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Insolvenza fraudolenta: il ruolo del silenzio e delle false rassicurazioni secondo la Cassazione

Insolvenza fraudolenta

Cassazione penale sez. II, 14/11/2018, n.2198

Integra il reato di insolvenza fraudolenta la condotta di chi, nel contrarre un'obbligazione, dissimula il proprio stato di insolvenza con il preordinato proposito di non adempiere, anche mediante silenzio o false rassicurazioni sulla capacità di pagamento, purché tali elementi siano accompagnati da un intento fraudolento già presente al momento della stipula del contratto.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 20.6.2017 la Corte di Appello di Palermo ha confermato quella con cui il Tribunale, in data 5.4.2016, aveva riconosciuto S.A. responsabile (in concorso con R.G.) del delitto di cui all'art. 641 c.p. per avere concluso un contratto di alloggio presso la struttura denominata (OMISSIS) dissimulando il proprio stato di insolvenza e, inoltre, con l'iniziale proposito di non adempiere le relative obbligazioni sicchè il primo giudice la aveva pertanto condannata alla pena di mesi 4 di reclusione ed Euro 300 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali; 2. ricorre per Cassazione, tramite li difensore, S.A. lamentando: 2.1 violazione di legge in relazione all'art. 125 c.p.p. e art. 111 Cost.: rileva che nè la sentenza di primo grado e nemmeno quella di Appello hanno motivato in merito alla esistenza degli elementi costitutivi della fattispecie di reato contestata risolvendosi le considerazioni spese nelle due sentenze di merito in formule di stile ed in argomentazioni apodittiche; 2.2 violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo all'art. 641 c.p. e artt. 336 e 337 c.p.p.: deduce l'errore di diritto in cui sarebbe incorsa la Corte di Appello di Palermo nel disattendere il motivo di gravame che era stato articolato in punto di procedibilità dell'azione penale essendosi anche in tal caso limitata a far presente, in maniera eccessivamente stringata, che la querela era stata sporta da tale D.B.E., socia/dipendente dell'albergo; ricorda come, nel caso di reati in danno di persone giuridiche, la querela debba essere proposta dal titolare del potere di rappresentanza secondo la legge e lo statuto non potendosi affidare alla mera dichiarazione della querelante la verifica della sussistenza degli stessi; 2.3 violazione di legge e difetto, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione all'art. 641 c.p.: rileva che la Corte di Appello ha confermato la sussistenza degli estremi del delitto contestato sulla considerazione del silenzio serbato dagli imputati in merito alle loro condizioni economiche, sulle loro rassicurazioni circa il pagamento del corrispettivo dovuto e sulla sottrazione agli obblighi così assunti, non avendo motivato sulle doglianze e le considerazioni svolte con l'atto di appello in merito, ad esempio, alle divergenze rinvenibili tra il contenuto della querela e quello dell'annotazione di servizio redatta dai CC intervenuti sul posto nella immediatezza con riguardo alle dichiarazioni rese da parte di tale Pollina Daniela; 2.4 violazione di legge e vizio di motivazione in merito agli artt. 641 e 131 bis c.p.: segnala come la Corte di Appello avesse escluso di poter ritenere la causa di non punibilità di cui all'art. 131 bis c.p. in considerazione dell'entità del danno patrimoniale cagionato e della esistenza di un precedente specifico in capo all'odierna ricorrente così argomentando in maniera scarna e comunque inadeguata; 2.5 violazione di legge in relazione agli artt. 641 e 133 c.p. e art. 533 c.p.p.: segnala che, anche sul punto specifico, la sentenza della Corte di Appello si limita a condividere il giudizio di adeguatezza del trattamento sanzionatorio determinato dal primo giudice alla luce della entità del danno patrimoniale e delle negativa personalità di essa ricorrente confermando, peraltro, una pena determinata ben al di sopra del minimo edittale per di più determinata senza indicazione dei relativi calcoli ma senza alcuna specificazione delle ragioni che avevano portato ad individuarla in tale misura. