigo che si assumeva inserito falsamente e quelli del resto dell'indice provavano la contestualità della redazione dello stesso indice;
- peraltro, a causa dello smarrimento dei fascicoli di parte (dopo la migrazione del fascicolo d'ufficio dalla sezione distaccata di Eboli a quella centrale di Salerno), la loro ricostruzione era avvenuta con lo scambio degli atti tra i rispettivi difensori, sicché alcune copie di documenti non più in possesso del Gr.Gi. erano state fornite dall'avvocato Al.Ma. e dunque l'atto avrebbe potuto essere frutto di una collazione erronea da parte del legale di controparte.
3.2. Col secondo motivo, parte ricorrente lamenta, ai sensi dell'articolo 606, comma 1, lett. b) e c), cod. proc. pen., la violazione dell'articolo 521 cod. proc. pen. e dell'articolo 476, comma 2, cod. pen., per non avere avuto alcuna risposta alla censura con cui s'era addotto che l'aggravante appena citata non fosse stata mai contestata. Si richiama, a tale scopo, la giurisprudenza di legittimità e della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (in particolare la sentenza Drassich c. Italia in data 11/12/2007), per la quale sarebbe stato, in tal modo, violato il diritto di difesa dell'imputato, non essendovi nel capo di imputazione la descrizione del fatto. Si assume che le Sezioni Unite avrebbero affermato il principio per cui, in tema di reato di falso in atto pubblico, non può ritenersi legittimamente contestata la fattispecie aggravata di cui all'articolo 476, comma 2, cod. pen., qualora nel capo d'imputazione non sia esposta la natura fidefacente dell'atto o direttamente o mediante l'impiego di formule equivalenti ovvero, infine, attraverso l'indicazione della relativa norma.
3.3. Col terzo motivo ci si duole, ai sensi dell'articolo 606, comma 1, lett. b) e c), cod. proc. pen., della violazione degli articoli 56 e 476 cod. pen., sostenendosi la ricorrenza di una ipotesi di reato impossibile, trattandosi di fatto inoffensivo, stante l'esito del processo civile e l'assenza di valutazione dei documenti da parte del giudice civile, con condotta del tutto inidonea ex ante a determinare un'offesa del bene giuridico.
3.4. Col quarto motivo ci si lamenta della violazione di legge e della superficiale e contraddittoria motivazione della Corte d'appello in ordine alla richiesta di applicazione dell'articolo 131-bis cod. pen., in ragione dell'incensuratezza dell'imputato, dell'occasionalità della condotta, della mancata costituzione della parte civile, della inesistenza di un danno.
4. Le parti non hanno formulato richiesta di discussione orale ex art. 23, comma 8, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, prorogato, quanto alla disciplina processuale, in forza dell'art. 16 del decreto-legge 30 dicembre 2021, n. 228, convertito, con modificazioni, nella legge 25 febbraio 2022, n. 15.
Il Sostituto Procuratore Generale presso questa Corte, nella persona della dott. Fi.Pa., ha depositato requisitoria chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
2. I motivi di doglianza primo e terzo, da trattare congiuntamente, in quanto connessi tra loro, sono in parte, quanto alle doglianze in diritto, infondati (laddove contestano che l'indice vistato dal Cancelliere civile non sia atto pubblico facente fede fino a querela di falso ed affermano l'irrilevanza penale del falso) e, nel resto, non consentiti in sede di legittimità, circa le censure formulate in fatto (laddove si chiede, in definitiva, una nuova valutazione del compendio probatorio), per giunta con una mera (e pedissequa) riproposizione dei motivi d'appello e, dunque, senza alcun confronto con la logica ed esaustiva motivazione della Corte d'appello.
2.1. Circa la prima serie di censure in diritto di cui al primo motivo ed al terzo motivo, è appena il caso di ribadire quanto già ricordato dal giudice gravato.
