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Guida in stato di ebbrezza: nessun obbligo di avviso al difensore in caso di rifiuto dell'accertamento

Guida in stato di ebbrezza

Cassazione penale sez. IV, 29/02/2024, n.10483

Va negata la sussistenza dell'obbligo di dare avviso al conducente della facoltà di farsi assistere da un difensore ai sensi dell'art.114 disp. att. cod. proc. pen. in caso di rifiuto di sottoporsi all'accertamento in quanto la presenza del difensore è considerata funzionale a garantire che l'attuazione di un accertamento tecnico, in quanto non ripetibile, sia condotta nel rispetto dei diritti della persona sottoposta alle indagini.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Venezia, con la sentenza indicata in epigrafe, ha confermato la pronuncia con la quale il 29 settembre 2020 il Tribunale di Rovigo aveva dichiarato Bi.Da. responsabile del reato previsto dall'art. 187, comma 8, in relazione all'art. 186, comma 7, D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 perché, colto alla guida dell'autovettura Seat Ibiza in condizioni di alterazione fisica e psichica correlata all'uso di sostanze stupefacenti, evidenziata da occhi lucidi e arrossati e guida incerta, aveva rifiutato di sottoporsi ad accertamenti clinico-tossicologici finalizzati alla verifica dell'uso di sostanze. In G il 29 novembre 2017. 2. Avverso tale sentenza Bi.Da. propone ricorso deducendo, con il primo motivo, vizio di motivazione ed error in iudicando nell'applicazione dell'art. 157 cod. pen.; violazione dell'art. 2, comma 4, cod. pen., 25, comma 2, Cost., 7 CEDU e 49 Cdfue. Secondo la difesa, il giudice di merito ha errato nel ritenere che il reato, commesso il 29 novembre 2017, non fosse prescritto, applicando il regime transitorio introdotto dalla c.d. legge Orlando e computando nel termine prescrizionale un periodo di sospensione di 18 mesi. La legge Cartabia ha introdotto l'art. 344 bis cod. proc. pen. che, attraverso una norma processuale, ha nuovamente modificato i termini di prescrizione. Applicando la nuova disposizione all'impugnazione proposta dal ricorrente, se ne sarebbe dovuta dichiarare l'improcedibilità, essendo decorso il termine biennale tra la sentenza di primo grado e la definizione del giudizio di appello. La nuova disciplina, risultando più favorevole, si sarebbe dovuta applicare retroattivamente ai sensi dell'art. 2, comma 4, cod. pen. pronunciando l'improcedibilità dell'azione penale; altrimenti, si assume, se la legge Cartabia si dovesse considerare meno favorevole, si sarebbe dovuto dichiarare prescritto il reato, non potendosi applicare un regime intermedio, altrimenti dovendo rimettere gli atti alla Corte Costituzionale per la violazione dell'art. 25, comma 2, Costo e dell'art. 49 Cdfue. 2.1. Con il secondo motivo deduce vizio di motivazione ed error in procedendo per violazione dell'art. 114 disp. att. cod. proc. pen., 178 lett. c), 62 e 191 cod. proc. pen. La difesa contesta quanto affermato dalla Corte territoriale secondo la quale i testi di polizia giudiziaria sono attendibili e l'avviso di cui all'art. 114 disp. att. cod. proc. pen. non necessita di forma scritta e comunque non sarebbe dovuto quando è contestato il rifiuto di sottoporsi al test alcolimetrico. Dai verbali redatti dalla polizia giudiziaria non emerge in alcun modo che tale avviso sia stato dato ma i giudici di merito hanno ritenuto superata la pacifica mancanza formale dell'avviso mediante la deposizione orale resa in dibattimento da due testi di polizia giudiziaria. Con riguardo alla superfluità di tale passaggio procedurale, la difesa sostiene che l'avviso di farsi assistere da un difensore abbia una sua ragion d'essere solo se viene dato nel momento della richiesta dell'autorità di sottoporsi agli accertamenti, dunque precede logicamente e cronologicamente l'eventuale rifiuto del soggetto che riceve la richiesta. 