RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Venezia, con sentenza del 18 marzo 2019, ha riformato la sentenza con la quale, il precedente 15 gennaio 2016, il Tribunale di Padova aveva dichiarato la penale responsabilità di T.R. in ordine al reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-bis, per avere egli omesso il versamento, quanto all'anno di imposta 2011, dell'Iva risultante dalla dichiarazione da lui presentata, per un ammontare pari a circa 360.000,00 Euro e lo aveva, pertanto, condannato, escluse le circostanze attenuanti generiche, alla pena di mesi 6 di reclusione, oltre accessori.
La Corte lagunare, nel riformare, come detto, la sentenza del giudice di primo grado, rigettando per il resto la impugnazione del T., ha, tuttavia, disposto in favore del medesimo la sospensione condizionale della pena irrogata.
Ha interposto ricorso per cassazione avverso la predetta sentenza il T., lamentando, in primo luogo il fatto che la Corte non abbia tenuto conto del fatto che l'omesso versamento delle imposte era stato dovuto alla materiale impossibilità per lui di fare fronte agli obblighi tributari - pur in presenza di atti con i quali egli, per sanare i debiti della società, ha anche fatto ricorso al suo patrimonio personale - a causa della crisi imprenditoriale che ha colpito la sua azienda, successivamente dichiarata fallita proprio su istanza della creditrice Agenzia delle Entrate.
In secondo luogo il ricorrente ha lamentato la mancata concessione delle attenuanti generiche; negate dalla Corte territoriale, sulla base di argomenti o non dimostrati, quali la mancata prova dei versamenti effettuati dal T. verso l'Agente per la riscossione delle imposte (fattore questo, cioè la esistenza di tali versamenti parziali, che, anzi, avrebbe dovuto giustificare il riconoscimento delle attenuanti generiche), o non significativi, quali la esistenza di precedenti penali a carico del T. che, in quanto oggetto di depenalizzazione, illegittimamente sono stati valorizzati dai giudici del merito come fattori ostativi alla concessione delle attenuanti in questione.
Con successiva memoria, pervenuta in,data 16 luglio 2020, il difensore del prevenuto, ferma la ritenuta fondatezza del ricorso, ha sollecitato questa Corte, in via subordinata all'accoglimento della impugnazione, a prosciogliere il ricorrente dalla accusa a lui mossa per essere il reato estinto per prescrizione, ovvero a sollevare di fronte alla Corte costituzionale questione di legittimità costituzionale, in relazione all'art. 25 Cost., comma 2 ed all'art. 7 della CEDU, D.L. n. 18 del 2000, art. 83, nella parte in cui ha individuato, con efficacia retroattiva, una nuova ipotesi di sospensione della prescrizione penale applicabile anche alle fattispecie di reato perfezionatesi anteriormente alla sua entrata in vigore.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato e, pertanto, lo stesso deve essere rigettato.
Partendo dall'esame dei due motivi di impugnazione articolati con il ricorso principale, e riservando solo al prosieguo la valutazione della doglianza riguardante la prescrizione del reato contestato, osserva il Collegio che gli stessi non hanno pregio.
Con il primo, infatti, il ricorrente ha lamentato la violazione della legge penale per non avere la Corte territoriale ravvisato gli estremi della inesigibilità del comportamento legittimo nella sua condotta riguardante l'omesso versamento dell'Iva risultante dalla dichiarazione annuale da lui presentata.
Al riguardo si ricorda che sul punto ora in esame la giurisprudenza di questa Corte ha più volte rilevato che in tema omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto, l'inadempimento della obbligazione tributaria può essere attribuito a forza maggiore solo quando esso derivi da fatti non imputabili all'imprenditore ai quali egli non abbia potuto tempestivamente porre rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (Corte di cassazione, Sezione III penale, 25 febbraio 2015, n. 8352).