Anzitutto, nessun dubbio può esservi circa il valore di atto pubblico sino a querela di falso della verifica e della sottoscrizione dell'indice poste in essere dal cancelliere. L'articolo 74, comma 4, disp. att. cod. proc. civ. così statuisce in ordine all'indice del fascicolo di parte: "....Il cancelliere, dopo aver controllato la regolarità anche fiscale degli atti e dei documenti, sottoscrive l'indice del fascicolo ogni volta che viene inserito in esso un atto o documento".
È dunque evidente che la norma demandi al cancelliere la verifica della presenza di atti e documenti nel fascicolo e che questi attesti, sottoscrivendo il relativo indice, la presenza di quelli ivi elencati.
Tanto, è stato reiteratamente ribadito dalle sezioni civili di questa Corte: "La disciplina dettata dagli artt. 73 e 74 disp. att C.P.C. demanda al cancelliere che riceve gli atti di parte l'obbligo di controllare - tra l'altro - che gli atti indicati nell'indice siano effettivamente inseriti nel fascicolo e di sottoscriverne poi l'indice. Ne consegue che, ai fini della decisione, il giudice non può ignorare la documentazione di cui risulta avvenuta l'esibizione, ma, in carenza di prova contraria (ovvero in assenza della prova che la parte abbia ritirato il proprio fascicolo), deve ritenere che l'attività delle parti e dell'ufficio si sia svolta regolarmente e, quindi, che, dopo il deposito, il fascicolo non sia stato dalla parte più ritirato (Cass. n. 18856 del 2004, Cass. Sez. Un. 7503 del 1986 e Cass. n. 15060 del 2003; v. pure Cass. n. 8217 del 2006, 25440 del 2009, secondo cui la certificazione, sottoscritta dal cancelliere, a norma dell'art. 74 disp. att. C.P.C., u.c., in calce all'indice dei documenti inseriti nel fascicolo di parte, fa fede fino a querela di falso" (Cassazione civile, sez. lav., 22/5/2020, n. 9492).
Del resto, ciò è conforme a quanto disposto dall'articolo 2700 cod. civ. ("Efficacia dell'atto pubblico"), secondo cui: "L'atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti".
È evidente che, come detto, la verifica del contenuto del fascicolo di parte e la sottoscrizione del relativo indice siano atti compiuti dal pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni, di cui, con la sottoscrizione dell'indice, lo stesso dà atto. L'indice ed il suo controllo da parte del cancelliere non sono funzionali (solo) ad agevolare il giudice nella lettura di atti e documenti prodotti, ma sono volti proprio a dare contezza (e prova) di quali atti e documenti facciano parte e siano utilizzabili ai fini della decisione di una causa civile: sicché l'attestazione del cancelliere non è finalizzata, semplicemente, a provare l'avvenuto deposito del fascicolo stesso, ma, per contro, a dare contezza di quale ne sia il contenuto.
In definitiva, non può dubitarsi della natura fidefacente dell'atto.
2.2. Quanto alla deduzione circa l'irrilevanza del falso, non essendo stati, i documenti in questione, giammai valutati dal giudice civile, è sufficiente evidenziare come la questione (una volta dimostrato il falso) sia del tutto irrilevante, essendo noto che: "in tema di falsità in atti, ricorre il cosiddetto "falso innocuo" nei casi in cui l'infedele attestazione (nel falso ideologico) o l'alterazione (nel falso materiale) siano del tutto irrilevanti ai fini del significato dell'atto e non esplichino effetti sulla sua funzione documentale, non dovendo invece l'innocuità essere valutata con riferimento all'uso che dell'atto falso venga in concreto fatto (Sez. 5, n. 5896 del 29/10/2020, dep. 2021, Brisciano, RV. 280453)" (Sez. 3, Sentenza n. 26807 del 16/03/2023, Di Laudo, RV. 284783).
Nel caso di specie, il falso contestato riguarda proprio il contenuto dell'atto ed il suo significato, volendosi far apparire come tempestivamente prodotti, in sede processuale civile, documenti che non lo erano stati.