2.2. Con il terzo motivo deduce vizio di motivazione in relazione agli artt. 192, comma 1, e 546 lett. e) cod. proc. pen. Secondo la difesa la sentenza è carente di motivazione sul punto dell'attendibilità dei testi di polizia giudiziaria in merito alla circostanza di avere dato l'avviso di cui all'art. 114 disp. att. cod. proc. pen. 2.3. Con il quarto motivo deduce violazione ed erronea applicazione dell'art. 131 bis cod. pen. e dell'art.445 cod. proc. pen. In base alla sopravvenuta modifica normativa dell'art. 131 bis cod. pen. il giudice avrebbe dovuto tenere conto della condotta susseguente al reato. Trattandosi, nel caso concreto, di un episodio isolato nella vita dell'imputato accaduto in un parcheggio in pieno giorno e senza pericolo per la pubblica incolumità, il giudice avrebbe dovuto ritenere particolarmente tenue il fatto, trattandosi di comportamento del tutto occasionale. I giudici di merito hanno confuso il concetto di comportamento abituale con la presenza di un unico precedente, che non si può definire della stessa indole ed è estinto ai sensi dell'art. 445 cod. proc. pen. In data 15 maggio 2018 il ricorrente è stato sottoposto ad accertamento medico-legale e tossicologico-forense con esito negativo per abuso o dipendenza da sostanze psicoattive; il ricorrente è stato da subito collaborativo, essendosi sottoposto spontaneamente all'alcoltest con esito negativo e successivamente alla commissione del reato non ha fatto uso di sostanze stupefacenti. Inoltre, il teste Fu., all'udienza del 25 febbraio 2020, ha riferito che la guida zigzagante poteva dipendere dalla manovra di ingresso nel parcheggio piuttosto che dall'essere il conducente sotto l'effetto di droghe. 2.4. Con il quinto motivo deduce errore di diritto in punto di riconoscimento della circostanza di cui all'art. 62 bis cod. pen. La difesa si duole del fatto che i giudici di merito abbiano negato l'applicazione della circostanza attenuante in parola sull'erroneo presupposto che l'imputato fosse gravato da plurimi precedenti penali (nove episodi) sebbene l'imputato abbia patteggiato un unico reato ben oltre cinque anni prima, a meno di non interpretare contra reum l'istituto della continuazione. 3. Il Procuratore generale, con requisitoria scritta, ha concluso per il rigetto del ricorso. 4. Il difensore del ricorrente ha depositato memoria con motivi che sviluppano le doglianze contenute nel ricorso, nonché note conclusionali, insistendo per l'accoglimento dell'impugnazione. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il primo motivo di ricorso è infondato in ragione dell'operatività dell'art. 159, comma 2, cod. pen., così come modificato dall'art. 1, L. 23 giugno 2017, n. 103. La critica si fonda sostanzialmente sull'intervenuta sostituzione di tale norma, a decorrere dal 10 gennaio 2020, dall'art. 1, comma 1 lett. e) n. 1, L. 9 gennaio 2019, n. 3, e sulla successiva abrogazione ex art. 2, comma 1, L. 27 settembre 2021, n. 134, cui conseguirebbe, per il ricorrente, una sorta di ultrattività della disciplina previgente relativa alla sospensione del decorso del termine di prescrizione nonostante l'intervento di norme che l'hanno modificata nei termini che seguono (come chiarito da Sez. 4, n. 39170 del 28/06/2023, Guerzoni, in motivazione), ovvero la retroattività della disciplina successiva. Il reato per cui si procede è stato commesso il 29 novembre 2017, dopo l'entrata in vigore della L. n. 103/2017, applicabile ai fatti commessi a decorrere dal 3 agosto 2017 (c.d. "legge Orlando"). Tale legge aveva modificato il previgente art. 159, comma 2, cod. pen. introducendo la sospensione del corso della prescrizione: a) dal termine previsto dall'art. 544 cod. proc. pen. per il deposito della sentenza di condanna di primo grado, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza che definisce il grado successivo e, comunque, per un tempo non superiore a un anno e sei mesi; b) dal termine previsto dall'art. 544 cod. proc. pen. per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di secondo grado, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza definitiva, per un tempo comunque non superiore a un anno e sei mesi. L'art. 159, comma 2, cod. pen., così come introdotto dalla legge Orlando, era stato riformulato dall'art. 1, comma 1 lett. e) n. 1, L. n.3/2019 (c.d. "legge Bonafede"), che aveva introdotto, a decorrere dal 1 gennaio 2020, la previsione per cui il corso della prescrizione rimane sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado, o dal decreto di condanna, fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o alla irrevocabilità del decreto di condanna. Il