Con più specifico riferimento alla figura, di matrice dottrinaria, della inesigibilità del comportamento alternativo lecito, questa Corte ha, in particolare, rilevato che il principio in questione - sia che lo si voglia ricollegare, come parrebbe argomentare il ricorrente, alla ratio della colpevolezza riferendolo ai casi in cui l'agente operi in condizioni soggettive tali da non potersi da lui "umanamente" pretendere un comportamento diverso, sia che lo si voglia ricollegare alla ratio dell'antigiuridicità riferendolo a situazioni in cui non sembri coerente ravvisare un dovere giuridico dell'agente di uniformare la condotta al precetto penale - non può trovare collocazione e spazio al di fuori delle cause di giustificazione e delle cause di esclusione della colpevolezza espressamente codificate, in quanto le condizioni e i limiti di applicazione delle norme penali sono posti dalle norme stesse senza che sia consentito al giudice di ricercare cause ultralegali di esclusione della punibilità attraverso l'analogia juris (Corte di cassazione, Sezione III penale, 13 agosto 2018 n. 38593).
Nel caso in esame, onde escludere la rilevanza della ipotesi prospettata dal ricorrente, si osserva non solo che la crisi della impresa del T. aveva iniziato a manifestarsi già da diversi anni rispetto al momento in cui lo stesso ha omesso di versare nella misura dovuta l'imposta di cui al capo di imputazione (fattore questo che, rimontando ad un periodo di tempo considerevolmente pregresso rispetto a quello di commissione del reato contestato, vale già di per sè ad escludere il requisito della repentinità dell'emergere della crisi, ritenuto, invece, necessario laddove questa possa operare quale catalizzatore della esclusione dell'elemento soggettivo del reato contestato), ma anche che l'omesso versamento dei tributi è stato il frutto di una scelta operata dal ricorrente che, secondo quanto riportato in sentenza e non contestato in sede di ricorso, ha preferito destinare le residue risorse finanziarie della Società da lui diretta all'adempimento di altre obbligazioni, diverse da quelle tributarie, nell'intento di salvaguardare, nei limiti del possibile, l'attività di impresa; l'esistenza di tale margine di scelta e l'avvenuto esercizio di una opzione operativa da parte del ricorrente evidenziano, tuttavia, il fatto - peraltro prontamente segnalato dalla Corte territoriale della città dei Dogi - che la decisione del T. di non versare le imposte non può essere definita del tutto necessitata, essendo stata essa frutto di una valutazione imprenditoriale fatta dal T. medesimo, assumendosene, evidentemente, egli il conseguente rischio.
Va, peraltro, rilevato che, data la natura del debito tributario non versato dal T. - si tratta, infatti, del versamento dell'Iva che egli, in ipotesi, dovrebbe avere riscosso unitamente al prezzo del servizio reso in occasione della emissione di fatture nei confronti dei fruitori dei servizi da lui erogati - appare ancora più complesso individuare gli estremi della inesigibilità della condotta, posto che corrisponderebbe alla buona pratica commerciale, una volta riscossa l'Iva, finanziariamente non gravante sul fornitore del servizio o sul produttore del bene ma sul fruitore finale dell'uno o dell'altro, accantonare le somme di danaro in tal modo acquisite, onde poterle poi riversare al Fisco nei termini legislativamente previsti.
Ha, infatti, precisato questa Corte, proprio con riferimento alla imposta in questione, che nel reato di omesso versamento dell'Iva, la colpevolezza del contribuente non è esclusa dalla crisi di liquidità del debitore alla scadenza del termine fissato per il pagamento, a meno che non venga dimostrato che siano state adottate tutte le iniziative per provvedere alla corresponsione del tributo e, nel caso in cui l'omesso versamento dipenda dal mancato incasso dell'Iva per altrui inadempimento, non siano provati i motivi che hanno determinato l'emissione della fattura antecedentemente alla ricezione del corrispettivo (Corte di cassazione, Sezione III penale, 29 maggio 2019, n. 23796); circostanze queste delle quali non risulta che il ricorrente abbia fornito prova alcuna in sede di merito.
Passando, a questo punto al secondo motivo di impugnazione, osserva il Collegio che neppure questo è meritevole di accoglimento.
Esso ha ad oggetto la eccessività della pena irrogata, in linea generale, e, in particolare, il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Quanto al primo aspetto esso è, chiaramente, privo di alcun fondamento, avendo la Corte di Venezia confermato sul punto la sentenza di primo grado con la quale era stata irrogata (e non solo "comminata" come, invece, si legge in sentenza, posto che l'atto dell'irrogazione" della pena attiene alla concreta determinazione della sanzione cui viene condannato il singolo reo, laddove la "comminatoria" è la previsione di pena, generale ed astratta, che il legislatore formula per ciascun fatto costituente reato) la pena a carico del T. nella misura di sei mesi di reclusione, pari, cioè, al minimo edittale previsto per il reato contestato.