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il Tribunale e la Corte di Appello hanno ricostruito i fatti all'esito di una conforme valutazione delle medesime risultanze processuali e nei seguenti termini: il (OMISSIS) S.A. e R.G. si erano recati presso l'albergo (OMISSIS), sito in (OMISSIS), dove avevano alloggiato sino al giorno 14 per poi allontanarsi senza pagare il conto, pari ad Euro 979,40. In particolare, la Corte di merito ha motivato sul secondo motivo di appello sottolineando il silenzio serbato dagli imputati in merito alla loro (in)capacità patrimoniale, le rassicurazioni fornite e la finale loro sottrazione agli obblighi invece assunti. 2. Inammissibile perchè generico è il primo motivo del ricorso, con cui la difesa della S. denunzia violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo per avere la Corte di Appello disatteso il motivo di gravame che era stato articolato in punto di procedibilità dell'azione penale con specifico riguardo al difetto di prova della legittimazione di colei che aveva sottoscritto la querela a formalizzare l'istanza punitiva. Va rilevato, in primo luogo, che l'eccezione era stata formulata con il primo motivo di appello in termini del tutto generici che, come tali, risultano sostanzialmente reiterati con il secondo motivo di ricorso con cui l'eccezione è stata riproposta senza tuttavia contrastare la sentenza impugnata in merito alle ragioni per le quali la Corte di Appello aveva ritenuto la D.B. legittimata a proporre querela. Ed in effetti, i giudici palermitani hanno sottolineato come la D.B. avesse riferito di essere "socio/dipendente dell'albergo (OMISSIS)", qualifica che, aggiungevano, non era stata contestata dall'appellante e che le conferiva la facoltà di proporre querela. Questa Corte ha chiarito che il querelato che metta in discussione la legittimazione del querelante all'esercizio del diritto di querela non può limitarsi a contestare il mancato adempimento dell'obbligo di cui all'art. 337 c.p.p. - il quale disciplina l'ipotesi della querela proposta da chi si professa legale rappresentante di una persona giuridica, di un ente o di un'associazione - ma deve dimostrare che detto adempimento è in concreto necessario, perchè il querelante agisce quale rappresentante di una società di capitali (cfr., Cass. Pen., 5, 8.3.2005n. 12.814, Marku, che, in una fattispecie per molti versi simile a quella che ci occupa, in cui il proponente si era qualificato socio di un negozio e la Corte, premesso che tale qualifica indica semplicemente la contitolarità dell'impresa e non la legale rappresentanza di un diverso soggetto giuridico, ha - in applicazione del principio di cui in massima - rigettato il ricorso proposto dal querelato). In realtà, infatti, a fronte della affermazione della D.B., nessun elemento è stato addotto dalla difesa della ricorrente da cui desumere che si trattasse di una società commerciale e che la rivendicata ed affermata qualità di "socio" non indicasse semplicemente la contitolarità della impresa e ma la legale rappresentanza di un diverso soggetto giuridico. 3. Manifestamente infondati sono il primo ed il terzo motivo che, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione attengono, entrambi, alla ritenuta insussistenza degli elementi costitutivi del delitto di insolvenza fraudolenta che, a detta della difesa, la Corte di Appello avrebbe ritenuto sulla scorta di considerazioni sostanzialmente apodittiche e di argomenti "di stile" valorizzando il silenzio serbato dagli imputati ed altri elementi ma non dando corso ai rilievi svolti con l'atto di appello. L'imputata (ed il correo) erano stati giudicati con il rito abbreviato e, come accennato, la Corte di Appello ha valorizzato, ai fini della prova del dolo di fattispecie, il silenzio dei due circa le loro condizioni economiche, le rassicurazioni fornite al gestore della struttura e la inopinata loro sottrazione alle obbligazioni contratte. Va rilevato che è lo stesso ricorso (cfr., pag. 2) a confermare la circostanza secondo cui i due erano giunti in albergo il (OMISSIS) e, dopo avervi alloggiato per tre notti, di fronte alle prime richieste dell'addetta alla reception, avrebbero "confessato" di non avere il denaro per pagare il conto il successivo 13.9.2012. In altri termini, è stata direttamente la difesa ad ammettere che la obbligazione era stata contratta dai due nella iniziale consapevolezza della loro condizione di insolvenza che, nei tre giorni precedenti, era stata