Ad ogni modo, come correttamente rilevato dalla Corte d'appello, non è neppure vero che i documenti prodotti fossero del tutto irrilevanti ai fini decisori nella sede civile, atteso che, da un lato, essi miravano ad evitare il maturare della prescrizione estintiva biennale del diritto ex articolo 763, comma 3, cod. civ., dall'altro lato, ove pure avessero semplicemente attestato la volontà transattiva della patrocinata dell'odierno imputato, avrebbero potuto, quanto meno, esser considerati ai fini della determinazione sulle spese di lite.
Non si vede, poi, quale rilevanza abbia, ai fini della presente decisione, l'omessa proposizione, in sede civile, della querela di falso: avendo la parte che ne aveva diritto ritenuto di doversi e potersi comunque tutelare in altro modo.
Irrilevante, ai fini dell'integrazione del reato, è, ancora, il principio civilistico secondo cui il giudice non sarebbe tenuto a cercare un documento, pur menzionato nell'indice del fascicolo, che non risulti in esso più contenuto al momento della decisione. A parte che tanto può derivare, in sede civile, da una legittima scelta difensiva (di chi reputi di non avere ulteriore interesse a produrre un dato documento), tanto che, in passato, si parlava (in sede civile) di un principio di disponibilità della prova in capo alle parti (si veda, al riguardo, da ultimo, anche sul modo di procedere in simili casi, Cass. Civile S.U. Sentenza n. 4835 del 16/02/2023, RV. 666889 - 03), è evidente che tale regola richiami semplicemente l'onere delle parti di diligente verifica dell'integrità del loro fascicolo, senza abilitarle ad aggiungere, ad libitum, atti o documenti fuori dai termini e dalle regole processuali.
Analogamente, non si vede come possa portare ad un risultato diverso la regola processuale civile secondo cui, in caso di fascicolo depositato e mai ritirato da una parte, i documenti ivi contenuti, per quanto mai vistati (per errore) dal Cancelliere, debbano esser considerati come prodotti ritualmente (sul punto vedasi, ad esempio, Cass. Civile Sez. 3, Sentenza n. 18856 del 20/09/2004, RV. 577191 - 01): regola che fa perno sulla presunzione di non immutazione di un fascicolo depositato in un pubblico ufficio e che, di certo, non comporta, al contrario, che laddove l'attestazione del cancelliere vi sia, questa sia inutiliter data e priva di qualsivoglia effetto.
2.3. Il riferimento di parte ricorrente alla mancata veste di pubblico ufficiale dell'avvocato è del tutto inconferente, essendosi qui contestato proprio il falso materiale in atto pubblico commesso dal privato ex articolo 482 cod. pen.
Non è dato comprendere, infine, perché mai la non menzione dei documenti in questione, da parte del giudice civile, darebbe contezza della sua opinione che essi non fossero falsi: avendo, evidentemente, detto giudice semplicemente ritenuto di poter decidere il contenzioso a prescindere da essi. Ciò che, beninteso, non significa affatto che gli stessi fossero certamente irrilevanti ai fini della decisione e che, comunque, il significato dell'atto (indice vistato dal cancelliere) non fosse difforme rispetto al vero (per quanto già chiarito).
2.4. Come detto, sono inammissibili le ulteriori doglianze di cui al primo e terzo motivo di ricorso. Esse, infatti, costituiscono una pedissequa riproposizione dei motivi d'appello, volti a censurare la valutazione operata dal giudice del merito, ai quali la Corte territoriale ha fornito adeguata, logica e non contraddittoria risposta.