citato art. 159, comma 2, cod. pen., infine, è stato definitivamente abrogato dall'art. 2, comma 1, lett. a), L. n. 134/2021, che ha contestualmente introdotto l'art. 161 bis cod. pen., a norma del quale il corso della prescrizione cessa definitivamente con la pronuncia della sentenza di primo grado. La stessa legge ha introdotto, solo per i reati commessi a far data dal 1 gennaio 2020 (ai sensi dell'art. 2 comma 3), con l'art. 344 bis cod. proc. pen., l'improcedibilità dell'azione penale in caso di mancata definizione del giudizio di appello e di cassazione entro il termine, rispettivamente, di due anni e di un anno, decorrenti dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine previsto dall'art. 544 cod. proc. pen., eventualmente prorogato ai sensi dell'art. 154 disp. atto cod. proc. pen.; termini prorogabili con ordinanza nei casi previsti dall'art. 344 bis, comma 4, cod. proc. pen. Con riferimento alla diversa disciplina della prescrizione dettata dalla c.d. legge Orlando e dalla c.d. legge Bonafede, ha precisato la citata Sez. 4, n. 39170/2023, non si è verificato il fenomeno della successione delle leggi penali nel tempo, regolamentato dall'art. 2 cod. pen., posto che le leggi che si sono succedute contengono la previsione della loro applicabilità ai reati commessi a decorrere da una certa data. Con riferimento alla richiesta della difesa di sollevare la questione di legittimità costituzionale del sistema, tale questione, con riguardo all'applicabilità dell'istituto dell'improcedibilità (peraltro, di carattere processuale) è stata già ritenuta manifestamente infondata. In particolare, in relazione all'art. 344 bis cod. proc. pen. per contrasto con gli artt. 3,25 e 111 Cost., nella parte in cui limita ai procedimenti relativi ai reati commessi a far data dal primo gennaio 2020 l'improcedibilità delle impugnazioni per superamento del termine di durata massima del giudizio di legittimità. Si è, a tal proposito, ritenuto che la limitazione cronologica dell'applicazione di tale causa di improcedibilità, alla quale consegue la non punibilità delle condotte, sia frutto di una scelta discrezionale del legislatore, giustificata dalla diversità delle situazioni, coerente con la riforma introdotta dalla legge 9 gennaio 2019, n. 3, in materia di sospensione del termine di prescrizione nei giudizi di impugnazione, egualmente applicabile ai soli reati commessi a decorrere della suddetta data, essendo ragionevole la graduale introduzione dell'istituto per consentire un'adeguata organizzazione degli uffici giudiziari (Sez. 3, n. 1567 del 14/12/2021, dep. 2022, raria, Rv. 282408). Un fenomeno di successione di leggi penali nel tempo si è, invece, verificato con riferimento all'abrogazione, a opera dell'art. 2 comma 1 lett. a), D.Lgs. n. 150 del 2022 (c.d. riforma Cartabia) dell'art. 159, comma 2, cod. pen., così come introdotto dalla c.d. legge Orlando, e alla speculare introduzione dell'art. 161 bis cod. pen., che fa cessare il corso della prescrizione definitivamente con la pronuncia della sentenza di primo grado. Più favorevole deve ritenersi la disciplina della legge Orlando che, comunque, prevedeva, anche dopo la pronuncia della sentenza di primo grado e di grado di appello, il decorrere del termine di prescrizione, sia pure con periodi di sospensione. Ne consegue la coesistenza di diversi regimi di prescrizione, applicabili in ragione della data del commesso reato e in particolare, come già chiarito in precedenti pronunce: - per i reati commessi fino al 2 agosto 2017, si applica la disciplina della prescrizione dettata dagli artt. 157 e ss. cod. pen., così come riformulati dalla L. 5 dicembre 2005 n. 251 (c.d. legge ex Cirielli); - per i reati commessi a far data dal 3 agosto 2017 e fino al 31 dicembre 2020, si applica la disciplina della prescrizione come prevista dalla L. 23 giugno 2017 n. 103 (c.d. legge Orlando), con i periodi di sospensione previsti dall'art. 159, comma 2, cod. pen. nel testo introdotto da tale legge; - per i reati commessi a far data dal 1 gennaio 2020, si applica in primo grado la disciplina della prescrizione come dettata dagli artt. 157 e ss. cod. proc. pen, senza conteggiare la sospensione della prescrizione di cui all'art. 159, comma 2, cod. pen., essendo