pertanto artatamente dissimulata. Si è sottolineato, dalla giurisprudenza, che integra il reato di insolvenza fraudolenta la condotta di chi tiene il creditore all'oscuro del proprio stato di insolvenza al momento di contrarre l'obbligazione, con il preordinato proposito di non adempiere la dovuta prestazione (cfr., Cass. Pen., 2, 22.5.2009 n. 39.980, Cuccinotto; Cass. Pen., 2, 3.2.2017 n. 8.893, Ferri). Questa Corte ha inoltre avuto modo di chiarire che la prova del preordinato proposito di non adempiere alla prestazione dovuta sin dalla stipula del contratto, dissimulando lo stato di insolvenza, può essere desunta anche da argomenti induttivi seri e univoci, ricavabili dal contesto dell'azione e dal comportamento successivo all'assunzione dell'obbligazione, ma non esclusivamente dal mero inadempimento che, in sè, costituisce un indizio equivoco del dolo (cfr., Cass. Pen., 2, 21.1.2015 n. 6.847, Spalanzino; Cass. Pen., 2, 11.7.2006 n. 34.192, Leopaldi; Cass. Pen., 2, 22.5.2009 n. 39.890, Cuccinotto, secondo cui la prova della preordinazione può essere desunta anche da argomenti induttivi seri e univoci, ricavabili dal contesto dell'azione, nell'ambito del quale anche il silenzio può acquistare rilievo come forma di preordinata dissimulazione dello stato di insolvenza, quando fin dal momento della stipula del contratto sia già maturo, nel soggetto, l'intento di non far fronte agli obblighi conseguenti). 4. Manifestamente infondato è il quarto motivo relativo alla ritenuta impossibilità di applicare la causa di non punibilità di cui all'art. 131 bis c.p.; la Corte di Appello, infatti, per escludere la causa di non punibilità, ha fatto riferimento, in maniera peraltro corretta, all'entità del danno patrimoniale cagionato, pari a quasi 1.000 Euro, tale non potersi ritenere esiguo nonchè, sotto altro profilo, una preesistente condanna per fatto analogo (cfr., art. 131 bis comma 3). In tal modo, pertanto, e facendo riferimento agli elementi di valutazione di natura soggettiva evocati dall'art. 133 c.p., la Corte ha potuto formulare una diagnosi coerente con la "ratio" e, prima ancora, con i presupposti di applicabilità dell'istituto in questione e richiesti dalla lettera della norma, in termini congrui rispetto ed esaustivi e nel rispetto dei criteri stabiliti da questa stessa Corte (cfr., Cass. SS.UU., 25.2.2016 n. 13.681, Tushaj che, nel ricostruire l'istituto, ha fatto riferimento alla necessità di compiere le valutazioni di cui si discute alla luce dell'art. 133 c.p., comma 1, con riguardo, allora, alle caratteristiche dell'azione e alla gravità del danno o del pericolo, all'intensità del dolo ed al grado della colpa). 5. Del pari manifestamente infondato è il quinto motivo violazione di legge in relazione all'entità della pena che, secondo la difesa, sarebbe stata determinata in misura non coerente all'entità del danno patrimoniale e delle personalità dell'imputata e, inoltre, e ben al di sopra del minimo edittale per di più senza indicazione dei relativi calcoli. E' vero che la Corte ha motivato sul punto specifico in maniera destramente sintetica dovendosi comunque tener conto che la pena, pur superiore al minimo, era stata determinata in misura largamente inferiore alla media edittale sicchè va ribadito l'orientamento della giurisprudenza di questa Corte, cui va data continuità, secondo cui la specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata, specie in relazione alle diminuzioni o aumenti per le circostanze, è necessaria soltanto se la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale, potendo altrimenti essere sufficienti a dare conto dell'impiego dei criteri di cui all'art. 133 c.p. le espressioni del tipo: "pena congrua", "pena equa" o "congruo aumento", come pure il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere (cfr., Cass. Pen., 2, 26.6.2009n. 36.245, Denaro; Cass. Pen, 4, 20.3.2013 n. 21.294, Serratore; Cass. Pen., 3, 15.6.2016 n. 28.251, Rignanese). 6. L'inammissibilità del ricorso comporta la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 alla Cassa delle Ammende, non ravvisandosi ragione alcuna d'esonero. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso in Roma, il 14 novembre 2018. Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2019
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