Quanto alla mancata attribuzione del beneficio delle attenuanti generiche osserva il Collegio che la doglianza del ricorrente è articolata sotto un duplice punto di vista; da una parte, infatti, ci si duole della mancata valorizzazione del fatto che il T. abbia, comunque tentato di onorare il debito erariale su di lui gravante e da altra parte si rileva che, al fine di escludere la sua meritevolezza con riferimento al beneficio in questione sia stato valorizzato il fatto che l'imputato fosse gravato da precedenti penali, senza che si sia tenuto conto del fatto che le condotte in relazione alle quali erano intervenute le precedenti condanne a carico del T. erano relative a fatti che, per essere stati depenalizzati, avevano perso qualsivoglia rilevanza penale.
Quanto al primo profilo, appare dalla lettura della sentenza impugnata che i versamenti tributari imputati al T., a seguito della avvenuta rateizzazione dei relativi debiti, abbiano avuto ad oggetto "diversi debiti tributari" e non quelli di cui al capo di imputazione, sicchè non è chiaro in che modo tale comportamento, peraltro non frutto di un gratuito impegno del T. ma scaturito da suoi ulteriori precedenti inadempimenti tributari evidentemente di diverso genere, potrebbe avere inciso sulla presente fattispecie, mitigando la gravità del reato commesso.
Quanto al fatto che la Corte lagunare abbia ritenuto di escludere il beneficio delle attenuanti generiche, stante la pregiudizievole storia penale dell'imputato, pur a fronte di precedenti aventi ad oggetto condotte oramai depenalizzate, non può non rilevarsi che, in numerose occasioni, questa Corte di legittimità ha osservato che la esistenza di precedenti penali pur riguardanti reati oggetto di depenalizzazione può ben essere oggetto di negativa considerazione della personalità del prevenuto sia per negare la prognosi favorevole in merito al suo successivo comportamento, laddove la problematica avesse avuto ad oggetto la opportunità o meno di concedere la sospensione condizionale della pena (Corte di cassazione, Sezione IV penale, 9 ottobre 2019, n. 41291), sia al fine di orientare, in senso deteriore per l'imputato, il giudizio di valenza fra circostanza attenuanti ed aggravanti (Corte di cassazione, Sezione V penale, 24 novembre 2004, n. 45423), trattandosi, comunque di un fattore espressivo di una certa predisposizione del prevenuto a violare la legge penale.
Tale principio appare tanto più applicabile nella presente occasione, non risultando che i fatti già costituenti reati a suo tempo addebitati al T. - non essendo emerso che la loro rilevanza penale fosse legata a fattori storici, culturali o politici, i cui riflessi devono ritenersi oramai del tutto superati nella vigente legislazione, che avevano comportato il perseguimento di talune condotte solo in quanto esse presentavano un contenuto contrastante con un determinato assetto sociale od istituzionale oramai del tutto superato nella coscienza nazionale - abbiano perso, oltre che la rilevanza penale, la generale biasimevole valenza che di regola circonfonde qualsivoglia violazione di un precetto legalmente imposto.
Il rigetto del ricorso impone, per le ragioni che saranno qui di seguito chiarite, a questo punto, la valutazione della condivisibilità o meno della sollecitazione rivolta dal ricorrente a questa Corte a sollevare la questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 18 del 2020, art. 83 e sue successive integrazioni e modificazioni.
Invero la questione si pone, astrattamente, rilevante in quanto l'avvenuta costituzione del rapporto processuale, di cui è espressione la pronunzia di rigetto e non di inammissibilità del ricorso proposto dal T., determina la necessità di verificare se alla data odierna siano o meno maturate le condizioni per la pronunzia della avvenuta prescrizione del reato contestato.