È pacifico che i motivi di ricorso per cassazione e anche quelli d'appello siano inammissibili, non solo quando risultino intrinsecamente indeterminati, ma anche allorché difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato e non si confrontino con esso (Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli, RV. 268823). Invero, "è inammissibile il ricorso per cassazione che si risolve nella pedissequa reiterazione di motivi già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito, dal momento che un ricorso strutturato in questi termini omette di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza impugnata. Né è sufficiente, ai fini della valutazione di ammissibilità, che ai motivi di appello vengano aggiunte frasi incidentali di censura alla sentenza impugnata meramente assertive ed apodittiche, laddove difettino di una critica argomentata avverso il provvedimento "attaccato" e l'indicazione delle ragioni della loro decisività rispetto al percorso logico seguito dal giudice di merito (ex plurimis, Sez. 2 n. 42046 del 17/07/2019, RV. 277710, Sez. 6, n. 8700 del 21/01/2013, RV. 254584)" (Sez. 3, Sentenza n. 23929 del 25/02/2021, Verdiani, RV. 282021).
È noto, peraltro, che non sono deducibili, in sede di legittimità, censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o rispetto ad un atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante) ovvero su aspetti determinanti una diversa conclusione del processo: sicché sono inammissibili tutte le doglianze miranti, banalmente, ad un diverso giudizio di merito del compendio probatorio, con le quali si censura la persuasività e l'adeguatezza della motivazione, la sua stessa illogicità (quando non manifesta), così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti circa l'attendibilità, la credibilità e la valenza probatoria del singolo elemento (confronta, in termini, Sez. 5, 19/01/2022, n. 8938, Guzzinati, non massimata, Sez. 2, n. 9106 del 12/2/2021, Caradonna, RV. 280747 e Sez. 6, n. 13809 del 17/3/2015, RV. 262965). Insomma, "sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr., tra le più recenti, Sez. 6, n. 5465 del 4/11/2020, dep. 2021, F., RV. 280601; Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, RV. 265482)" (in tal senso vedasi ancora Sez. 5, 19/01/2022, n. 8938, Guzzinati, non massimata).
Nella specie, le logiche argomentazioni sopra ricordate (nel riassumere i punti cardine della decisione impugnata) non sono in alcun modo scalfite (nei termini previsti dall'ordinamento) dalla detta pedissequa riproposizione dei motivi d'appello, che si limitano, semplicemente, a prospettare una diversa lettura del compendio probatorio, evidenziando l'esistenza di prove (peraltro neppure chiaramente indicate) di segno asseritamente difforme, senza, però, minimamente confrontarsi con gli elementi suddetti (che, secondo la Corte territoriale, provano, oltre ogni ragionevole dubbio, la colpevolezza dell'imputato) e senza, cioè, spiegare perché le ragioni qui addotte (ove pure fossero poggiate su dati di fatto effettivamente provati) sarebbero decisive al fine di porre nel nulla l'argomentare qui censurato.
2.4. È, dunque, solo per mera completezza che si precisa ulteriormente che:
- il riferimento alla volontà conciliativa della Ve.Ma. ed al verbale d'udienza del 4/4/2012 non si vede come avrebbe potuto dimostrare la tempestiva e rituale produzione in giudizio delle missive in questione (decisiva ai fini dell'accoglimento della contro-eccezione di interruzione della prescrizione, essendo essa rilevabile d'ufficio a condizione che risulti provata dai documenti prodotti nei termini di legge: Cass. Civile Sez. 1, Ordinanza n. 9810 del 13/04/2023, RV. 667492);
- inconferente (oltre che del tutto nuovo) è il riferimento al "contenuto impaginato difforme con traslazione dei bordi", alla "scarsa genuinità del documento allegato alla querela", così come lo è quello relativo alle analogie cromatiche, di spaziatura e di scrittura tra il rigo che si assumeva inserito falsamente e quelli del resto dell'indice, che richiama comunque valutazioni di fatto precluse in questa sede;
- come evidenziato sia in primo che in secondo grado, a corroborare le accuse vi sono la denuncia di Ve.Ge. (su cui, evidentemente, anche in ragione della scelta del rito, lo stesso Gr.Gi. non deve avere avuto particolari dubbi), la deposizione dell'avvocato Al.Ma., la conforme produzione documentale attestante lo stato del fascicolo prima e dopo la falsificazione, l'assenza di qualsivoglia riferimento (che pure sarebbe stato importante proprio per contrastare l'eccezione di prescrizione della domanda) ai detti documenti, da parte dell'imputato, nel corso del giudizio, se non nell'ultimo atto (la replica all'avversa comparsa conclusionale).