stata tale norma abrogata dall'art. 2, comma l, lett. a), L. n. 134/2021 e sostituita con l'art. 161 bis cod. pen. (c.d. riforma Cartabia), e nei gradi successivi la disciplina della improcedibilità, introdotta appunto da tale legge. Conseguentemente, il reato per il quale si procede non è prescritto. Trattandosi di fattispecie commessa il 29 novembre 2017, quindi nel periodo ricompreso tra il 3 agosto 2017 e il 31 dicembre 2020, come correttamente ritenuto dal giudice d'appello, si applica la disciplina della prescrizione prevista dalla L. n. 103/2017 (c.d. legge Orlando), con i periodi di sospensione previsti dall'art. 159, comma 2, cod. pen., nel testo introdotto da detta legge, in concreto computabili per il tempo massimo di un anno e sei mesi. 2. Il secondo e il terzo motivo di ricorso sono manifestamente infondati. Indipendentemente dal valore probatorio da attribuire alla prova dichiarativa avente a oggetto l'avvertimento alla persona della facoltà di farsi assistere dal difensore, tale questione.1'stata correttamente ritenuta irrilevante nel caso concreto dal giudice di merito ai fini della validità del procedimento. 2.1. La difesa afferma che, invece, i giudici di merito avrebbero dovuto rilevare la nullità della procedura, alla luce di alcune pronunce della Corte di legittimità che avevano ritenuto applicabile la disposizione di cui sopra anche nell'ipotesi di reato concretata dal rifiuto opposto all'accertamento dello stato di alterazione per assunzione di sostanze stupefacenti. 2.2. Nella sentenza impugnata si è, invece, fatta corretta applicazione della più recente giurisprudenza della Corte di legittimità che, ormai costantemente e con posizione che esclude l'attualità di un contrasto ai sensi dell'art. 610, comma 2, cod. proc. pen., nega la sussistenza dell'obbligo di dare avviso al conducente della facoltà di farsi assistere da un difensore ai sensi dell'art.114 disp. att. cod. proc. pen. in caso di rifiuto di sottoporsi all'accertamento in quanto la presenza del difensore è considerata funzionale a garantire che l'attuazione di un accertamento tecnico, in quanto non ripetibile, sia condotta nel rispetto dei diritti della persona sottoposta alle indagini (Sez. 4, n.16816 del 14/01/2021, Pizio, Rv. 281072 - 01; Sez. 4, n. 34355 del 25/11/2020, Cavalieri, Rv. 279920 - 01; Sez. 4, n. 29939 del 23/09/2020, Merlino, Rv. 280028 - 01). 3. Il quarto motivo di ricorso è fondato. 3.1. E', infatti, carente il ragionamento svolto dai giudici di merito per negare l'applicabilità della causa di non punibilità prevista dall'art.131 bis cod. pen., valorizzando, da un lato, la vita anteatta connotata da plurime violazioni della legge in materia di stupefacenti e, dall'altro, la condotta "sintomatica di scarsa responsabilità" tenuta nei confronti delle forze dell'ordine dall'imputato che, dopo avere in un primo momento acconsentito al prelievo, vi si è poi opposto una volta giunto in ospedale. 3.2. Il ricorrente svolge alcune considerazioni inerenti ai presupposti fattuali che il giudice di merito avrebbe dovuto valorizzare al fine di riconoscere la sussumibilità del fatto, quale ipotesi di particolare tenuità, nella disciplina dettata dall'art. 131 bis cod. pen. Si tratta di allegazioni che presuppongono che la Corte di legittimità riesamini se la guida zigzagante dipendesse dallo stato di alterazione da uso di sostanze stupefacenti o da altra causa oppure valorizzi le situazioni fattuali per cui l'imputato non ha creato rischi per la pubblica incolumità e ha cessato l'uso di sostanze sei mesi dopo il fatto, ovvero ne valuti la vita anteatta per desumerne la non abitualità del comportamento contestatogli. Ma non è ammissibile, in fase di legittimità, la censura che sottenda una nuova disamina delle acquisizioni istruttorie, riservata al giudice di merito. 