A tal riguardo si osserva, a dimostrazione anche della concreta rilevanza della questione, quanto segue:
il reato contestato al T. risulta essere stato commesso, trattandosi di reato omissivo, alla inutile scadenza del termine ultimo per proficuamente adempiere alla obbligazione tributaria gravante sul prevenuto, cioè alla data del 27 dicembre 2012;
da tale momento ha iniziato a decorrere il termine prescrizionale previsto per il reato in questione che, in presenza di atti interruttivo del medesimo, costituiti nella specie quanto meno dalla emissione del decreto di citazione a giudizio, è pari, trattandosi di imputazione riguardante un delitto punito nel massimo con la pena della reclusione in misura non superiore ai sei anni ed in assenza di fattori di ulteriore differimento di esso, ad anni 7 e mesi 6 (cioè anni 6 maggiorati di 1/4, stante l'intervenuta interruzione del termine in questione);
detto termine, pertanto, sarebbe andato a scadere in data 27 giugno 2020 e, pertanto, esso sarebbe, in data odierna, già interamente consumato anche tenuto conto del fatto che la trattazione del presente giudizio, già fissata per l'udienza del 29 maggio 2020 è stata differita alla data odierna per effetto della applicazione nella normativa emergenziale di cui infra;
tuttavia, come rilevato dalla stessa difesa del ricorrente nella sua memoria del 16 luglio 2020, pervenuta presso la cancelleria di questa III Sezione penale della Corte di cassazione in pari data, prima del maturarsi della prescrizione del reato in questione è, però, entrata in vigore la disciplina emergenziale che, nell'ambito delle norme adottate per limitare gli effetti della urgenza sanitaria dovuti alla epidemia da Covid-19 ha, fra l'altro, previsto, al D.L. n. 18 del 2020, art. 83, comma 4, convertito con modificazioni con L. n. 27 del 2020, la sospensione del corso della prescrizione in relazione a tutti i procedimenti penali per i quali, secondo i termini di cui al precedente comma 2 della medesima disposizione legislativa, sono stati, a loro volta, sospesi i termini per il compimento di qualsiasi atto processuale a decorrere dal 9 marzo 2020 sino al 15 aprile 2020;
tale termine è poi stato differito, per effetto della entrata in vigore del D.L. n. 23 del 2020, art. 36, comma 1, convertito con modificazioni con L. n. 40 del 2020, sino al 11 maggio 2020;
le disposizioni che precedono vanno, peraltro, coordinate anche con le previsioni contenute del D.L. n. 18 del 2020, citato art. 83, commi 7 e 9, convertito con modificazioni con L. n. 27 del 2020, il quale, al comma 7, ha previsto la possibilità, fra l'altro, per i capi degli uffici giudiziari di disporre il differimento della trattazione dei processi a data successiva al 30 giugno 2020, ed al comma 9 l'ulteriore sospensione del corso della prescrizione per i reati di cui ai processi interessati al predetto differimento sino alla data di loro trattazione e, comunque, non oltre il 30 giugno 2020.
Tanto premesso rileva il Collegio che con la citata memoria del 16 luglio 2020 la difesa del T. ha sollecitato questa Corte a sollevare la questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 18 del 2020, art. 83, come convertito con L. n. 27 del 2020 e come successivamente modificato, in quanto, detta norma, laddove applicata anche ad ipotesi di reato consumatesi anteriormente alla sua entrata in vigore, si porrebbe in contrasto, nel prevedere una autonoma ipotesi di sospensione del termina prescrizionale, con l'art. 25 Cost., comma 2 e con l'art. 7 della Cedu.
Giova, prima di esaminare la sollecitazione formulata dalla difesa del ricorrente, fare una precisazione di carattere assolutamente preliminare.
Ritiene, infatti, improprio il Collegio il riferimento diretto quale parametro di costituzionalità, all'art. 7 della Cedu (il quale sancisce a livello convenzionale il principio del nullum crimen et nulla poena sine proevia lege poenali), posto che lo stesso non è certamente un parametro immediato di verifica di legittimità costituzionale delle leggi italiane; tuttavia, posto che i principi riportati dalla Cedu sono da considerarsi espressione degli obblighi che la predetta Convenzione impone anche allo Stato italiano, l'eventuale violazione dei medesimi ridonderebbe a livello di contrasto con il principio formalizzato dall'art. 117 Cost., comma 1, in base al quale la potestà legislativa deve essere esercitata, da tutti gli organismi che ne sono dotati, nel rispetto, oltre che della Costituzione, anche dei vincoli che sorgono dagli obblighi internazionali, sotto il descritto profilo la eventuale violazione normativa della disposizione contenuta nella Cedu potrebbe essere denunziata di fronte al giudice delle leggi, dovendosi ritenere che, in una tale ipotesi, la disposizione della Convenzione Edu opererebbe quale parametro interposto di legittimità costituzionale.