3. Il secondo motivo è manifestamente infondato.
Come già rilevato dalla Corte d'appello: "Non può essere ritenuta in sentenza dal giudice la fattispecie aggravata del reato di falso in atto pubblico, ai sensi dell'art. 476, comma 2, cod. pen., qualora la natura fidefacente dell'atto considerato falso non sia stata esplicitamente contestata ed esposta nel capo di imputazione con la precisazione di tale natura o con formule alla stessa equivalenti, ovvero con l'indicazione della norma di legge di cui sopra" ;
"... l'indicazione nell'imputazione della norma di cui al comma 2 dell'art. 476 cod. pen., ... essendo detta norma specificamente ed esclusivamente riferita alla previsione della circostanza aggravante, identifica inequivocabilmente quest'ultima come inclusa nella contestazione" (Sez. U. Sentenza n. 24906 del 18/04/2019, Sorge, RV. 275436; confronta, in termini, tra le tante conformi, Sez. 6, 13049 del 27/02/2024, Abram, Sez. 5, 44216 del 28/10/2022, Torres, non massimate).
Nella specie, come si desume dall'imputazione sopra testualmente riportata, il riferimento all'articolo 476, comma 2, cod. pen. è assolutamente inequivoco.
4. La quarta ed ultima doglianza è infondata.
4.1. Le modifiche apportate dal decreto legislativo 150/2022 all'articolo 131-bis cod. pen. sono operanti nella specie, data la natura sostanziale dell'istituto, in virtù del principio di retroattività della norma penale più favorevole previsto dagli articoli 2, comma 4, cod. pen., e 129 cod. proc. pen. (così, di recente, Sez. 5, 5113 del 7/12/2023, dep. 2024, n.5113 non massimata e Sez. 1, Sentenza n. 46924 del 13/07/2023, Sassano, RV. 285408). Dunque, la pena edittale non è ostativa, al riguardo.
4.2. Tuttavia, deve ritenersi corretta la decisione presa dalla Corte territoriale, di rigetto dell'istanza in tal senso formulata dall'imputato.
Al riguardo va premesso che l'operatività dell'istituto è "preclusa quando emerga anche un solo elemento rimarchevole in senso negativo, indipendentemente dall'eventuale allegazione di ulteriori circostanze, preesistenti o sopravvenute, astrattamente rilevanti, ma non idonee in concreto ad elidere o a ridurre in maniera significativa i profili di segno contrario", "non essendo necessaria una espressa disamina di tutti gii elementi di valutazione astrattamente previsti" (così Sez. 2, n. 396 del 17/11/2023, dep. 2024, Malocchi; conformi: Sez. 7, n. 10481 del 19/01/2022, Deplano, RV. 283044, Sez. 3, n. 34151 del 18/06/2018, Foglietta, RV. 273678).
Nella specie, con motivazione congrua e priva di illogicità (basata sulla violazione, da parte dell'imputato, dei suoi doveri deontologici, e sulla rilevante importanza della causa civile in cui il falso era stato commesso), la Corte d'appello ha ritenuto l'oggettiva gravità della condotta (volta, potenzialmente, a far ritenere non prescritta un'azione civile dal valore di oltre 100.000,00 euro), sicché nessun rilievo determinante in senso opposto possono avere l'incensuratezza dell'imputato, l'occasionalità della condotta, la mancata costituzione della parte civile, l'assunta inesistenza di un danno.
5. In ragione delle argomentazioni sopra esposte il ricorso va rigettato e l'imputato, ai sensi dell'art. 616 comma 1 cod. proc. pen., va condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 7 maggio 2024.
Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2024.