3.3. E', tuttavia, corretto ritenere carente il giudizio svolto dalla Corte territoriale. Secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza Coccimiglio (Sez. U, n. 13682 del 25/02/2016, Coccimiglio, Rv. 266595), il reato del quale si tratta non punisce una mera, astratta disobbedienza ma un rifiuto connesso a condotte di guida indiziate di essere gravemente irregolari e tipicamente pericolose, il cui accertamento è disciplinato da procedure di cui il sanzionato rifiuto costituisce solitamente la deliberata elusione. Non può, dunque, farsi a meno di esaminare la collaterale contravvenzione di cui all'art. 187, comma 1, cod. strada e apprezzare in concreto, alla stregua della manifestazione del reato, e al solo fine della ponderazione in ordine alla gravità dell'illecito, quale sia lo sfondo fattuale nei quale la condotta si inscrive e quale sia, in conseguenza, il concreto possibile impatto pregiudizievole rispetto al bene tutelato, da individuare, oltre che nell'osservanza del legittimo ordine dell'autorità, anche, in via mediata, nei beni della vita e dell'integrità personale. 3.4. Per tale profilo la motivazione risulta incompleta. Occorre, infatti, ricordare che, secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza Tushaj (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Rv. 266590 - 01), l'esiguità del disvalore è frutto di una valutazione congiunta degli indicatori afferenti alla condotta, al danno ed alla colpevolezza, cosicché la valutazione inerente a uno solo di tali elementi non è da sola sufficiente a escludere o fondare il giudizio di marginalità del fatto. 4. Ma anche con specifico riguardo al tema dei precedenti penali, va evidenziato che al fine di escludere l'applicabilità della causa di non punibilità prevista dall'art. 131 bis cod. pen. non è ammessa la valutazione della vita anteatta dell'imputato in quanto l'art. 131 bis, comma 1, cod. pen. si limita a richiamare il primo comma dell'art. 133 cod. pen. Se i giudici di appello hanno fatto riferimento ai plurimi precedenti per violazioni alla legge in materia di stupefacenti, se ne deve dunque desumere, in linea con l'impostazione difensiva, che essi abbiano adottato un'interpretazione del sintagma "medesima indole", rilevante in base al combinato disposto dei commi 1 e 4 dell'art.131 bis cod. pen., per desumerne l'elemento ostativo dell'abitualità della condotta. Il Collegio reputa, tuttavia, che tale valutazione non sia sorretta da adeguata espressione motivazionale. Sebbene nella giurisprudenza di legittimità si sia adottata un'interpretazione ampia del predetto sintagma, inclusiva non solo della medesimezza del bene giuridico offeso, ma anche dell'uguaglianza di natura in relazione al bene tutelato e alle modalità esecutive, non è chiarito nella pronuncia quale uguaglianza di natura possa istituirsi tra i reati di detenzione e cessione illecite di stupefacenti e la contravvenzione prevista dall'art. 187 , comma 8, cod. strada. Analogo tema della medesimezza dell'indole investe l'allegata estinzione ai sensi dell'art.445, comma 2, cod. pen. dei reati unificati dal vincolo della continuazione con sentenza di applicazione della pena, irrevocabile il 27 novembre 2017, emergente dal certificato del casellario giudiziario, non valutata dai giudici di merito ma ugualmente idonea a incidere, in senso favorevole all'imputato, sul giudizio di abitualità della condotta (Sez. 5, n. 24089 del 05/05/2022, Cupo, Rv. 283222 - 01). 5. A diversa conclusione deve giungersi con riguardo alla denegata applicazione delle circostanze attenuanti generiche, posto che su tale discrezionale valutazione non incide l'eventuale estinzione dei reati precedentemente commessi ai sensi dell'art. 445, comma 2, cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 23952 del 30/04/2015, Di Pietro, Rv. 263850 - 01), né la circostanza che i plurimi precedenti penali siano stati ritenuti avvinti dal vincolo della continuazione. Per tale profilo, dunque, il quinto motivo di ricorso deve considerarsi infondato. 6. Conclusivamente, la sentenza deve essere annullata limitatamente all'applicabilità della causa di non punibilità prevista dall'art. 131 bis cod. pen., con rinvio per nuovo giudizio su tale punto ad altra sezione della Corte di appello di Venezia. Il ricorso deve essere rigettato nel resto. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente al punto relativo alla causa di non punibilità ex art.131 bis cod. pen., e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'appello di Venezia. Rigetta il ricorso nel resto. Così deciso in Roma, il 29 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 13 marzo 2024.
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