Tanto considerato, osserva, comunque il Collegio che la prospettata questione di legittimità costituzionale è manifestamente infondata.
Essa, giova ricordare, trae il suo fondamento logico nella, comunemente condivisa, considerazione della natura sostanziale della disciplina avente ad oggetto l'istituto della prescrizione dei reati (cfr. ex multis: Corte di cassazione, Sezione VI penale, 3 luglio 2017, n. 31877) e, pertanto, nella, altrettanto comunemente riconosciuta applicabilità al predetto istituto ed alle sue vicende - ivi compresa, pertanto, la disciplina della sospensione - del principio della irretroattività della lex durior (anche in questo caso, cfr. ex multis: Corte di cassazione, Sezione IV penale, 28 marzo 2019, n. 13582).
Impostazione dogmatica questa che, ove necessario, ha trovato di recente una forma di definitiva consacrazione da parte della stessa Corte costituzionale che, con la sentenza n. 115 del 2018, ha ribadito che un istituto come la prescrizione, che incide sulla punibilità della persona riconnettendo al decorso del tempo l'effetto di impedire la applicazione della pena, nell'ordinamento giuridico nazionale rientra nell'alveo costituzionale del principio di legalità sostanziale, presidiato, con formula di particolare ampiezza, dall'art. 25 Cost., comma 2.
Sulle basi di tali premesse il ricorrente ha ritenuto che sia violativa del predetto principio, appunto di irretroattività della legge penale sostanziale più severa, una normativa che, introducendo un'autonoma ipotesi di sospensione del termine prescrizionale dei reati applicabile anche alle fattispecie criminose maturate anteriormente alla sua entrata in vigore, determini un trattamento penale deteriore della posizione del reo rispetto a quello vigente al momento in cui il fatto fu commesso.
Questo essendo il tema ora controverso, il Collegio non ignora come lo stesso abbia dato già luogo ad un certo dibattito in seno agli organi giurisdizionali, posto che a fronte di talune ordinanze emesse da organi giudicanti di merito con le quali la questione già è stata rimessa all'attenzione della Corte costituzionale (si ricordano, senza l'intenzione di esaurirne il possibile novero, le ordinanze di rimessione emesse a tale proposito: dal Tribunale di Siena, in due occasioni con provvedimenti sostanzialmente gemelli, del 21 maggio 2020; dal Tribunale di Roma del 18 giugno 2020 e dal Tribunale di Crotone del 19 giugno 2020), in altre occasioni questa stessa Corte di cassazione ha ritenuto di non rimettere gli atti al giudice delle leggi, avendo, invece, considerato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale (in tal senso: Corte di cassazione, Sezione III penale, 17 luglio 2020, n. 21367; nonchè Corte di cassazione, Sezione V penale, sentenza deliberata alla udienza del 14 luglio 2020 nel processo nrg. 40761 del 2019, di cui non sono al momento depositati i motivi, essendo stata resa nota solamente la "notizia di decisione").
Ritiene anche questo Collegio di doversi uniformare - senza che ciò comporti, peraltro, il possibile sacrificio di interessi primari o, comunque, l'esigenza di dovere operare, per effetto di una situazione di ritenuto contenuto eccezionale, un arduo contemperamento fra situazioni parimenti tutelate a livello di legge fondamentale - nel dispositivo, ai precedenti di questa Corte di legittimità.
Infatti, si osserva, sebbene sia innegabilmente vero che la disciplina della prescrizione sia disciplina di diritto sostanziale, per la quale vale, come dianzi rilevato, il criterio della inapplicabilità della lex durior ove la stessa sia sopravvenuta alla commissione del reato del quale si tratta (principio che, giova ricordare, si pone quale limite, ad imprescindibile garanzia delle libertà fondamentali del cittadino, all'effettività di un possibile perverso uso del potere nomopoietico spettante al legislatore) deve rilevarsi, peraltro con l'autorevole avallo di talune attente voci della più accorta dottrina penalistica, che nella fattispecie la disciplina di diritto sostanziale regolatrice della fattispecie non è quella dettata dal D.L. n. 18 del 2020, art. 83, convertito con modificazioni con L. n. 27 del 2020 e successive modificazioni, ma è, più ordinariamente, quella dettata dall'art. 159 c.p., il quale prevede che il corso della prescrizione rimanga sospeso in ogni caso in cui la sospensione del procedimento e del processo penale sia imposta da una particolare disposizione di legge.
E', infatti, di tutta evidenza che siffatta disposizione, nel rinviare, in relazione alla sospensione del termine prescrizionale, alle ipotesi di sospensione del processo, costituisce di per sè regola generale ed astratta, di carattere sostanziale, cui, di volta in volta, attraverso il meccanismo del rinvio mobile, può dare contenuto la singola norma - questa volta di contenuto processuale e, pertanto, immediatamente applicabile - che, appunto disciplinando il processo, possa prevedere gli eventuali eventi che ne determinano la sospensione.
Il termine temporale cui ancorare, pertanto, gli effetti del meccanismo sospensivo della prescrizione, onde rispettare il principio della irretroattività della disposizione meno favorevole, non è quello della entrata in vigore della norma che stabilisce una ipotesi di sospensione del processo, che è norma di sicuro contenuto processualè e che pertanto, non è condizionata dal principio di irretroattività della disposizione meno favorevole, ma è quello della entrata in vigore della disposizione la quale stabilisca, a processo sospeso (quale che possa essere la collocazione cronologica della fonte legislativa che abbia determinato tale ultimo effetto a carico del processo), la sospensione della prescrizione.
Momento che nel caso di specie è indubbiamente da collocare ampiamente prima della commissione del fatto costituente reato da parte del T., posto che esso corrisponde alla entrata in vigore dell'art. 159 c.p., nel testo attualmente vigente.
Ora, non rimane da verificare se la disposizione che il ricorrente vorrebbe sottoposta al vaglio di costituzionalità sia o meno tale da introdurre una nuova ipotesi di sospensione del processo penale.
Dall'esame della medesima non pare che possano residuare incertezze in ordine alla soluzione favorevole del quesito che in tal modo questa Corte di è sottoposta.
Infatti, nel momento in cui il D.L. n. 18 del 2020, art. 83 e sue successive modifiche, dispone, al comma 1, che tutte le udienze dei procedimenti civili e penali (tranne quelle eccettuate da specifica disposizione di legge, che, però, ora non interessano non rientrando il presente processo fra quelli oggetto della eccezione) sono rinviate di ufficio ad un periodo successivo ad una certa data, e, al comma 2, che nel medesimo periodo interessato dalla predetta disposizione è sospeso il decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto riguardante i predetti procedimenti, deve necessariamente intendersi che sia sospeso l'intero procedimento, non potendosi logicamente concepire l'incedere di un procedimento (inteso lo stesso come l'ordinato susseguirsi dei determinati atti che lo compongono) ove sia sospeso il termine per l'esecuzione di ciascuno degli atti da cui il procedimento stesso è formato.
Ove il procedimento, anzi il processo, non possa procedere, in quanto una disposizione legislativa di carattere generale ne abbia differito il suo svolgimento, deve necessariamente concludersi che esso è indubbiamente sospeso (nel senso della sospensione del processo, ogniqualvolta siano stati sospesi i termini per lo svolgimento di qualsiasi attività processuale si veda: Corte di cassazione, Sezione IV penale, 3 giugno 2008, n. 22142).
Analogamente deve, peraltro, intendersi in relazione a quanto previsto dal combinato disposto del D.L. n. 18 del 2020, art. 83, comma 7, lett. g) e comma 9, per il quale la sospensione della prescrizione è la conseguenza della sospensione del procedimento derivante dal rinvio di ufficio delle udienze già fissate fra il 12 maggio 2020 ed il 30 giugno 2020 disposto dal capo del singolo Ufficio giudiziario in base al potere a lui attribuito nel senso indicato del medesimo D.L. n. 18 del 2020, art. 83, comma 6.
Posto, in definitiva, che la sospensione del corso della prescrizione nel presente caso non è il frutto di una disposizione sostanziale introdotta successivamente alla commissione del reato ascritto al T. ma è la conseguenza, derivante dalla ordinaria applicazione dell'art. 159 c.p., comma 1, della intervenuta sospensione del processo a suo carico deve affermarsi la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 18 del 2020, art. 83, convertito con modificazioni con L. n. 27 del 2020, prospettata dalla difesa del ricorrente in relazione all'art. 25 Cost., comma 2 e art. 117 Cost., comma 1.
Al rigetto del ricorso fa seguito la condanna del ricorrente, visto l'art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 23 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 9 settembre 2020